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2 gennaio: S. Gregorio Nazianzeno, Vescovo e dottore della Chiesa (330-390): Che cosa ti chiede Dio? L’amore

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2 gennaio: S. Gregorio Nazianzeno, Vescovo e dottore della Chiesa (330-390)

Che cosa ti chiede Dio? L’amore

L’anno scorso il santo di gennaio è stato san Basilio il grande. Quest’anno tocca al suo amico Gregorio Nazianzeno, celebrato liturgicamente nello stesso giorno. Due grandi amici, ambedue vescovi e dottori della Chiesa e autentici maestri di teologia e di vita spirituale ancora oggi. Santi tutti e due, ma dalle personalitá molto diverse, e per certi versi contrastanti. A dimostrazione che la santitá di ognuno è qualcosa di originalissimo. E che ognuno risponde alle sollecitazioni e alle sollecitudini dello Spirito in maniera originale, con uno stile di santitá unica e personale.
Come Dio non ci fa in serie, ma siamo tutti degli “unicum” così nella santitá che è fiorita nella chiesa in questi duemila anni. Basilio era un uomo “politico”, un uomo di governo, un organizzatore nato (ricordiamo la famosa Basiliade, il grande ospedale da lui fondato e diretto). Uomo coraggioso anche di fronte ai potenti (anche se fisicamente era mingherlino e malaticcio), sicuro di sè, di carattere deciso e molto pragmatico. Brillante nell’azione, anche se voleva vivere nella contemplazione (da monaco). Oggi diremmo un vero “leader”. Qualcuno lo ha definito l”ultimo dei Romani”.
Gregorio non aveva niente di queste qualitá dell’amico. Semplicemente ne aveva altre, e su queste altre ha costruito il suo contributo alla Chiesa e alla societá di all’ora, e la sua peculiare santitá. Per natura profondamente riflessivo, portato “naturaliter” alla contemplazione (fece sempre resistenza quando lo vollero gettare nella mischia politico-ecclesiale). Aveva una predisposizione alla speculazione e alla introversione, alla riflessione e alla meditazione. Era anche un poeta, un vero cantore dei sentimenti e delle profonditá umane.: più teorico e più speculativo, più profondo e più penetrante del suo amico Basilio.
Di carattere emotivo e spesso instabile, un po’ ingenuo e incerto nelle decisioni, facile agli entusiasmi e anche fragile nelle difficoltá e frustrazioni. Era intelligente, e non negava di esserlo; aveva studiato tanti anni, e quindi sapeva molto e sapeva di sapere. Un’ultima annotazione sulla sua personalitá: gli psicologi direbbero che aveva una componente narcistica non indifferente. Se parlava e l’uditorio era importante e numeroso, ebbene Gregorio era contento, perchè il suo talento poteva essere apprezzato, valorizzato e poteva dare più gloria a Dio (escludiamo la componente della superbia vera e propria, che non si concilierebbe con la sua santitá).
Tra la pace del monastero e la lotta per la Chiesa
Gregorio nacque presso Nazianzo, nella Cappadocia nel 330. Era, come si dice un “filius senectutis”, arrivato un po’ tardi. I genitori, di famiglia nobile, lo accolsero come un vero dono di Dio. E la madre, sull’esempio di quella del profeta Samuele, lo consacrò subito a Dio. Il padre, dopo la conversione, era anche diventato vescovo della cittá. Per l’educazione di Gregorio i genitori scelsero le migliori scuole. Può veramente vantare un curricolo scolastico di prim’ordine: prima a Cesarea di Cappadocia (con Basilio), poi nella Cesarea di Palestina, quindi ad Alessandria, allora un grande centro culturale, e infine il grande salto verso la cittá della cultura per eccellenza:Atene (di nuovo con Basilio).
Nel 361 il padre lo volle al suo fianco nel governo della diocesi. Accettò contro voglia di essere fatto prete, ma appena gli fu possibile tornò al monastero. Salvo poi venire in soccorso del padre il quale, inesperto teologicamente, aveva firmato una formula ariana. Intanto Basilio era diventato vescovo di Cesarea e dietro sua insistenza (e di suo padre) si lasci? consacrare vescovo di Sasima, un borgo non lontano da Nazianzo. Egli non ne prese mai possesso. Era troppo piccola per lui o quel paese non aveva bisogno di un vescovo? Forse un po’ tutte e due le ragioni. Morto il padre si ritir? di nuovo in un monastero, dando addio (come crdeva lui) all’episcopato. Si sentiva fatto per la vita monastica non per la carriera ecclesiastica.
Aveva infatti scritto: “Niente mi sembra più meraviglioso che riuscire a far tacere tutti i sensi, e, rapito lontano da essi, dalla carne e dal mondo, rientrare in me stesso e restare in colloquio con Dio ben oltre le cose visibili”. Questo ardentemente voleva e questo quotidianamente sognava il nostro Gregorio.
Ma la storia (o meglio lo Spirito Santo, che conduce la sua Chiesa) buss? di nuovo alla sua porta. Questa volta attraverso una delegazione di cattolici da Costantinopoli disperatamente alla ricerca di un…vescovo. Poverini: erano un piccolo gregge in un mare di seguaci dell’eresia ariana. Pochi sœ ma buoni e…tosti, infatti non si arrendevano. Volevano una guida. E nella “top list” c’era proprio…lui, Gregorio. Volevano una personalitá di prestigio culturale, e l’avevano trovato, grazie a Dio e a…Basilio. Questi lo esortò con molta forza ad accettare perch» ne andava di mezzo l’ortodossia. Con Gregorio gli ariani avrebbero avuto pane per i loro denti.
E le componente narcisistica? Probabilmente tra le preponderanti motivazioni teologico-pastorali (e amicali) che lo convinsero c’era anche questa. Finalmente una sede degna della sua preparazione culturale. Altro che Sasima, borgo non certamente dal richiamo irresistibile. Qui c’era la corte imperiale, questa era la seconda Roma. Siamo nell’anno 379. Ma il suo narcisismo ebbe subito un smacco: di accoglienza trionfale nemmeno l’ombra, anzi gli fu impedito addirittura di entrare nella cattedrale di Santa Sofia. Dovette accontentarsi di una piccola cappella, che egli ribattezzò Anastasis (cioè Resurrezione). Qui i cattolici della cittá avevano finalmente un punto di riferimento affettivo ed effettivo, spirituale e culturale. Fu proprio qui che Gregorio tenne i suoi famosi 5 Sermoni sulla Trinitá. Limpida dottrina, eloquenza travolgente, entusiasmo tra i fedeli alle stelle. La sua fama crebbe enormemente tanto da ribaltare la situazione . Il nuovo imperatore, Teodosio, cattolico, lo accompagnò solennemente a Santa Sofia, acclamato con entusiasmo dal popolo. Tutte le difficoltá finite finalmente? Non proprio.

Dio, il sospiro di ogni creatura
Due anni dopo Teodosio stesso convocò un Concilio a Costantinopoli (381). E qui Gregorio fece una mossa a sorpresa. Sapendo che alcuni vescovi dubitavano della sua legittimitá come vescovo di Costantinopoli, diede con umiltá (e sinceritá) le dimissioni. Ma all’unanimitá i padri conciliari le respinsero e anzi, morto il moderatore del concilio Melezio di Antiochia, lo elessero presidente dell’assemblea.
Tutti poterono ascoltare e ammirare il suo pensiero teologico, specialmente sulla Trinitá e nella Cristologia.
Gregorio difese con energia la formula neo nicena che affermava “l’articolazione trinitaria di una sostanza (ousia) divina in tre ipostasi sussistenti e collocate al medesimo livello, onore e dignitá: rispetto a Basilio, Gregorio imposta meglio la caratterizzazione delle note individuali che specificano una ipostasi rispetto all’altra…” (M. Simonetti).
In campo cristologico difese energicamente (contro varie eresie) l’idea che “Cristo, al fine di redimere l’uomo nella sua totalitá, ha assunto l’uomo nella sua totalitá, perciò anche l’anima razionale, perch» altrimenti l’uomo non sarebbe stato integralmente salvato”. Affermò inoltre con forza “in Cristo l’unitá del soggetto, con pieno equilibrio tra esigenza divisiva (due nature) e unitiva ( un solo soggetto)” (M. Simonetti). La formula sará perfezionata poi con il Concilio di Calcedonia nel 451.
Ma altre difficoltá vennero a Gregorio proprio dalla continuazione del Concilio. Erano sopraggiunti infatti altri vescovi, a quanto sembra pi_ giovani ma meno teologi, più clericalmente “politicizzati” e quindi meno equilibrati. Questi posero di nuovo la questione della sua legittimitá sulla sede di Costantinopoli. Il nostro non sopport? questo nuovo affronto. I suoi nervi cedettero e diede di nuovo le dimissioni (aveva la segreta speranza che venissero di nuovo respinte? Forse sœ, data la componente narcisistica non ancora defunta, a giudicare dalle espressioni di delusione che ebbe dopo). Gregorio aveva detto che nel Concilio “i più giovani cinguettavano come uno stormo di gazze e si accanivano come una sciame di vespe” e “i vecchi si guardavano bene dal moderali”.
Parole dure, forse esagerate, dettate dalla delusione. Gregorio comunque pronunciò il suo solenne addio all’assemblea conciliare e se ne torn? a Nazianzo, frustrato e scoraggiato, deluso e invocante ‘sorella morte’. Scrisse infatti: “C’è una sola via di uscita ai miei mali: la morte. Ma anche l’aldilá mi fa paura, se devo giudicarlo dall’aldiqua”.
Accettò tuttavia il governo della diocesi che fu di suo padre, in attesa che trovassero un altro vescovo. In una delle sue poesie teologiche aveva scritto a Dio: “Sii, benigno, Tu, l’al di lá di tutto”. E Dio accoglieva tra le sue braccia di Padre questo suo figlio e servo fedele che l’aveva descritto, servito e cantato in poesia con tanto amore e intelligenza. Correva l’anno 390.

MARIO SCUDU SDB ***

Dio ti chiede solo amore

Riconosci l’origine della tua esistenza, del respiro, dell’intelligenza, della sapienza, ci? che più conta, della conoscenza di Dio, della speranza del Regno dei cieli, dell’onore che condividi con gli angeli, della contemplazione della gloria, ora certo come in uno specchio e in maniera confusa, ma a suo tempo in modo più pieno e più puro. Riconosci, inoltre, che sei divenuto figlio di Dio, coerede di Cristo e, per usare un’immagine ardita, sei lo stesso Dio!
Donde e da chi vengono a te tante e tali prerogative? Se poi vogliamo parlare di doni più umili e comuni, chi ti permette di vedere la bellezza del cielo, il corso del sole, i cicli della luce, le miriadi di stelle e all’armonia ed ordine che sempre si rinnovano meravigliosamente nel cosmo, rendendo festoso il creato come il suono di una cetra?
Chi ti concede la pioggia, le fertilitá dei campi, il cibo, la gioia dell’arte, il luogo della tua dimora, le leggi, lo stato, e aggiungiamo, la vita di ogni giorno, l’amicizia e il piacere della tua parentela?… Fu Dio. Ebbene, egli in cambio di tutto ci? che cosa ti chiede? L’amore. Richiede da te continuamente innanzitutto e soprattutto l’amore a lui e al prossimo. L’amore verso gli altri egli lo esige al pari del primo

(Dal Discorso 14 Sull’amore verso i poveri)

Cristo è sulla terra, gridate la vostra gioia

Cristo è nato, rendetegli onore.
Cristo è disceso dai cieli, venite a incontrarlo;
Cristo è sulla terra, gridate la vostra gioia.
Canta al Signore tutta la terra.
Anch’io proclamerò la grandezza di questo giorno:
l’immateriale si incarna, il Verbo si fa carne;
l’invisibile si mostra agli occhi;
colui che le nostre mani non possono raggiungere
pu? ora essere toccato, l’intemporale ha un inizio,
il Figlio di Dio diventa Figlio dell’uomo:
E’ Gesù Cristo colui che ieri, oggi e nei secoli è per sempre.
Ecco dunque la solennitá che celebriamo:
l’arrivo di Dio presso gli uomini, perchè noi possiamo andare a Dio
piuttosto o più esattamente, perchè noi ritorniamo a Lui…
(Dal Sermone sulla teofania)

Tu, l’al di lá di tutto

Tu sei l’al di lá di tutto…Tutte le cose ti cantano…
Comuni sono i desideri, di ogni essere creato.
Comuni i gemiti che tutt’attorno ti circondano.
Te chiama con supplice preghiera, il tutto.
A te è diretto un inno di silenzio:
lo pronunciano tutti gli esseri che contemplano il tuo ordine.
E’ per te solo che tutto permane.
E’ per te solo che tutto si muove, del moto universale.
E di ogni cosa Tu sei il compimento:
uno, tutto, nessuno, anche se non sei nè unico nè tutti..
Sii benigno, Tu, l’aldilá di tutto…
(Poesie I.1.29)

2 GENNAIO – SAN BASILIO MAGNO: CREATI PER DIVENTARE DIO PER GRAZIA

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SAN BASILIO MAGNO:

CREATI PER DIVENTARE DIO PER GRAZIA

Il primo santo che vi propongo in questo nuovo anno 2002 è un grande uomo, considerato una delle colonne della Chiesa Orientale ma venerato anche in quella occidentale e il cui influsso è vivo ancora oggi. Infatti i monaci orientali greco-slavi si rifanno ancora oggi alle Regole che lui ha vissuto e scritto 1700 anni fa. Stiamo parlando di san Basilio il Grande. Ad essere precisi (liturgicamente parlando) si dovrebbe parlare anche del suo amico san Gregorio Nazianzeno. Il nostro calendario li ricorda insieme.
Io preferisco ricordare solo Basilio (e magari l’anno venturo Gregorio). Il motivo è molto semplice: abbiamo davanti a noi una stella di prima grandezza nel firmamento della Chiesa, sia per esperienza ecclesiale, sia come studioso, sia come esempio di vita cristiana. E poi, sono sicuro, Gregorio Nazianzeno non si lamenterà visto che si può parlare più ampiamente del suo amico. E l’amico gioisce delle gioie, dei successi, della fama del proprio amico, senza invidia o gelosia. Non è vero?
Ho trovato la biografia di Basilio estremamente interessante e attuale. All’uomo contemporaneo, moderno o post moderno che si voglia, che ha ancora il coraggio di porsi la domanda ultima “Che cos’è l’uomo?” e “che cosa ci faccio io su questo mondo?”, sapete che cosa risponde san Basilio:
“L’uomo è una creatura che ha ricevuto da Dio l’ordine di diventare Dio per grazia”.
Non c’è male. Cercate in tutte le filosofie e in tutti i pensatori e scrittori un obiettivo più grande e più impegnativo per l’uomo. Altro che obiettivi “deboli” o a breve termine o nutriti di pessimismo e nichilismo. Basilio lega il destino dell’uomo il più alto possibile: a Dio stesso. Il motivo è molto semplice: perché Dio stesso, in Cristo, nella Incarnazione, ha voluto legare il suo destino all’uomo stesso. Non c’è niente di più grande e di più consistente e di più permanente che Dio stesso.
Questo Dio, afferma ancora Basilio, deve essere sempre davanti agli occhi dell’uomo giusto. La vita del giusto infatti sarà un pensare a Dio e nello stesso tempo una lode continua a Lui. San Basilio: “Il pensiero di Dio una volta impresso come sigillo nella parte più nobile dell’anima, si può chiamare lode di Dio, che in ogni tempo vive nell’anima… L’uomo giusto riesce a fare tutto alla gloria di Dio, così che ogni azione, ogni parola, ogni pensiero hanno valore di lode”. Due citazioni di questo santo che ci danno subito l’idea della sua visione dell’uomo (antropologia) positiva legata saldamente al pensiero su Dio (teologia).
Basilio: studente costante e grande viaggiatore
Basilio nacque a Cesarea di Cappadocia (attuale Turchia) nel 329. Da una famiglia agiata dal lato economico, e ricchissima sul versante culturale, spirituale e propriamente cristiano. Basilio respirò fin dalla più tenera età il pensare, l’agire e tutti i valori legati alla religione cristiana, valori vissuti anche a costo di sacrifici. I suoi nonni paterni ad esempio godevano dell’aureola di martirio, perché durante la persecuzione di Massimino per sette lunghi anni avevano vissuto nascosti sui monti e nei boschi.
Basilio subì grandemente l’influenza della nonna Macrina e anche della sorella con lo stesso nome (dirigeva una comunità di compagne in una specie di monastero, è diventata poi santa). Questa aveva un grande ascendente sul fratello e fu lei stessa a sollecitarlo a ricevere il battesimo invitandolo a porre fine alla vanità di una scienza umana e dedicarsi a Dio. Basilio ebbe la possibilità di studiare prima a Cesarea, poi a Costantinopoli e infine ad Atene, allora uno dei principali centri culturali. Qui conobbe Gregorio Nazianzeno. I due diventarono grandi amici: ambedue vescovi, dottori della Chiesa e santi. Conobbe ad Atene anche un certo Giuliano (la storia lo chiamerà Giuliano l’Apostata).
Attirato dall’ideale monastico, viaggiò molto visitando monaci ed eremiti palestinesi, egiziani e armeni. Rimase fortemente ammirato e attratto dalla loro scelta. E divenne monaco. Ma Basilio, da persona intelligente e acuta che era, notò che mancava qualcosa. Questi monaci amavano in maniera radicale Dio con tanti sacrifici; la loro vita ascetica era ineccepibile ed encomiabile.
Ma l’amore del prossimo dove lo praticavano, se vivevano isolati? Basilio aveva intuito che per amare Dio non bastava solo la contemplazione, ci voleva anche l’azione fatta di istruzione ai poveri e di molteplici opere di carità, e magari anche esercitare l’amore del prossimo sopportando i propri fratelli nella vita comunitaria. Da questa sua esperienza e riflessione nacque il progetto del “cenobio” (= vita in comune). Queste intuizioni sulla vita religiosa le trasmise nelle Regole: queste avranno un influsso enorme sulla Chiesa, facendo di san Basilio il padre del monachesimo dell’Oriente. Non solo: il nostro san Benedetto chiamandolo “il beato padre san Basilio” ne riconobbe l’influsso su quello occidentale.
Ordinato sacerdote nel 364 diventò per un po’ di tempo collaboratore del vescovo Eusebio di Cesarea, finché alla sua morte ne raccolse l’eredità pastorale. Non era ricco di anni (ne aveva 40) ma lo era di esperienza, di cultura, di coraggio e di santità. Tutte caratteristiche che dimostrò subito. Prima di tutto nel resistere all’imperatore ariano Valente, che difendeva l’arianesimo (una eresia dirompente per il Cristianesimo).
È interessante la risposta che Basilio diede al governatore Modesto: questi aveva tentato in tutti i modi di fargli sottoscrivere una dichiarazione pro ariana minacciandolo di rappresaglie, in quanto il suo atteggiamento ribelle contro l’imperatore non l’aveva mai tenuto nessuno. Basilio gli rispose: “Forse perché non ti sei mai imbattuto in un vescovo”. Aveva ragione. Vescovi della tempra, cultura e santità di Basilio non ce ne erano in giro.
Quasi viene da ridere al pensare ai due contendenti: l’imperatore Valente, con tutta la sua potenza e potere politico, contro un vescovo mingherlino, povero e malaticcio, armato solo della sua cultura e fede in Dio. Chi vincerà il duello? Strano ma il più forte cedette. Valente capì chi aveva davanti e… lasciò fare. Con disappunto del governatore Modesto. Anzi, ironia della sorte, più tardi fece ricorso proprio a lui per mettere pace fra alcune chiese, donandogli come regalo dei poderi.
La “Basiliade”: la “città di Basilio” per i malati
Quei terreni li adoperò per costruire una cittadella della sofferenza e della speranza (una specie di Cottolengo “ante litteram”). Il popolo la chiamò “Basiliade” ovvero “la Città di Basilio”. E Basilio ne fu il motore intelligente e pieno di energia. Il concetto di ospedale non è moderno, non è figlio del solito illuminismo o della scienza figlia della ragione. La Basiliade era un complesso grandioso con vari reparti, secondo le diverse malattie, per evitare contagi. Particolare cura era riservata ai malati di lebbra, normalmente abbandonati anche dai parenti. Basilio era un grande organizzatore (qualcuno l’ha definito “l’ultimo dei Romani’). Diceva che tutti anche i malati erano chiamati a “diventare Dio” per grazia… di Dio.
Aveva organizzato bene anche la carità per finanziare la sua città-ospedale senza aspettare il ministero della Sanità dell’Impero Romano. E qui ritorna in ballo Giuliano al massimo della carriera: era imperatore. Questi sentendo parlare della Basiliade si infuriò con i suoi governatori perché pur essendo pieni di denaro pubblico e di “risorse umane” (leggi schiavi) non erano riusciti a realizzare qualcosa di simile, a differenza di quel monaco spiantato di soldi e di schiavi ma ricco di… Provvidenza. Giuliano aveva dimenticato qualcosa o meglio Qualcuno in cui non credeva più: Dio.
San Basilio non solo è un grande vescovo e santo ma è anche un Dottore della Chiesa. Scrisse anche molte opere. Ma mentre Gregorio di Nissa, suo fratello, era un vero speculativo, lui era pratico, essenziale, stringato, chiaro e profondo e rigoroso nell’argomentazione. Ci ha lasciato opere di carattere teologico, esegetico (a commento della Scrittura) morale e ascetico. Ci sono rimaste anche molte sue lettere. In questi scritti Basilio si dimostra un maestro spirituale ed un padre non solo per i monaci ma per tutti i fedeli. Un concetto su cui il grande Basilio ritornava sempre era che Dio è il bene sommo ed unico dell’uomo, la felicità di questi è nel possesso di Dio. Dio è la misura del bene dell’uomo e della sua felicità. Ma per raggiungere questo è necessario “camminare alla presenza di Dio” e praticare una costante ascesi o sforzo spirituale per attuare questa conformazione a Cristo, e per non ostacolare l’opera e l’illuminazione dello Spirito Santo.
Anche all’uomo di oggi san Basilio propone l’immagine di un Dio non solo non invidioso dell’uomo o tiranno su di lui, ma un Dio che ha a cuore la sua grandezza e felicità. L’obiettivo di questo Dio è di “collaborare” alla grandezza e alla felicità dell’uomo. Per cui l’uomo, ogni uomo, è chiamato a “diventare Dio per grazia” di Dio. Ecco la sfida che, secondo san Basilio, Dio lancia all’uomo di tutti i tempi.

MARIO SCUDU SDB ***

31 DICEMBRE : SAN SILVESTRO PAPA (Guéranger)

http://www.unavoce-ve.it/pg-31dic.htm

L’anno liturgico

di dom Prosper Guéranger

31 DICEMBRE

SAN SILVESTRO, PAPA

Fin qui, abbiamo contemplato i Martiri presso la culla dell’Emmanuele. Stefano, che è caduto sotto le pietre del torrente; Giovanni, martire di desiderio, che è passato attraverso il fuoco; gli Innocenti immolati con la spada; Tommaso, ucciso sul pavimento della sua cattedrale: questi sono i campioni che fanno la guardia presso il neonato Re. Tuttavia, per quanto numerosa sia la schiera dei martiri, non tutti i fedeli di Cristo sono chiamati a far parte di questo battaglione scelto; il corpo dell’armata celeste si compone anche dei Confessori che hanno vinto il mondo, ma con una vittoria incruenta. Se il posto d’onore non è per essi, non debbono tuttavia esser privati del favore di servire il loro Re. Nelle loro mani, è vero, non c’è la palma; ma la corona di giustizia cinge le loro fronti. Colui che li ha incoronati, si gloria anche di vederli ai suoi fianchi.
Era dunque giusto che la santa Chiesa, per riunire in questa meravigliosa ottava tutte le glorie del cielo e della terra, iscrivesse in questi giorni nel suo Ciclo il nome di un santo Confessore che rappresentasse tutti gli altri. Questo Confessore è Silvestro, sposo della santa Chiesa Romana, e mediante essa della Chiesa universale, un Pontefice dal regno lungo e pacifico di circa 22 anni, un servo di Cristo adorno di tutte le virtù e dato al mondo all’indomani di quelle furiose battaglie che erano durate tre secoli e nelle quali avevano trionfato, con il Martirio, migliaia di cristiani, sotto la guida di numerosi Papi martiri predecessori di Silvestro.
Silvestro annuncia anche la Pace che Cristo è venuto a portare al mondo e che gli Angeli hanno cantata a Betlemme. Egli è l’amico di Costantino, conferma il Concilio di Nicea che ha condannato l’eresia ariana, organizza la disciplina ecclesiastica per l’era della Pace. I suoi predecessori hanno rappresentato Cristo sofferente: egli raffigura Cristo nel suo trionfo. È completo, in questa Ottava, il carattere del divino Bambino che viene nell’umiltà delle fasce, esposto alla persecuzione di Erode, e tuttavia Principe della pace e Padre del secolo futuro.
O Sommo Pontefice della Chiesa di Gesù Cristo, tu sei dunque stato scelto fra i tuoi fratelli per decorare con i tuoi gloriosi meriti la santa Ottava della Nascita dell’Emmanuele. E vi rappresenti degnamente il coro immenso dei Confessori, tu che hai retto, con tanta forza e tanta fedeltà, il timone della Chiesa dopo la tempesta. Il diadema pontificio orna la tua fronte; e lo splendore del cielo si riflette sulle pietre preziose di cui esso è ornato. Le chiavi del Regno dei Cieli sono fra le tue mani: tu lo apri per farvi entrare i residui della gentilità che passano alla fede di Cristo e lo chiudi agli Ariani, nell’augusto Condito di Nicea, al quale presiedi per mezzo dei tuoi Legati, e al quale conferisci autorità, confermandolo con il tuo suffragio apostolico. Presto furiose tempeste si scateneranno nuovamente contro la Chiesa; i marosi dell’eresie verranno a percuotere la barca di Pietro; tu ti troverai già in seno a Dio; ma veglierai, con Pietro, sulla purezza della Fede e, per le tue preghiere, la Chiesa Romana sarà il porto in cu Atanasio troverà finalmente qualche ora di pace.
Sotto il tuo pacifico regno, Roma cristiana riceve il premio del suo lungo martirio. Viene riconosciuta come Regina dell’umanità cristiana, e il suo impero come l’unico impero universale. Costantino si allontana dalla città di Romolo che è ormai la città di Pietro: la seconda maestà non vuoi essere eclissata dalla prima; e, fondata Bisanzio, Roma resta nelle mani del suo Pontefice. I templi dei falsi dei crollano, e fanno posto alle basiliche cristiane che ricevono le trionfali spoglie dei santi Apostoli e dei Martiri.
Onorato di doni così meravigliosi, o Vicario di Cristo, ricordati di quel popolo cristiano che è stato il tuo popolo. In questi giorni, esso ti chiede di iniziarlo al divino mistero del Cristo Bambino. Attraverso il sublime simbolo che contiene la fede di Nicea e che tu hai confermato e promulgato in tutta la Chiesa, tu ci insegni a riconoscere Dio da Dio, Luce da Luce, generato e non fatto, consustanziale al Padre. Ci inviti ad adorare questo Bambino come Colui per il quale sono state fatte tutte le cose. Confessore di Cristo, degnati di presentarci a lui, come si son degnati di fare i Martiri che ti hanno preceduto. Chiedigli di benedire i nostri desideri di virtù, di conservarci nel suo amore, di darci la vittoria sul mondo e sulle nostre passioni, di custodirci quella corona di giustizia alla quale osiamo aspirare, quale premio della nostra Confessione.
Pontefice della Pace, dalla tranquilla dimora in cui riposi, guarda la Chiesa di Dio agitata dalle più paurose tempeste, e scongiura Gesù, il Principe della Pace, di por fine a così crudeli agitazioni. Volgi il tuo sguardo su quella Roma che tanto ami e che custodisce caramente la tua memoria; proteggi e dirigi il suo Pontefice. Che essa trionfi sull’astuzia dei politici, sulla violenza dei tiranni, sulle insidie degli eretici, sulla perfidia degli scismatici, sull’indifferenza dei mondani, sulla rilassatezza dei cristiani. Ch’essa sia onorata, amata e obbedita. Che si ristabilisca la maestà del sacerdozio, si rivendichi la potenza dello spirito, la forza e la carità si diano la mano, il regno di Dio cominci infine sulla terra e non vi sia più che un solo ovile e un solo Pastore.
Vigila, o Silvestro, sul sacro deposito della fede che tu hai custodito così integralmente; che la sua luce trionfi su tutti quei falsi e audaci sistemi che sorgono da ogni parte, come i segni dell’uomo nel suo orgoglio. Che ogni intelletto creato si sottometta al giogo dei misteri, senza i quali la sapienza umana non è che tenebre; e Gesù, Figlio di Dio, Figlio di Maria, regni infine, per mezzo della sua Chiesa, sulle menti e sui cuori.
Prega per Bisanzio, chiamata un tempo la nuova Roma e divenuta così presto la capitale delle eresie, il triste teatro della degradazione del Cristianesimo. Fa’ che i tempi della sua umiliazione siano abbreviati. Che essa riveda i giorni dell’unità; si decida a onorare il Cristo nel suo Vicario e obbedisca per essere salva. Che le genti traviate e perdute per il suo influsso, riacquistino quella dignità umana che solo la purezza della fede conserva e che essa sola può rigenerare.
E infine, o vincitore di Satana, trattieni il Drago infernale nella sua prigione dove l’hai rinchiuso; spezza il suo orgoglio, sventa i suoi piani; vigila acciocché non seduca più i popoli, ma tutti i figli della Chiesa, secondo le parole di Pietro tuo predecessore, gli resistano con la forza della loro fede (1Pt 5,9).
* * *
Consideriamo, in questo settimo giorno dell’Ottava di Natale, il Salvatore che ci è nato, avvolto nelle fasce dell’infanzia. Le fasce sono la divisa della nostra debolezza; il bambino che esse coprono non è ancora un uomo, non ha ancora un vestito suo. Aspetta che lo si svolga; i suoi movimenti diventano liberi solo con l’aiuto degli altri. Così è apparso sulla terra, prigioniero nella nostra infermità, Colui che da la vita e il movimento ad ogni creatura.
Contempliamo Maria, mentre avvolge con tenero rispetto le membra del Dio suo Figlio in quelle fasce, e adora l’umiliazione che egli è venuto a cercare in questo mondo, per santificare tutte le età degli uomini senza dimenticare la più debole e più bisognosa di assistenza. La piaga del nostro orgoglio era tale che occorreva questo estremo rimedio. Come potremo ora noi rifiutare di essere bambini, quando Colui che ce ne impone il precetto si degna di aggiungere alle sue parole un esempio così affascinante? Noi ti adoriamo, o Gesù, nelle fasce della debolezza, e vogliamo diventare in tutto simili a te.
« Non scandalizzatevi dunque, o Fratelli – dice il pio abate Guerrico – di quella umile divisa, e non si turbi l’occhio della vostra fede. Come Maria avvolge il Figlio in quei miseri panni, così la Grazia, madre vostra, copre d’ombre e di simboli la verità e la segreta maestà di quel Verbo divino. Quando vi annuncio con le mie parole quella Verità che è Cristo, che altro faccio se non avvolgere Cristo stesso in umili fasce? Beato nondimeno colui ai cui occhi Cristo non appare misero sotto tali panni! La vostra pietà contempli dunque Cristo nelle fasce di cui lo ricopre la Madre sua, onde meritar di vedere, nella beatitudine eterna, la gloria e lo splendore di cui il Padre lo ha rivestito come suo Figlio unigenito ».
* * *
L’anno civile termina oggi il suo corso. A mezzanotte, un nuovo anno spunta sul mondo e quello che l’ha preceduto scompare per sempre nell’abisso dell’eternità. La nostra vita fa un passo, e la fine di ogni cosa si avvicina sempre più (1Pt 4,7). La Liturgia, che inizia l’anno ecclesiastico con la prima Domenica di Avvento, non ha preghiere speciali nella Chiesa Romana per accompagnare quel rinnovarsi dell’anno con il primo gennaio; ma il suo spirito che risponde a tutte le situazioni dell’uomo e della società, ci avverte di non lasciar passare quel momento solenne senza offrire a Dio il tributo del nostro ringraziamento per i benefici che ci ha fatti nel corso dell’anno che è appena terminato.

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – I. Avvento – Natale – Quaresima – Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 160-163

Benedetto XVI: San Pietro Canisio (21 dicembre 2011)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110209_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 9 febbraio 2011

San Pietro Canisio (21 dicembre 2011)

Cari fratelli e sorelle,

Oggi vorrei parlarvi di san Pietro Kanis, Canisio nella forma latinizzata del suo cognome, una figura molto importante nel Cinquecento cattolico. Era nato l’8 maggio 1521 a Nimega, in Olanda. Suo padre era borgomastro della città. Mentre era studente all’Università di Colonia, frequentò i monaci Certosini di santa Barbara, un centro propulsivo di vita cattolica, e altri pii uomini che coltivavano la spiritualità della cosiddetta devotio moderna. Entrò nella Compagnia di Gesù l’8 maggio 1543 a Magonza (Renania – Palatinato), dopo aver seguito un corso di esercizi spirituali sotto la guida del beato Pierre Favre, Petrus Faber, uno dei primi compagni di sant’Ignazio di Loyola. Ordinato sacerdote nel giugno 1546 a Colonia, già l’anno seguente, come teologo del Vescovo di Augusta, il cardinale Otto Truchsess von Waldburg, fu presente al Concilio di Trento, dove collaborò con due confratelli, Diego Laínez e Alfonso Salmerón.
Nel 1548, sant’Ignazio gli fece completare a Roma la formazione spirituale e lo inviò poi nel Collegio di Messina a esercitarsi in umili servizi domestici. Conseguito a Bologna il dottorato in teologia il 4 ottobre 1549, fu destinato da sant’Ignazio all’apostolato in Germania. Il 2 settembre di quell’anno, il ’49, visitò Papa Paolo III in Castel Gandolfo e poi si recò nella Basilica di San Pietro per pregare. Qui implorò l’aiuto dei grandi Santi Apostoli Pietro e Paolo, che dessero efficacia permanente alla Benedizione Apostolica per il suo grande destino, per la sua nuova missione. Nel suo diario annotò alcune parole di questa preghiera. Dice: “Là io ho sentito che una grande consolazione e la presenza della grazia mi erano concesse per mezzo di tali intercessori [Pietro e Paolo]. Essi confermavano la mia missione in Germania e sembravano trasmettermi, come ad apostolo della Germania, l’appoggio della loro benevolenza. Tu conosci, Signore, in quanti modi e quante volte in quello stesso giorno mi hai affidato la Germania per la quale in seguito avrei continuato ad essere sollecito, per la quale avrei desiderato vivere e morire”.
Dobbiamo tenere presente che ci troviamo nel tempo della Riforma luterana, nel momento in cui la fede cattolica nei Paesi di lingua germanica, davanti al fascino della Riforma, sembrava spegnersi. Era un compito quasi impossibile quello di Canisio, incaricato di rivitalizzare, di rinnovare la fede cattolica nei Paesi germanici. Era possibile solo in forza della preghiera. Era possibile solo dal centro, cioè da una profonda amicizia personale con Gesù Cristo; amicizia con Cristo nel suo Corpo, la Chiesa, che va nutrita nell’Eucaristia, Sua presenza reale.
Seguendo la missione ricevuta da Ignazio e da Papa Paolo III, Canisio partì per la Germania e partì innanzitutto per il Ducato di Baviera, che per parecchi anni fu il luogo del suo ministero. Come decano, rettore e vicecancelliere dell’Università di Ingolstadt, curò la vita accademica dell’Istituto e la riforma religiosa e morale del popolo. A Vienna, dove per breve tempo fu amministratore della Diocesi, svolse il ministero pastorale negli ospedali e nelle carceri, sia nella città sia nelle campagne, e preparò la pubblicazione del suo Catechismo. Nel 1556 fondò il Collegio di Praga e, fino al 1569, fu il primo superiore della provincia gesuita della Germania superiore.
In questo ufficio, stabilì nei Paesi germanici una fitta rete di comunità del suo Ordine, specialmente di Collegi, che furono punti di partenza per la riforma cattolica, per il rinnovamento della fede cattolica. In quel tempo partecipò anche al colloquio di Worms con i dirigenti protestanti, tra i quali Filippo Melantone (1557); svolse la funzione di Nunzio pontificio in Polonia (1558); partecipò alle due Diete di Augusta (1559 e 1565); accompagnò il Cardinale Stanislao Hozjusz, legato del Papa Pio IV presso l’Imperatore Ferdinando (1560); intervenne alla Sessione finale del Concilio di Trento dove parlò sulla questione della Comunione sotto le due specie e dell’Indice dei libri proibiti (1562).
Nel 1580 si ritirò a Friburgo in Svizzera, tutto dedito alla predicazione e alla composizione delle sue opere, e là morì il 21 dicembre 1597. Beatificato dal beato Pio IX nel 1864, fu proclamato nel 1897 secondo Apostolo della Germania dal Papa Leone XIII, e dal Papa Pio XI canonizzato e proclamato Dottore della Chiesa nel 1925.
San Pietro Canisio trascorse buona parte della sua vita a contatto con le persone socialmente più importanti del suo tempo ed esercitò un influsso speciale con i suoi scritti. Fu editore delle opere complete di san Cirillo d’Alessandria e di san Leone Magno, delle Lettere di san Girolamo e delle Orazioni di san Nicola della Fluë. Pubblicò libri di devozione in varie lingue, le biografie di alcuni Santi svizzeri e molti testi di omiletica. Ma i suoi scritti più diffusi furono i tre Catechismi composti tra il 1555 e il 1558. Il primo Catechismo era destinato agli studenti in grado di comprendere nozioni elementari di teologia; il secondo ai ragazzi del popolo per una prima istruzione religiosa; il terzo ai ragazzi con una formazione scolastica a livello di scuole medie e superiori. La dottrina cattolica era esposta con domande e risposte, brevemente, in termini biblici, con molta chiarezza e senza accenni polemici. Solo nel tempo della sua vita sono state ben 200 le edizioni di questo Catechismo! E centinaia di edizioni si sono succedute fino al Novecento. Così in Germania, ancora nella generazione di mio padre, la gente chiamava il Catechismo semplicemente il Canisio: fu realmente il catechista della Germania, ha formato la fede di persone per secoli.
È, questa, una caratteristica di san Pietro Canisio: saper comporre armoniosamente la fedeltà ai principi dogmatici con il rispetto dovuto ad ogni persona. San Canisio ha distinto l’apostasia consapevole, colpevole, dalla fede, dalla perdita della fede incolpevole, nelle circostanze. E ha dichiarato, nei confronti di Roma, che la maggior parte dei tedeschi passata al Protestantesimo era senza colpa. In un momento storico di forti contrasti confessionali, evitava – questa è una cosa straordinaria – l’asprezza e la retorica dell’ira – cosa rara, come ho detto, a quei tempi nelle discussioni tra cristiani, – e mirava soltanto alla presentazione delle radici spirituali e alla rivitalizzazione della fede nella Chiesa. A ciò servì la conoscenza vasta e penetrante che ebbe della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa: la stessa conoscenza che sorresse la sua personale relazione con Dio e l’austera spiritualità che gli derivava dalla devotio moderna e dalla mistica renana.
E’ caratteristica per la spiritualità di san Canisio una profonda amicizia personale con Gesù. Scrive, per esempio, il 4 settembre 1549 nel suo diario, parlando con il Signore: “Tu, alla fine, come se mi aprissi il cuore del Sacratissimo Corpo, che mi sembrava di vedere davanti a me, mi hai comandato di bere a quella sorgente, invitandomi, per così dire, ad attingere le acque della mia salvezza dalle tue fonti, o mio Salvatore”. E poi vede che il Salvatore gli dà un vestito con tre parti che si chiamano pace, amore e perseveranza. E con questo vestito composto da pace, amore e perseveranza, il Canisio ha svolto la sua opera di rinnovamento del cattolicesimo. Questa sua amicizia con Gesù – che è il centro della sua personalità – nutrita dall’amore della Bibbia, dall’amore del Sacramento, dall’amore dei Padri, questa amicizia era chiaramente unita con la consapevolezza di essere nella Chiesa un continuatore della missione degli Apostoli. E questo ci ricorda che ogni autentico evangelizzatore è sempre uno strumento unito, e perciò stesso fecondo, con Gesù e con la sua Chiesa.
All’amicizia con Gesù san Pietro Canisio si era formato nell’ambiente spirituale della Certosa di Colonia, nella quale era stato a stretto contatto con due mistici certosini: Johann Lansperger, latinizzato in Lanspergius, e Nicolas van Hesche, latinizzato in Eschius. Successivamente approfondì l’esperienza di quell’amicizia, familiaritas stupenda nimis, con la contemplazione dei misteri della vita di Gesù, che occupano larga parte negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio. La sua intensa devozione al Cuore del Signore, che culminò nella consacrazione al ministero apostolico nella Basilica Vaticana, trova qui il suo fondamento.
Nella spiritualità cristocentrica di san Pietro Canisio si radica un profondo convincimento: non si dà anima sollecita della propria perfezione che non pratichi ogni giorno la preghiera, l’orazione mentale, mezzo ordinario che permette al discepolo di Gesù di vivere l’intimità con il Maestro divino. Perciò, negli scritti destinati all’educazione spirituale del popolo, il nostro Santo insiste sull’importanza della Liturgia con i suoi commenti ai Vangeli, alle feste, al rito della santa Messa e degli altri Sacramenti, ma, nello stesso tempo, ha cura di mostrare ai fedeli la necessità e la bellezza che la preghiera personale quotidiana affianchi e permei la partecipazione al culto pubblico della Chiesa.
Si tratta di un’esortazione e di un metodo che conservano intatto il loro valore, specialmente dopo che sono stati riproposti autorevolmente dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Sacrosanctum Concilium: la vita cristiana non cresce se non è alimentata dalla partecipazione alla Liturgia, in modo particolare alla santa Messa domenicale, e dalla preghiera personale quotidiana, dal contatto personale con Dio. In mezzo alle mille attività e ai molteplici stimoli che ci circondano, è necessario trovare ogni giorno dei momenti di raccoglimento davanti al Signore per ascoltarlo e parlare con Lui.
Allo stesso tempo, è sempre attuale e di permanente valore l’esempio che san Pietro Canisio ci ha lasciato, non solo nelle sue opere, ma soprattutto con la sua vita. Egli insegna con chiarezza che il ministero apostolico è incisivo e produce frutti di salvezza nei cuori solo se il predicatore è testimone personale di Gesù e sa essere strumento a sua disposizione, a Lui strettamente unito dalla fede nel suo Vangelo e nella sua Chiesa, da una vita moralmente coerente e da un’orazione incessante come l’amore. E questo vale per ogni cristiano che voglia vivere con impegno e fedeltà la sua adesione a Cristo. Grazie.

19 dicembre: Sant’ Anastasio I Papa

http://www.santiebeati.it/dettaglio/82250

Sant’ Anastasio I Papa

19 dicembre

m. 19 dicembre 401

(Papa dal 27/11/399 al 19/12/401)

Il «Liber Pontificalis» lo dice romano di origine. Edificò a Roma la basilica Crescenziana, individuata, oggi, in San Sisto Vecchio. Combatté con energia il donatismo nelle provincie settentrionali dell’Africa, ratificando le decisioni del Concilio di Toledo del 400. Questo Pontefice è conosciuto specialmente per la controversia origenista. Nel 399 gli amici di san Gerolamo si adoperarono per ottenere da lui una formale condanna dell’origenismo. Sollecitato anche da lettere e da ambasciatori di Teofilo, vescovo di Alessandria, per la partecipazione dell’Occidente a questa lotta, condannò le proposizioni presentategli. Fu in ottimi rapporti con Paolino, poi vescovo di Nola. Della copiosa corrispondenza, che Anastasio dal Laterano indirizzò a personalità di vari paesi, sono rimaste poche lettere. Dopo un pontificato breve (399-401) e molto attivo, Anastasio morì il 19 dicembre 401. (Avvenire)

Etimologia: Anastasio = risorto, dal greco
Martirologio Romano: A Roma nel cimitero di Ponziano sulla via Portuense, deposizione di sant’Anastasio I, papa, uomo ricco di povertà e di apostolica sollecitudine, che si oppose fermamente alle dottrine ereticali.

Il Liber Pontificalis lo dice romano di origine; suo padre si chiamava Massimo. Edificò in Roma la basilica Crescenziana, ricordata anche nel sinodo del 499 e individuata, oggi, in S. Sisto Vecchio. Combatté con energia il donatismo nelle provincie settentrionali dell’Africa: ratificò le decisioni del Concilio di Toledo del 400, nel quale alcuni vescovi galiziani che avevano sconfessato Priscilliano, furono conservati nel loro ufficio, purché la reintegrazione fosse stata approvata da Anastasio. Il Liber Pontificalis ci informa come egli scoprisse a Roma un certo numero di manichei. Viveva in lui lo spirito dei difensori della Chiesa contro l’arianesimo; i diritti del patriarcato occidentale nell’Illirico trovarono in lui un coraggioso difensore.
Anastasio è conosciuto specialmente per la controversia origenista e per la severità dimostrata verso Rufino. Nel 399 gli amici di s. Gerolamo si adoperarono per ottenere da lui una formale condanna dell’origenismo. Sollecitato anche da lettere e da ambasciatori di Teofilo, vescovo di Alessandria, per la partecipazione dell’Occidente a questa lotta, condannò le «proposizioni blasfematorie presentategli». Rufino, profondamente irritato da questa campagna, gli fece presentare una sua Apologia, «per cancellare ogni traccia di sospetto e per rimettere al papa la dichiarazione di fede». Questa Apologia non produsse, però, su Anastasio alcun effetto ed egli evitò di dirimere la questione delle vere intenzioni di Rufino come traduttore del Periarchon. Sull’origenismo scrisse parecchie lettere, di cui una indirizzata a Venerio di Milano.
Fu in ottimi rapporti con s. Paolino, poi vescovo di Nola, anzi si credette obbligato a riparare i dispiaceri recatigli dal suo predecessore. Dopo avere, infatti, scritto ai vescovi della Campania, facendo loro i suoi elogi, lo invitò direttamente a Roma per prender parte alla festa anniversaria della sua consacrazione, festa cui i papi solevano invitare solamente i vescovi. L’eccezione costituiva per Paolino un favore specialissimo e anche una riparazione. Quantunque egli non potesse in questa occasione andarvi, i] papa accettò la sua lettera di scusa . Della copiosa corrispondenza, che Anastasio dal Laterano indirizzò a personalità di vari paesi, sono rimaste poche lettere.
Dopo un pontificato breve (399-401 ) e molto attivo, Anastasio morì il 19 dicembre 401, come ha dimostrato il Duchesne nel suo commento al Liber Pontif icalis. Fu sepolto sulla Via Portuense in un monumento sepolcrale posto fra le basiliche di S. Candida e dei SS. Abdon e Sennen. S. Gerolamo, che aveva avuto parole di alto elogio per Anastasio, giunse a scrivere che se egli morì così presto, fu per un riguardo della Provvidenza, la quale non volle che un simile vescovo fosse testimone della caduta di Roma (avvenuta nel 410 per opera di Alarico). Tale elogio è entrato nel Martirologio Romano.
Il culto reso al pontefice e ai suoi predecessori, ad eccezione di Zosimo, fiorì in breve tempo: il suo nome figura già nel Martirologio Geronimiano datato alla metà del sec. V. La sua festa ricorre il 27 apr., giorno errato tratto dal Liber Pontificalis, che qui richiede una revisione.

Autore: Filippo Caraffa

Papa Benedetto: San Giovanni della Croce (14 dicembre, m)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110216_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 16 febbraio 2011

San Giovanni della Croce (14 dicembre)

Cari fratelli e sorelle,

due settimane fa ho presentato la figura della grande mistica spagnola Teresa di Gesù. Oggi vorrei parlare di un altro importante Santo di quelle terre, amico spirituale di santa Teresa, riformatore, insieme a lei, della famiglia religiosa carmelitana: san Giovanni della Croce, proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Pio XI, nel 1926, e soprannominato nella tradizione Doctor mysticus, “Dottore mistico”.
Giovanni della Croce nacque nel 1542 nel piccolo villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nella Vecchia Castiglia, da Gonzalo de Yepes e Catalina Alvarez. La famiglia era poverissima, perché il padre, di nobile origine toledana, era stato cacciato di casa e diseredato per aver sposato Catalina, un’umile tessitrice di seta. Orfano di padre in tenera età, Giovanni, a nove anni, si trasferì, con la madre e il fratello Francisco, a Medina del Campo, vicino a Valladolid, centro commerciale e culturale. Qui frequentò il Colegio de los Doctrinos, svolgendo anche alcuni umili lavori per le suore della chiesa-convento della Maddalena. Successivamente, date le sue qualità umane e i suoi risultati negli studi, venne ammesso prima co­me infermiere nell’Ospedale della Concezione, poi nel Collegio dei Gesuiti, appena fondato a Medina del Campo: qui Giovanni entrò diciottenne e studiò per tre anni scienze umane, retorica e lingue classiche. Alla fine della formazione, egli aveva ben chiara la propria vocazione: la vita religiosa e, tra i tanti ordini presenti a Medina, si sentì chiamato al Carmelo.
Nell’estate del 1563 iniziò il noviziato presso i Carmelitani della città, assumendo il nome religioso di Giovanni di San Mattia. L’anno seguente venne destinato alla prestigiosa Università di Salamanca, dove studiò per un triennio arti e filosofia. Nel 1567 fu ordinato sacerdote e ritornò a Medina del Campo per celebrare la sua Prima Messa circondato dall’affetto dei famigliari. Proprio qui avvenne il primo incontro tra Giovanni e Teresa di Gesù. L’incontro fu decisivo per entrambi: Teresa gli espose il suo piano di riforma del Carmelo anche nel ramo maschile dell’Ordine e propose a Giovanni di aderirvi “per maggior gloria di Dio”; il giovane sacerdote fu affascinato dalle idee di Teresa, tanto da diventare un grande sostenitore del progetto. I due lavorarono insieme alcuni mesi, condividendo ideali e proposte per inaugurare al più presto possibile la prima casa di Carmelitani Scalzi: l’apertura avvenne il 28 dicembre 1568 a Duruelo, luogo solitario della provincia di Avila. Con Giovanni formavano questa prima comunità maschile riformata altri tre compagni. Nel rinnovare la loro professione religiosa secondo la Regola primitiva, i quattro adottarono un nuovo nome: Giovanni si chiamò allora “della Croce”, come sarà poi universalmente conosciuto. Alla fine del 1572, su richiesta di santa Teresa, divenne confessore e vicario del monastero dell’Incarnazione di Avila, dove la Santa era priora. Furono anni di stretta collaborazione e amicizia spirituale, che arricchì entrambi. ? quel periodo risalgono anche le più importanti opere teresiane e i primi scritti di Giovanni.
L’adesione alla riforma carmelitana non fu facile e costò a Giovanni anche gravi sofferenze. L’episodio più traumatico fu, nel 1577, il suo rapimento e la sua incarcerazione nel convento dei Carmelitani dell’Antica Osservanza di Toledo, a seguito di una ingiusta accusa. Il Santo rimase imprigionato per mesi, sottoposto a privazioni e costrizioni fisiche e morali. Qui compose, insieme ad altre poesie, il celebre Cantico spirituale. Finalmente, nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1578, riuscì a fuggire in modo avventuroso, riparandosi nel monastero delle Carmelitane Scalze della città. Santa Teresa e i compagni riformati celebrarono con immensa gioia la sua liberazione e, dopo un breve tempo di recupero delle forze, Giovanni fu destinato in Andalusia, dove trascorse dieci anni in vari conventi, specialmente a Granada. Assunse incarichi sempre più importanti nell’Ordine, fino a diventare Vicario Provinciale, e completò la stesura dei suoi trattati spirituali. Tornò poi nella sua terra natale, come membro del governo generale della famiglia religiosa teresiana, che godeva ormai di piena autonomia giuridica. Abitò nel Carmelo di Segovia, svolgendo l’ufficio di superiore di quella comunità. Nel 1591 fu sollevato da ogni responsabilità e destinato alla nuova Provincia religiosa del Messico. Mentre si preparava per il lungo viaggio con altri dieci compagni, si ritirò in un convento solitario vicino a Jaén, dove si ammalò gravemente. Giovanni affrontò con esemplare serenità e pazienza enormi sofferenze. Morì nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, mentre i confratelli recitavano l’Ufficio mattutino. Si congedò da essi dicendo: “Oggi vado a cantare l’Ufficio in cielo”. I suoi resti mortali furono traslati a Segovia. Venne beatificato da Clemente X nel 1675 e canonizzato da Benedetto XIII nel 1726.
Giovanni è considerato uno dei più importanti poeti lirici della letteratura spagnola. Le opere maggiori sono quattro: Ascesa al Monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale e Fiamma d’amor viva.
Nel Cantico spirituale, san Giovanni presenta il cammino di purificazione dell’anima, e cioè il progressivo possesso gioioso di Dio, finché l’anima perviene a sentire che ama Dio con lo stesso amore con cui è amata da Lui. La Fiamma d’amor viva prosegue in questa prospettiva, descrivendo più in dettaglio lo stato di unione trasformante con Dio. Il paragone utilizzato da Giovanni è sempre quello del fuoco: come il fuoco quanto più arde e consuma il legno, tanto più si fa incandescente fino a diventare fiamma, così lo Spirito Santo, che durante la notte oscura purifica e “pulisce” l’anima, col tempo la illumina e la scalda come se fosse una fiamma. La vita dell’anima è una continua festa dello Spirito Santo, che lascia intravedere la gloria dell’unione con Dio nell’eternità.
L’Ascesa al Monte Carmelo presenta l’itinerario spirituale dal punto di vista della purificazione progressiva dell’anima, necessaria per scalare la vetta della perfezione cristiana, simboleggiata dalla cima del Monte Carmelo. Tale purificazione è proposta come un cammino che l’uomo intraprende, collaborando con l’azione divina, per liberare l’anima da ogni attaccamento o affetto contrario alla volontà di Dio. La purificazione, che per giungere all’unione d’amore con Dio dev’essere totale, inizia da quella della vita dei sensi e prosegue con quella che si ottiene per mezzo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, che purificano l’intenzione, la memoria e la volontà. La Notte oscura descrive l’aspetto “passivo”, ossia l’intervento di Dio in questo processo di “purificazione” dell’anima. Lo sforzo umano, infatti, è incapace da solo di arrivare fino alle radici profonde delle inclinazioni e delle abitudini cattive della persona: le può solo frenare, ma non sradicarle completamente. Per farlo, è necessaria l’azione speciale di Dio che purifica radicalmente lo spirito e lo dispone all’unione d’amore con Lui. San Giovanni definisce “passiva” tale purificazione, proprio perché, pur accettata dall’anima, è realizzata dall’azione misteriosa dello Spirito Santo che, come fiamma di fuoco, consuma ogni impurità. In questo stato, l’anima è sottoposta ad ogni genere di prove, come se si trovasse in una notte oscura.

Queste indicazioni sulle opere principali del Santo ci aiutano ad avvicinarci ai punti salienti della sua vasta e profonda dottrina mistica, il cui scopo è descrivere un cammino sicuro per giungere alla santità, lo stato di perfezione cui Dio chiama tutti noi. Secondo Giovanni della Croce, tutto quello che esiste, creato da Dio, è buono. Attraverso le creature, noi possiamo pervenire alla scoperta di Colui che in esse ha lasciato una traccia di sé. La fede, comunque, è l’unica fonte donata all’uomo per conoscere Dio così come Egli è in se stesso, come Dio Uno e Trino. Tutto quello che Dio voleva comunicare all’uomo, lo ha detto in Gesù Cristo, la sua Parola fatta carne. Gesù Cristo è l’unica e definitiva via al Padre (cfr Gv 14,6). Qualsiasi cosa creata è nulla in confronto a Dio e nulla vale al di fuori di Lui: di conseguenza, per giungere all’amore perfetto di Dio, ogni altro amore deve conformarsi in Cristo all’amore divino. Da qui deriva l’insistenza di san Giovanni della Croce sulla necessità della purificazione e dello svuotamento interiore per trasformarsi in Dio, che è la meta unica della perfezione. Questa “purificazione” non consiste nella semplice mancanza fisica delle cose o del loro uso; quello che rende l’anima pura e libera, invece, è eliminare ogni dipendenza disordinata dalle cose. Tutto va collocato in Dio come centro e fine della vita. Il lungo e faticoso processo di purificazione esige certo lo sforzo personale, ma il vero protagonista è Dio: tutto quello che l’uomo può fare è “disporsi”, essere aperto all’azione divina e non porle ostacoli. Vivendo le virtù teologali, l’uomo si eleva e dà valore al proprio impegno. Il ritmo di crescita della fede, della speranza e della carità va di pari passo con l’opera di purificazione e con la progressiva unione con Dio fino a trasformarsi in Lui. Quando si giunge a questa meta, l’anima si immerge nella stessa vita trinitaria, così che san Giovanni afferma che essa giunge ad amare Dio con il medesimo amore con cui Egli la ama, perché la ama nello Spirito Santo. Ecco perché il Dottore Mistico sostiene che non esiste vera unione d’amore con Dio se non culmina nell’unione trinitaria. In questo stato supremo l’anima santa conosce tutto in Dio e non deve più passare attraverso le creature per arrivare a Lui. L’anima si sente ormai inondata dall’amore divino e si rallegra completamente in esso.
Cari fratelli e sorelle, alla fine rimane la questione: questo santo con la sua alta mistica, con questo arduo cammino verso la cima della perfezione ha da dire qualcosa anche a noi, al cristiano normale che vive nelle circostanze di questa vita di oggi, o è un esempio, un modello solo per poche anime elette che possono realmente intraprendere questa via della purificazione, dell’ascesa mistica? Per trovare la risposta dobbiamo innanzitutto tenere presente che la vita di san Giovanni della Croce non è stata un “volare sulle nuvole mistiche”, ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta, sia da riformatore dell’ordine, dove incontrò tante opposizioni, sia da superiore provinciale, sia nel carcere dei suoi confratelli, dove era esposto a insulti incredibili e a maltrattamenti fisici. E’ stata una vita dura, ma proprio nei mesi passati in carcere egli ha scritto una delle sue opere più belle. E così possiamo capire che il cammino con Cristo, l’andare con Cristo, “la Via”, non è un peso aggiunto al già sufficientemente duro fardello della nostra vita, non è qualcosa che renderebbe ancora più pesante questo fardello, ma è una cosa del tutto diversa, è una luce, una forza, che ci aiuta a portare questo fardello. Se un uomo reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé questa grande luce; questa è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù. Questo lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno. E la santità non è un’opera nostra, molto difficile, ma è proprio questa “apertura”: aprire e finestre della nostra anima perché la luce di Dio possa entrare, non dimenticare Dio perché proprio nell’apertura alla sua luce si trova forza, si trova la gioia dei redenti. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a trovare questa santità, lasciarsi amare da Dio, che è la vocazione di noi tutti e la vera redenzione. Grazie.

 

4 DICEMBRE: SANTA BARBARA martire

dal sito:

http://www.enrosadira.it/santi/b/barbara.htm

4  DICEMBRE: SANTA BARBARA martire
  
Nonostante il padre Dioscuro, la rinchiuse in una torre per impedirlo, Barbara divenne cristiana. Per questo motivo fu denunciata dal prefetto Martiniano durante la persecuzione di Massimiano (III-IV sec.) e imprigionata a Nicomedia. Fu prima percossa con le verghe, quindi torturata col fuoco, subì quindi il taglio delle mammelle e altri tormenti. Infine venne decapitata per mano del padre, che la tradizione vuole incenerito subito dopo da un fulmine. Sempre la tradizione racconta che durante la tortura le verghe con la quale il padre la picchiava si trasformarono in piume di pavone, per cui la santa viene talvolta raffigurata con questo simbolo. È invocata come protettrice contro i fulmini e la morte improvvisa e protettrice degli artificeri, artiglieri, minatori, vigili del fuoco e carpentieri.
Santa Barbara nacque a Nicomedia (oggi Ismit o Kocael in Turchia) nel 273 d.C.. La sua vita riservata, intenta allo studio, al lavoro e alla preghiera la definì come ragazza barbara, cioè non romana. Era una denominazione di disprezzo. E’ questo il nome a noi pervenuto da quello suo proprio. Tra il 286-287 Santa Barbara si trasferì presso la villa rustica di Scandriglia poiché il padre Dioscoro, fanatico pagano, era un collaboratore dell’imperatore Massimiano Erculeo. Quest’ultimo gli aveva donato ricchi e vasti possedimenti in Sabina. Dioscoro fece costruire una torre per difendere e proteggere Barbara durante le sue assenze. Il progetto originario prevedeva due finestre che diventarono tre (in riferimento alla Croce) secondo il desiderio della ragazza. Fu costruita anche una bellissima vasca a forma di Croce. Sia la finestra che la vasca non erano altro che i simboli del cristianesimo a cui la ragazza si era convertita. La tradizione afferma che proprio nella vasca Barbara ricevette il battesimo per la visione di San Giovanni Battista. La manifestazione di fede di Barbara provocò l’ira di Dioscoro; essa allora per sfuggire a quest’ultimo si nascose nel bosco dopo aver danneggiato gran parte degli dei pagani della sua villa. La tradizione popolare scandrigliese afferma che essa si rifugiava in una nicchia scavata all’interno di una roccia (dicitura indicata come riparo di Santa Barbara in località « le scalelle ») e fu trovata per la delazione di un pastore lì presente. Dioscoro la consegnò al prefetto Marciano con la denuncia di empietà verso gli dei e di adesione alla religione cristiana. Durante il processo che iniziò il 2 dicembre 290 Barbara difese il proprio credo ed esortò Dioscoro, il prefetto ed i presenti a ripudiare la religione pagana per abbracciare la Fede Cristiana: fu così torturata e graffiata mentre cantava le lodi al Signore. Il giorno dopo aumentarono i tormenti mentre la Santa sopportava ogni prova col fuoco. Il 4 dicembre letta la sentenza di morte Dioscoro prese la treccia dei capelli e vibrò il colpo di spada per decapitarla. Insieme a Santa Barbara subì il martirio la sua amica Santa Giuliana, questo avvenne nella zona campestre indicata nei codici antichi con una espressione generica « ad aram solis » o « in loco solis » (denominazione della zona costa del sole oggi denominata Santa Barbara). Il cielo si oscurò e un fulmine colpì Dioscoro. La tradizione scandrigliese invoca la Santa contro i fulmini, il fuoco, la morte improvvisa, il pericolo ecc. La tradizione inoltre affermava che la treccia di Santa Barbara fosse visibile all’innocenza dei bambini alla sorgente omonima. Il nobile Valenzano curò la sepoltura del corpo della Santa presso una fonte (sorgente di Santa Barbara) che diventò una meta di pellegrinaggio per l’acqua miracolosa. Quando l’imperatore Costantino nel 313 consentì di rendere un culto esterno ai martiri, i fedeli ornarono il sepolcro e di seguito vi costruirono un oratorio (che si ritiene del VI secolo). Nel secolo IX decadde dal suo primitivo splendore e nel secolo X si poteva considerare abbandonato a seguito dell’invasione saracena. Passata l’invasione attorno all’anno 1000 fu eretta una chiesa completamente rifatta che esiste ancora oggi. Tra il 955 ed il 969 i reatini organizzarono una spedizione a Scandriglia (che oggi si trova in provincia di Rieti) e dopo varie ricerche trovarono il suo corpo. Fu sottratto ai ricercatori di corpi santi e portato al sicuro nella Cattedrale di Rieti dove ancora oggi riposa sotto l’altare maggiore. Santa Barbara è la patrona di Scandriglia e di Rieti.

[ Testo di Andrea Del Vescovo]
   
Il corpo di Santa Barbara si venera, dal 1009, nella chiesa veneziana di S. Giovanni Battista a Torcello. La reliquia del cranio era custodita, prima in un busto di legno poi in uno di metallo, nella chiesa di S. Barbara dei Librari. Con la soppressione della parrocchia di S. Barbara, avvenuta il 15 settembre 1594, l’insigne reliquia fu portata a San Lorenzo in Damaso. Il reliquiario parte in argento, parte argento e bronzo dorato, è da attribuirsi alla prima metà del XVI secolo. Il Diario Romano (1926) indica a S. Maria in Traspontina, nell’altare a lei dedicato, un frammento di un braccio. Alcune reliquie non insigni di S. Barbara sono conservate, in un cofanetto del XII secolo, nel Tesoro di S. Giovanni in Laterano.

[ Tratto dall'opera «Reliquie Insigni e "Corpi Santi" a Roma» di Giovanni Sicari - Foto di G. Sicari]

Publié dans:SANTI, Santi - biografia |on 4 décembre, 2011 |Pas de commentaires »
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