Archive pour la catégorie 'SANTI MARTIRI – DEI MARTIRI METTO TUTTO'

31 OTTOBRE: QUINTINO DI VERMAND MARTIRE

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31 OTTOBRE: QUINTINO DI VERMAND

(… – Augusta Viromanduorum (l’attuale Saint-Quentin), 287) fu un santo di origine romana, che subì il martirio in Gallia.
Di questo santo esistono pochissime testimonianze storiche, per cui risulta difficoltoso ricostruirne la vita e le opere. Secondo la sua agiografia era un cittadino romano, forse figlio di un senatore di nome Zeno e fu martirizzato in Gallia dove si era recato in compagnia di san Luciano di Beauvais. Giunto ad Amiens iniziò ivi a predicare il Vangelo ma venne incarcerato per questo per volere del prefetto romano Riziovaro, nominato dall’imperatore Massimiano ed accanito persecutore dei Cristiani.

Sempre secondo la leggenda Quintino venne incatenato e torturato ripetutamente per indurlo a ripudiare la sua fede cristiana, ma senza successo. Fu così che il prefetto Riziovaro si trasferì a Reims, capitale della Gallia Belgica, dove ordinò venisse portato anche Quintino affinché venisse sottoposto a giudizio. Tuttavia, durante il viaggio, nei pressi di una località chiamata Augusta Veromanduorum (l’attuale Saint-Quentin), Quintino riuscì miracolosamente a fuggire e a proseguire la sua opera di evangelizzazione. Tuttavia, non datosi per vinto, Riziovaro lo fece catturare nuovamente e, dopo averlo torturato, lo fece decapitare e gettare i suoi resti nelle paludi della Somme.
Secondo la leggenda, cinquantacinque anni dopo, una donna affetta da cecità, di famiglia patrizia, giunse nel luogo dove era stato gettato il corpo di Quintino, seguendo una ispirazione divina e miracolosamente ritrovò i resti del santo che emersero dall’acqua della palude emanando un « odore di santità ». Ella seppellì il suo corpo sulla sommità di un monte e vi eresse una piccola cappella per proteggere la sepoltura, e, fatto ciò, recuperò miracolosamente la vista.

26 SETTEMBRE: SS COSMA E DAMIANO

http://www.preghiereagesuemaria.it/santiebeati/santi%20cosma%20e%20damiano.htm

26 SETTEMBRE: SS COSMA E DAMIANO

I due santi gemelli, che erano medici a Egea in Cilicia, dove vennero martirizzati nel IV secolo, sono considerati patroni dei medici e dei chirurghi, ma anche dei farmacisti e dei barbieri oltre ad essere invocati come risanatori di ogni male.

 Nel VI secolo i santi Cosma e Damiano erano così popolari a Roma che la regina dei Goti Amalasunta donò a papa Felice IV (526-530) una delle due biblioteche poste ai lati del tempio della Pace e il tempio roton­do dei Penati perché si costruisse il santuario in onore dei due taumaturghi considerati i patroni dei medici. Nello stesso periodo la loro basili­ca di Costantinopoli era un santuario nazionale in cui accorrevano cen­tinaia di malati che passavano la notte in chiesa secondo il rito dell’incubazione: durante il sonno i due santi venivano a curarli, consi­gliando loro un medicamento oppure applicando un impacco compo­sto di olio e cera o addirittura operandoli come chirurghi. Non diversamente si comportavano i pagani che chiedevano la guarigione al dio Asclepio – Esculapio in latino – oppure a Iside, a Serapide, ai gemelli Castore e Polluce. Sicché si è osservato che la straordinaria popolarità dei due martiri della Cilicia è dovuta al ruolo di guaritori che ereditarono dai gentili se­condo un’accorta regia della Chiesa che si preoccupava di cristianizzare tradizioni troppo radicate per essere cancellate senza traumi. Se si leg­gono le prime leggende sui miracoli dei due santi, si notano tante analo­gie con leggende precristiane. D’altronde straordinariamente simili sono gli ex voto, le tavole su cui era narrata la guarigione a lode e ringra­ziamento della divinità. Secondo la maggior parte delle fonti si può ragionevolmente sostenere che Cosma e Damiano erano medici a Egea, in Cilicia, dove oltre a curare convertirono al cristianesimo molte persone fino a meritare il martirio durante la persecuzione di Diocleziano. Da quella cittadina, che era un centro importante del culto ad Asclepio insieme con Epidau­ro e Pergamo, si irradiò la loro fama in tutto l’Oriente. Le reliquie vennero traslate a Kyros, in Siria, dove nel VI secolo Giustiniano, gua­rito da una gravissima malattia per loro intercessione, ricostrui la basilica dov’erano sepolti e da dove furono traslati a Roma in epoca imprecisata. Secondo la tradizione erano fratelli gemelli, come Castore e Polluce, e di origine araba: chi dice immigrati in Cilicia, chi invece nati in una famiglia che faceva parte di una colonia arabo-cristiana. Quanto al significato dei nomi, Kosmos in greco era un ipocoristico di nome composto il cui secondo termine era formato da k6smios, ornato, bene ordinato; e ipocoristico era pure Damianos, derivato da un composto il cui secondo termine era -damas, da damezein, domare. Come è sempre successo quando il nucleo della venerazione è di tipo rituale, fiorirono su di loro tante leggende, raccolte in due Passiones e poi nel medioevo nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine, che ispi­rarono un’iconografia tra le più ricche dell’Occidente, specie in Italia, Francia e Germania. È in Italia, nella basilica romana dei Santi Cosma e Damiano, la più antica rappresentazione dei due medici detti anargiri, cioè «senza denaro» perché secondo la tradizione praticavano la medi­cina senza chiedere compensi; un comportamento che corrispondeva fra l’altro a un’esortazione di Esculapio ai medici («Darete delle cure gratuitamente, se c’è da soccorrere un povero o uno straniero, perché dove c’è l’amore degli uomini c’è l’amore dell’arte») ed era consono all’insegnamento cristiano. Nel mosaico absidale del VI secolo, dove campeggia il Cristo come giudice, si vede a sinistra Pietro che in veste bianca accompagna Cosma con il borsello da medico al braccio e sulle mani la corona d’alloro dei martiri mentre sulla destra è Paolo ad accompagnare Damiano simile al fratello: entrambi barbati e baffuti. Ai lati estremi della scena appaiono a sinistra papa Felice IV con il modellino della basilica in mano e a de­stra il soldato san Teodoro, allora molto popolare perché fmo al IX se­colo era l’unico martire militare universalmente venerato e lo si conside­rava il patrono dell’esercito bizantino. Nella basilica romana vi è anche un ciclo di affreschi barocchi attri­huiti a Tullio Montagna e Simone Lagi, che narrano alcuni episodi leg­gendari della loro vita. Ma dei tanti mirabolanti miracoli soltanto due sono rappresentati: la guarigione di un dromedario e quella di una donna emorroissa, Palladia. Gli altri quadri rappresentano alcuni epi­sodi del martirio ordinato dal prefetto Lisia dopo che i due medici si fu­rono rifiutati di sacrificare agli dei: subite varie torture, fra cui la flagel­lazione, Cosma e Damiano vengono gettati dall’alto di una rupe in mare con un pesante macigno al collo, ma gli angeli li sorreggono sulle onde e li riportano a riva. Allora Lisia li condanna al rogo ma le fiamme evitano persino di lambirli, anzi assalgono i carnefici. Manca in questo ciclo l’e­pisodio delle frecce che, scoccate dagli arcieri sui due martiri legati nudi alle croci, non solo non li colpiscono ma come boomerang si ritorcono contro i soldati. E manca anche la lapidazione fallita, perché le pietre si comportano come le frecce. Esasperato dai loro portenti, Lisia li fa infine decapitare mentre da una nube si affaccia un angioletto con la simbolica palma. Questa scena, insieme con il seppellimento, conclude il ciclo sulle pareti mentre sul soffitto la Gloria dei martiri, che alcuni storici dell’arte attrihuiscono a Benedetto Cesari e altri a Montagna e Lagi, celebra la loro comunione divina. Nella basilica inferiore, ricavata nel XVII secolo quando venne rial­zato di sette metri il pavimento di quella attuale, è rimasto l’antico altare alabastrino nel cui pozzetto si conservano le reliquie dei santi Co­sma e Damiano traslate al tempo di san Gregorio Magno (590.604). Ma secondo un’altra tradizione – tedesca – le reliquie sarebbero state tra­slate nel IX secolo da sant’Alfredo nel Duomo di Hildesheim e, dopo una serie di spostamenti, prima a Brema e poi a Bamberga, sarebbero giunte nel XVI secolo, per ordine di Massimlliano Il, nella chiesa di San Michele di Monaco. Nel ciclo della basilica romana è dipinta anche la scena di Lisia che li condanna alle torture. Il Beato Angelico invece ha rappresentato l’interrogatorio non solo di Cosma e Damiano, ma anche degli altri tre loro fratelli, Antimo, Leonzio ed Euprepio, ricordati nella Passio araba e nella Leggenda Aurea. Ispirandosi a quest’ultima il frate dipinse fra gli altri l’e­pisodio di Palladia che, guarita da un inarrestabile flusso di sangue, offrì loro un modestissimo regalo: tre uova, che i santi rifiutarono. Allora la donna, preso da parte Damiano, lo scongiurò in nome del Cristo di ac­cettare quel piccolo omaggio; e il medico lo prese per non dare l’impressione di spregiare il nome del Cristo. Quando il fratello lo venne a sa­pere si adirò a tal punto che ordinò pubblicamente di non seppellirlo nello stesso sepolcro con Damiano. In un’altra scena è rappresentato il funerale col miracolo del dromedario che cominciò a parlare dicendo di seppellire tutti e cinque i fratelli insieme perché il Cristo aveva piena­mente scagionato Damiano. Il Beato Angelico, su impulso dei Medici che avevano eletto Cosma e Damiano loro patroni per l’omonimia del cognome della famiglia con la loro professione, dipinse più di una ventina di episodi sia nella pala di San Vincenzo di Annalena, commissionata espressamente da Cosimo, sia nell’altra pala di San Marco: fra questi il primo trapianto, pur leggen­dario, di una gamba che la storia conosca. Narra la Leggenda Aurea che il guardiano della basilica romana aveva la gamba rosa da un orribile can­cro. Ma una notte gli apparvero i due santi martiri con unguenti e un coltello in mano. Disse un fratello: «Dove possiamo prendere una gamba sana da applicare al posto di questa imputridita?». E l’altro ri­spose: «Oggi nel cimitero di San Pietro in Vincoli è stato sepolto un etiope; prendiamogli una gamba e mettiamola al nostro devoto. Quando il guardiano si svegliò si accorse di essere perfettamente gua­rito, sebbene la gamba non fosse più bianca ma nera. La Leggenda Aurea narra un altro episodio leggendario, dipinto invece dal Tintoretto a San Giorgio Maggiore di Venezia: un giorno un contadino, dopo aver falciato il grano, si addormentò nel campo a bocca aperta. Una serpe ne approfittò per entrare nello stomaco. Al ri­sveglio il contadino non sentì nessun dolore; ma alla sera cominciò a soffrire le pene dell’inferno fino a quando ebbe la felice idea di invocare i santi Cosma e Damiano. Poi si recò alla loro chiesa dove cadde in un sonno profondo: e la serpe gli uscì dallo stomaco. Col rinascimento l’iconografia di Cosma e Damiano si arricchì di nuovi attributi oltre a quello tradizionale del borsello per le medicine, che poteva essere ovale o rettangolare: veste di panno rosso, come quella dei medici dell’epoca, ampio mantello foderato di vaio, cappuccio o berretto cilindrico; in mano gli strumenti della professione, come la cassetta da chirurgo, il mortaio da farmacia, la scatola di unguenti, la spatola, il vaso per le urine. Ormai i due santi gemelli erano considerati i risanatori di ogni male, specie di quelli dei reni e della gola. Non soltanto i medici e i chirurghi li veneravano come patroni, ma anche i farmacisti perché le due professioni si erano differenziate molto tardi, soltanto verso l’XI Secolo. I farmacisti prediligevano Damiano, tant’è vero che lo facevano raffigurare come uno di loro. Anche i barbieri, che praticavano nel medioevo la medicina minore, li elessero a loro patroni: il Collegio dei parrucchieri e Barbieri di Roma, nato a Roma nel 1243, si chiamò infatti Compagnia dei santi Cosma e Damiano. A sua volta la facoltà di medicina di Bolo­gna volle sul proprio gonfalone e sul Sigillum magnum l’effigie dei santi Cosma e Damiano. In Italia si moltiplicarono le chiese in loro onore: a Roma le più anti­che avevano un ospizio per i malati dove i Benedettini o i Basiliani pre­stavano la loro opera caritatevole, come per esempio nell’Oratorio dei Santi Cosma e Damiano in xenodochio Tuscio, presso il Laterano. Oggi i santuari più importanti, oltre alla basilica romana, sono quelli di Alberobello, di Bitonto, di Gaeta, di Isernia, che conserva due reliquie ed è visitato da interminabili carovane di pellegrini, di Matera, di Oria, nei pressi di Brindisi, di Ravello e infine di Anela, in provincia di Sassari. Secondo il nuovo calendario romano generale la loro festa cade in Occidente il 26 settembre mentre una volta era al 27, considerato il giorno commemorativo della dedicazione della basilica a loro intitolata nel Foro Romano.

PREGHIERA
O Gloriosi Santi Cosma e Damiano, Voi, dopo una vita ripiena di opere di misericordia verso gli ammalati, genero­samente affrontaste i tormenti e sparge­ste il sangue in testimonianza di fede e di amore a Gesù Cristo. Per questo la Chiesa Vi onora come Martiri, si rallegra della vostra gloria e invoca il vostro aiuto nei mali dai quali siamo angustiati e oppressi. E noi siamo venuti qui, nel vostro Santuario, per venerare le vostre insigni reliquie e per implorare il vostro efficace aiuto. O Santi Cosma e Damiano, Voi siete fratelli: accendete in noi l’amore fraterno. Voi siete martiri: accrescete in noi la fede e l’amore al Signore. Voi siete medici potenti e pietosi: venite in nostro soccorso, guariteci dai mali dell’anima e dalle malattie del corpo, e confortateci sempre con la vostra bontà, con la vostra preghiera per noi e con la conti­nua e compassionevole vostra protezio­ne. Amen.

20 SETTEMBRE , MEMORIA: MARTIRI COREANI, “ESEMPIO PERFETTO ” DELL’AMORE A CRISTO E AI FRATELLI

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20 SETTEMBRE , MEMORIA:  MARTIRI COREANI, “ESEMPIO PERFETTO ” DELL’AMORE A CRISTO E AI FRATELLI

I vescovi coreani spingono i fedeli a conoscere la vita dei 103 martiri, canonizzati da Giovanni Paolo II e morti durante le persecuzioni anti-cristiane che hanno scosso il Paese per più di un secolo. Il loro sangue “ha fatto sbocciare i semi piantati da Dio in Corea”.

Seoul (AsiaNews) – La Chiesa universale e quella coreana “hanno bisogno della testimonianza dei martiri, oggi più che mai. Si tratta di una testimonianza perfetta ed eterna che spiega il bisogno di Cristo nelle nostre vite e l’amore che proviamo per i nostri fratelli. Ecco perché è importante ricordare chi sono stati e cosa hanno fatto, in vita, i martiri di ogni Paese. Ecco perché pubblichiamo le vite dei martiri coreani”. Sono le parole con cui la Conferenza episcopale coreana presenta una nuova iniziativa: le biografie dei 103 Santi martiri canonizzati da Giovanni Paolo II. Riportiamo di seguito il testo completo dell’introduzione.
 I 103 Santi martiri della Corea sono stati canonizzati da Giovanni Paolo II nel corso di una cerimonia che si è svolta il 6 maggio 1984 nella piazza Yoido di Seoul. Come disse in quell’occasione il defunto pontefice, “dal trentenne Pietro Yu Tae-chol al settantaduenne Mark Cong; maschi e femmine; sacerdoti e laici; ricchi e poveri; persone ordinarie e nobili; tutti sono stati felici di morire per testimoniare Cristo. I Santi martiri coreani hanno voluto testimoniare il Cristo crocifisso e risorto.
 Attraverso il sacrificio delle loro vite sono divenuti simili al Salvatore. Beati coloro che vengono perseguitati a causa della giustizia, perché loro è il Regno dei Cieli (Mt, 5;10). La verità di queste parole pronunciate da Gesù, la verità delle Beatitudine è manifestata dall’eroica testimonianza di questi martiri coreani”. È per questo che presentiamo il breve riassunto delle loro vite (v. http://english.cbck.or.kr/?mid=Saints103&page=2&document_srl=413), le stesse che sono state presentate alla cerimonia della loro canonizzazione. Dio, che vuole la salvezza di tutti i popoli, ha piantato i semi della fede cattolica in Corea in maniera egregia: quei semi sono sbocciati.
 La comunità cristiana ha iniziato il suo cammino quando Yi Sung-hun ha deciso di studiare da solo la dottrina cristiana: viene battezzato con il nome di Pietro nel 1784. All’inizio, proprio a causa della loro fede in Dio, i primi cristiani della Corea sono stati perseguitati in maniere diverse: rinnegati dalle loro famiglie, sono stati costretti a rinunciare non soltanto al loro rango sociale ma persino ai loro diritti umani fondamentali. Eppure, nonostante queste persecuzioni, la fede ha continuato a diffondersi. La comunità cristiana della Corea, nata senza alcun sacerdote, ha avuto la gioia di avere due pastori che provenivano dalla Cina.
 Ma il loro ministero è stato breve, e sono passati altri 40 anni prima che la Società per le missioni estere di Parigi iniziasse a lavorare anche qui. Il padre Mauban ha messo piede in Corea nel 1836, accolto da una comunità cristiana che desiderava ardentemente la grazia dei sacramenti. Prima di questo arrivo una delegazione era stata scelta e inviata a Pechino a piedi, oltre 750 miglia, per chiedere al vescovo con le lacrime agli occhi di inviare anche in Corea dei sacerdoti. Lo stesso appello era stato inviato al Santo Padre, a Roma.
 Bisognava considerare i seri rischi che pendevano sulla testa di quei missionari che avessero scelto di vivere nel Paese: i vescovi e i sacerdoti che scelsero di affrontare questo pericolo, così come i laici che li hanno aiutati e spesso difeso, hanno vissuto nel pericolo costante di morire. Insieme ai loro pastori spirituali si sono uniti uomini e donne, giovani e anziani, colti e analfabeti: nessuna distinzione di classe sociale. Tutti uniti dalla fede comune e dal desiderio di testimoniare la chiamata di Dio a tutti i popoli, senza eccezioni, per poter vivere la perfezione della vita. I primi missionari stranieri ad abbracciare per l’amore del Signore una cultura differente sono stati mons. Lauren Imbert e altri dieci sacerdoti francesi del Mep.
 Di giorno erano costretti a nascondersi, ma di notte viaggiavano a piedi per rispondere ai bisogni spirituali dei fedeli e amministrare loro i sacramenti. Il primo sacerdote coreano fu Andrea Kim Tae-gon: spinto dall’amore di Dio e dal desiderio di aiutare i suoi confratelli nella fede, decise di vivere i pericoli di un missionario nella sua stessa patria. Tanto che, tredici mesi dopo la sua ordinazione, venne messo a morte a 26 anni. Con l’olio della consacrazione ancora fresco sulle sue mani. Paolo Chong Ha-sang, Agostino Yu Chin-gil e Carlo Cho Shin-chol fecero diverse altre visite a Pechino, per trovare un modo di portare in Corea altri missionari; dalle persecuzioni del 1801, infatti, nessun sacerdote si prendeva cura della comunità.
 Fra i martiri che onoriamo vi erano quindici vergini; fra queste ricordiamo le due sorelle Agnese e Colomba Kim Hyo-ju, che “hanno amato Gesù con cuore unico” (I Cor. 7, 32-34). Queste donne, un un’epoca in cui la vita religiosa era una realtà sconosciuta per la Corea, hanno vissuto in comunità prendendosi cura degli ammalati e dei poveri. Allo stesso modo, Giovanni Yi Kwang-hyol è morto martire dopo una vita passata nel celibato, in una sorta di servizio consacrato alla Chiesa.
 Nelle persecuzioni anti-cristiane che hanno attraversato la Corea per più di un secolo sono morti circa 10mila martiri. Di questi, 79 sono stati beatificati nel 1925, altri 34 martiri sono stati beatificati nel 1968. Tutti insieme, per volontà della Chiesa, sono stati canonizzati sulle rive del fiume Han, da dove si vedono i loro santuari. Lì dove riposano, nella loro ricompensa eterna.

19 SETTEMBRE: SAN GENNARO

http://it.wikipedia.org/wiki/San_Gennaro

(traggo la biografia da Wikipedia perchè non ci sono molte notizie, o, perlomeno, che non mi sembrano sicure)

19 SETTEMBRE: SAN GENNARO

VESCOVO E MARTIRE

Nascita Benevento o Caroniti, 272
Morte Pozzuoli, 19 settembre 305
Venerato da Chiesa cattolica
Santuario principale Duomo di Napoli
Ricorrenza 19 settembre

Il nome Gennaro è molto diffuso in Campania e risale al latino « Ianuarius » che significa « consacrato al dio Giano » ed era in genere attribuito ai bambini nati a gennaio (Ianuarius), mese sacro al dio.
In realtà, poiché san Gennaro appartenne alla gens Ianuaria, non era il suo nome, che secondo la tradizione era Procolo, ma il gentilizio corrispondente e cioè l’attuale cognome.

Storia
Convenzionalmente si crede che Gennaro sia nato verso l’anno 272. Sul luogo esistono molte tradizioni, di cui la prima lo vuole nato a Benevento, città di cui sarà vescovo, dove la pietà popolare individua a tutt’oggi la sua casa natale in dei ruderi romani siti nella via ad egli intitolata. In mancanza di prove certe è ovviamente impossibile risalire alla verità storica.
Vicende del santo
Il fatto che portò alla consacrazione di Gennaro sarebbe avvenuto all’inizio del IV secolo, durante la persecuzione dei cristiani da parte dell’imperatore Diocleziano.
Gennaro era il vescovo di Benevento e si recò insieme al lettore Desiderio e al diacono Festo in visita ai fedeli a Pozzuoli. Il diacono di Miseno Sossio – già amico di Gennaro che lo era venuto a trovare in passato a Miseno per discutere di fede e leggi divine – volendo recarsi ad assistere alla visita pastorale, fu invece arrestato lungo la strada per ordine del persecutore Dragonzio, governatore della Campania. Gennaro insieme a Festo e Desiderio si recò allora in visita dal prigioniero, ma, avendo intercesso per la sua liberazione ed avendo fatto professione di fede cristiana, furono anch’essi arrestati e da Dragonzio condannati ad essere sbranati dai leoni nell’anfiteatro di Pozzuoli. Il giorno dopo, tuttavia, per l’assenza del governatore stesso, impegnato altrove o, secondo altri, perché si era accorto che il popolo dimostrava simpatia verso i condannati e quindi per evitare disordini, il supplizio fu sospeso. Secondo la tradizione invece, il supplizio fu mutato per l’avvenimento di un miracolo, infatti, le fiere si inginocchiarono al cospetto dei sette condannati, dopo una benedizione fatta da Gennaro.
Dragonzio comandò allora che a Gennaro e ai suoi compagni venisse troncata la testa. Condotti nei pressi del Forum Vulcani (l’attuale Solfatara di Pozzuoli), essi furono decapitati nell’anno 305. La stessa sorte toccò anche a Procolo, diacono della chiesa di Pozzuoli, e ai due laici Eutiche e Acuzio che avevano osato criticare la sentenza di morte per i quattro. Gli Atti affermano che nel luogo del supplizio sorse una chiesa in ricordo del loro martirio, mentre il corpo di Gennaro sarebbe stato sepolto nell’Agro Marciano[1] e solo nel V secolo traslato dal duca-vescovo di Napoli Giovanni I nelle Catacombe di San Gennaro.
Negli Atti Vaticani si narrano molti altri episodi mitici. I più conosciuti narrano di Gennaro e dei suoi compagni che si sarebbero recati a Nola, dove avrebbero incontrato il perfido giudice Timoteo. Questi, avendo sorpreso Gennaro mentre faceva proselitismo, lo avrebbe imprigionato e torturato. Poiché le tremende torture inflittegli non sortivano effetto, lo avrebbe infine gettato in una fornace ardente; una volta riaperta la fornace, non solo Gennaro vi uscì illeso e senza che neppure le sue vesti fossero state minimamente intaccate dal fuoco, ma le fiamme investirono i pagani venuti ad assistere al supplizio[2]. Caduto malato e nonostante fosse guarito da Gennaro, Timoteo non mostrò alcuna gratitudine ma lo fece condurre all’anfiteatro di Pozzuoli affinché fosse sbranato dalle fiere. Per questi racconti è chiara la derivazione dalla Bibbia, in modo particolare dal Libro del profeta Daniele, a cui il redattore degli Atti Vaticani deve essersi ispirato.
Durante il cammino verso il luogo dell’esecuzione, situato presso la Solfatara, un mendicante chiese a Gennaro un lembo della sua veste, da conservare come reliquia. Gennaro rispose che, una volta eseguita la sentenza, avrebbe potuto prendere il fazzoletto con cui sarebbe stato bendato.
La tradizione vuole che, mentre il carnefice si preparava a vibrare il colpo mortale, Gennaro si fosse portato un dito alla gola per sistemarsi il fazzoletto. In quell’istante il carnefice calò la scure, recidendo anche il dito. Quella notte, Gennaro apparve in sogno a colui che era incaricato di portare via il corpo, invitandolo a raccogliere anche il dito.
Sempre secondo la tradizione, subito dopo la decapitazione sarebbe stato conservato del sangue, come era abitudine a quel tempo, raccolto da una pia donna di nome Eusebia che lo racchiuse in due ampolle; esse sono divenute un attributo iconografico tipico di san Gennaro. Il racconto della pia donna è tuttavia recente, e compare pubblicato per la prima volta solo nel 1579, nel volume del canonico napoletano Paolo Regio su « Le vite de’ sette Santi Protettori di Napoli ».
I vari ed interessanti testi agiografici (inni, carmi e lodi) in onore di san Gennaro e dei suoi compagni martiri si possono consultare nella Bibliotheca Sanctorum edita dalla Pontificia Università Lateranense nel 1965.

La datazione
Gli Atti Bolognesi indicano il 305 come l’anno del martirio.
Documenti liturgici molto antichi, come il calendario cartaginese (redatto poco dopo il 505) ed il Martirologio Geronimiano del V secolo assegnano come data del martirio di Gennaro e dei suoi compagni il 19 settembre; indicano invece nel 13 aprile la data della prima traslazione dei resti del santo. Anche in un altro martirologio risalente all’VIII secolo, redatto dal monaco inglese Beda, il 19 settembre viene indicato come data del martirio.
Nel calendario marmoreo di Napoli la data del 19 settembre viene indicata come « dies natalis » di San Gennaro.
Tutte queste fonti, e numerose altre ancora, attestano che la venerazione per San Gennaro ha origini antichissime che risalgono all’epoca del suo martirio o al più tardi a quella della prima traslazione delle sue spoglie, avvenuta nel V secolo.

Storia delle reliquie
Il duca e vescovo di Napoli Giovanni I trasportò fra il 413 e il 431 le reliquie del santo dall’Agro Marciano nella parte inferiore delle catacombe napoletane di Capodimonte, le quali assunsero così il nome del santo, e qui esse furono centro di vivissimo culto.
Il principe longobardo di Benevento Sicone I, assediando la città di Napoli nel 831, ne approfittò per impossessarsi dei resti mortali che, da lì portò nella sua città, sede episcopale. Le sante reliquie furono deposte nella cattedrale – che allora si chiamava Santa Maria di Gerusalemme – ove restarono fino al 1154. In quell’anno infatti, considerando che la città di Benevento non era più sicura, il normanno Guglielmo I il Malo provvide affinché esse venissero traslate nell’Abbazia di Montevergine.
A Montevergine però la devozione dei pellegrini che vi si recavano era rivolta soprattutto a San Guglielmo e alla popolarissima icona bizantina della Madonna chiamata « Mamma Schiavona », sicché di San Gennaro si perse ben presto la memoria e addirittura la cognizione del suo luogo di sepoltura. A Napoli invece rimaneva vivissimo il culto per San Gennaro, anche per la presenza delle altre sue reliquie: il capo e le ampolle con il suo sangue.
Carlo II d’Angiò dopo aver fatto eseguire dai maestri orafi francesi Stefano Godefroy, Guglielmo di Verdelay e Milet d’Auxerre un preziosissimo busto-reliquiario in argento dorato per contenere la testa e le ampolle con il sangue del santo, espose per la prima volta la reliquia alla pubblica venerazione nel 1305. Suo figlio Roberto d’Angiò invece fece realizzare la teca d’argento che custodisce le due ampolle del sangue. Tuttavia la liquefazione del sangue non è attestata prima del 17 agosto 1389, allorché il miracolo si compì durante una solenne processione intrapresa per una grave carestia.
Quando a Montevergine per merito del cardinale Giovanni di Aragona furono ritrovate le ossa di San Gennaro, collocate al di sotto dell’altare maggiore, la potente famiglia dei Carafa si impegnò, grazie soprattutto all’interessamento del cardinale Oliviero e con il sostegno di suo fratello l’arcivescovo napoletano Alessandro Carafa, affinché le reliquie tornassero a Napoli, la qual cosa avvenne nel 1497[3], non senza l’opposizione da parte dei monaci di Montevergine. Come degno luogo per ospitarle, il cardinale Oliviero Carafa fece costruire nel Duomo di Napoli, al di sotto dell’altare maggiore, una cripta d’eccezione in puro stile rinascimentale: la Cappella del Succorpo.
A seguito di una terribile pestilenza che imperversò a Napoli fra il 1526 ed il 1529, i napoletani fecero voto a San Gennaro di edificargli una nuova cappella all’interno del Duomo. Benché i lavori fossero iniziati solo nel 1608 e siano durati quasi quarant’anni, la sfolgorante e ricca Cappella del Tesoro di San Gennaro venne infine consacrata nel 1646. Al di sopra del suo splendido cancello realizzato da Cosimo Fanzago, figura l’iscrizione Divo Ianuario e fame bello peste ac Vesaevi igne miri ope sanguinis erepta Neapolis civi patr. vindici (« A San Gennaro, al cittadino salvatore della patria, Napoli salvata dalla fame, dalla guerra, dalla peste e dal fuoco del Vesuvio, per virtù del suo sangue miracoloso, consacra »). Nel 1633 la città di Napoli, sulla cappella del tesoro, nel suo Duomo scolpiva la sua riconoscenza con la seguente dedica: Divo Jannuario – Patriae, regnique praesentissimo tutelari – grata Neapolis.
Il 25 febbraio 1964 il cardinale arcivescovo Alfonso Castaldo fece la ricognizione canonica delle venerate reliquie: « Le ossa furono trovate ben custodite, in un’olla di forma ovoidale che reca incisa l’iscrizione calligrafica, Corpus Sancti Jannuarii Ben. E.P. » [4]. Una ricognizione scientifica eseguita il 7 marzo 1965 dal professore G. Lambertini stabilì che il personaggio a cui appartengono le ossa è da individuarsi in un uomo di età giovane (35 anni) di statura molto alta (1,90 m).[5]
Secondo la tradizione, il sangue di san Gennaro si sarebbe sciolto per la prima volta ai tempi di Costantino I, quando il vescovo Severo (secondo altri il vescovo Cosimo) trasferì le spoglie del santo dall’Agro Marciano, dove era stato sepolto, a Napoli. Durante il tragitto avrebbe incontrato la nutrice Eusebia con le ampolline del sangue del santo: alla presenza della testa, il sangue nelle ampolle si sarebbe sciolto.[6]
Storicamente, la prima notizia documentata dell’ampolla contenente la presunta reliquia del sangue di San Gennaro risale soltanto al 1389, come riportato nel Chronicon Siculum (ma dal testo si può dedurre che doveva avvenire già da molto tempo): nel corso delle manifestazioni per la festa dell’Assunta di quell’anno, vi fu l’esposizione pubblica delle ampolle contenenti il cosiddetto « sangue di San Gennaro ». Il 17 agosto 1389 vi fu una grandissima processione per assistere al miracolo: il liquido conservato nell’ampolla si era liquefatto « come se fosse sgorgato quel giorno stesso dal corpo del santo ». La cronaca dell’evento sembra suggerire che il fenomeno si verificasse allora per la prima volta. Del resto, la Cronaca di Partenope, precedente di qualche anno (1382), pur parlando di diversi « miraculi » attribuiti alla potenza di San Gennaro, non menziona mai una reliquia di sangue del martire.
Oggi le due ampolle, fissate all’interno di una piccola teca rotonda realizzata con una larga cornice in argento e provvista di un manico, sono conservate nella cassaforte dietro l’altare della Cappella del Tesoro di San Gennaro. Delle due ampolle, una è riempita per 3/4, mentre l’altra più alta è semivuota poiché parte del suo contenuto fu sottratto da re Carlo III di Borbone che lo portò con sé in Spagna. Tre volte l’anno (il sabato precedente la prima domenica di maggio e negli otto giorni successivi; il 19 settembre e per tutta l’ottava delle celebrazioni in onore del patrono, ed il 16 dicembre), durante una solenne cerimonia religiosa guidata dall’arcivescovo, i fedeli accorrono per assistere al miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro. La liquefazione del tessuto durante la cerimonia è ritenuto foriero di buoni auspici per la città; al contrario, si ritiene che la mancata liquefazione sia presagio di eventi fortemente negativi e drammatici per la città.
Un analogo fenomeno, anch’esso ritenuto miracoloso, si suppone che avvenga anche a Pozzuoli, dove, nella chiesa di San Gennaro presso la Solfatara, su di una lastra marmorea su cui si afferma che Gennaro fosse stato decapitato e che sia impregnata del suo sangue, ancora oggi c’è chi sostiene che delle tracce rosse diventino di colore più intenso e trasuderebbero in concomitanza con il miracolo più importante che avviene a Napoli.[7]
Secondo studi recenti però sembra che la pietra sia in realtà il frammento di un altare paleocristiano di due secoli posteriore alla morte del martire sul quale vi siano depositate tracce di vernice rossa e di cera e che il tutto sia solo frutto di una suggestione collettiva.[8]

Studi ed indagini scientifiche
A seguito del Concilio Vaticano II, la Chiesa apportò delle modifiche al calendario liturgico (che comprende solennità, feste, memorie obbligatorie e memorie facoltative) rendendo obbligatorie alcune memorie di santi e facoltative altre prima obbligatorie: così la memoria liturgica di San Gennaro (che sino ad allora era obbligatoria in tutta la Chiesa universale) fu trasformata in memoria facoltativa al di fuori dell’arcidiocesi di Napoli.
La Chiesa precisò che lo scioglimento del sangue di San Gennaro, pur essendo scientificamente inspiegabile, non obbliga i fedeli cattolici a prestare l’assenso della propria fede: tale evento venne definito come un fatto prodigioso e venne approvata la venerazione popolare, essendo impossibile, allo stato dell’attuale conoscenza dei fatti, un giudizio scientifico che spieghi il fenomeno della liquefazione.[9]
Una prima analisi spettroscopica sull’ampolla fu fatta dai professori Sperindeo e Januario (25 settembre 1902) e rivelò lo spettro dell’ossiemoglobina[10].
Tre ricercatori del CICAP (Luigi Garlaschelli, Franco Ramaccini, Sergio Della Sala) hanno fornito una prova scientifica sull’ottenibilità di uno « scioglimento » come quello che è alla base del cosiddetto « miracolo ». Lo spirito dell’indagine del CICAP non è stato quello di determinare la composizione della sostanza nell’ampolla, ma l’aver riprodotto i comportamenti più documentati della reliquia è servito a dimostrare che è possibile farlo e che era possibile anche all’epoca della sua comparsa, confutando così le affermazioni sull’irriproducibilità del suo comportamento o sull’impossibilità della scienza di spiegarlo. Il loro lavoro è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature (« Working bloody miracles »[11], 13 settembre 1991). Nell’articolo si avanza l’ipotesi secondo cui all’origine del cosiddetto « miracolo di San Gennaro » vi sia il fenomeno noto come tissotropia, la proprietà di alcuni materiali (detti appunto tissotropici) di diventare più fluidi se sottoposti a una sollecitazione meccanica, come piccole scosse o vibrazioni, e di tornare allo stato precedente se lasciati indisturbati (un esempio di questa proprietà è la salsa ketchup, che si può mostrare in uno stato quasi solido fino a quando delle scosse non la fanno diventare d’un tratto molto più liquida). È sensato formulare l’ipotesi tissotropica poiché, durante la cerimonia che precede lo scioglimento del sangue di San Gennaro, il sacerdote agita e muove l’ampolla tenendola con le mani, come sostenuto da Franco Ramaccini, CICAP[12].
I ricercatori hanno realizzato l’esperimento ottenendo una sostanza tissotropica, dal colore rosso sangue, con il solo utilizzo di sostanze e materiali reperibili all’epoca a cui risalirebbero le ampolle (fine Trecento):
cloruro ferrico, sotto forma di molisite, un minerale presente sul Vesuvio come in genere nelle zone vulcaniche;
carbonato di calcio, presente ovunque, per esempio nei gusci d’uovo, che ne sono una fonte pura al 93,7%;
cloruro di sodio, (o sale comune);
acqua
Secondo un articolo comparso sul web nel marzo 2005 a firma A. Ruggeri, il gel tissotropico ottenuto da Garlaschelli manteneva le sue proprietà tissotropiche per solo 2 anni, quindi non supererebbe il test dei diversi secoli cui invece è stato sottoposto il fluido presente nell’ampolla della teca San Gennaro[13].
Tuttavia Garlaschelli controbatte all’affermazione di Ruggeri: Circa la durata del nostro gel: Non mi sono mai preoccupato della stabilità nel tempo del gel stesso. So che alcuni campioni hanno resistito per dieci anni. Altri durano molto meno. Non ho mai trovato un esperto di colloidi che mi desse dei suggerimenti. Ma del resto, mi sono anche preoccupato poco, addirittura, di sigillare in modo perfetto i miei boccettini. [14]
All’indomani della pubblicazione dell’articolo del CICAP (pubblicato su quale rivista scientifica e quale impact factor?) l’ufficio stampa della curia di Napoli replicò con la seguente domanda: «Già, ma perché allora nel maggio 1976 il sangue non si sciolse affatto, malgrado otto giorni di attesa?».
In altre occasioni, al contrario, il fenomeno della liquefazione si era manifestato già prima dell’apertura della teca che custodisce le ampolle. Un analogo fenomeno avviene senza scuotimenti a Ravello in un’ampolla che contiene il sangue di san Pantaleone.
Alcune recenti analisi spettroscopiche sostengono che nelle ampolle conservate nel Duomo di Napoli sia presente emoglobina umana, anche se una risposta chiara sulla natura della sostanza potrebbe essere data solo da un’analisi diretta. Il CICAP ha espresso perplessità sul metodo con cui tali analisi sono state condotte:
« I risultati di quella spettroscopia non sono stati sottoposti al giudizio di referee di una rivista scientifica; la loro qualità, nella più favorevole delle ipotesi, richiede troppo il contributo dell’interpretazione di chi li osserva, per costituire un argomento convincente. Inesplicabilmente è stato impiegato uno spettrometro a prisma, invece di un moderno spettrometro elettronico. Più spettri, ottenuti a qualche minuto di distanza l’uno dall’altro vengono interpretati come rivelatori ognuno di un diverso derivato dell’emoglobina, e spiegati con un miracolo in progresso, mentre, si noti bene, la sostanza era da tempo in fase liquida, e non in liquefazione. »
([15])
Un esperimento condotto dal dipartimento di Biologia Molecolare dell’Università Federico II di Napoli su un’ampolla di sangue, una reliquia simile a quella conservata nel duomo, ha mostrato che essa contiene effettivamente sangue ed effettivamente può cambiare stato, ma che questa proprietà è posseduta, nelle stesse condizioni di conservazione, dal sangue di qualsiasi persona.[16]

29 AGOSTO : MARTIRIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA – DALLA LETTERA A DONATO DI SAN CIPRIANO DI CARTAGINE.

http://www.certosini.info/lezion/Santi/29%20agosto%20martirio%20di%20S.%20Giovanni%20Battista.htm

29 AGOSTO :    MARTIRIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA

DALLA LETTERA A DONATO DI SAN CIPRIANO DI CARTAGINE.
EPIST. I. AD DONATUM, 3-6. 14 . PL 4,198-205. 220-221.

    Un tempo io giacevo nelle tenebre di una notte buia; mi trovavo come sballottato sul mare del mondo che mi gettava in tutte le direzioni; incerto delle vie che mi si paravano innanzi, vagavo in balia di me stesso e non ero consapevole della mia vita.
    Lontano dalla verità e dalla luce, ritenevo che fosse davvero difficile e duro, per i miei sentimenti di quel periodo, ciò che la misericordia di Dio mi pro­metteva per portarmi alla salvezza.
    Reputavo fosse difficile poter nuovamente rinasce­re e deporre le abitudini precedenti, anche se il batte­simo nell’acqua della salvezza mi rinnovava a nuova vita. Stimavo ugualmente difficile che un uomo potesse cambiare la mente e l’animo senza mutare nel suo fisico.
    Continuavo a dirmi: “Come sarà possibile una conversione così grande da liberarmi tutto ad un tratto da ciò che fin dalla nascita si solidificò come quando si colloca del materiale e lo si ammucchia in depositi? Come sarà possibile liberarmi di quelle abitudini che ho indebitamente contratte?”.

   Spesso mi trovavo con questi pensieri. Ero legato dai moltissimi errori della mia vita passata e non crede­vo di potermene liberare. I vizi aderivano alla mia vita e io continuavo ad assecondarli. Non pensavo più di poter raggiungere i beni migliori; per questo favorivo ciò che mi nuoceva come se fosse qualcosa che ormai mi appartenesse e fosse cresciuto con me.
    Ma sopraggiunse l’aiuto dell’acqua che rigenera. La corruzione della vita precedente venne cancellata e dall’alto si diffuse una luce nel mio cuore purificato e mondo. Ricevetti dal cielo lo Spirito e attraverso una seconda nascita diventai un uomo nuovo.
    Dopo questo evento, ciò che era segnato dal dub­bio improvvisamente divenne, in modo che non saprei descrivere, una certezza; quello che era impenetrabile e pieno di tenebra mi apparve accessibile e luminoso.
    Potevo raggiungere quello che prima mi sembrava assurdo e fare quello che finora ritenevo impossibile. Avevo così la possibilità di capire come fosse terreno l’uomo di prima, nato dalla carne e schiavo dei vizi.

    Comprendevo che cominciava ad appartenere a Dio quello che lo Spirito Santo aveva già animato. Sai bene anche tu, e lo ammetti con me, ciò che questa morte del peccato, ciò che questa vita di virtù mi hanno rispettivamente tolto e donato. Lo sai e non insisto; è odioso lodare se stessi, anche se non può essere millanteria ma gratitudine ciò che attri­buiamo al dono di Dio e non alla nostra capacità umana. Infatti ammettiamo quale effetto della fede il non peccare, e quale effetto dell’errore umano il peccato.
    È opera di Dio, lo ripeto, è opera di Dio tutto ciò che noi possiamo. Da lui abbiamo la vita e il vigo­re; grazie alla capacità che ci dona, possiamo pregusta­re qualcosa dei beni futuri, anche se siamo ancora su questa terra. Ci deve essere solo il timore come custode della nostra innocenza, perché il Signore, che si è riversato nei nostri cuori con il tocco della sua bontà e del suo perdono celeste, si fermi nel nostro animo, allietato dalla buona ospitalità delle nostre opere sante.

    Se tu riesci a camminare con passo sicuro sulla via dell’innocenza e della salvezza, se tu, unito a Dio con tutte le forze e con tutto il cuore, rimani sempli­cemente quello che hai cominciato ad essere, ti sarà concessa possibilità di agire in proporzione di quanto crescerà in te la grazia dello Spirito.
    Nell’usufruire dei doni di Dio non vi è nessuna misura o limite, come invece accade per i benefici terreni. Lo Spirito si effonde abbondante e non viene costretto da confini, non è obbligato entro limiti, non viene frenato in spazi circoscritti. Lo Spirito scaturisce senza posa, fluisce traboccando; occorre solo che il nostro cuore abbia sete e si apra.
    Attingeremo l’abbondante grazia in proporzione della nostra capacità di fede. Dallo Spirito scende a noi la possibilità di vivere una vita sobria e casta, di avere sinceri pensieri e una parola altrettanto since­ra. Grazie allo Spirito possiamo superare vittoriosi i mortali veleni quando veniamo colpiti; da lui abbiamo la capacità di ritornare in salute e di eliminare le brutture del nostro animo quando sbagliamo.

    È lo Spirito che ci permette di far diventare paci­fici coloro che sono sconvolti dall’ira e dall’odio e di ridurre i violenti a mitezza. È lo Spirito che ci dona la forza di minacciare e umiliare gli spiriti immondi che si aggirano intorno e penetrano negli uomini per corromperli. Con lo Spirito possiamo sferzare terribilmente questi spiriti e costrin­gerli ad andarsene o abbatterli mentre oppongono resistenza, lamenti e gemiti, aumentandone le sofferen­ze. Con lo stesso Spirito li flagelliamo e li tormentiamo con il fuoco. È una battaglia che si combatte e non si vede: i colpi sono invisibili ma la pena è manifesta.
    Lo Spirito che abbiamo ricevuto agisce con la sua potenza, perché noi partecipiamo ad una vita nuova. Non abbiamo però ancora cambiato il corpo e le mem­bra; per questo la vista umana resta ancora nel buio, perché il sensibile si frappone come una nube.

    Che potenza spirituale, che forza è questa! Non solo sottrarsi ai contatti perniciosi del mondo, ma non lasciarsi più contagiare dalla corruttela del nemico che rinnova i suoi assalti, purificati come siamo. L’ani­mo si rinvigorisce e si rinsalda nelle proprie forze tanto da dominare imperiosamente tutto l’esercito del nemico che viene all’assalto.
    Perché gli effetti della presenza divina ti appaiano più luminosi, cercherò di illuminarti svelandoti la veri­tà. Dopo aver dissipato la caligine del male, ti mostrerò le tenebre che avvolgono il mondo.
    Immagina di essere sollevato su una delle cime più alte di un monte scosceso e di osservare da lassù le cose che si estendono ai tuoi piedi. Gira lo sguardo in diverse direzioni e contempla il turbinare che scon­volge il mondo, mentre tu sei libero da ogni contatto terreno.

    Avrai allora compassione per questo mondo e maggiormente consapevole della tua situazione, ne sarai tanto più riconoscente a Dio e con gioia più viva lo ringrazierai di esserne scampato. Osserva: le strade sono infestate da rapinatori, i pirati percorrono i mari, dappertutto l’orrore del sangue sparso e dei campi di guerra. Il mondo gronda di sangue fraterno: l’omici­dio, considerato un delitto quando è commesso dai singoli, diventa virtù se compiuto in nome dello stato! A questo livello, l’impunità non è garantita dall’innocen­za, ma dall’atrocità della ferocia.
    Esiste una sola tranquillità certa e serena, una sola sicurezza stabile su cui si possa contare: quella di chi si ritrae dal turbinio di questo mondo inquieto e, gettata per sempre l’ancora nel porto della salvezza, eleva lo sguardo dalla terra verso il cielo. Ammesso a godere del tesoro divino, tale uomo è ormai interiormente ac­canto al suo Dio. Si vanta di non avere più occhi per le cose terrene che ad altri appaiono grandi e sublimi.

    Chi è superiore al mondo non può ormai attendere o desiderare qualcosa dalla società mondana. Essere sciolto dai lacci del mondo circostante, purificato dalla feccia terrena sotto la luce dell’eterna immortali­tà, significa avere garantita una protezione continua e irreversibile e il sostegno celeste per giungere ai beni eterni.
    Allora ci si rende conto fino a che punto il nemico con i suoi attacchi tramava insidiosamente a nostra rovina. Così siamo spinti ad amare quel che saremo, tanto più che ci è possibile conoscere e condannare quello che eravamo. Non abbiamo bisogno per questo di denaro, di raggiri e di forza, come se si trattasse di procurarci una grandissima dignità. E’ dono di Dio gratuito e facile. Come spontaneamente il sole diffonde i suoi raggi, il giorno porta la luce, la fonte zampilla d’acqua, la pioggia irrora la terra, così lo Spirito celeste si diffonde in noi.
    Dopo che l’uomo si è rivolto verso il cielo e ha conosciuto il suo Creatore, si innalza sopra il sole e ogni potenza terrena, cominciando ad essere ciò che sa di essere.

10 AGOSTO: SAN LORENZO – DIACONO E MARTIRE – PATRONATO: CITTÀ DI ROMA

http://liturgia.silvestrini.org/santo/240.html

10 AGOSTO: SAN LORENZO – DIACONO E MARTIRE – PATRONATO: CITTÀ DI ROMA

BIOGRAFIA
Basilica di San Lorenzo in RomaMorto nel 258. La « Passione di san Lorenzo » fu scritta almeno un secolo dopo la sua morte, e di conseguenza non è attendibile. Essa afferma che san Lorenzo, uno dei diaconi di Sisto II, fu messo a morte tre giorni dopo il martirio del papa venendo arrostito su una graticola; la maggioranza degli studiosi moderni sostiene invece che fu decapitato come Sisto II. Lorenzo è però sempre stato tra i più celebri fra i numerosi martiri romani, sia in Oriente che in Occidente. Il suo martirio deve avere prodotto una profonda impressione nei cristiani romani; la sua morte, dice Prudenzio, fu la morte dell’idolatria a Roma, perché da allora essa cominciò a scomparire. Lorenzo fu sepolto sulla Via Tiburtina nel « Campus Veranus » dove sorge la omonima basilica.

MARTIROLOGIO
Festa di san Lorenzo, diacono e martire, che, desideroso, come riferisce san Leone Magno, di condividere la sorte di papa Sisto anche nel martirio, avuto l’odine di consegnare i tesori della Chiesa, mostrò al tiranno, prendendosene gioco, i poveri, che aveva nutrito e sfamato con dei beni elemosinati. Tre giorni dopo vinse le fiamme per la fede in Cristo e in onore del suo trionfo migrarono in cielo anche gli strumenti del martirio. IL suo corpo fu deposto a Roma nel cimitero del Verano, poi insignito del suo nome.

DAGLI SCRITTI…
1447-50.Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo
Fu ministro del sangue di Cristo

Oggi la chiesa di Roma celebra il giorno del trionfo di Lorenzo, giorno in cui egli rigettò il mondo del male. Lo calpestò quando incrudeliva rabbiosamente contro di lui e lo disprezzò quando lo allettava con le sue lusinghe. In un caso e nell’altro sconfisse satana che gli suscitava contro la persecuzione. San Lorenzo era diacono della chiesa di Roma. Ivi era ministro del sangue di Cristo e là, per il nome di Cristo, versò il suo sangue. Il beato apostolo Giovanni espose chiaramente il mistero della Cena del Signore, dicendo: «Come Cristo ha dato la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3, 16). Lorenzo, fratelli, ha compreso tutto questo. L’ha compreso e messo in pratica. E davvero contraccambio quanto aveva ricevuto in tale mensa. Amò Cristo nella sua vita, lo imitò nella sua morte.
Anche noi, fratelli, se davvero amiamo, imitiamo. Non potremmo, infatti, dare in cambio un frutto più squisito del nostro amore di quello consistente nell’imitazione del Cristo, che «patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme» (1 Pt 2, 21). Con questa frase sembra quasi che l’apostolo Pietro abbia voluto dire che Cristo patì solamente per coloro che seguono le sue orme, e che la passione di Cristo giova solo a coloro che lo seguono. I santi martiri lo hanno seguito fino all’effusione del sangue, fino a rassomigliarli nella passione. Lo hanno seguito i martiri, ma non essi soli. Infatti, dopo che essi passarono, non fu interrotto il ponte; né si é inaridita la sorgente, dopo che essi hanno bevuto.
Il bel giardino del Signore, o fratelli, possiede non solo le rose dei martiri, ma anche i gigli dei vergini, l’edera di quelli che vivono nel matrimonio, le viole delle vedove. Nessuna categoria di persone deve dubitare della propria chiamata: Cristo ha sofferto per tutti. Con tutta verità fu scritto di lui: «Egli vuole che tutti gli uomini siano salvati, e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2, 4). Dunque cerchiamo di capire in che modo, oltre all’effusione del sangue, oltre alla prova della passione, il cristiano debba seguire il Maestro. L’Apostolo, parlando di Cristo Signore, dice: «Egli, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio». Quale sublimità!
«Ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso» (Fil 2, 7-8). Quale abbassamento! Cristo si é umiliato: eccoti, o cristiano l’esempio da imitare. Cristo si é fatto ubbidiente: perché tu ti insuperbisci? Dopo aver percorso tutti i gradi di questo abbassamento, dopo aver vinto la morte, Cristo ascese al cielo: seguiamolo. Ascoltiamo l’Apostolo che dice: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio» (Col 3, 1).(Disc. 304, 14; PL 38, 1395-1397).

SANTA MESSA PER LA CANONIZZAZIONE DI EDITH STEIN – OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1998/documents/hf_jp-ii_hom_11101998_stein_it.html

SANTA MESSA PER LA CANONIZZAZIONE DI EDITH STEIN

OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II

Domenica, 11 ottobre 1998

1. Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (cfr Gal 6,14).

Le parole di San Paolo ai Galati, che poc’anzi abbiamo ascoltato, ben si addicono all’esperienza umana e spirituale di Teresa Benedetta della Croce, che oggi solennemente viene iscritta nell’albo dei santi. Anche lei può ripetere con l’Apostolo: Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo.
La croce di Cristo! Nella sua costante fioritura l’albero della Croce porta sempre rinnovati frutti di salvezza. Per questo, alla Croce guardano fiduciosi i credenti, traendo dal suo mistero di amore coraggio e vigore per camminare fedeli sulle orme di Cristo crocifisso e risorto. Il messaggio della Croce è così entrato nel cuore di tanti uomini e di tante donne cambiandone l’esistenza.
Un esempio eloquente di questo straordinario rinnovamento interiore è la vicenda spirituale di Edith Stein. Una giovane donna in cerca della verità, grazie al lavorio silenzioso della grazia divina, è diventata una santa ed una martire: è Teresa Benedetta della Croce, che quest’oggi dal cielo ripete a tutti noi le parole che hanno segnato la sua esistenza: « Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce di Gesù Cristo ».
2. Il primo maggio 1987, nel corso della mia visita pastorale in Germania, ho avuto la gioia di proclamare Beata, nella città di Colonia, questa generosa testimone della fede. Oggi, a undici anni di distanza, qui a Roma, in Piazza San Pietro, mi è dato di presentare solennemente come Santa davanti a tutto il mondo questa eminente figlia d’Israele e figlia fedele della Chiesa.
Come allora, così quest’oggi ci inchiniamo dinanzi alla memoria di Edith Stein, proclamando l’invitta testimonianza da lei resa durante la vita e soprattutto con la morte. Accanto a Teresa d’Avila ed a Teresa di Lisieux, quest’altra Teresa va a collocarsi fra lo stuolo di santi e sante che fanno onore all’Ordine carmelitano.
Carissimi Fratelli e Sorelle, che siete convenuti per questa solenne celebrazione, rendiamo gloria a Dio per l’opera da lui compiuta in Edith Stein.
3. Saluto i numerosi pellegrini venuti a Roma, con un particolare pensiero per i membri della famiglia Stein, che hanno voluto essere con noi per questa lieta circostanza. Un saluto cordiale va anche alla rappresentanza della Comunità carmelitana, la quale è diventata la « seconda famiglia » per Teresa Benedetta della Croce.
Rivolgo, poi, il mio benvenuto alla delegazione ufficiale della Repubblica Federale di Germania, guidata del Cancelliere Federale uscente, Helmut Kohl, che saluto con deferente cordialità. Saluto, inoltre, i rappresentanti dei Länder Nordrhein-Westfalen e Rheinland-Pfalz, come anche il Primo Sindaco della Città di Colonia.
Anche dalla mia patria è venuta una delegazione ufficiale guidata dal Primo Ministro Jerzy Buzek. Rivolgo ad essa un cordiale saluto.
Una speciale menzione voglio poi riservare ai pellegrini delle diocesi di Breslavia (Wroclaw), di Colonia, Münster, Spira, Kraków e Bielsko-Zywiec, presenti con i loro Vescovi e sacerdoti. Essi si uniscono alla numerosa schiera di fedeli venuti dalla Germania, dagli Stati Uniti d’America e dalla mia patria, la Polonia.
4. Cari Fratelli e Sorelle! Perché ebrea, Edith Stein fu deportata insieme con la sorella Rosa e molti altri ebrei dei Paesi Bassi nel campo di concentramento di Auschwitz, ove insieme con loro trovò la morte nelle camere a gas. Di tutti facciamo oggi memoria con profondo rispetto. Pochi giorni prima della sua deportazione la religiosa, a chi le offriva di fare qualcosa per salvarle la vita, aveva risposto: « Non lo fate! Perché io dovrei essere esclusa? La giustizia non sta forse nel fatto che io non tragga vantaggio dal mio battesimo? Se non posso condividere la sorte dei miei fratelli e sorelle, la mia vita è in un certo senso distrutta ».
Nel celebrare d’ora in poi la memoria della nuova Santa, non potremo non ricordare di anno in anno anche la Shoah, quel piano efferato di eliminazione di un popolo, che costò la vita a milioni di fratelli e sorelle ebrei. Il Signore faccia brillare il suo volto su di loro e conceda loro la pace (cfr Nm 6,25 s.).
Per amor di Dio e dell’uomo ancora una volta io levo un grido accorato: mai più si ripeta una simile iniziativa criminale per nessun gruppo etnico, nessun popolo, nessuna razza, in nessun angolo della terra! E’ un grido che rivolgo a tutti gli uomini e le donne di buona volontà; a tutti coloro che credono all’eterno e giusto Iddio; a tutti coloro che si sentono uniti in Cristo, Verbo di Dio incarnato. Tutti dobbiamo trovarci in questo solidali: è in gioco la dignità umana. Esiste una sola famiglia umana. Questo ha ribadito la nuova Santa con grande insistenza: « Il nostro amore verso il prossimo – scriveva – è la misura del nostro amore a Dio. Per i cristiani – e non solo per loro – nessuno è «straniero». L’amore di Cristo non conosce frontiere ».
5. Cari Fratelli e Sorelle! L’amore di Cristo fu il fuoco che incendiò la vita di Teresa Benedetta della Croce. Prima ancora di rendersene conto, essa ne fu completamente catturata. All’inizio il suo ideale fu la libertà. Per lungo tempo Edith Stein visse l’esperienza della ricerca. La sua mente non si stancò di investigare ed il suo cuore di sperare. Percorse il cammino arduo della filosofia con ardore appassionato ed alla fine fu premiata: conquistò la verità, anzi ne fu conquistata. Scoprì, infatti, che la verità aveva un nome: Gesù Cristo, e da quel momento il Verbo incarnato fu tutto per lei. Guardando da carmelitana a questo periodo della sua vita, scrisse ad una benedettina: « Chi cerca la verità, consapevolmente o inconsapevolmente cerca Dio ».
Pur essendo stata educata nella religione ebraica dalla madre, Edith Stein a quattordici anni « si era consapevolmente e di proposito disabituata alla preghiera ». Voleva contare solo su se stessa, preoccupata di affermare la propria libertà nelle scelte della vita. Alla fine del lungo cammino le fu dato di giungere ad una constatazione sorprendente: solo chi si lega all’amore di Cristo diventa veramente libero.
L’esperienza di questa donna, che ha affrontato le sfide di un secolo travagliato come il nostro, diventa esemplare per noi: il mondo moderno ostenta la porta allettante del permissivismo, ignorando la porta stretta del discernimento e della rinuncia. Mi rivolgo specialmente a voi, giovani cristiani, in particolare ai numerosi ministranti convenuti in questi giorni a Roma: guardatevi del concepire la vostra vita come una porta aperta a tutte le scelte! Ascoltate la voce del vostro cuore! Non restate alla superficie, ma andate al fondo delle cose! E quando sarà il momento, abbiate il coraggio di decidervi! Il Signore attende che voi mettiate la vostra libertà nelle sue mani misericordiose.
6. Santa Teresa Benedetta della Croce giunse a capire che l’amore di Cristo e la libertà dell’uomo s’intrecciano, perché l’amore e la verità hanno un intrinseco rapporto. La ricerca della verità e la sua traduzione nell’amore non le apparvero in contrasto; essa, anzi, capì che si richiamavano a vicenda.
Nel nostro tempo la verità viene scambiata spesso con l’opinione della maggioranza. Inoltre è diffusa la convinzione che ci si debba servire della verità anche contro l’amore o viceversa. Ma la verità e l’amore hanno bisogno l’una dell’altro. Suor Teresa Benedetta ne è testimone. La « martire per amore », che donò la sua vita per gli amici, non si fece superare da nessuno nell’amore. Allo stesso tempo ella cercò con tutta se stessa la verità, della quale scriveva: « Nessuna opera spirituale viene al mondo senza grandi travagli. Essa sfida sempre l’uomo intero ».
Suor Teresa Benedetta della Croce dice a noi tutti: Non accettate nulla come verità che sia privo di amore. E non accettate nulla come amore che sia privo di verità! L’uno senza l’altra diventa una menzogna distruttiva.
7. La nuova Santa ci insegna, infine, che l’amore per Cristo passa attraverso il dolore. Chi ama davvero non si arresta di fronte alla prospettiva della sofferenza: accetta la comunione nel dolore con la persona amata.
Consapevole di ciò che comportava la sua origine ebraica, Edith Stein ebbe al riguardo parole eloquenti: « Sotto la croce ho compreso la sorte del popolo di Dio… Infatti, oggi conosco molto meglio ciò che significa essere la sposa del Signore nel segno della Croce. Ma poiché è un mistero, con la sola ragione non potrà mai essere compreso ».
Il mistero della Croce pian piano avvolse tutta la sua vita, fino a spingerla verso l’offerta suprema. Come sposa sulla Croce, Suor Teresa Benedetta non scrisse soltanto pagine profonde sulla « scienza della croce », ma fece fino in fondo il cammino alla scuola della Croce. Molti nostri contemporanei vorrebbero far tacere la Croce. Ma niente è più eloquente della Croce messa a tacere! Il vero messaggio del dolore è una lezione d’amore. L’amore rende fecondo il dolore e il dolore approfondisce l’amore.
Attraverso l’esperienza della Croce, Edith Stein poté aprirsi un varco verso un nuovo incontro col Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Fede e croce le si rivelarono inseparabili. Maturata alla scuola della Croce, ella scoprì le radici alle quali era collegato l’albero della propria vita. Capì che era molto importante per lei « essere figlia del popolo eletto e di appartenere a Cristo non solo spiritualmente, ma anche per un legame di sangue ».

8. « Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità » (Gv 4,24).
Carissimi Fratelli e Sorelle, con queste parole il divino Maestro s’intrattenne con la Samaritana presso il pozzo di Giacobbe. Quanto egli donò alla sua occasionale ma attenta interlocutrice lo troviamo presente anche nella vita di Edith Stein, nella sua « salita al Monte Carmelo ». La profondità del mistero divino le si rese percettibile nel silenzio della contemplazione. Man mano che, lungo la sua esistenza, essa maturava nella conoscenza di Dio, adorandolo in spirito e verità, sperimentava sempre più chiaramente la sua specifica vocazione a salire sulla Croce con Cristo, ad abbracciarla con serenità e fiducia, ad amarla seguendo le orme del suo diletto Sposo: Santa Teresa Benedetta della Croce ci viene additata oggi come modello a cui ispirarci e come protettrice a cui ricorrere.
Rendiamo grazie a Dio per questo dono. La nuova Santa sia per noi un esempio nel nostro impegno a servizio della libertà, nella nostra ricerca della verità. La sua testimonianza valga a rendere sempre più saldo il ponte della reciproca comprensione tra ebrei e cristiani.

Tu, Santa Teresa Benedetta della Croce, prega per noi! Amen.

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