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MERCOLEDÌ 12 FEBBRAIO : SS. MARTIRI (49) DI ABITENE, ODIERNA TUNISIA († 304)

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(la memoria (facoltativa) è di ieri, ma non riesco a fare tutto quello ceh vorrei)

MERCOLEDÌ 12 FEBBRAIO : SS. MARTIRI (49) DI ABITENE, ODIERNA TUNISIA († 304)

« Sine dominico non possumus »   Da chi e perché è stata pronunciata questa frase e quale significato profondo è racchiuso nel termine latino dominicum,  da spingere i martiri ad affrontare la morte piuttosto che rinunciarvi? Sono interrogativi che non si possono eludere se non si vuole ridurre questa espressione ad un incomprensibile slogan.  Abitene era una città della provincia romana detta Africa proconsularis, nell’odierna Tunisia, situata, secondo un’indicazione di S. Agostino, a sud ovest dell’antica Mambressa, oggi Medjez el–Bab, sul fiume Medjerda. Nel 303 d.C. l’imperatore Diocleziano, dopo anni di relativa calma, scatena una violenta persecuzione contro i cristiani ordinando che “si dovevano ricercare i sacri testi e santi Testamenti del Signore e le divine Scritture, perché fossero bruciati; si dovevano abbattere le basiliche del Signore; si doveva proibire di celebrare i sacri riti e le santissime riunioni del Signore” (Atti dei Martiri, I).  Ad Abitene un gruppo di 49* cristiani, contravvenendo agli ordini dell’Imperatore, si riunisce settimanalmente in casa di uno di loro per celebrare l’Eucaristia domenicale. È una piccola, ma variegata comunità cristiana: vi è un senatore, Dativo, un presbitero, Saturnino, una vergine, Vittoria, un lettore, Emerito… Sorpresi durante una loro riunione in casa di Ottavio Felice, vengono arrestati e condotti a Cartagine davanti al proconsole Anulino per essere interrogati. Al proconsole, che chiede loro se possiedono in casa le Scritture, i Martiri confessano con coraggio che “le custodiscono nel cuore”, rivelando così di non voler distaccare in alcun modo la fede dalla vita. Il loro stesso martirio si trasforma in una liturgia “eucaristica”; tra i tormenti, infatti, si possono ascoltare dalle labbra dei Martiri espressioni come queste: « Ti prego, Cristo, esaudiscimi. Ti rendo grazie, o Dio… Ti prego, Cristo, abbi misericordia ». La loro preghiera è accompagnata dall’offerta della propria vita e unita alla richiesta di perdono per i loro carnefici.  Tra le diverse testimonianze, significativa è quella resa da Emerito. Questi afferma, senza alcun timore, di aver ospitato in casa sua i cristiani per la celebrazione. Il proconsole gli chiede: “Perché hai accolto nella tua casa i cristiani, contravvenendo così alle disposizioni imperiali? ”. Ed ecco la risposta di Emerito : « Sine dominico non possumus »; non possiamo, cioè, né essere né tanto meno vivere da cristiani senza riunirci la domenica per celebrare l’Eucaristia. Il termine dominicum racchiude in sé un triplice significato. Esso indica il giorno del Signore, ma rinvia anche, nel contempo, a quanto ne costituisce il contenuto: alla Sua resurrezione e alla Sua presenza nell’evento eucaristico.  Questi 49 (*) martiri di Abitene hanno affrontato coraggiosamente la morte, pur di non rinnegare la loro fede nel Cristo risorto e non venir meno all’incontro con Lui nella celebrazione eucaristica domenicale. Perché? non certamente per la sola osservanza di un “precetto” – visto che solo in seguito la Chiesa stabilirà il precetto festivo. Allora, perché? Perché i cristiani, fin dall’inizio, hanno visto nella domenica e nell’Eucaristia celebrata in questo giorno un elemento costitutivo della loro stessa identità. È quanto emerge con chiarezza dal commento che il redattore degli Atti dei martiri fa alla domanda rivolta dal proconsole al martire Felice: “Se sei cristiano non farlo sapere. Rispondi piuttosto se hai partecipato alle riunioni”. Ed ecco il commento: «Come se il cristiano potesse esistere senza celebrare i misteri del Signore o i misteri del Signore si potessero celebrare senza la presenza del cristiano! Non sai dunque, satana, che il cristiano vive della celebrazione dei misteri e la celebrazione dei misteri del Signore si deve compiere alla presenza del cristiano, in modo che non possono sussistere separati l’uno dall’altro? Quando senti il nome di cristiano, sappi che si riunisce con i fratelli davanti al Signore e, quando senti parlare di riunioni, riconosci in essa il nome di cristiano».  Il proconsole Anulino, al termine della giornata impiegata per gli interrogatori, 12 febbraio 304, e constatato la loro professione di fede cristiana, li fece rinchiudere in carcere. Negli Atti non è riportato come morirono, ma sembra che siano stati alcuni giustiziati, altri morti di fame e torture nel carcere, comunque in tempi diversi.  Alla luce della testimonianza dei martiri di Abitene acquista maggiore forza quanto scrivono i Vescovi italiani negli Orientamenti pastorali: «Ci sembra fondamentale ribadire che la comunità cristiana potrà essere una comunità di servi del Signore soltanto se custodirà la centralità della domenica, “giorno fatto dal Signore” (Sal 118,24), “Pasqua settimanale”, con al centro la celebrazione dell’Eucaristia, e se custodirà nel contempo la parrocchia quale luogo – anche fisico – a cui la comunità stessa fa costante riferimento» (CVMC 47).   (*) I nomi dei 49 SS. martiri, secondo il Martirologio Romano (Ed. 2004 p.198), sono: Saturnino, sacerdote, con i suoi quattro figli, cioè Saturnino il giovane e Felice, lettori, Maria e Ilarione, un ragazzo; Dativo, o Sanatore, Felice; un altro Felice, Emerito e Ampelio, lettori; Rogaziano, Quinto, Massimiano o Massimo, Telica o Tazelita, un altro Rogaziano, Rogato, Gennaro, Cassiano, Vittoriano, Vincenzo, Ceciliano, Restituta, Prima, Eva, ancora un altro Rogaziano, Givalio, Rogato, Pomponia, Seconda, Gennara, Saturnina, Martino, Clauto, Felice il giovane, Margherita, Maggiore, Onorata, Regiola, Vittorino, Pelusio, Fausto, Daciano, Matrona, Cecilia, Vittoria vergine di Cartagine, Berettina, Seconda Matrona, Gennara.

Fonte principale: chiesacattolica.it (“RIV./gpm”).

 

LA PASSIONE DI SANT’AGNESE – 21 GENNAIO – (Sant’Ambrogio, ma non autentica)

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/vitesanti/passionedisantagnese.htm

LA PASSIONE DI SANT’AGNESE – 21 GENNAIO

(Sant’Ambrogio, ma non autentica)  

L’attribuzione di questa leggenda a sant’Ambrogio vescovo di Milano, è puramente tradizionale: come già avvertirono il Migne e il Baronio, si tratta di un omonimo vissuto in epoca posteriore. La riportiamo nel testo edito dal Battelli, il quale ha provveduto anche a integre alcuni passi (qui riportati fra parentesi) omessi dall’anonimo volgarizzatore del XIII secolo.        

Ambruosio, servo delle sacre vergini di Cristo: Questo è ’l sacro dì della festa di Agnesa, el quale dobbiamo celebrare con salmi et inni, e cantare lezioni; e tutto ’l popolo si debba rallegrare, e ’poveri di Cristo sovvenire. Tutti adunque ci rallegriamo nel Signore et a edificazione delle vergini [la passione di] Agnesa santissima a memoria riduciamo. El terzo decimo anno della sua età perdé la morte e trovò la vita, della quale dilesse el fattore. Nell’infanzia d’anni, Agnesa era giovana, ma della mente era vecchia et antica: del corpo era fanciulla, ma dell’animo era canuta: aveva bello visoma più bella fede [e castità più mirabile].         

Tornando Agnesa dalla scuola, el figliolo del prefetto della città di Roma s’innamorò di lei. Allora i parenti di quello garzone andarono a’ parenti d’Agnesa domandando di fare parentado con loro, offerendo molto largamente, [e più largamente promettendo]. Et offersero a beata Agnesa molti preziosi ornamenti, la quale, com’ella gli vidde, non gli apprezzò, ma avvililli come sterco. Allora quello giovano [per] questa recusazione che aveva fatto beata Agnesa di quelle vestimenta, più forte si accese de lo amore d’Agnesa, e pensando ch’ella volesse migliori e più preziosi doni di quelli, [le presentò ogni gloria di pietre preziose], e per se medesimo e per gli amici e noti e parenti cominciò [a stancar l’orecchie della vergine] promettendo le ricchezze della sua casa, le sue possessioni e la sua famiglia [e tutte le delizie di questo mondo] se non negasse al suo consentimento e consentisse d’essere sua sposa.          Allora beata Agnesa a quello giovano rispuose e disse: “Parteti da me, imperocché da un altro amadore sono stata amata [innanzi], el quale a me molti migliori ornamenti assai che non soni questi m’ha ornata, e dello anello della fede sua me ha sposata e inguardiata, et è molto più nobile di generazione di te e di più dignità. Et ha ornato la mia destra di bello ornamento, e ’l collo e le braccia ha circondato di pietre preziose, e simile le mie orecchie di preziose perle. Tutta mi ha ornata di preziose [e corruscanti] gemme et ha posto un segno nella faccia mia, acciò che nissuno altro amadore abbi se non lui. Egli mi ha ornata di vestimenti [tessuti d’oro e di monili] preziosissimi, e mi ha mostro il suo tesoro che non ha simile, el quale m’ha detto che mi vuole donare se io persevererò ne’ suoi comandamenti…         

A Costui solamente servo la fede et a lui con tutta la divozione mi commetto, el quale, come io l’amo, casta sono, come io ’l tocco, monda sono, e come io ’l piglio, vergine sono. Né saranno [per mancare] dopo le nozze i figliuoli, ma ’l parto senza dolore si è [e tuttodì s’accresce la fecondità]”.         

Allora, udendo questo, quello insensato e pazzo giovano, accecato dall’amore, essendo in grande angustia d’animo e del corpo, gittossi in sul letto con grandi sospiri, e ’l suo amore aperse a’ medici, e’ quali el fecero noto al padre. Questi con paterna voce ripetè a petizione della vergine Agnesa tutto quello che aveva detto quello giovano, [ma ella rispose] che nollo voleva per nissuno modo per sposo, perché non voleva negare né violare il primo sposo, al quale aveva promesso e data fede. Allora il prefetto, padre di quello garzone, fece cercare chi fusse quello sposo el quale Agnesa tanto amava, per sapere se fusse di maggiore dignità di lui, ch’era prefetto. E uno de’ parasiti di lui disse come Agnesa era cristiana infine dalla puerizia e in arte magica tanto amaestrata che dice che Cristo si è ’l suo sposo.         

Udendo questo, el prefetto se ne fece lieto e subito mandò a fare richiedere Agnesa da tutta la sua corte ch’ella comparisse innanzi al suo tribunale. Et essendo venuta Agnesa, el prefetto imprima la cominciò con parole piacevoli a lusingare in segreto, e poi le cominciò a dire terribili parole. Allora la vergine di Cristo non per lusinghe si lassò isvolvere l’animo suo, né per parole di minaccie e terribili non mosse el suo volto e stette coll’animo fermo, cosi alle parole di lusinghe come alle parole terribili. E di tutto si rideva…         

Vedendo el prefetto che tutto quello ch’egli parlava era invano e senza frutto a lei, sedendo per tribunale comandò che Agnesa si fusse presentata; alla quale disse: “Le superstizioni de’ cristiani, del quale numaro tu sei, incantatrice di magiche arti, se da te non si partiranno, non potrai la pazzia dal tuo petto partirti, né prestare consenso a saggi consigli. E però bisogna che tu adori e facci reverenzia alla idea Vesta, e se ti piace di perseverare nella verginità, [dì e notte] e’ sacrifici reverendi ti bisogna fare alla idea Vesta”.        

Allora beata Agnesa disse: “Se ’l tuo figliuolo, [benché] d’amore iniquo tribolato, ma pur vivente, ho ricusato – un uomo [infine ragionevole] il quale vede e ode e palpa e va e ’l fiore di questa luce può godere [insieme co’ buoni] – se io per cagione dello amore di Cristo per nissuna ragione nollo posso guardare, gl’idoli sordi e mutoli, che non hanno anima né sentimento, in che modo gli posso adorare, e fare questo ad ingiuria del sommo Iddio, e inchinare il capo alle pietre, dicendo: – Iddio se’ tu? –”…          Allora Simproniano prefetto disse: “De’ due partiti eleggi quale tu vuoli; o veramente tu colle vergini della idea Vesta sacrifica, o veramente tu colle meretrici andarai al luogo pubblico. E allora saranno a te di longa e’ cristiani, e’ quali t’hanno [così] insegnato l’arte magica, che questa calamità e miseria [tu confidi poter sopportare con animo intrepido]. E però anco ti dico, o tu sacrifica alla idea Vesta a laude della tua progenie, o veramente, a tua vergogna e de’ tuoi, andarai al luogo pubblico coll’altre meretrici a stare pubblicamente”.         

Allora beata Agnesa con grande constanzia disse: “Se tu sapessi qual è lo Iddio mio, tu non parleresti queste parole. E poiché io so la virtù del Signore mio Gesù Cristo, sono sicura, e non temo le tue minaccie. E sappi che io non sacrificherò agli idoli tuoi, e non sarò contaminata con li uomini del luogo, perch’io ho con esso meco il guardatore del corpo mio, cioè l’angelo di Dio. E l’unigenito figliuolo di Dio, che tu non conosci, egli è a me come muro che non si può passare, ed è mia guardia che mai non dorme, ed è mio difenditore che mai non manca; e’ tuoi iddii [o sono di bronzo, de’ quali meglio si fanno vasi ad uso degli uomini] o sono di pietra, le quali d’esse si fanno le strade per amore de’ fanghi. La divinità non consiste nelle pietre, ma in cielo; non in metalli, ma nel regno superno sta. E tu adunque, e quelli che sono simili a te, se non vi levarete dalla adorazione de’ vostri idoli, sarete conchiusi con pena, siccome loro, nel fuoco, e sì come loro sono posti nelle fiamme del fuoco acciò sieno fusi, così saranno quelli che gli adorano; in perpetuo saranno nel fuoco ardente consumati, e in eterno saranno confusi”.         

Allora lo senza sentimento giudice fece espogliare beata Agnesa ignuda, e comandò ch’ella fusse menata al luogo pubblico delle meretrici; e uno con la tromba andava innanzi bandendo e dicendo con grande boce: “Agnesa, sacrilega vergine, gli iddii ha bestemmiati, e per quello è data agli uomini che tengono il luogo pubblico delle meretrici”. E come beata Agnesa fu spogliata, di subito e’ suoi capegli crescerono, e in tanta quantità per la divina grazia le furono concessi, che pareva che fusse coperta insino a terra, e meglio stessero che una vesta. E intrata dunque beata Agnesa nel luogo turpissimo, l’angelo di Dio trovò a lei apparecchiato, acciò che la circondasse d’immenso lume, acciò che nissuno per quello grande splendore la potesse vedere né appressarsele.         

Risplendeva quella celletta dove fu messa beata Agnesa come el sole quando nella sua altezza è vertù del dì, e quando più gli occhi di quelli che erano circostanti cercavano di volerla vedere, tanto più i loro occhi erano obombrati che non la potevano vedere. E stando beata Agnesa in orazione all’altissimo Iddio, apparbe innanzi a lei uno vestimento candidissimo. Allora ella el prese, e d’esso si vestì e disse: “Grazie te rendo, Signore mio Gesù Cristo, che me hai annoverato nel numaro delle tue ancille et el vestimento mirabile comandasti che io avessi”. Et era quello vestimento a misura del corpo di beata Agnesa, et era tanto cando più che la neve, el quale non è a dubitare che per mano d’angeli fu fatto et apparecchiato. E in questo, quello luogo fu fatto come un oratorio, e tutti quelli che v’erano intrati adoravano e davano onore a quello immenso lume, e mondi uscivano fuore più che non v’erano intrati.         

E mentre che queste cose si facevano, el figliuolo del prefetto, el quale era stato cagione di questa scelleraggine, venne a quello luogo, co’ suoi compagni giovani, quasi per assaltare quella fanciulla, colla quale credeva la sua libidine esercitare. E avendo mandato innanzi a sé quelli furi e cattivi giovani, vedendo che uscivano pieni d’ammirazione e di venerazione, cominciò a farsi beffe di loro [giudicandoli vani e molli e impotenti]; e ridendosi di loro entrò sfrontatamente in quello luogo dove beata Agnesa orava, e vedendo quello lume intorno a beata Agnesa, non dette onore a Dio, ma gittossi in quello lume per mettere le mani addosso a beata Agnesa: e innanzi che la sua mano giongesse a lei, egli cadde in terra, colle mani al volto, e ’l diavolo lo strozzò, e cosi spirò…         

Il prefetto, come udì che ’l suo figliuolo era morto, di subito con grande furia e pianto venne a quello luogo dov’era morto e intrato in quello luogo dove el figliuolo suo giaceva morto, con grandi grida disse a beata Agnesa: “Crudelissima sopra a tutte le femmine, la quale sopra el figliuolo mio hai dimostrato le tue arti magiche!”. E dicendo il prefetto queste et altre parole, domandando della cagione della morte di quello suo figliuolo, disse allora beata Agnesa: “Colui al quale el tuo figliuolo lui voleva contrastare alla sua volontà, ed Egli in lui esercitò la sua potestà; e questi altri che a me sono intrati, sani ne sono usciti, perché tutti hanno dato onore a Dio, el quale mandò l’angelo suo che mi vestì questo vestimento della misericordia d’Iddio, ed ha guardato el corpo mio, che per insino che io ero nella culla, a Cristo fui consegnata e offerta. E tutti quelli che vedevano lo splendore dell’angelo, tutti si partivano senza lesione, ma questo tuo figliuolo impudente, fremitando, distese la mano verso di me per pigliarmi, e l’angelo di Dio el rimandò indietro, e come tu vedi è morto!”.         

Disse allora el prefetto: “In questo apparirà che tu non coll’arte magica questo hai fatto, e però prega quello angelo che restituisca a me el figliuolo sano”. Allora beata Agnesa disse: “Posto però che per la fede vostra questo io da Dio impetrare non merito; ma perché egli è tempo che la virtù del mio Signore Gesù Cristo si manifesti; e però uscite tutti fuore, et io sola in orazione starò”. Et essendo tutti usciti di quella celletta, e beata Agnesa si pose in terra in orazione e incominciò a pregare el Signore che risuscitasse quello giovano. Et orando beata Agnesa, apparbe a lei l’angelo di Dio e la rizzò dal pianto e confortò l’animo suo, e quello giovano risuscitò.         

Essendo risuscitato, el figliuolo del prefetto uscì subito fuore di quella cella, et incominciò con boce pubblica a gridare et a dire: “Uno è Iddio in cielo e in terra e in mare, el quale è lo Dio de’ Cristiani, e tutti gli iddii de’ templi sono vani e non possono aiutare loro propri né quelli che gli adorano”.        

A questa boce tutti gl’indivinatori de’ templi e i pontefici si conturbarono, e fu fatto rumore grande nel popolo. E gridavano: “Tolle la maga, tolle la malefica, la quale mente delli uomini muta e gli animi [aliena]”. Allora el prefetto, vedendo tali cose miracolose, fu stupefatto, ma temendo [la proscrizione se facesse centra a’] pontefici del tempio, e’ vedeva che non poteva liberare beata Agnesa dalla sua sentenzia, e nolla poteva defèndare. Allora el prefetto fece uno vicario [per la sedizione] del popolo, e poi si partì con tristezza e dolore perché nolla poteva defèndare dopo la resurrezione del suo figliuolo, e per quanto si era dolente.         

Allora quello vicario fatto dal prefetto, el quale si chiamava Aspasio, comandò che fusse fatto uno grande fuoco in presenzia di tutti, e comandò che beata Agnesa fusse gittata nel mezzo di quello fuoco. E subito el comandamento del vicario [fu eseguito]. E le fiamme allora si divisero in due parti, di qua e di là, e beata Agnesa istava nel mezzo e non sentiva nissuno incendio né caldo di fuoco, né nissuno male le fece el fuoco. Allora el popolo con boci grandissime incominciò a gridare dicendo: “Questo non è per divinità della vergine, ma per la sua arte magica e per li suoi incanti”.         

Et allora beata Agnesa, essendo in mezzo del fuoco, distese le mani sue al cielo, e in queste parole orò al Signore e disse: “Omnipotente, da adorare e da riverire e da temere, Padre del Signore mio Gesù Cristo, io benedicoti, el quale per lo figliuolo tuo io ho scampato le minaccie degli uomini impii, e la spurcizia del diavolo io ho passata, ed ecco ora per lo Spirito Santo la rugiada celestiale è venuta, e ’l fuoco intorno a me si è spento, e la fiamma divisa, e ’l calore e lo incendio si è andato a coloro che ’l facevano per me. Io Te benedico, Padre da predicare, el quale in fra la fiamma ti prego che Tu mi lassi a Te venire, imperò che quello che io credo io el veggo, e quello nel quale io spero già el tengo, e quello che desideravo l’ho abbracciato. Te confesso colla bocca mia, e col cuore e con tutto el corpo mio desidero. Ecco che a Te vengo, Tu che se’ vivo e vero Iddio, el quale col Signore nostro Gesù Cristo e collo Spirito Santo vivi e regni ora e sempre, per infinita secula seculorum, amen”.         

E come ebbe finita l’orazione, allora tutto el fuoco fu spento, e non vi rimase nissuno caldo di fuoco. Allora Aspasio, vicario della città di Roma, vedendo che ’l popolo non si fermava né rifrenava, comandò che a beata Agnesa fusse dato d’uno coltello nella gola. E subito usci el sangue suo come rose vermiglie. E in questo modo consacrò Cristo la sposa sua Agnesa, sua vergine e martire.  

Da: SANT’AMBROGIO, La passione di Sant’Agnese, a cura di Guido Battelli.

LA FESTA DEI SANTI INNOCENTI – 28 DICEMBRE

http://liturgiaincarnata.blogspot.it/2009/12/la-festa-dei-santi-innocenti.html

LA FESTA DEI SANTI INNOCENTI – 28 DICEMBRE

(9.12.09)

« Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù. » (Mt 2,16)

Ogni anno, il 28 dicembre, la Chiesa celebra la Festa dei Santi Innocenti, quei bambini che furono le vittime innocenti di Erode: vittime della sua gelosia, della sua paura e della sua bramosia, che lo spinsero a cercare di distruggere Cristo. I bambini più piccoli di una città intera furono massacrati purché lui potesse continuare a vivere come gli piaceva, senza alcuna minaccia al proprio trono. Ciò mi ricorda un detto di Madre Teresa: « E’ la povertà che decide la morte di un bambino, così tu puoi vivere come desideri. » Non è la prima volta che nella storia di salvezza assistiamo al massacro dei bambini. Mosè nacque in un periodo in cui il Faraone aveva decretato che tutti i bambini maschi nati agli ebrei dovessero essere gettati nel fiume. Gesù è il nuovo Mosè, il mediatore della Nuova ed eterna Alleanza, non scritta sulle tavole di pietra, ma nei cuori umani con « il dito di Dio » (lo Spirito Santo). I bambini che morirono al tempo di Mosè erano stati uccisi perché il Faraone temeva che il popolo di Israele stesse diventando troppo numeroso, ma i bambini di Betlemme erano stati uccisi perché erano stati scambiati per Cristo. Ecco perché sono dei « martiri » (« martur » è la parola greca che significa « testimone »); sono i più piccoli « testimoni » di Cristo. Questa festa è particolarmente significativa per i nostri propri tempi. Anzitutto, vediamo che anche noi possiamo dare testimonianza a Cristo a ogni età, nessuno è troppo giovane per ciò. Non dobbiamo pensare che i bambini siano troppo giovani per imparare conoscere Cristo… imparano una quantità di cose riguardo al mondo, in tenera età, attraverso la televisione e attraverso i computers. In secondo luogo, ci viene richiamata l’innocenza che Gesù richiede a ciascuno dei suoi discepoli: « Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.  » (Mt 18,3) Questa innocenza può crescere dentro di noi: è aprirsi alla volontà di Dio,  rispondere abitualmente alla Sua grazia (virtù), partecipare alla vita e alle sofferenze di Cristo mediante i sacramenti (in particolare il battesimo, la confessione e l’Eucarestia) e sopportare con pazienza le sofferenze che incontriamo nel nostro cammino e che sono intese per la nostra purificazione interiore. Alla fine, la festa di oggi ci ricorda del grande dono che è la vita umana e che dev’essere difesa in ogni fase del suo sviluppo, soprattutto quando è più vulnerabile e soggetta alla violenza, all’abuso e alla morte. Questa festa dovrebbe inculcarci disgusto interiore per ogni forma di violenza e di odio, soprattutto per la violenza e l’odio contro i bambini. Quando un bambino viene ucciso nel grembo, questo si chiama aborto; se viene ucciso dopo la nascita lo chiamiamo assassinio – non importa come lo chiamiamo, tutte le forme di violenza contro i più innocenti tra gli esseri umani  sono ingiustificabili. Il pensiero di Madre Teresa, riportato sopra, fu espresso in relazione all’aborto e indica la povertà in cui la società si è gettata e che cerca di imporre nelle altre parti del mondo. Noi ci meravigliamo perché l’odio e la violenza continuano ad aumentare nel mondo. Per qualche motivo molti ne accusano Dio. Madre Teresa invece indicò una delle radici più profonde della questione, durante un suo discorso nel 1994 al National Prayer Breakfast, quando chiese: « Se una madre può uccidere il proprio figlio, come possiamo dire alle altre nazioni di non uccidersi tra di loro? » Possa la festa odierna dei Santi Innocenti rafforzare in noi la nostra personale decisione di seguire Cristo e di testimoniarLo, riconoscendo che nessun tipo di violenza o di odio possono trovar posto nel Suo Regno

SANTO STEFANO PROTOMARTIRE – 26 DICEMBRE

http://www.santostefanocave.it/home_file/Stefano.html

STEFANO, IL PRIMO – 26 DICEMBRE

BREVE BIOGRAFIA DEL PROTOMARTIRE

 Introduzione  Capitolo I – La vicenda umana di Stefano  Capitolo II – Le reliquie di Santo Stefano, tra storia e leggenda

Introduzione

Il Servo di Dio Giovanni Paolo II ci ha ricordato più volte, durante il suo pontificato, che ogni epoca della storia della Chiesa è stata segnata dal sacrificio di tanti uomini e donne che, in ogni parte della terra, hanno coraggiosamente offerto la loro esistenza per la causa del Vangelo. Si tratta di una moltitudine proveniente “da ogni tribù, popolo e nazione” costituita da coloro che seguono l’Agnello immolato. Ebbene tale immenso corteo, le cui fila si ingrossano costantemente anche ai nostri giorni, si apre proprio con Stefano, colui che i nostri antenati hanno scelto come titolare della loro chiesa parrocchiale, come modello di vita cristiana, come amico celeste col quale condividere le gioie e le sofferenze dell’esistenza. Così lo invoca un’antica prosa di Chartres:

“Le pietre arrossate dal tuo sangue / Sono la bellezza della tua corona. / Tu fosti il primo a tracciare,/ con un sentiero di pietre, / la strada del cielo. / Tu fosti il primo grano triturato /a entrare nei granai del Cristo”.

Dopo duemila anni il volto del Primo Martire conserva intatto il suo fascino. “Bello come un angelo” lo definisce san Luca negli Atti degli Apostoli, e tale bellezza, ne siamo certi, può ancora attrarre molti a Cristo.

Capitolo I – La vicenda umana di Stefano

Del primo, grande e veneratissimo martire, Stefano, non ci è dato conoscere la provenienza. Si suppone che fosse greco (in quel tempo, infatti, Gerusalemme era un crocevia di tante popolazioni, con lingue, costumi e religioni diverse) poiché il nome Stefano in quella lingua ha il significato di “coronato”. Si è pensato anche che fosse un ebreo educato nella cultura ellenistica; certamente fu uno dei primi giudei a diventare cristiani e che prese a seguire gli Apostoli. Vista la sua cultura, saggezza e fede genuina, divenne anche il primo dei diaconi di Gerusalemme. Gli Atti degli Apostoli, ai capitoli 6 e 7 narrano gli ultimi suoi giorni. Dopo la Pentecoste, il numero dei discepoli andò sempre più aumentando e sorsero anche dei dissidi fra gli ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica, perché secondo i primi, nell’assistenza quotidiana, le loro vedove venivano trascurate. Allora i dodici Apostoli, riunirono i discepoli dicendo loro che non era giusto che essi disperdessero il loro tempo nel “servizio delle mense”, trascurando così la predicazione della Parola di Dio e la preghiera. Fu proposto di affidare questo compito ad un gruppo di sette di loro, così gli Apostoli avrebbero potuto dedicarsi di più alla preghiera e al ministero. La proposta fu accettata e vennero eletti Stefano, definito “uomo pieno di fede e Spirito Santo”, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas, Nicola di Antiochia; a tutti, gli Apostoli imposero le mani; la Chiesa ha visto in questo atto l’istituzione del ministero diaconale. Nell’espletamento di questo compito, Stefano “pieno di grazie e di fortezza, compiva grandi prodigi tra il popolo”, non limitandosi al lavoro amministrativo ma dedicandosi attivamente anche alla predicazione, soprattutto fra gli ebrei della diaspora, che passavano per la città santa di Gerusalemme e che egli convertiva alla fede in Gesù crocifisso e risorto. Nel 33 o 34 circa., vedendo il gran numero di convertiti, gli ebrei ellenistici sobillarono il popolo e accusarono Stefano di “pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio”. Gli anziani e gli scribi lo catturarono trascinandolo davanti al Sinedrio e con falsi testimoni fu accusato: “Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le usanze che Mosè ci ha tramandato”. E alla domanda del Sommo Sacerdote “Le cose stanno proprio così?”, il diacono Stefano rispose pronunziando un discorso (il più lungo degli ‘Atti degli Apostoli’,che servirà da modello ai primi predicatori cristiani), in cui ripercorse la Sacra Scrittura in tutti quei passi dove si testimoniava che il Signore aveva preparato per mezzo dei patriarchi e profeti, l’avvento del Giusto, ma gli Ebrei avevano risposto sempre con durezza di cuore. Rivolto direttamente ai sacerdoti del Sinedrio concluse: “O gente testarda e pagana nel cuore e negli orecchi, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli e non l’avete osservata”. Mentre l’odio e il rancore dei presenti aumentava contro di lui, Stefano ispirato dallo Spirito, alzò gli occhi al cielo e disse: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo, che sta alla destra di Dio”. Fu il colmo. Elevando grida altissime e turandosi gli orecchi, i presenti si scagliarono su di lui e a strattoni lo trascinarono fuori dalle mura della città e presero a lapidarlo con pietre. I loro mantelli furono deposti ai piedi di un giovane di nome Saulo (il futuro Apostolo delle Genti, s. Paolo), che assisteva all’esecuzione. Mentre il giovane diacono protomartire crollava insanguinato sotto i colpi degli sfrenati aguzzini, pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”, “Signore non imputare loro questo peccato”. Gli Atti non parlano del luogo dove fu lapidato Stefano, dicono solamente “fuori della città”, ma la tradizione indica come luogo la parte est di Gerusalemme, in una zona lontana dal controllo della guarnigione romana. L’evangelista Luca, autore degli Atti, non indica nemmeno il luogo della sepoltura, afferma solamente che “uomini pii seppellirono Stefano e fecero gran lutto per lui” (At 8, 2). L’anno della morte è ritenuto il 31 o 32 secondo alcuni, altri indicano con maggior certezza il 36 , comunque in prossimità della festa ebraica di Pentecoste o quella dei Tabernacoli, data la presenza in Gerusalemme di molti forestieri (At 7, 9). La celebrazione liturgica di s. Stefano sarà fissata al 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio, la chiesa vorrà subito commemorare i “comites Christi”, cioè i più vicini a lui nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio.

Capitolo II – Le reliquie di Santo Stefano, tra storia e leggenda

Secondo la celebre lettera del prete Luciano (scritta alla fine del 415) gli Ebrei lasciarono il corpo di Stefano esposto alle belve, ma per volere di Dio nessun animale lo toccò. Gamaliele, che aveva simpatia per i discepoli di Cristo, commosso dalla sorte del Diacono, convinse i cristiani a seppellirlo in segreto in un luogo poco distante da Gerusalemme, detto Caphargamala. I cristiani fecero come aveva suggerito Gamaliele e seppellirono Stefano dopo aver fatto solenni riti funebri. In questo luogo il corpo del Santo rimase come dimenticato per circa quattrocento anni. Tuttavia questo non deve sorprendere, in primo luogo perché il culto dei martiri iniziò solo nel II secolo e si sviluppò dopo il IV in seguito all’ottenimento della libertà religiosa; in secondo luogo perché Gerusalemme subì una completa distruzione prima nel 70 da parte di Tito e poi nel 135 sotto l’imperatore Adriano e quindi la memoria di molti era andata perduta. Nel 415 Luciano, prete del villaggio di Caphargamala, dopo le visioni avute in sogno individuò il luogo in cui era sepolto il corpo del Protomartire. Egli descrisse il ritrovamento in una lettera scritta poco dopo gli avvenimenti. Dopo il ritrovamento, il corpo fu traslato a Gerusalemme, per opera del vescovo Giovanni, nella data del 26 dicembre 415 . Durante la traslazione una pioggia abbondante interruppe la terribile siccità che affliggeva la terra. Il corpo di santo Stefano rimase nella chiesa del Monte Sion fino al 14 giugno del 460, quando fu trasportato nella basilica fatta costruire appositamente per accogliere le reliquie del Santo dall’imperatrice Eudossia moglie di Teodosio II. Intanto, dopo il ritrovamento del corpo, furono inviate in ogni parte del mondo cattolico le reliquie del Santo, e dovunque esse giungevano si costatavano miracoli strepitosi; di conseguenza si moltiplicavano i luoghi di culto dedicati al Protomartire. Le reliquie giunsero anche in molte chiese dell’Africa settentrionale. Anche il più che prudente sant’Agostino, convinto dagli innumerevoli miracoli, favorì l’estensione del culto del Protomartire, soprattutto con i suoi celebri Discorsi e riferendo nella sua famosa opera “La Città di Dio” i miracoli più significativi avvenuti nei nuovi santuari dedicati al Santo, compreso quello consacrato da lui stesso ad Ippona. Secondo una pia tradizione il corpo di Stefano fu successivamente traslato a Costantinopoli e da qui trasferito a Roma alla fine del sec. VI, durante il pontificato di Pelagio II, e sistemato nella Basilica di san Lorenzo fuori le mura. Un manoscritto del del XII secolo riporta il racconto particolareggiato, fatto da un diacono di nome Lucio, sulla traslazione delle reliquie di santo Stefano a Roma. Giunte alla Basilica e aperta la tomba del Martire, il corpo di Lorenzo si ravviva ritirandosi da una parte per accogliere festante il nuovo compagno che giunge dal lontano oriente, cedendogli cortesemente il posto d’onore. Lo stesso manoscritto riporta un Carme del papa Pelagio I (555-561) in cui si dice espressamente che in questo luogo riposano le membra di due uomini santi, Stefano e Lorenzo. (…). Un’altra testimonianza della traslazione di santo Stefano a Roma si trova in un manoscritto del secolo XIV, conservato alla biblioteca Vallicelliana, che corrisponde sostanzialmente al racconto di Lucio e al carme di Pelagio I. (…). Al di là della valutazione che si possa dare alle varie narrazioni circa la traslazione del corpo di santo Stefano, è certa la venerazione delle reliquie del Protomartire nella Basilica di san Lorenzo. Vari elementi stanno ad attestarlo: sull’arco trionfale di Pelagio (secolo VI) è raffigurato santo Stefano, associato nel culto e nel sepolcro al Martire romano; sul marmo all’ingresso della tomba c’è l’iscrizione “LAURENTIUS ALMUS ET PROTOMARTYR STEPHANUS”, risalente al XII secolo; gli affreschi del XIII secolo nel portico onoriano rappresentano gli episodi principali della vita di santo Stefano e della traslazione delle sue reliquie a Roma; accanto alla chiesa esisteva una chiesa e un monastero col nome di santo Stefano. Inoltre ci sono testi storici: il citato Carme di Pelagio I, il martirologio romano , che al 7 di maggio parla della traslazione del corpo di santo Stefano Protomartire da Costantinopoli a Roma e della deposizione nel sepolcro di san Lorenzo martire nell’Agro Verano per disposizione del sommo pontefice Pelagio. (…). Al di là di ogni considerazione possibile è degno di nota il fatto che la pietà popolare ha colto un segno della Provvidenza nel pensare che i due più grandi diaconi d’Oriente e d’Occidente riposano in un solo sepolcro, sotto un solo arco trionfale, come segno della apostolicità e universalità della Chiesa.

13 DICEMBRE: SANTA LUCIA

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13 DICEMBRE: SANTA LUCIA

Di questa Santa Martire gli Atti greci e latini ci hanno tramandato poche notizie. Della sua vita e del suo martirio ci parlano però ampliamente le memorie lasciate da San Gregorio Magno, vissuto nel secolo VI e il poema in versi « De laudibus virginum » di S. Adelmo vissuto nel VII secolo. Si sa che era di nobile casato e che il padre morì quando Lucia era ancora piccola. Da allora madre e figlia vissero l’una per l’altra. Possiamo immaginare Lucia trascorrere la sua infanzia sotto lo sguardo e le cure affettuose della madre Eutichia che si rallegrava di tanta leggiadra giovinetta, speranza del nobile casato.
Lucia non amava la vita oziosa e spensierata che conducevano i giovani dell’ambiente ricco e patrizio.
Educata alla rettitudine, alla pietà e alla carità, Lucia si apriva dolcemente alla luce suprema del Vangelo e nel suo cuore si faceva strada un desideriO sempre più intenso e prepotente: quello di somigliare sempre più alla Vergine Maria promettendo solennemente, nel segreto del suo cuore, di consacrarsi interamente al suo celeste Sposo. L’elogio dei figli, specialmente delle figlie, va alla madre », sentenziò una volta il Cantù e non avrebbe potuto pronunciare una verità più vera perché la madre è veramente la maggiore ispiratrice di tutto il bene che, specialmente una figliola, può riuscire ad operare e, a sua volta, suscitare quando, anche lei sarà diventata madre. Eutichia oltre al vanto di avere generato quel frutto, ha avuto il merito di farlo maturare in modo tale che anche oggi tante madri potrebbero guardare orgogliose a quella figlia e tante figlie benedire e ammirare quella madre.

Lucia prega S. Agata
La storia della Chiesa di quel tempo, è tutto un cielo ingemmato di stelle luminose rappresentato dallo sterminato esercito di martiri che da Cristo hanno ottenuto la palma del martirio nelle persecuzioni contro il cristianesimo.Fra queste stelle, certamente una guidava ed illuminava Lucia: Agata, astro della chiesa di Catania, morta martire durante le persecuzioni di Decio Imperatore il 5 febbraio dell’anno 251. Sant’Agata. bella e ricca fanciulla, fu sottoposta ad indicibili torture per non sottostare ai desideri di Quinziano, prefetto della Sicilia, per cui moriva nelle carceri. In seguito, sul luogo del suo martirio fu eretto un tempio che oggi porta il nome di Sant’Agata Vetere.
La fama della gloriosa Sant’Agata si sparse per tutta la provincia (allora la Provincia comprendeva tutta la Sicilia) a causa dei miracoli da lei operati ed era motivo di culto anche per i cittadini siracusani che si recavano in pellegrinaggio al sepolcro della martire catanese per pregare.
Fu così che Lucia, preoccupata per la salute della mamma che da qualche tempo soffriva di flussi di sangue senza alcuna speranza di guarigione, intraprese un pellegrinaggio nella non lontana Catania per pregare sulla tomba di Sant’Agata e ottenerne la grazia di una pronta guarigione. A Catania, Lucia e la madre giunsero probabilmente il 5 febbraio 301, giorno della festa della Santa. Quale soddisfazione per la giovane Lucia nel poter avere la gioia di pregare l’invitta martire nel tempio a lei dedicato, nella speranza che la mamma guarisse dal suo male e riprendesse piena salute. Per sé supplicò la grazia di dedicare la vita a Dio, nella speranza che la madre rinunziasse al desiderio di darla in sposa ad un giovane che si era innamorato di lei. Intanto nel tempio, durante la sacra funzione, si diede lettura del passo del Vangelo di Matteo riguardante l’avvenuta guarigione di una povera donna, l’emorroissa, conseguita al semplice tocco del lembo della veste del Signore. All’udire quell’episodio evangelico, Lucia, rivolta alla madre, disse: « La martire Agata, serva del signore, ha presso di Lui libero accesso e sarai guarita per sua intercessione se toccherai fiduciosa il sepolcro di lei ».

L’apparizione di S. Agata
Terminata la funzione religiosa, si avvicinarono al sepolcro e si prostrarono pregando a lungo. L’anima di Lucia si dischiuse tutta in fervida preghiera e, come rapita in estasi, fu presa da un sonno soave.
Le apparve Sant’Agata glorificata tra due angeli, nell’atto di rivolgerle la parola e di dirle: « Lucia, sorella mia, perché chiedi a me quel che tu sei in grado di ottenere per altri? Ecco, tua madre sarà sana per la tua fede. E come per mezzo mio viene beatificata la città di Catania, così per mezzo tuo sarà salvata la città di Siracusa ».
Lucia svegliatasi da così radiosa visione disse alla madre: « Madre, la nostra preghiera, per intercessione di Sant’Agata, è stata esaudita. Per grazia di Cristo, ecco tu sei guarita ».

Rivelazione alla madre
La fanciulla sentì in cuor suo che quello era il momento di rivelare alla madre la sua segreta decisione di consacrarsi a Dio rinunciando ad uno sposo terreno. Il suo sposo era e sarebbe stato Gesù, per sempre. Eutichia, che sentiva ritornare le forze, col cuore colmo d’amore e di riconoscenza capì che le opere buone erano la prova più eloquente della gratitudine verso Dio e convenne che la ricca dote di Lucia fosse donata ai poveri. Comprese così che la volontà di Lucia era un atto d’amore definitivo verso Dio.

L’arresto di Lucia
Ritornate a Siracusa, Eutichia risanata nel corpo e con l’anima piena di gioconda e spirituale letizia, in armonia col desiderio di Lucia, cominciò a vendere ogni cosa, distribuendo il ricavato ai poveri. Tutto ciò non passò inosservato a quel giovane che ambi-va alla mano di Lucia. Questi capì che la fanciulla doveva professare la fede cristiana e che difficilmente avrebbe sposato un pagano come lui. Resosi conto che Lucia non avrebbe mai rinunciato a Cristo e, deluso per il mancato matrimonio, non esitò a denunziarla all’arconte Pascasio, accusandola di prestare culto a Cristo e disobbedire così alle norme dell’editto di Diocleziano. Lucia fu così arrestata e condotta dinanzi alla massima autorità. La fanciulla tranquilla e serena, nella certezza che Cristo le avrebbe dato la forza di sopportare qualunque pena, anche il martirio se fosse stato necessario, confermò davanti a Pascasio apertamente il suo credo e i suoi sentimenti e con forza ed energia si rifiutò di sacrificare agli dei: « Io obbedisco alla legge del mio Dio, come te a quelle dei Cesari – fu la risposta di Lucia – tu porti rispetto ai tuoi Superiori. io rendo omaggio al mio Signore; se tu non Vuoi offendere i Cesari, vorrò forse io offendere Iddio? Tu ti studi di piacere agli imperatori, io voglio piacere solo a Dio; …fa dunque quello che credi sia giusto
per te, io opero secondo l’animo mio e secondo i miei princìpi ».

Le minacce di Pascasio
Pascasio, sentito che Lucia magnificava la religione di Cristo, la minacciò di sevizie e di tormenti, ma la fanciulla anziché impaurirsi sembrò animarsi sempre più confidando nella promessa del Signore che aveva assicurato l’assistenza dello Spirito Santo ai suoi seguaci trascinati sulla via del martirio. Pascasio le domandò: « Dentro di te c’è dunque lo Spirito di Dio? » e Lucia rispose con le parole di San Paolo: « Coloro che vivono castamente e piamente sono tempio di Dio; lo Spirito Santo abita in essi ».
Queste parole Pascasio non poteva capirle quindi con rabbia crescente la minacciò: « Troverò bene il modo di cacciare da te questo Spirito che tu proclami Santo. Ah, tu vuoi dunque restare fedele sposa del tuo Dio? Ebbene, ti costringerò a subire violenze inaudite. Vedrai come fuggirà da te questo Spirito Santo, se è vero che lo porti nel cuore ».

Il prodigioso intervento
Detto ciò comandò che la fanciulla fosse portata là dove avrebbe subito violenza la sua verginità: molti soldati le furono addosso spingendola brutalmente, ma per quanto si adoperassero, i loro sforzi erano inutili. La legarono con delle funi alle mani e ai piedi e tutti insieme presero a tirare inutilmente; provarono allora a trascinarla con un paio di buoi ma la fragile fanciulla restava immobile come una roccia.
Il prodigioso intervento divino aveva reso Lucia così immobile che nessuna forza umana riusciva a smuoverla dal luogo dove si trovava. Allora Pascasio, inferocito per quanto succedeva, ordinò che il suo corpo fosse cosparso di pece, resina e olio e che si accendesse un gran fuoco. Ma le fiamme si ritraevano senza sfiorare il corpo della fanciulla.
« Queste fiamme non possono bruciarmi, Pascasio, perché i credenti devono conoscere la forza dimostrativa del martirio e perché i non credenti devono essere confusi e molti di loro, abbandonato l’orgoglio, possano credere e umiliarsi dinanzi al Signore ». Pascasio non credendo ai propri occhi domandò: « Come e perché, fragile come sei, neppure mille ti hanno potuto smuovere? » Lucia rispose: « Cadranno mille alla tua destra e diecimila alla tua sinistra, ma nessuno potrà accostarsi a te ».

La corona del martirio
Il grande momento era vicino; Lucia stava per conquistare la corona del martirio e per congiungersi al suo Creatore, suo celeste Sposo. Con gli occhi e l’anima fissi in cielo immaginava di vedere Sant’Agata, vicina a lei, sorridente, che la invitava. Lucia disse ancora: « E giunta la mia ora. Colpisci, Pascasio. e io morrò. Ma ti annunzio che la pace sarà restituita alla Chiesa di Dio. Diocleziano e Massimiano passeranno, e il Cristianesimo continuerà a diffondersi ».
Lucia cadde in ginocchio come in atto di preghiera e la violenta spada penetrò in quelle teneri carni recidendo il capo. Era il 13 dicembre 304: Lucia, chiusa la sua giovane vita terrena, rinasceva nella gloria.

Dies natalis
Il giorno della morte è per i santi e per i martiri quello della vera nascita: il « dies natalis » cioè il « giorno natalizio » quando essi rinascono alla vita eterna. In-fatti, il Martirologio Gerominiano, sotto la data del 13 dicembre, riporta: « A Siracusa, città della Sicilia, il natale di santa Lucia vergine ». Una notevole discordanza si rileva quanto al supplizio di S. Lucia. Gli Atti greci dicono che fu decapitata, mentre la tradizione latina, ritiene S. Lucia trafitta al collo. Il gesuita siracusano P. Ottavio Gaetani dei Marchesi di Sortino, che fu cultore della storiografia dell’antica Sicilia, riuscì a scoprire gli Atti greci di S. Lucia presso Giorgio Papadopulo, prete di rito greco « Il mio animo, scrisse egli allora, mi fa ritenere che gli Atti greci di S. Lucia siano più antichi dei Latini per Questo li stimo moltissimo.

Papadopulo
Il Codice, che fu denominato « Papadopulo » e pubblicato, oltre che dal Gaetani anche dal Can. G. Di Giovanni, concorda con le memorie su S. Lucia lasciateci sia da S. Gregorio Magno nel « Sacramentario » nell’Antifonario », sia da S. Adelmo nel suo poema « De laudibus virginum ». Degno di nota è che il codice nel descrivere il supplizio di S. Lucia, a differenza degli Atti latini che parlano di rescissione della giugulare, riporta: « dette queste cose, le recisero il capo ». La decapitazione, riservata ai condannati di nobile stirpe, narrata dal Papadopulo è confermaa dal fatto che il corpo di S. Lucia presenta il capo separato dal busto: un particolare questo che depone a favore della maggior attendibilità storica degli Atti greci rispetto ai latini. Mons. Lancia di Brolo nella sua « Storia della Chiesa in Sicilia » afferma che il Codice Papadopulo contiene gli Atti di S. Lucia senza errori ed incoerenze e presenta l’interrogatorio del Preside e le risposte delle Santa in tutta la loro semplicità e sublime bellezza, conformi a tutto quanto gli antichi Padri ricordano di S. Lucia; sicché si può ritenere siano stati composti sopra gli atti proconsolari subito dopo il martirio e sulle deposizioni delle persone che ne furono testimoni.
« A mio parere « afferma il Lancia di Brolo « gli Atti di S. Lucia sono uno dei più bei testimoni della nostra storia ».

Iscrizione di Euskia
« Ma il più antico documento », scrive Mons. Garana, « del culto tributato a S. Lucia è costituito dalla celebre iscrizione di Euskia, nome corrispondente a quello di Ombrosa o Ombretta, rinvenuta il 22 giugno 1894 dall’archeologo Paolo Orsi durante le esplorazioni nelle Catacombe di S. Giovanni… L’epigrafe greca, tradotta in italiano, dice: Euskia, la irreprensibile, vissuta buona e puraper anni circa 25, morì nella festadella mia Santa Lucia, per la quale non vi ha elogio condegno; (fu) cristiana fedele, perfetta grata al suo marito di molta gratitudine ».
L’epigrafe, datata al V secolo dall’Orsi al IV dal Pace, è la solida conferma della personalità storica di Lucia e del culto a lei tributato da sempre.

La fede di Lucia
Le parole che Lucia rivolse a Pascasio: « Coloro che vivono castamente e piamente sono tempio di Dio; lo Spirito Santo abita in essi », rispecchiano parole di San Paolo: ….. il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio ». (I Cor. 4, 19) Nella Lettera ai Romani l’Apostolo scrive: ….. avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo Abbà, Padre! » (R m 8,15) e nella Prima Lettera ai Corinzi: ….. i segreti di Dio nessuno li ha mai potuto conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. » (l Cor.2,ll-l2) Nelle parole di Lucia si nota quanto intenso sia stato l’amore della sua anima nella ricerca di Dio. Secondo la concezione di S. Giovanni della Croce, l’anima, nella ricerca di Dio, riceve sì, molteplici illuminazioni e sentimenti, ma è nella oscurità della fede che raggiunge Dio nella sua essenza. Questa presa di possesso della fede, diventa sempre più penetrante a misura che l’anima si avvicina a Dio per mezzo dell’amore. E attraverso tale amore l’anima di Lucia ha accolto Dio nella fede, in attesa di contemplarlo nella visione diretta della beatitudine eterna e questa « presa » della fede è commisurata all’amore, perché è l’amore che trasformando l’anima, rende la presenza di Dio sempre più vicina e la sua attrazione sempre più irresistibile costituendo così l’alba regale della visione eterna.

Le relique di S.Lucia
Il generale bizantino Giorgio Maniace, entrato a Siracusa alla testa delle sue truppe nel 1038. saputo il luogo di sepoltura del corpo di S. Lucia pensò di trasportarlo a Costantinopoli per farne omaggio all’imperatrice Teodora. Con la caduta di Costantinopoli ad opera dei Crociati, nel 1204, il Doge Enrico Dandolo fece traslare il corpo della Santa a Venezia dove attualmente è custodito nella Chiesa di S. Geremia. Durante i secoli Siracusa è venuta in possesso solo di alcune reliquie. Il gesuita P. Bartolomeo Petracci donò al Senato di Siracusa la reliquia consistente in tre frammenti di costole che ora è racchiusa in una teca d’oro posta nel petto del simulacro di S. Lucia.bIl servo di Dio P. Innocenzo Marcinò, guardiano e provinciale dei Cappuccini di Siracusa divenuto in seguito Ministro Generale dell’Ordine, riuscì a procurare a Mons. Capobianco, Vescovo di Siracusa, due altre reliquie consistenti in due frammenti di un braccio. Queste reliquie sono racchiuse in un pregevole reliquiario fatto eseguire dall’ ‘Arcivescovo Carabelli. Nel Duomo di Siracusa sono esposti, in apposite teche, il velo, la veste e le scarpette che furono tolti al corpo di S. Lucia in occasione della traslazione a Costantinopoli. Il velo, di seta finissima bianca, è listato da strisce color zafferano; la veste, a forma di tunica lunga e stretta alle spalle e molto ampia in basso, è di seta finissima color porpora, arabescata con foglie e fiori del medesimo colore; le calzature sono di pelle sottile, foderate di raso rosso e con stringhe di cuoio. In una teca d’argento è custodito un pezzo di osso dell’avambraccio portato in dono dal Patriarca di Venezia Monsignor Marco Cé, in occasione della sua venuta a Siracusa durante la festa di S. Lucia nel 1988.

Il sepolcro
Dopo la sepoltura del corpo di S. Lucia nel preesistente cimitero paleocristiano, questo venne ingrandito verso sud con nuove gallerie che si distinguono dalle gallerie delle catacombe di S. Giovanni per la simmetria delle camerette che fanno supporre di essere sepolture destinate a famiglie distinte.
Da talune lettere di S. Gregorio Magno (Ep. VII 39) risulta che sul sepolcro, nel 597, sorgeva un monastero.San Zosimo, divenuto
vescovo di Siracusa verso la fine del secolo VI, fu custode per molti anni, del sepolcro di S. Lucia.
Nel XVII sec. l’architetto Giovanni Vermexio, per incarico del Senato, costruì il tempio ottagonale che custodisce il sepolcro di S. Lucia. In questa chiesa, sottostante alla piazza, l’Arcivescovo Bignami fece apporre un’iscrizione che esprime il secolare desiderio dei Siracusani di riavere il corpo della loro Patrona: « Lucia, sponsa Chnisti, omnis plebs te expectat ». (Lucia, sposa di Cristo, tutto il popolo ti attende).
Ai piedi del sepolcro si trova una pregevole scultura: « Santa Lucia morente » del fiorentino Gregori Tedeschi (1634). La Martire è piegata leggermente sul lato destro in modo che il suo soavissimo viso appaia in tutta la sua pienezza; la mano destra stringendo a sé la palma del martirio, si posa sul Vangelo. Il corpo della Santa, sotto le pieghe della veste, appare nel sereno abbandono della morte cristiana. Chi guarda l’immagine di quel corpo che fu veramente « il tempio del Dio vivente » immacolato e casto, sente nell’animo un mistico sentimento di venerazione.

Il prodigioso sudore
Nei momenti più tragici della storia di Siracusa S. Lucia ha sempre manifestato il suo costante patrocinio verso la sua terra e i suoi concittadini. Uno dei tanti segni della sua intercessione presso il Signore è quello del prodigioso sudore del simulacro marmoreo che la raffigura morente, collocato presso il suo sepolcro.

Siracusa sotto assedio
Era il mese di maggio 1735 e Siracusa, sotto giogo austriaco, era ormai da molti mesi stretta nell’assedio degli spagnoli. Le operazioni di guerra ti le due opposte forze vedevano la stremata ed indifesa popolazione in preda alla disperazione.
Scrive il Privitera che « non può descriversi il terrore, le angosce e i palpiti mortali dei miseri Siracusani in questi giorni d’inferno. Alcuni andavano ad rintanarsi nei sotterranei… altri rifuggivano alle chiese piangendo ed orando… La moltitudine poi a folla stava in mezzo alle strade tutto il giorno e tutta la notte: ed era un terrore, un raccapriccio, il sentir levarsi mille voci di spavento ed invocare il nome della Santa Protettrice al comparir d’ogni striscia di fuoco per l’aria, all’udirsi il fragor delle bombe… ».

Un segno miracoloso
S. Lucia non poteva restare estranea a tanta sofferenza e rincuorò i siracusani con il segno del sudore di quell’immagine che la raffigura morente dopo la prova del martirio: eloquente messaggio della sua solidarietà al martirio che stava subendo il suo popolo. Ma ecco la descrizione del fatto nella testimonianza rilasciata al Tribunale Diocesano da uno dei Frati del Convento di S. Lucia:
….. ritrovandosi detto Padre di residenza nel sopra-detto Convento, giorno 6 del passato Maggio, scendendo col Vicario del suddetto Convento, in compagnia di tre ingegneri Spagnuoli ed un Terziario del Terzo Ordine del P. San Francesco, nel Sepolcro di S.ta Lucia si accorse uno degli ingegnieri di certo splendore che spiccava dalla faccia dell’ ‘immagine di marmo di detta Santa, e del medesimo lustro o splendore disusato se ne accorse pure il suscritto Predicatore unitamente col Padre Vicario ed attribuendolo per allora ad effetto o dei cristalli posti d’innanzi la statua o di qualche umidità dell’aria si determinò o di scenderla da quel luogo o di coprirla o di discenderla da quel luogo e metterla al sicuro altrove. Venuti poi il secondo giorno lì 7 del suddetto Mese i riferiti Ingegnieri col P. Nicolò Terziario mandati dal Maresciallo per custodire con qualche difesa di legna e tavole la statua suddetta dal pericolo delle bombe e palle, si accorsero del medesimo splendore e per maggiormente accertarsi del vero, salì detto Padre col P. Vicario, ed uno degli Ingegnieri, e levati colle proprie mani i due cristalli si accorse che la fronte della statua grondava in gran copia gocciole di sudore appunto come ceci, a qual spettacolo si pose a piangere non potendo trattenere le lagrime, molto più quando osservò che tutto il resto del marmo era asciutto, attribuendolo tutti a uno strano portento. Onde uno di quegli Ingegnieri togliendosi dal capo un fazzoletto cominciò ad asciugarla ed il suddetto Padre come che avea cura della sagrestia non trovandosi addosso fazzoletto bianco prese una manica del camice, ed una tovaglia d’altare, e si pose unitamente col P. Vicario ad asciugarla, lasciandola totalmente asciutta. E perchè l’ora era tarda non si potè mettere in esecuzione lo che pretendevano i Signori Ingegnieri, molto più che mancarono gli operai necessari a tal fatica. Onde si ricoprì coi due cristalli con animo di ritornarvi l’indomani; come in effetto 11 terzo giorno dì 8 di Maggio ritornato l’Ingegniere in compagnia del P. Vicario e del detto Padre ed un altro Ingegniere si accorsero tutti che la statua seguiva a grondare da per tutto un copioso sudore, e specialmente dalla faccia, la quale sembrava al Relatore come una faccia d’Operaio, che trasuda qualor fatiga sotto i raggi del sole in tempo d’estate, e si djffondeva in tanta copia l’umore, che scorreva dalla fronte e faccia, che riempì tutto il fondo delle piegature delle vesti, come pure si vedevano bagnate le mani ed anche i piedi, ed il resto, come si è detto, dei marmi fu osservato dagli ingegnieri e dal relatore sempre asciutto. Onde uno degli ingegnieri uscito un fazzoletto mondo e delicato, che forse aveva portato per tale effetto cominciò ad asciugare la faccia di detta Immagine, ed il fazzoletto se lo portò via, lo che fece anche detto Padre e col P Vicario con quella manica di camice, quale si conserva in detto Convento con una tovaglia del medesimo Altare. E coperta già la statua con doppia custodia di tavole e travi ben grossi, dopo lo spazio di 26 giorni circa, si tolse quella difesa di legna, e si trovò la statua asciutta, ed asciutte le tovaglie, colle quali era involta, spargendosi, frattanto per tutto il Campo che la Statua di marmo di S. Lucia aveva più volte sudato, perchè vi fù un gran concorso d’Ufficiali, Soldati e specialmente dell’Ecc.mo Sig.r Marchese di Grazia reale. Perciò ha detto ed attestato quanto di sopra cum juramento fatto, pectore more sacerdotali.
Ego Fr. Michaelangelus a Siracusis testore ut S.a D.n Franciscus Salvaloco V. Cancellarius.

Finalmente la pace
L’assedio continuò per tutto il mese di maggio, rifiutandosi gli ufficiali austriaci di capitolare pur nella consapevolezza che la resa agli spagnoli era ormai inevitabile. Sempre il Privitera, narrando del Generale Orsini Comandante della Piazza, dice:
« quando una bomba caduta a caso nella sua stanza mentr’ei desinava, lo affrettò più prestamente a risolvere; giacchè preso dallo spavento, e dal timore che quella non iscoppiasse, fe’ caldissimo voto alla Santa Protettrice della Città, che se lo liberasse dal presente pericolo ei cederebbe la piazza incontanente. La bomba, senza esplodere, nè recar danno alcuno, là restò inerte dove cadde ».
Era il 30 maggio 1735 e Siracusa finalmente ottenne pace. La bomba caduta nella casa dell’Orsini è tuttora esposta presso il Centro Espositivo Luciano nel Duomo di Siracusa.

 

22 NOVEMBRE: SANTA CECILIA, VERGINE E MARTIRE

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22 NOVEMBRE: SANTA CECILIA, VERGINE E MARTIRE

Nobile romana.
La festa di santa Cecilia, vergine e martire, è la più popolare fra le feste che si succedono al declinare dell’anno liturgico. Cecilia appartenne ad una delle più illustri famiglie di Roma e nel secolo III fu una delle più grandi benefattrici della Chiesa, per la sua generosità e per il dono che alla Chiesa fece del suo palazzo in Trastevere. Meritò certamente per questo di essere sepolta con onore nel cimitero di san Callisto presso la cripta destinata alla sepoltura dei Papi. Ma ciò che maggiormente contribuì a farla amare dappertutto è il fatto che sul suo ricordo è nato un grazioso racconto, che ha ispirato pittori, musici, poeti e la stessa Liturgia.
Cecilia sarebbe stata costretta a sposare un giovane pagano: Valeriano. Durante il festino nuziale, rallegrata dalle melodie della musica, Cecilia nel suo cuore si univa agli Angeli per cantare le lodi di Dio, al quale si era consacrata. Condannata ad essere bruciata nelle terme del suo palazzo, il fuoco non la toccò e, inviato un carnefice, perché le troncasse la testa, tentò tre volte, facendole tre gravi ferite al collo, ma la lasciò ancora semiviva e l’agonia durò quattro giorni. Fu deposta nella tomba vestita della veste di broccato d’oro, che indossava nel giorno del martirio, il suo palazzo fu trasformato in basilica.

Il culto.
I fedeli non dimenticarono la giovane martire e sappiamo che già nel secolo V essi solevano raccogliersi al titolo di santa Cecilia. Nel secolo VI Cecilia era forse la santa più venerata di Roma e nel secolo nono Papa Pasquale restaurò la sua chiesa. Spiacente di non possedere reliquie della santa, il Papa vide una notte in sogno una giovane bellissima, che gli disse essere il suo corpo molto vicino alla chiesa restaurata. Fatti degli scavi si ritrovò il corpo vestito di broccato e fu collocato in un sarcofago di marmo sotto l’altare della chiesa.
Nel 1559 il cardinale Sfondrati, modificando l’altare, ritrovò il sarcofago e lo fece aprire. I presenti videro un corpo coperto di un leggero velo, che ne lasciava intravvedere le forme e sul quale scintillavano i resti della veste di broccato. Emozione e gioia a Roma furono immense, ma non si osò, per un senso di rispetto, sollevare il velo per rendersi conto delle condizioni della salma venerata. Lo scultore Maderno riprodusse nel marmo, idealizzandola, la positura della santa che evoca l’idea della verginità e del martirio. Da quella data, come canta un inno,  » il corpo riposa sotto il marmo silenzioso, mentre in cielo, sul suo trono, l’anima di Cecilia canta la sua gioia e accoglie con benevolenza i nostri voti ».
E i nostri voti la Chiesa rivolge a santa Cecilia, ricordando il suo nome ogni giorno nel Canone della Messa e cantandolo nelle Litanie dei Santi, in occasione delle suppliche solenni. I musici di ogni regione del mondo la venerano quale patrona, la Francia innalzò in Albi una luminosa cattedrale e nel 1866, Dom Guéranger pose sotto la protezione della santa, modello di verginità cristiana e di puro amore, il primo convento dei Benedettini della Congregazione di san Pietro di Solesmes.

Gli insegnamenti della santa.
La scarsità di notizie storiche non deve sminuire l’amore che dobbiamo serbare per i santi ai quali la Chiesa ha sempre reso un culto, ottenendo costante protezione e grazie importanti nel corso della storia.
« La Chiesa onora in santa Cecilia, diceva Dom Guéranger, tre caratteristiche, che, riunite insieme, la distinguono nella meravigliosa coorte dei santi in cielo e ne fa derivare grazie ed esempi. Le caratteristiche sono la verginità, lo zelo apostolico e il sovrumano coraggio con il quale sfidò la morte e i supplizi e di qui il triplice insegnamento che ci dà questa sola storia cristiana ».

La verginità.
« Nel nostro tempo, ciecamente asservito al culto della sensualità, occorre resistere con le forti lezioni della nostra fede al travolgimento cui a stento riescono a sottrarsi i figli della promessa. Dopo la caduta dell’impero romano si videro forse costumi, famiglia e società correre pericolo così grave?
Letteratura, arti, lusso, già da tempo presentano il godimento fisico come unico scopo dell’uomo e ormai nella società troviamo molti che vivono col solo intento di soddisfare i sensi. Sventurato il giorno in cui la società, per essere salvata, crederà di poter contare sulle energie dei suoi membri! L’impero romano fece l’esperienza, tentò più volte di respingere l’invasione, ma per l’infrollimento dei suoi figli, ricadde su se stesso e non si sollevò più.
Soprattutto è minacciata la famiglia. È tempo che essa pensi alla sua difesa contro il riconoscimento legale e l’incoraggiamento del divorzio, e si difenderà in un modo solo: riformando se stessa, rigenerandosi con la legge di Dio e ritornando dignitosa e cristiana. Torni in onore il matrimonio con le sue caste esigenze, cessi di essere un gioco o una speculazione, paternità e maternità siano serio dovere e non calcolo e, con la famiglia, riprenderanno dignità e vigore la città e lo Stato.
Però, se gli uomini non sapranno apprezzare l’elemento superiore, senza del quale la natura umana è soltanto rovina, cioè la continenza, il matrimonio non potrà di nuovo nobilitarsi. Non tutti sono tenuti ad abbracciarlo nella sua nozione assoluta, ma tutti devono onorarlo, se non vogliono trovarsi in balia del senso mostruoso come dice l’Apostolo (Rm 1,28). La continenza rivela all’uomo il segreto della sua dignità, che tempra l’anima a tutte le rinunce, che risana il cuore ed eleva tutto il suo essere. La continenza è il culmine della bellezza morale dell’individuo e, nello stesso tempo, la grande forza della società umana. Il mondo antico, avendone soffocato il sentimento, andò in dissoluzione e solo il Figlio della Vergine, comparso sulla terra, rinnovando e affermando questo principio salvatore, diede all’umanità nuove energie.
I figli della Chiesa, degni di questo nome, gustano questa dottrina e non ne restano stupiti, perché le parole del Salvatore e degli Apostoli loro hanno rivelato, e la storia della fede che professano in ogni sua pagina presenta loro in atto, la feconda virtù della continenza. che tutti gli stati della vita cristiana devono professare, ciascuno nella sua misura. Per essi santa Cecilia è solo un esempio di più, ma così fulgido da meritare la venerazione di tutti i tempi nella storia del cristianesimo. Quanta virtù ha ispirato Cecilia, quanto coraggio ha saputo infondere e quante debolezze ha prevenute o riparate! Tanta potenza di moralizzazione pose Dio nei suoi santi che influisce non solo attraverso la diretta imitazione delle loro virtù, ma ancora per le induzioni che ciascun fedele può trarne per il suo caso particolare ».

Lo zelo apostolico.
« Il secondo carattere che si deve studiare nella vita di santa Cecilia è l’ardore dello zelo del quale resta ammirabile esempio e anche sotto questo aspetto possiamo raccogliere utili insegnamenti. Caratteristica dell’epoca nostra è l’insensibilità al male del quale non ci sentiamo personalmente responsabili, i cui risultati non ci toccano. Si è daccordo che tutto precipita, si nota il totale sfacelo e non si pensa neppure a tendere la mano al vicino, per strapparlo al naufragio. Dove saremmo, se il cuore dei primi cristiani fosse stato gelido come il nostro e non fosse stato conquiso dall’immensa pietà e dall’inesauribile amore, che loro vietò di non avere più speranza per il mondo in cui Dio li aveva collocati, perché fossero sale della terra? (Mt 5,13). Tutti allora sentivano la responsabilità del dono ricevuto. Liberi o schiavi, persone note o sconosciute, tutti erano oggetto di una dedizione senza limiti da parte di questi cuori pieni della carità di Cristo. Leggendo gli Atti degli Apostoli e le Epistole si vedrà con quale pienezza si sviluppava l’apostolato dei primi tempi e come l’ardore dello zelo durasse a lungo senza affievolirsi, tanto che i pagani dicevano: « Vedete come si amano! ». Come avrebbero potuto non amarsi, se in ordine alla fede si sentivano figli gli uni degli altri?
Quanta tenerezza materna provava Cecilia per i fratelli, per il fatto di essere cristiana! Il nome di Cecilia, e con il suo molti altri, ci testimoniano che il cristianesimo conquistò il mondo, strappandolo al giogo della depravazione pagana, con questi atti di devozione agli altri che, compiuti in mille luoghi nello stesso tempo, produssero un completo rinnovamento. Imitiamo almeno in parte questi esempi cui tutto dobbiamo e vediamo di sciupare meno tempo ed eloquenza a gemere su mali già troppo noti. È meglio che ciascuno si metta all’opera e conquisti uno almeno dei suoi fratelli e il numero dei fedeli avrà già superato quello degli increduli. Lo zelo non è morto, lo sappiamo, opera anzi in molti e dà gioia e conforto alla Chiesa con i suoi frutti; ma perché deve dormire cosi profondamente in tanti cuori che Dio per lo zelo aveva preparati? ».

Il coraggio.
« Basterebbe davvero a caratterizzare l’epoca il generale torpore causato dalla mollezza dei costumi; conviene aggiungere ancora un altro sentimento, che ha la stessa sorgente e basterebbe, se dovesse durare a lungo, a rendere incurabile il decadimento di una nazione. Tale sentimento è la paura che ormai si è estesa a tutti. Paura di perdere i propri beni o i propri posti, paura di rinunciare al proprio lusso o alle proprie comodità, paura infine di perdere la vita! Non occorre dire che nulla snerva di più e maggiormente danneggia il mondo di questa umiliante preoccupazione, ma soprattutto occorre dire che non è affatto cristiana. Dimentichiamo di essere soltanto pellegrini sulla terra e abbiamo spenta nel cuore la speranza dei beni futuri! Cecilia ci insegna a disfarci della paura. Quando Cecilia era viva, la vita era meno sicura di oggi e a ragione si poteva avere paura e tuttavia si era tranquilli e spesso i potenti tremavano davanti alle loro vittime.
Solo Dio sa ciò che ci attende; ma se la paura non è sostituita da un sentimento più degno dell’uomo e del cristiano, la crisi politica divorerà presto la vita dei singoli e perciò, qualsiasi cosa avvenga, è giunta l’ora di ricominciare la nostra storia. Non sarà vano l’insegnamento, se arriveremo a comprendere che con la paura i primi cristiani ci avrebbero traditi, perché la parola di vita non sarebbe giunta fino a noi, con la paura a nostra volta tradiremmo le future generazioni, che da noi attendono di ricevere il deposito ricevuto dai nostri padri » (Dom Guéranger, u. s.).

Lode allo sposo delle vergini. 
« Quale nobile falange ti segue, o Signore, Sposo delle vergini! Le anime di elezione sono tua conquista e dalle loro pure labbra sale a te la lode squisita dei loro cuori ferventi. Non è possibile contarle attraverso i secoli, perché ogni generazione ne accresce il numero, da quelle che consacrano, per amore a te, la loro vita ai poveri, ai malati, ai lebbrosi, e a tutte le miserie morali, a quelle che, per amore tuo, rinunciano alle gioie della famiglia e si consacrano alle scuole cristiane, alle istituzioni benefiche o si mortificano nei chiostri.
Ecco, prime, le vergini particolarmente benemerite, perché sigillarono col sangue il loro amore sui roghi o nelle arene: Blandina, Barbara, Agata, Lucia, Agnese… e Cecilia, che in nome di tutte fece omaggio della loro fortezza e consacrò la gloria della loro virtù, a te, o Gesù, seminator casti consilii (Prima Antifona del secondo Notturno della festa), divino seminatore di casti propositi, che solo, mieti simili spighe, che solo, leghi tali manipoli! ».

Preghiera alla patrona dei musici.
« Una similitudine frequente nei Padri della Chiesa fa dell’anima nostra una sinfonia, un’orchestra, Symphonialis anima. Appena la grazia l’afferra, come il soffio che sotto le dita dell’artista fa vibrare l’organo, si commuove e vibra all’unisono coi pensieri e sentimenti del Salvatore. Ecco il magnifico concerto delle anime pure, che Dio può ascoltare con compiacenza, senza che lo turbi la stonatura delle note false del peccato, né la cacofonia urtante delle bestemmie e dei tradimenti!
Degnati, o Cecilia, ricambiare il nostro omaggio, ottenendoci la costante armonia della nostra volontà con le nostre aspirazioni alla virtù e le nostre possibilità di fare il bene! Degnati convincerci che lo stato di grazia, vita normale del cristiano, non è sola astensione dal male, né avara e fredda osservanza dei comandamenti, ma un’attività piena di gioia e di entusiasmo, che sa dare alla carità e allo zelo tutte le possibilità » (Card. Grente, Oeuvres Oratoires, VIII, p. 17-20).

Preghiera per la Chiesa.
« Aggiungiamo ancora una preghiera per la santa Chiesa di cui fosti umile figlia, prima di esserne speranza e sostegno. Nella notte fitta del secolo presente, lo Sposo tarda ad apparire e nel solenne e misterioso silenzio permette alla vergine di abbandonarsi al sonno fino a quando si farà sentire l’annuncio del suo arrivo (Mt 25,5). Onoriamo il tuo riposo sulla porpora della tua vittoria, o Cecilia!

Sappiamo che non ci dimentichi, perché nel Cantico, lo Sposo dice: Dormo, ma il mio cuore vigila (Ct 5,2).

È vicina l’ora in cui lo Sposo apparirà, chiamando tutti i suoi sotto l’insegna della sua Croce e presto risuonerà il grido: Ecco lo Sposo, uscitegli incontro! (Mt 25,6). Dirai allora, o Cecilia, ai cristiani, come al fedele drappello, che, nell’opera della lotta si è stretto attorno a te: Soldati di Cristo, rigettate le opere delle tenebre, vestite le armi della luce (Atti di santa Cecilia).
La Chiesa, che pronunzia tutti i giorni il tuo nome con amore e con fede durante i santi Misteri, attende con certezza il tuo soccorso, o Cecilia! Sa che l’aiuto non le mancherà. Tu prepara la sua vittoria, elevando i cuori cristiani verso le sole realtà troppo spesso dimenticate. Quando gli uomini ripenseranno alla eternità del nostro destino, sarà assicurata salvezza e pace ai popoli.
Sii sempre, o Cecilia, le delizie dello Sposo! Saziati dell’armonia suprema di cui è sorgente. Veglierai su di noi dalla gloria del cielo e, quando giungerà la nostra ultima ora, assistici, te ne supplichiamo, per i meriti del tuo eroico martirio, assistici sul letto di morte, ricevi l’anima nostra nelle tue braccia, portala al soggiorno immortale, dove ci sarà dato comprendere, vedendo la felicità che ti circonda, il prezzo della verginità, dell’apostolato e del martirio » (Dom Guéranger, Histoire de sainte Cécile, 1849, Conclusione).
 

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 1302-1308

11 novembreSAN MARTINO VESCOVO

http://www.parrocchiavedelago.it/storia_san_martino.htm

SAN MARTINO VESCOVO

Martino nacque nel 316 o 317 nella provincia romana della Pannonia, l’odierna Ungheria. Il padre, militare, chiamò il figlio Martino, cioè piccolo Marte, in onore del dio della guerra. Ancora bambino Martino giunse coi genitori a Pavia, dove suo padre era stato destinato, ed in questa città fu allevato. Proprio a Pavia, Martino chiese di essere ammesso al catecumenato, ma, come ogni figlio di veterano aveva una carriera già trattata: l’esercito. A soli 15 anni fu obbligato al giuramento militare dal padre, irritato dalla ripugnanza del figlio per la professione delle armi e della sua inclinazione verso la vita del Monaco cristiano. Così Martino si preparò alla carriera delle armi e fu in breve promosso al grado di « circitor ». Il compito delle « circitor » era la ronda di notte e l’ispezione dei posti di guardia. Durante una di queste ronde, Martino incontrò, nel cuore dell’inverno, un povero seminudo e, non avendo più denari, prese la spada, tagliò in due il proprio mantello e ne donò la metà al povero. La notte seguente egli vide in sogno Cristo, avvolto in quel mantello che gli sorrideva riconoscente.
 Questo atto di carità probabilmente avvenne nel 338 mentre Martino era di guarnigione ad Amiens; nella Pasqua del 339 egli ricevette il battesimo. Dopo il battesimo, Martino rimase nell’esercito per circa vent’anni durante i quali condusse una vita da vero cristiano e da buon camerata, dando comprensione a tutti. Infine a quarant’anni decise di mettere in esecuzione il progetto della sua giovinezza: lasciare le armi e farsi Monaco. Dopo l’esonero dal servizio militare, Martino si recò a Poitiers, presso Ilario, suo amico, che era stato eletto vescovo. Egli aveva potuto conoscere il grande vescovo in una delle città dov’era stato di guarnigione e aveva concepito per lui un’ammirazione grandissima. Ilario lo accolse molto bene e lo ordinò esorcista, carica poco ambita, ma che avrebbe permesso al nuovo chierico di dedicarsi allo studio delle cose di Dio sotto la direzione di un incomparabile maestro. Una notte però Martino sognò che doveva convertire i sui vecchi genitori; partì allora per la Pannonia e convertì sua madre, ma non ebbe successo presso il padre, pagano ostinato. In tutta la regione dominava l’arianesimo. Per il suo coraggioso tentativo fu ingiuriato, dovette lasciare il paese. Si recò a Milano e poi in Liguria, nell’isola di Gallinara, infine tornò a Poitiers, dove Ilario lo accolse nuovamente con grande gioia, ed in questo periodo fu ordinato diacono e poi prete. Ilario possedeva a poche miglia da Poitiers, una villa e permise a Martino di ritirarvisi: laggiù egli divenne Monaco, ben presto circondato da discepoli, evangelizzando coloro che abitavano nei dintorni. Sorse così il monastero di Ligugè, il più antico conosciuto d’Europa.
Martino visse a Ligugè dalla decina d’anni, fino a quando i cristiani di Tours furono chiamati a scegliere un nuovo vescovo. Essi desideravano che Martino governasse la loro Chiesa e, per vincere la sua resistenza, ricorsero ad un sotterfugio. Un certo « Rusticus » con il pretesto dalla malattia di una moglie, andò da Martino, supplicandolo di guarirla, e poiché il santo non poteva resistere ad un appello di carità si mise in cammino. Sulla strada un gruppo di cristiani gli tese un’imboscata, lo catturò e lo condusse sotto scorta in città. Qui giunto, la popolazione lo chiamò vescovo. Eletto per acclamazione, Martino non poté sottrarsi e fu consacrato vescovo di Tour, sembra dal 4 luglio 371; il suo episcopato durò 26 anni. Martino fù un vescovo attivo ed energico propagatore della fede. Tale era l’ardore della sua fede, così grande il suo disinteresse, che la passione della giustizia lo spinse a diventare missionario tra i pagani, protettore degli oppressi e, per la sua bontà, arbitro tra i fedeli, i funzionari imperiali e gli stessi imperatori. Ma per evangelizzare occorrevano anche sacerdoti seriamente preparati: per questo Martino creò a Marmoutier, quello che potremmo chiamare il primo centro di formazione clericale dalla Gallia.
    Da Marmoutier e da Tours l’attività del santo si irradiò in ogni direzione: per 26 anni, e fino alla morte, proseguì la sua opera di evangelizzazione con una mirabile giovinezza di spirito, lottando contro l’eresia ed il male e contro la miseria umana. Un giorno, sul finire dall’autunno del 397, si recò nella parrocchia rurale di Condate, per mettere pace tra i chierici in lite tra loro. Al momento di ripartire per Tours, però, si sentì allo stremo delle forze e  fu assalito dalla febbre: comprese che si avvicinava la sua ultima ora. Si fece distendere su di un cilicio e su di un letto di cenere, come era usanza degli asceti del tempo, e attese la morte in preghiera. Morì l’8 novembre 397. Il suo corpo fu ricondotto, navigando sulla Loira, fino a Tours, le esequie ebbero luogo l’undici novembre fra un immenso concorso di popolo venuto d’ogni parte. Tutti accompagnarono il vescovo fino al cimitero, dove fu deposto in una semplicissima tomba, come egli avrebbe desiderato, e dove ben presto sarebbe sorta una grande basilica. Alla grande basilica sorta a Tours in onore di Martino fu annessa in epoca seguente a un monastero con grandi edifici destinati ai pellegrini e dove tutta la nobiltà franca e merolingia aveva uno dei propri figli; anche coloro che non vi restavano come monaci vi compivano gli studi. Il corpo di San Martino fu spesso spostato: racchiuso in un cofano, o sotto un’altare, o sotto un ciborio, come si costumava all’epoca merolingia, per anni, durante le invasioni normanne, e fu conservato al sicuro; gli Ugolotti lo arsero il 25 maggio 1562. Alcune reliquie però poterono essere salvate e sono tutt’ora venerate nell’attuale basilica di Tours. Un frammento  è costodito a Ligugè, suo primo monastero. La festa di San Martino si celebra l’undici novembre di ogni anno.

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