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SAN MASSIMILIANO MARIA KOLBE – 14 AGOSTO

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SAN MASSIMILIANO MARIA KOLBE – 14 AGOSTO
Frate Minore Conventuale

Ad Auschwitz diventa il n. 16670. Comincia tirando carri di ghiaia e di sassi per la costruzione di un muro del crematorio. A lui, perché prete toccava un peso due o tre volte superiore. Lo vedono sanguinare e barcollare. Non vuole che gli altri si espongano per lui.  » Non vi esponete a ricevere colpi per me. L’immacolata mi aiuterà, farò da solo « .

San Massimiliano Maria Kolbe
(8 gennaio 1894 – 14 agosto 1941)

Oggi siamo di fronte a un volto luminoso, davanti al quale tutti, anche i non credenti, si inchinano volentieri e di cui tutti parlano con venerazione; S. Massimiliano Kolbe. Il fatto che egli abbia offerto la sua vita ad Auschwitz, riscattando con la sua carità e il suo martirio la dignità dell’uomo oppresso, basta ad attirargli tutte le simpatie.
Ma noi vogliamo piuttosto imparare a comprendere quel suo gesto così decisivo sullo sfondo di tutta la sua esistenza: la sua vocazione, gli ideali coltivati, l’infaticabile operosità, la « ostinata » missionarietà, perfino ciò che a qualcuno potrebbe sembrare « eccessivamente integrista », e che esprime invece la integralità della sua fede. Per non correre il rischio di staccare artificialmente la sua morte dalla sua vita.
P. Massimiliano Kolbe fu figlio del suo tempo e della sua terra: nacque nel 1894 in un paesino polacco, da genitori che gestivano un piccolo laboratorio di tessitura. Morì a 47 anni, nel 1941 ad Auschwitz. Entrò nel seminario dei Frati francescani Minori Conventuali nel 1907, a tredici anni; novizio a 16 anni (1910). Dal 1912 al 1919 studia filosofia e teologia a Roma. Laurea in filosofia nel 1915 e laurea in teologia nel 1919. Si interessa di fisica e di matematica e giunge fino a progettare nuovi tipi di aerei ed altre apparecchiature.
A Roma assiste a una processione di anticlericali-massoni che vanno a celebrare Giordano Bruno inalberando uno stendardo nero su cui Lucifero schiaccia S. Michele Arcangelo. In piazza S. Pietro vengono distribuiti volantini in cui si dice che « Satana deve regnare in Vaticano e il Papa dovrà fargli da servo ». Il giovane Massimiliano ha una concezione cavalleresca della vita, al modo degli antichi cavalieri medioevali: ma la sua dama è la Madonna.
Si convince che è iniziata « l’Era dell’immacolata » quella in cui Maria dovrà, come dice la Genesi, schiacciare la testa del serpente. Scrive: « Bisogna seminare questa verità nel cuore di tutti gli uomini che vivono e vivranno fino alla fine dei tempi e curarne l’incremento ed i frutti di santificazione; bisogna introdurre l’Immacolata nei cuori degli uomini affinché Ella innalzi in essi il trono del Figlio suo e li trascini alla conoscenza di Lui e li infiammi d’amore verso il Sacratissimo Cuore di Gesù ».
Da parte sua ha una devozione totale e gentile: chiama la Madonna con i nomi più teneri e familiari, come solo i polacchi sanno fare, profondamente convinto che i cristiani devono diventare « cavalieri dell’Immacolata », e fonda una associazione. È la « Milizia dell’immacolata » di cui abbiamo gli statuti autografi. Le prime parole che riguardano il fine dell’associazione sono queste: « Cercare la conversione dei peccatori, degli eretici, degli scismatici, dei giudei ecc. e soprattutto dei massoni (parola sottolineata due volte); e soprattutto la santificazione di tutti sotto il Patrocinio e con la mediazione della Beata Maria Vergine ».
Accennavo all’accusa di integrismo che oggi P. Kolbe si tirerebbe addosso da parte di molti cristiani benpensanti e schifiltosi. Infatti la Milizia dell’immacolata non ha affatto un programma spiritualistico, non descrive tanto una « opzione religiosa » ma una scelta globale.
Eccola: « Con l’aiuto di Dio dobbiamo fare in modo che i fedeli Cavalieri dell’immacolata si trovino dappertutto, ma specialmente nei posti più importanti come:
•l’educazione della gioventù (professori di istituti scientifici, maestri, società sportive);
•la direzione dell’opinione delle masse (riviste, quotidiani, la loro direzione e diffusione, biblioteche pubbliche, biblioteche circolanti, conferenze, proiezioni cinematografiche);
•le belle arti: scultura, pittura, musica, teatro.
I militi dell’immacolata divengano in ogni campo i primi pionieri e guide nelle scienze (scienze naturali, storia, letteratura, medicina, diritto, scienze esatte ecc.). Sotto il nostro influsso e sotto la protezione dell’Immacolata sorgano, si sviluppino i complessi industriali, commerciali, le banche. In una parola la Milizia impregni tutto e in uno spirito sano guarisca, rafforzi e sviluppi ogni cosa alla maggior gloria di Dio, per mezzo dell’immacolata e per il bene della comunità ».
La realizzazione di questo progetto? Semplicemente incredibile per le possibilità di un uomo. Nel 1927 inizia a costruire dal nulla un’intera città a circa 40 km da Varsavia. Lui ne parla come di una futura seconda Varsavia. Chiama la città « Niepokalanow »: città dell’Immacolata.
In pochi anni ecco descritta la prima realizzazione: « Una vasta area libera per la costruzione di una grande basilica dell’immacolata… Un complesso-editoria (che comprendeva): la redazione, la biblioteca, la tipoteca, il laboratorio dei linotipisti, la zincografia con i gabinetti fotografici, le tipografie…, ed ancora i vari reparti della legatoria, dei depositi e delle spedizioni. L’ala sinistra… comprendeva, in fabbricati distinti, la cappella, l’abitazione dei religiosi, il postulandato, il noviziato, la direzione generale, l’infermeria e, alquanto distanziata, la grande centrale elettrica. E poi, sparsi un po’ dovunque, le officine dei fabbri e dei meccanici, i laboratori per i falegnami, per i calzolai, per i sarti, nonché le grandi rimesse per i muratori e il corpo dei pompieri. Ma non è ancora finito: c’erano il parco macchine, la piccola stazione ferroviaria con il binario di raccordo con quella pubblica e statale; previsto anche l’aeroporto con quattro velivoli e un progetto di stazione radio trasmittente. Dovunque grossi tronchi d’albero, depositi di legname, tubi e materiale edilizio di vario genere ».
La capacità di Massimiliano Kolbe di trascinare gli altri dietro questo suo ideale cavalleresco è data da queste cifre: dopo una decina di anni o poco più a Niepokalanow vivono 762 religiosi: 13 sacerdoti, 18 chierici, 527 religiosi conversi, 122 giovani aspiranti sacerdoti, 82 giovani aspiranti religiosi conversi. Quando Massimiliano Kolbe, tornando sacerdote da Roma, aveva rimesso piede in Polonia la Provincia francescana contava poco più di un centinaio di religiosi. I religiosi di Niepokalanow devono essere poverissimi ma avere a disposizione quanto di meglio c’è sul mercato: dall’aereo alle rotative ultimo modello.
I frati di Massimiliano sono capaci di tutto: dall’organizzare il corpo dei pompieri a prendere il brevetto di pilota, a studiare per diventare direttore d’orchestra in modo da poter curare personalmente la registrazione di dischi, a imparare i sistemi di regia cinematografica.
P. Massimiliano Kolbe che fonda, e dirige per i primi anni, questa enorme comunità, e ne resta sempre l’animatore, è descritto così: « Era tenace, ostinato, implacabile… Era un calcolatore nato: calcolava e raffrontava senza posa, valutava, fissava, combinava bilanci e preventivi. Se ne intendeva di tutto: di motori, di biciclette, di linotype, di radio; conosceva quello che costava poco e quello che costava molto; sapeva dove, come e quando era opportuno comperare… Non c’era sistema di comunicazione troppo veloce per lui, il veicolo del missionario, diceva spesso, dovrebbe essere l’aereo ultimissimo modello ».
La vita dell’intera comunità, invece, da P. Massimiliano Kolbe è descritta e spiegata con queste parole: « La nostra comunità ha un tono di vita un pochino eroico, quale è e deve essere Niepokalanow se veramente vuole conseguire lo scopo che si prefigge, vale a dire non solo di difendere la fede, di contribuire alla salvezza delle anime, ma con ardito attacco, non badando affatto a se stessi, conquistare all’immacolata un anima dopo l’altra, un avamposto dopo l’altro, inalberare il suo vessillo sulle case editoriali dei quotidiani, sulla stampa periodica e non periodica, sulle agenzie di stampa, sulle antenne radiofoniche, sugli istituti artistici e letterari, sui teatri, sulle sale cinematografiche, sui parlamenti, sui senati, in una parola dappertutto sulla terra; inoltre vigilare affinché nessuno mai riesca a rimuovere quei vessilli.
Allora cadrà ogni forma di socialismo, di comunismo, di eresie, gli ateismi, la massoneria e tutte le altre simili stupidaggini che provengono dal peccato… Così io mi immagino Niepokalanow ».
In questa nuova « città » sì stampano otto riviste per parecchie centinaia di migliaia di copie. (La maggiore tra esse,  » Il cavaliere dell’Immacolata « , tocca in quegli anni il milione di copie. P. Massimiliano prevede traduzioni in italiano, inglese, francese, spagnolo e latino). Lui vi abiterà pochissimi anni. Già nel 1930 è in Giappone dove fonda dal nulla una città analoga e la chiama « Il giardino dell’immacolata « .
Un autore che è critico verso l’opera di Kolbe scrive: « Mirava né più ne meno che a conquistare il mondo. Per questo andò a convertire i ‘pagani’ in Giappone; per questo ampliava incessantemente le sue editrici, fondava monasteri, sognava piani per estendere a tutto il mondo la Cavalleria dell’immacolata.
Tutte queste opere, concepite su scala gigantesca, le creò quasi dal nulla. Senza un soldo in tasca, questuando incessantemente col proverbiale saio rappezzato. Era un fenomeno di energia e di talento organizzativo. Intraprendeva ogni iniziativa letteralmente con le proprie mani. Mescolava la calce e portava i mattoni nel cantiere, lavorava alla cassa di composizione in tipografia. A Nagasaki intraprese l’edizione della versione locale de ‘Il Cavaliere dell’Immacolata’ senza sapere una parola di giapponese… ».
E durante l’edificazione della filiale giapponese « dormiva in una soffitta coprendosi col cappotto ». La sua Milizia dell’Immacolata, nel 1939, contava 800.000 iscritti.
« Noi, diceva P. Kolbe, abbracceremo il mondo intero » e aveva piani che riguardavano l’Iindia e il mondo arabo. Nel 1932, quando costruiva Niepokalanow decise che fosse piccolo un solo ambiente: il cimitero, perché diceva:  » prevedo che le ossa dei miei frati saranno disperse in tutto il mondo ».
Qual era dunque il suo ideale? Eccolo: « Bisogna inondare la terra con un diluvio di stampa cristiana e mariana, in ogni lingua, in ogni luogo, per affogare nei gorghi della verità ogni manifestazione di errore che ha trovato nella stampa la più potente alleata; fasciare il mondo di carta scritta con parole dì vita per ridare al mondo la gioia di vivere ».
La teologia di P. Kolbe era radicale e senza mezzi termini. Ecco come la sintetizza un suo biografo:  » Si ostinò a credere, a dire, a scrivere che la verità è una sola, quindi un solo Dio, un solo Salvatore, una sola Chiesa; gli uomini, tutti gli uomini, di conseguenza, sono chiamati ad aderire ad un solo Dio, ad un solo Salvatore, ad una sola Chiesa. A quell’ideale consacrò e immolò la sua vita di missionario della penna, come amava definirsi ».
Questo fu l’uomo su cui si abbatté la furia nazista. Sapeva ciò che gli aspettava. Aveva tanti amici che lo avvertivano di tutto. La Gestapo gli fece sapere addirittura che avrebbe gradito una sua opzione per la cittadinanza germanica se si fosse iscritto nella lista degli oriundi tedeschi, dato il suo cognome e le sue origini (nonostante che il cognome della madre fosse evidentissimamente polacco).
Fu arrestato una prima volta assieme ad alcuni suoi frati. Li confortava con queste parole: « coraggio, andiamo in missione ». In un primo tempo là Città dell’Immacolata fu adibita a ospedale con un ufficio della Croce Rossa. Pian piano si riempiva di rifugiati e di scampati, accolse 2000 espulsi dalla Polonia e alcune centinaia di ebrei. I tedeschi cominciarono a considerarla come un campo di concentramento.
Liberato una prima volta, P. Kolbe riorganizzò la città per la sopravvivenza di tutti i rifugiati organizzando infermeria farmacia, ospedale, cucine, panetteria, orto e altri laboratori. il 17 febbraio 1941 viene arrestato per la seconda volta. Dice: « Vado a servire l’immacolata in un altro campo di lavoro ». Il nuovo campo di lavoro è quello di Auschwitz. Tutta l’energia di questo uomo fisicamente fragilissimo (malato di tisi, con un solo polmone) è ora messa a confronto con la sofferenza più atroce. Una sofferenza che lo colpisce sistematicamente, come gli altri e più degli altri, perché appartiene al gruppo dei preti, quello che per odio e maltrattamenti è accomunato agli ebrei.
Diventa il n. 16670. Comincia tirando carri di ghiaia e di sassi per la costruzione di un muro del crematorio: un carro che doveva essere tirato sempre correndo. Ogni dieci metri una guardia con un bastone garantisce la persistenza del ritmo. Poi a tagliare e trasportare tronchi d’albero. A lui, perché prete, toccava un peso due o tre volte superiore a quello dei suoi compagni. Lo vedono sanguinare e barcollare. Non vuole che gli altri si espongano per lui. « Non vi esponete a ricevere colpi per me. L’immacolata mi aiuterà, farò da solo ». Quando lo vogliono portare all’ospedale del campo, se ne ha la forza, indica sempre qualcun altro che, a suo parere, ha più bisogno di lui: « io posso aspettare. Piuttosto quello lì… ».
Quando lo mettono a trasportare cadaveri, spesso orrendamente mutilati, e ad accatastarli per l’incenerimento, lo sentono mormorare pian piano: « Santa Maria prega per noi » e poi: « Et Verbum caro factum est  » (Il Verbo si è fatto carne).
Nelle baracche qualcuno la notte striscia verso di lui in preda all’orrore e si sente dire lentamente, pacatamente, come un balsamo: « l’odio non è forza creativa; solo l’amore è forza creativa ». Oppure parla dell’immacolata: « Ella è la vera consolatrice degli afflitti. Ascolta tutti, ascolta tutti! ». Gli ammalati lo chiamano: « il nostro piccolo padre ».
Poi venne quel giorno in cui un detenuto del blocco 14 riuscì a Fuggire. Padre Kolbe era stato assegnato a quel blocco solo da pochi giorni. Per tre ore tutti i blocchi vennero tenuti sull’attenti. Alle 9, per la misera cena, le file vengono rotte. Il blocco 14 dovette stare immobile mentre il loro cibo veniva versato in un canale.
Il giorno dopo, il blocco rimase tutto il giorno allineato immobile, sulla piazza: guardati, percossi, digiuni, sotto il sole di luglio: distrutti dalla fame, dal caldo, dall’immobilità, dall’attesa terribile. Chi cadeva veniva gettato in un mucchio ai bordi del campo. Quando gli altri blocchi tornarono dal lavoro si procedette alla decimazione: per un prigioniero fuggito dieci condannati a morte nel bunker della fame. Un condannato al pensiero della moglie e dei figli grida.
A un tratto il miracolo. P. Massimiliano esce dalla fila, si offre in cambio di quell’uomo che nemmeno conosce. Lo scambio viene accettato. Il miracolo per intercessione di P. Kolbe, Dio lo compie in quell’istante.
Dobbiamo veramente ricostruire ciò che avvenne. Non molti poterono udire. Ma tutti ricordano un particolare… Kolbe uscì dalla fila e si diresse diritto, « a passo svelto » verso il Lagerfuehrer Fritsch, allibito che un prigioniero osasse tanto. Per il Lagerfuehrer Fritsch i prigionieri erano solo dei numeri.
P. Kolbe lo costrinse a ricordare che erano uomini, che avevano una identità. « Che cosa vuole questo sporco polacco? ». « Sono un sacerdote cattolico. Sono anziano (aveva 47 anni). Voglio prendere il suo posto perché lui ha moglie e figli ».
La cosa più incredibile, il primo miracolo di Kolbe e attraverso Kolbe fu il fatto che il sacrificio venisse accettato.Lo scambio, con la sua affermazione di scelta e di libertà e di solidarietà, era tutto ciò contro cui il campo di concentramento era costruito. Il campo di concentramento doveva essere la dimostrazione che « l’etica della fratellanza umana » era solo vigliaccheria. Che la vera etica era la razza, e le razze inferiori non erano « umane ». Il principio umanitario secondo l’ideologia nazista era una menzogna giudeo-cristiana. Nel campo dì concentramento si dimostrava che l’umano è ciò che di più esterno c’è nell’uomo, una maschera che può essere levata a volontà.
« I campi di concentramento costituivano un frammento del dibattito filosofico definitivo » (Szczepanski). Che Fritsch accogliesse il sacrificio di Kolbe e soprattutto accogliesse lo scambio (avrebbe dovuto almeno decidere la morte di ambedue) e quindi il valore e l’efficacia del dono, fu qualcosa di incredibile. Era infatti un gesto che dava valore umano al morire, che rendeva il morire non più soggezione alla forza ma offerta volontaria. Per Fritsch o fu un lampo di novità o fu la totale cecità di chi non credeva più che quella gente avesse alcun significato storico. Di fatto non c’era nessuna speranza umana che quel gesto oltrepassasse i confini del campo di concentramento.
Né P. Kolbe poteva umanamente pensare a una qualsiasi eco storica del suo gesto. Ma P. Kolbe riuscì a dimostrare fisicamente che quel campo era un Calvario. E non mi riferisco a una immagine simbolica. Mi riferisco a una Messa. Da quel giorno, da quella accettazione, il campo possedette un luogo sacro. Nel blocco della morte i condannati vennero gettati nudi, al buio, in attesa di morire per fame. Non venne dato loro più nulla, nemmeno una goccia d’acqua. La lunga agonia era scandita dalle preghiere e dagli inni sacri che P. Kolhe recitava ad alta voce. E dalle celle vicine gli altri condannati gli rispondevano.
« L’eco di quel pregare penetrava attraverso i muri, di giorno in giorno sempre più debole, trasformandosi in sussurro, spegnendosi insieme al respiro umano. Il campo tendeva l’orecchio a quelle preghiere. Ogni giorno la notizia che pregavano ancora faceva il giro delle baracche. L’intorpidito tessuto della solidarietà umana ricominciava a pulsare di vita. La morte che lentamente veniva consumata nei sotterranei del tredicesimo blocco non era la morte di vermi schiacciati nel fango. Era un dramma e rito. Era sacrificio di purificazione » (Szczepanski).
La fama di ciò che avveniva si sparse anche negli altri campi di concentramento. Ogni mattina il bunker della fame veniva ispezionato. Quando le celle si aprivano quegli infelici piangevano e chiedevano del pane; chi si avvicinava veniva colpito e ributtato violentemente sul cemento.
P. Kolbe non chiedeva nulla non si lamentava, restava in fondo seduto, appoggiato alla parete. Gli stessi soldati lo guardavano con rispetto. Poi i condannati cominciarono a morire; dopo due settimane erano vivi solamente in quattro con P. Kolbe. Per costringerli a morire, il 14 agosto, venne fatta loro una iniezione di acido fenico al braccio sinistro. Era la vigilia di una delle feste mariane che Massimiliano amava di più: l’Assunta, a cui cantava sempre volentieri quella lauda popolare che dice:  » Andrò a vederla, un dì ! ».
« Quando aprii la porta di ferro, è il suo carceriere che racconta, non viveva più; ma mi si presentava come se fosse vivo. Ancora appoggiato al muro. La faccia era raggiante in modo insolito. Gli occhi largamente aperti e concentrati in un punto.Tutta la figura come in estasi.Non lo dimenticherò mai « .
Giovanni Paolo Il, predicando ad Auschwitz, ha detto: « In questo luogo che fu costruito per la negazione della fede, della fede in Dio e della fede nell’uomo, e per calpestare radicalmente non soltanto l’amore ma tutti i segni della dignità umana, dell’umanità, quell’uomo (il P. Kolbe) ha riportato la vittoria mediante l’amore e la fede ».
P. Kolbe ha dimostrato, in forza della sua fede, che l’uomo può creare abissi di dolore ma non può evitare che essi siano inabitati dal Crocifisso e dal mistero del Suo amore sofferente, che si riattualizza, che autonomamente e con forza inarrestabile decide di farsi « presente ». Fu soprattutto per questa decisione di Cristo che Fritsch, contro se stesso, dovette « accettare » lo scambio.
Due sono gli insegnamenti che ci restano contemplando il volto di P. Kolbe: uno torna dal suo martirio alla sua vita, l’altro va dalla sua vita al suo martirio. Nel primo insegnamento P. Kolbe ci dice che rispondere alla disumanità con l’offerta e il sacrificio di sé non è la risposta di chi non sa fare altro, di chi si rassegna e cede all’oppressore, di chi attende tutto dall’aldilà e perciò può subire. P. Kolbe ha dato la vita, accettando di morire, dopo che aveva spese tutte le sue energie per la costruzione di un mondo diverso, di un mondo nuovo, di un centuplo quaggiù. Il martirio non fu una fuga devota. Fu la pienezza della sua energia vitale. Nel secondo insegnamento P. Kolbe ci dice che la stoffa di cui sono fatti i martiri non è quella di chi nella sua vita si è divertito col pluralismo e con l’irenismo ad ogni costo, anche se li chiama « dialogo » ed « ecumenismo ». Esiste certamente un modo giusto di considerare questi valori (che è il modo della carità, non della perdita di identità), ma tante volte essi sono soltanto usati per preservarsi, per non dovere « dare la vita ». P. Kolbe definiva la fede con una nettezza impressionante, e con altrettanta decisione la propagandava e la voleva incarnare in tutti gli spazi della vita culturale e sociale; e seppe avere tanta carità da essere il primo « martire della carità ». Proprio con questo titolo, mai utilizzato prima, è stato canonizzato da Giovanni Paolo lI.
Ma chi, in nome di una pretesa carità cristiana, annacqua la fede e la rende culturalmente inincidente e irrilevante nella storia è sicuro d’avere proprio quella carità che abilita a dare la vita?
Questa è la domanda seria che discrimina tutti gli atteggiamenti dei cristiani e li giudica. La fede e la carità esigono, ambedue, forza e decisione, e crescono assieme con lo stesso coraggio.

BENEDETTO XVI – « DOVE SI FONDA IL MARTIRIO » (2010)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100811.html

BENEDETTO XVI – « DOVE SI FONDA IL MARTIRIO »

UDIENZA GENERALE

Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo

Mercoledì, 11 agosto 2010

IL MARTIRIO

Cari fratelli e sorelle,

oggi, nella Liturgia ricordiamo santa Chiara d’Assisi, fondatrice delle Clarisse, luminosa figura della quale parlerò in una delle prossime Catechesi. Ma in questa settimana – come avevo già accennato nell’Angelus di domenica scorsa – facciamo memoria anche di alcuni Santi martiri, sia dei primi secoli della Chiesa, come san Lorenzo, Diacono, san Ponziano, Papa, e san Ippolito, Sacerdote; sia di un tempo a noi più vicino, come santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, patrona d’Europa, e san Massimiliano Maria Kolbe. Vorrei allora soffermarmi brevemente sul martirio, forma di amore totale a Dio.
Dove si fonda il martirio? La risposta è semplice: sulla morte di Gesù, sul suo sacrificio supremo d’amore, consumato sulla Croce affinché noi potessimo avere la vita (cfr Gv 10,10). Cristo è il servo sofferente di cui parla il profeta Isaia (cfr Is 52,13-15), che ha donato se stesso in riscatto per molti (cfr Mt 20,28). Egli esorta i suoi discepoli, ciascuno di noi, a prendere ogni giorno la propria croce e seguirlo sulla via dell’amore totale a Dio Padre e all’umanità: “chi non prende la propria croce e non mi segue – ci dice, – non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,38-39). E’ la logica del chicco di grano che muore per germogliare e portare vita (cfr Gv 12,24). Gesù stesso “è il chicco di grano venuto da Dio, il chicco di grano divino, che si lascia cadere sulla terra, che si lascia spezzare, rompere nella morte e, proprio attraverso questo, si apre e può così portare frutto nella vastità del mondo” (Benedetto XVI, Visita alla Chiesa luterana di Roma [14 marzo 2010]). Il martire segue il Signore fino in fondo, accettando liberamente di morire per la salvezza del mondo, in una prova suprema di fede e di amore (cfr Lumen Gentium, 42).
Ancora una volta, da dove nasce la forza per affrontare il martirio? Dalla profonda e intima unione con Cristo, perché il martirio e la vocazione al martirio non sono il risultato di uno sforzo umano, ma sono la risposta ad un’iniziativa e ad una chiamata di Dio, sono un dono della Sua grazia, che rende capaci di offrire la propria vita per amore a Cristo e alla Chiesa, e così al mondo. Se leggiamo le vite dei martiri rimaniamo stupiti per la serenità e il coraggio nell’affrontare la sofferenza e la morte: la potenza di Dio si manifesta pienamente nella debolezza, nella povertà di chi si affida a Lui e ripone solo in Lui la propria speranza (cfr 2 Cor 12,9). Ma è importante sottolineare che la grazia di Dio non sopprime o soffoca la libertà di chi affronta il martirio, ma al contrario la arricchisce e la esalta: il martire è una persona sommamente libera, libera nei confronti del potere, del mondo; una persona libera, che in un unico atto definitivo dona a Dio tutta la sua vita, e in un supremo atto di fede, di speranza e di carità, si abbandona nelle mani del suo Creatore e Redentore; sacrifica la propria vita per essere associato in modo totale al Sacrificio di Cristo sulla Croce. In una parola, il martirio è un grande atto di amore in risposta all’immenso amore di Dio.
Cari fratelli e sorelle, come dicevo mercoledì scorso, probabilmente noi non siamo chiamati al martirio, ma nessuno di noi è escluso dalla chiamata divina alla santità, a vivere in misura alta l’esistenza cristiana e questo implica prendere la croce di ogni giorno su di sé. Tutti, soprattutto nel nostro tempo in cui sembrano prevalere egoismo e individualismo, dobbiamo assumerci come primo e fondamentale impegno quello di crescere ogni giorno in un amore più grande a Dio e ai fratelli per trasformare la nostra vita e trasformare così anche il nostro mondo. Per intercessione dei Santi e dei Martiri chiediamo al Signore di infiammare il nostro cuore per essere capaci di amare come Lui ha amato ciascuno di noi.

 

10 AGOSTO – SAN LORENZO MARTIRE

http://digilander.libero.it/sanlorenzoamaseno/vita%20di%20san%20lorenzo.htm

10 AGOSTO – SAN LORENZO MARTIRE

Le notizie sulla vita di san Lorenzo, che pure in passato ha goduto di una devozione popolare notevole, sono scarse. Si sa che era originario della Spagna e più precisamente di Osca, (l’odierna Huesca) in Aragona, alle falde dei Pirenei. Ancora giovane, fu inviato a Saragozza per completare gli studi umanistici e teologici; fu qui che conobbe il futuro papa Sisto II. Questi insegnava in quello che era, all’epoca, uno dei più noti centri di studi della città e, tra quei maestri, il futuro papa era uno dei più conosciuti ed apprezzati. Tra maestro e allievo iniziò un’amicizia e una stima reciproca. Entrambi, seguendo un flusso migratorio allora molto vivace, lasciarono la Spagna per trasferirsi a Roma. Quando il 30 agosto 257 Sisto fu eletto vescovo di Roma, affidò a Lorenzo il compito di arcidiacono, cioè di responsabile delle attività caritative nella diocesi di Roma, di cui beneficiavano circa 1500 persone fra poveri e vedove. Proprio per questa sua attività tra i poveri di Roma, Lorenzo godeva della stima e dell’amicizia di tante persone che quotidianamente ricevevano da lui aiuto e conforto. Purtroppo fonti storiche coeve non ne abbiamo, che possano testimoniare l’opera di Lorenzo. Ma è noto che la vita dei Santi Martiri inizia proprio con la loro morte. Durante la persecuzione di Diocleziano (303), non solo furono messi a morte numerosi cristiani, ma furono distrutti i libri sacri che venivano trovati e gli archivi della Chiesa, per questo mancano gli atti autentici del martirio. Le vicende più note del martirio di Lorenzo sono descritte, con ricchezza di particolari, nella Passio Polychromì, di cui abbiamo tre redazioni (V-VII secolo); che in questo racconto siano contenuti elementi leggendari è un dato di fatto, anche se talune notizie qui presentate sono note anche da testimonianze precedenti, come quella di Ambrogio nel De Officiis Ministrorum. In questo testo si narra dell’incontro tra il Papa Sisto II e il suo arcidiacono Lorenzo mentre Sisto, sorpreso a celebrare nelle catacombe di San Callisto, viene arrestato e condotto al martirio insieme a quattro diaconi della Chiesa di Roma. Era il 6 agosto dell’anno 258, quattro giorni dopo la stessa sorte sarebbe toccata anche a Lorenzo. Prima di morire però, Lorenzo si assicura che tutti i beni della Chiesa non cadessero nelle mani dell’Imperatore Valeriano e distribuì tutte le ricchezze ai poveri. Valeriano, avido di guadagno per le casse dello Stato, in cambio della vita, chiese a Lorenzo tutti i beni della Chiesa. Lorenzo prontamente gli presentò tutti i poveri che lui ogni giorno visitava, offrendoli all’Imperatore quali veri tesori. Forse fu proprio a questo punto, irato per l’insolita azione di Lorenzo, che Valeriano decise di dare al giovane una lezione che nessuno avrebbe dimenticato. Mostrando tutto il suo coraggio e l’ardore della sua fede in Cristo Signore, Lorenzo venne condotto al Martirio, un fuoco era stato preparato per lui, sul quale era stato posto un letto di ferro: una graticola sulla quale il giovane venne arso, ma davanti alla quale non indietreggio testimoniando a tutti di cosa è capace un uomo quando l’amore e la fede guidano i suoi passi. Statua San Lorenzo – Giubileo Laurenziano – Amaseno

IL MARTIRIO DI POLICARPO DI SMIRNE – (EUSEBIO DI CESAREA, STORIA ECCLESIASTICA, LIBRO IV 15,1-43)

http://camcris.altervista.org/policarpo.html

IL MARTIRIO DI POLICARPO DI SMIRNE

(EUSEBIO DI CESAREA, STORIA ECCLESIASTICA, LIBRO IV 15,1-43)

Il testo che segue riguarda un servo del Signore, Policarpo, vescovo della Chiesa di Smirne vissuto nel primo secolo cristiano. Di seguito potrete leggere il resoconto del suo martirio, della testimonianza che diede con la sua vita, e una sua lettera (la quale, pur non essendo parte della Sacra Scrittura, è di incoraggiamento e testimonianza della fedeltà dei primi cristiani alla Parola di Dio e ai Suoi insegnamenti).
La data del martirio di Policarpo, che lo storico cristiano Eusebio di Cesarea, nella Cronaca, pone nel 177, è fissata all’epoca di Antonino Pio, mentre l’Asia era sconvolta da grandissime persecuzioni. Il racconto della sua morte si è conservato fino ad oggi per iscritto.
Durante quel periodo di persecuzioni, Policarpo trascorse i giorni pregando intensamente il Signore. Implorava la pace per le Chiese di tutta la terra, come era sempre stata sua abitudine. Tre giorni prima del suo arresto, ebbe di notte una visione, e vide il cuscino che era sotto la sua testa incendiarsi improvvisamente e consumarsi. Al che si svegliò e spiegò subito la visione ai presenti, pur senza annunciare chiaramente che sarebbe morto per Cristo sul rogo.
I suoi inseguitori sopraggiunsero a tarda ora, e lo trovarono che riposava in una soffitta. Il racconto continua testualmente così:
« Avendo saputo della loro presenza, scese giù e parlò con loro con un viso dolcissimo e così lieto, che a quelli, che non l’avevano mai conosciuto prima, parve di vedere un miracolo, quando osservarono quell’uomo di età avanzata dal portamento venerando e calmo, e si meravigliarono di tanta preoccupazione per arrestare un simile vecchio. Senza indugi egli fece preparare subito una tavola per loro e li invitò a un abbondante pranzo, poi chiese loro un’ora soltanto, per pregare in pace. Gliela concessero ed egli, alzatosi in piedi, pregò pieno della grazia del Signore, al punto che i presenti, sentendolo pregare, rimasero stupefatti e molti di loro si pentirono che un vecchio così venerando e pio stesse per essere ucciso.
Quando terminò la preghiera, dopo aver ricordato tutti coloro che aveva incontrato, piccoli e grandi, illustri ed oscuri, e l’intera Chiesa cristiana sparsa nel mondo, venuta l’ora di andare, lo misero su di un asino e lo portarono in città, un sabato di festa. Lo incontrarono l’irenarca Erode e suo padre Niceta, i quali, fattolo salire sulla loro carrozza, gli si sedettero vicino e cercarono di convincerlo, dicendo: « Che male c’è a dire: Cesare signore, e a sacrificare per salvarsi? ». Egli dapprima non rispose, poi, dato che essi insistevano, disse: « Non intendo fare ciò che mi consigliate ». Allora, non riuscendo a persuaderlo, gli rivolsero male parole e lo fecero scendere tanto in fretta, che uscendo dalla carrozza si sbucciò lo stinco, ma egli, senza neppure voltarsi, come se non avesse sentito niente, proseguì a piedi in fretta e di buon grado, e fu condotto allo stadio. Qui il clamore era così grande, che nessuno avrebbe potuto farsi sentire. Ma all’ingresso di Policarpo nello stadio una voce venne dal cielo: « Sii forte, Policarpo, e comportati da uomo! ». Nessuno vide chi parlava, ma molti dei nostri che erano presenti udirono quella voce. Mentre veniva condotto, vi fu un grande tumulto da parte di quanti avevano udito che Policarpo era stato preso. Venuto quindi avanti, il proconsole gli chiese se fosse Policarpo, e poiché egli lo confermò, tentò di persuaderlo ad abiurare dicendo: « Rispetta la tua età », e altre cose simili che usano dire, come: Giura per il genio di Cesare, pentiti, di’: Basta con gli atei! Allora Policarpo, guardando col volto serio la folla che era nello stadio, agitò verso di essa la mano e gemendo levò gli occhi al cielo, e disse: « Basta con gli atei! ». Ma il proconsole insisteva: « Giura, e ti lascerò andare. Insulta Cristo ». Policarpo rispose: « Lo servo da ottantasei anni e non mi ha fatto alcun torto: come posso bestemmiare il mio re, colui che mi ha salvato? ». E l’altro insisteva: « Giura per il genio di Cesare ». Allora Policarpo disse: « Se ti illudi che io giuri per il genio di Cesare, come dici fingendo di non sapere chi sono io, ascolta bene: io sono cristiano. E se vuoi conoscere la dottrina del Cristianesimo, concedimi un giorno e stammi a sentire ». Rispose il proconsole: « Convinci il popolo! ». E Policarpo: « Ho stimato degno di un discorso te, perché ci hanno insegnato a tributare ai magistrati e alle autorità istituiti da Dio l’onore che loro compete, se questo non ci porta danno, ma costoro non meritano di ascoltare la mia difesa ». Riprese il proconsole: « Ho delle belve. Ti consegnerò a loro, se non cambi idea ». Rispose Policarpo: « Chiamale. Non cambieremo parere per andare dal meglio al peggio, mentre è bello passare dal male alla giustizia ». E l’altro: « Ti farò domare dal rogo, se non t’importa delle belve, a meno che tu non cambi idea ». E Policarpo: « Tu minacci un fuoco che brucia un momento e poco dopo si spegne, perché non conosci il fuoco del giudizio che verrà e della punizione eterna riservata agli empi. Ma perché indugi? Fa’ venire ciò che vuoi ». Dicendo queste e molte altre cose ancora, si riempì di coraggio e di gioia, e il suo viso si colmò di grazia, così che non solo non si spaventò alle parole rivoltegli, ma fu anzi il proconsole ad essere scosso, ed inviò un araldo in mezzo allo stadio ad annunciare tre volte: Policarpo ha confessato di essere cristiano. Appena l’araldo lo annunciò, tutta la folla di pagani e di Giudei abitanti a Smirne urlò a gran voce con ira incontenibile: « Questo è il maestro dell’Asia, il padre dei Cristiani, il distruttore dei nostri dei, colui che insegna a molti a non sacrificare e a non adorarli ». Così dicendo, urlarono e chiesero all’asiarca Filippo di lasciar libero un leone contro Policarpo, ma egli rispose che non gli era permesso perché lo spettacolo delle belve si era concluso. Allora pensarono bene di reclamare tutti a gran voce che Policarpo fosse bruciato vivo. Doveva così avverarsi la visione del cuscino che gli apparve mentre pregava, quando lo vide bruciare, e rivolto ai fedeli che erano con lui, profetizzò: « Devo essere bruciato vivo ». Il che avvenne quasi prima che fosse detto, giacchè la folla raccolse immediatamente dalle botteghe e dalle terme legna e fascine, e si prodigarono con alacrità soprattutto i Giudei, come era loro abitudine. Appena il rogo fu pronto, dopo essersi levato da solo tutti gli abiti, sciolto il cinto, prese a levarsi anche i calzari, cosa che prima non faceva mai da sé, perché ogni fedele cercava di farlo per primo: a causa della sua santità, venne infatti onorato in tutto ancora prima della vecchiaia. Quindi gli si misero subito intorno i materiali adatti al rogo. Quando fecero per inchiodarlo, disse: « Lasciatemi così. Perché colui che mi concede di sopportare il fuoco, mi concederà anche di resistere fermo sul rogo senza bisogno dei vostri chiodi ». Allora non lo inchiodarono, ma lo legarono. Messe le mani dietro alla schiena, fu legato, come un montone scelto da un grande gregge in olocausto accetto a Dio onnipotente, e disse: « Padre del tuo amato e benedetto Figlio Gesù Cristo, per mezzo del quale ti abbiamo conosciuto, Dio degli angeli e delle potestà, ti benedico per avermi ritenuto degno di questo giorno e di questo momento, rendendomi partecipe, nel numero dei martiri, del calice del tuo Cristo per la risurrezione dell’anima e del corpo nella vita eterna e nell’incorruttibilità dello Spirito Santo. Possa io oggi essere accolto fra loro innanzi a te in un sacrificio pingue e gradito, quale tu stesso mi hai preparato e manifestato e porti ora a compimento, Dio verace e leale. Perciò io ti lodo anche per tutte le cose, ti benedico, ti rendo gloria per mezzo dell’eterno gran sacerdote Gesù Cristo tuo Figlio diletto, e per mezzo suo sia gloria a te in unione con Lui nello Spirito Santo ora e sempre nei secoli venturi, amen ».
Pronunciato l’amen e terminata la preghiera, gli addetti appiccarono il fuoco, e mentre divampava una grande fiamma assistemmo ad un miracolo, noi a cui fu dato di vedere e che fummo serbati per raccontare agli altri ciò che avvenne. Il fuoco, infatti, prese forma di volta, come una vela di nave gonfiata dal vento, e circondò il corpo del martire, che vi era in mezzo non come carne che bruciava, ma come oro e argento arroventati in una fornace. E noi sentimmo un odore acuto come il profumo d’incenso o di altri aromi preziosi. Quei malvagi, infine, vedendo che il fuoco non riusciva a consumare il suo corpo, ordinarono ad un confector (l’esecutore, colui che nell’arena ‘finiva’ il lottatore o la belva già ferita) di andare a conficcarvi una spada. Fatto questo, ne uscì una tale quantità di sangue, che il fuoco si spense e tutta la folla stupì di una così grande differenza tra i non credenti e gli eletti, uno dei quali fu certamente il meraviglioso Policarpo, maestro apostolico e profetico nostro contemporaneo, vescovo della Chiesa di Smirne: ogni parola che uscì dalla sua bocca si è avverata e si avvererà. Ma il Maligno, rivale astuto, avversario della stirpe dei giusti, vedendo la grandezza del suo martirio, la sua condotta da sempre irreprensibile, la corona d’incorruttibilità da cui era cinto, il premio incontestabile ottenuto, si adoperò perché almeno il suo cadavere non fosse raccolto da noi, malgrado molti desiderassero farlo. Alcuni suggerirono quindi a Niceta, padre di Erode e fratello di Alce, di supplicare il governatore perché non consegnasse il suo corpo, ‘per timore’ disse ‘che si mettano a venerare costui, dimenticando il Crocifisso’. Dissero questo consigliati ed istigati dai Giudei, che ci spiavano quando stavamo per toglierlo dal rogo, perché non sanno che noi non potremo mai né abbandonare Cristo, che subì la passione per la salvezza di coloro che nel mondo intero sono salvati, né venerare qualcun altro. Perché Lui, noi l’adoriamo in quanto Figlio di Dio, mentre i martiri, li amiamo giustamente in quanto discepoli ed imitatori del Signore a causa del loro insuperabile amore per il proprio re e maestro. Voglia il cielo che anche noi possiamo essere loro compagni e condiscepoli! Il centurione, allora, vedendo la contesa provocata dai Giudei, fatto mettere il cadavere in mezzo, secondo la loro abitudine ordinò di bruciarlo.

SANTA LUCIA VERGINE E MARTIRE – 13 DICEMBRE

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SANTA LUCIA VERGINE E MARTIRE – 13 DICEMBRE

(segue a questa biografia la storia del culto che non metto, se volete leggerla al link)

PREMESSA
Numerosi sono i devoti che vengono a peregrinare fino alle Reliquie della Santa Siracusana. Alcuni giungono persino dal Nord-Europa, altri dall’America.
Ma spesso la pietà non si appaga nel visitare l’Urna o nel recitare delle preci. Vuol conoscere da vicino la Santa protettrice degli occhi.
Esaurita la « Vita di S. Lucia » del compianto prof. don Enrico Lacchin (valoroso docente di storia dell’arte nel Se­minario Patriarcale), s’è pensato di prepararne una di nuova, che pur nella brevità tenesse conto degli studi più recenti compiuti dall’agiografia.
La non lieve fatica venne generosamente portata a ter­mine dal carissimo prof. don Antonio Niero (insegnante nel Seminario).
Una piccola ricerca nel nostro archivio parrocchiale diede modo di inserire nel testo alcune stampe illustrative.
Possa ora questo piccolo libro sulla vita di S. Lucia correre nelle mani di molti per accendere nei cuori quella luce soprannaturale di cui la nostra Martire era mirabilmente dotata.

Don Aldo Fiorin
Parroco dei Ss. Geremia e Lucia
Docente di S. Scrittura nel Seminario

LA FAMIGLIA DI LUCIA
Sul finire del III secolo (anno 281?) nacque a Siracusa S. Lucia. La città natale era famosa per essere stata fiorente centro di vita greca prima e poi d’importante commercio, intimamente legata alle vi­cende delle guerre puniche: conquistata da Roma nel 212 a. C. assolse una funzione notevole tra le città della provincia di Sicilia.
Diffusosi il cristianesimo in età apostolica per merito del vescovo S. Marziano, inviato a Siracusa da
S. Pietro stesso secondo la tradizione, ospitò l’apo­stolo S. Paolo per tre giorni nel viaggio verso Roma, come testimoniano gli Atti degli Apostoli. La fede di Cristo, nonostante le varie persecuzioni, si era potuta diffondere notevolmente: quando nacque S. Lu­cia la colonia cristiana era assai numerosa con le sue chiese e le sue catacombe cimiteriali.
Secondo la tradizione, la famiglia della nostra santa era di nobile stirpe e ricca di possedimenti ter­rieri: ci è lasciato il nome della madre: Eutichia; del padre è detto che morì quando Lucia era quin­quenne appena. Probabilmente egli poteva chiamarsi Lucio, data la norma romana di porre alle figliuole il nome del padre. Anche la famiglia forse era già cristiana se consideriamo il nome imposto a Lucia, tipicamente cristiano secondo qualcuno, ispirato al testo paolino « siete figli della luce ». Lucia significa senz’altro Luce per il dotto Tillemont.

LA GIOVINEZZA
Cresceva bella e buona la bimba siracusana, sot­to lo sguardo vigile della madre: soprattutto era bella nella modestia del portamento, onde la madre già pensava per lei la soluzione di un felice matri­monio.
Invece Lucia aveva ben altro proposito nella sua vita: si era consacrata perennemente al Signore con voto di verginità. Neanche la madre fu a conoscen­za di questo.
Soltanto un insieme di circostanze fortuite resero manifesta la sua consacrazione al Signore.
Alla vicina città di Catania, ogni anno solevano andare in folla i cristiani per venerare il corpo del­la vergine martire S. Agata, morta per la fede di Cristo nel 231, durante la persecuzione di Decio. I miracoli, che avvenivano presso il suo sepolcro, ne avevano diffuso la fama in tutta la Sicilia cristiana.
Il 5 febbraio del 301, festa della Santa, tra i pellegrini c’erano anche Lucia ed Eutichia sua madre.
Da oltre quarant’anni Eutichia soffriva di gravi emorragie, per le quali nessun rimedio era stato uti­le: ormai aveva perduto ogni speranza di guarire.
In quel giorno, durante i sacri misteri, fu letto il tratto evangelico, che narrava l’episodio dell’emo­roissa: una malattia identica alla sua. Il testo evan­gelico fu compreso bene dalle due donne. Una fi­ducia insperata di poter guarire provò Eutichia e viva fede ebbe Lucia nella potenza miracolosa di S. Agata. L’emoroissa era guarita appena aveva toc­cato la veste del Signore: la madre di Lucia sareb­be stata risanata se invece avesse toccato il sepolcro della santa martire. Così Lucia suggerì a sua madre.
Sul far della sera, quando tutti ebbero lasciato la chiesa, le due donne rimasero nella penombra in fiduciosa preghiera accanto al sepolcro di S. Agata. Le loro parole alla Santa erano di intensa richiesta di guarigione. A lungo però non poterono pregare ché il sonno ebbe il sopravvento e Lucia si addor­mentò profondamente lì nella penombra della chiesa, accanto al sepolcro della martire catanese.
Nel sonno le parve di aver presente una visione nitida: schiere e schiere di angeli circondavano la ver­gine S. Agata, che sorrideva a Lucia e le diceva:
« Lucia sorella mia, vergine di Dio, perché chiedi a me ciò che tu stessa puoi concedere ? Infatti la tua fede ha giovato a tua madre ed ecco che è divenuta sana ».
Quando Lucia si svegliò, rivelò alla madre la visione serena e le parole risanatrici di S. Agata. Era guarita la madre. Inoltre era questo il momento opportuno .di farle conoscere il suo voto di vergi­nità. Così in realtà fece. Nessun rammarico mostrò la donna per questo proposito santo: anzi le disse che ogni sua cosa personale, dopo la morte, le sareb­be stata lasciata.
Il momento era adatto per Lucia per suggerire alla madre propositi di maggiore perfezione, giac­ché manifestava così vivamente il distacco dai beni della terra; onde la consigliò di vendere tutte le sue sostanze e darle ai poveri.
Per allora Eutichia non fece alcun progetto, ma poi, ritornate, a Siracusa, Lucia riprese ancora a parlarle dell’ideale di perfetta povertà. Ben presto si decise di vendere i suoi beni e distribuire il rica­vato ai poveri, seguendo gli esempi della primitiva chiesa di Gerusalemme.
Una tale elargizione se era esemplare nella fer­vente comunità cristiana di Siracusa, destava senz’al­tro lo stupore dei pagani, per i quali i beni di que­sto mondo erano le cose migliori della vita. Ordina­riamente un gesto del genere era sintomo evidente di fede cristiana: solo i seguaci di Cristo giungevano a disprezzare i beni della terra al punto da ven­derli e darli ai poveri. E così pensò uno a cui molto interessavano i beni di Lucia: un giovane del quale la tradizione non ha conservato il nome e che desi­derava vivamente di farla sua sposa.
Dalla madre di Lucia volle sapere perché la fi­gliuola vendeva le vesti preziose e gli ornamenti; per quale ragione distribuiva il ricavato ai poveri, alle vedove ed ai ministri del culto cristiano. Eutichia diede una risposta evasiva, che per il momento lo rese tranquillo.
Ma in seguito il sospetto che Lucia fosse cri­stiana divenne certezza: visto fallire il suo desiderio di averla come sposa, poiché ella lo aveva respinto, decise di denunciarla al prefetto della città come cristiana e di conseguenza fossero applicati a lei i decreti imperiali.

LA PERSECUZIONE DI DIOCLEZIANO
Allora per la chiesa cattolica non erano tempi tranquilli: l’imperatore Diocleziano nel vano tenta­tivo di arrestare l’inevitabile crisi dell’Impero roma­no stava attuando varie riforme, da quella ammi­nistrativa a quella economica, fiducioso di riportare lo Stato romano ai tempi migliori. Nel suo vasto piano di rinnovamento generale, anche la riforma religiosa doveva avere la sua importanza, come ri­forma delle coscienze: il culto imperiale doveva es­sere il veicolo di penetrazione interiore del senso della romanità e della potenza dell’impero. Appro­fittando di un complesso di circostanze, emanò i suoi editti di persecuzione contro i cristiani il 24 feb­braio del 303. Fu la più feroce persecuzione la sua, soprattutto nelle province, dove funzionari zelantis­simi la applicarono ciecamente. Lattanzio (de mort. persec. 10) ha scritto pagine celebri sulla furia di codesta persecuzione.

IL DIALOGO CON PASCASIO
A Siracusa era prefetto della città (meglio era correttore) Pascasio, succeduto da pochi mesi a Cal­visiano, che nell’agosto del 303 aveva condannato a morte il vescovo S. Euplo.
Quando Lucia gli fu portata innanzi sotto l’im­putazione di essere cristiana, egli le ordinò di sa­crificare agli dei. Allora Lucia disse: Sacrificio puro presso Dio consiste nel visitare le vedove, gli orfani e i pellegrini, che versano nell’afflizione e nella ne­cessità, ed è già il terzo anno da che io offro a Cristo Dio tali sacrifici erogando tutto il mio patrimonio.
Pascasio l’interruppe con senso d’ironia: Va a con­tare queste ciance agli stolti come te, poiché io eseguo i comandi dei Cesari e perciò non posso udire sif­fatte stoltezze.
Lucia disse: Tu osservi i decreti dei Cesari co­me anch’io curo la legge del mio Dio giorno e notte; temi pure le loro leggi, mentre io riverisco il mio Dio: tu non vuoi mancare di rispetto a quelli ed io come mai oserò di contraddire il mio Dio? Tu t’ingegni di piacere a loro ed io mi ingegno di piacere a Dio: tu dunque fa come credi ti torna comodo ed io opero secondo è grato all’animo mio.
Pascasio continuò: Tu hai prodigato le tue so­stanze ad uomini vani e dissoluti.
Presso i pagani, secondo quanto testimoniano le apologie di Minucio Felice e Tertulliano, vigeva l’ac­cusa che i cristiani praticassero riti dissoluti come si notavano in altri culti misterici. Ma Lucia subito smen­tisce Pascasio dicendogli: Io ho riposto al sicuro il mio patrimonio e la mia persona non ha gustato la dissolutezza.
Pascasio soggiunse: Tu sei la stessa dissolutezza in anima e corpo.
Lucia rispose: Siete voi che costituite la corru­zione del mondo.
Pascasio disse: Cessi la tua loquacità; passiamo ai tormenti.
Lucia replicò: E’ impossibile porre silenzio ai detti del Signore.
Pascasio riprese: Tu adunque sei Dio?
Lucia rispose: Io sono serva del Dio eterno, poi­ché Egli ha detto: quando sarete dinanzi ai re ed ai principi non vi date pensiero del come o di ciò che dovete dire, poiché non siete voi che parlate ma lo Spirito Santo che parla in voi.
Pascasio disse: Dentro di te c’è adunque lo Spirito Santo?
Lucia rispose: Coloro che vivono castamente e piamente sono tempio di Dio e lo Spirito Santo abita in essi.
Pascasio disse: Ti farò condurre in un luogo turpe e così fuggirà da te lo Spirito Santo.
Anche per piegare altre vergini cristiane il giu­dice romano spesso era ricorso a simili mezzi: tant’è vero che Tertulliano scriveva, con i suoi tipici giuochi di parole, che esse temevano più il lenone che il leone: la prova cioè contro la loro virtù piuttosto che le belve feroci.
Innanzi alla fermezza della santa di non piega­re agli ordini di Pascasio, questi raduna della gen­taglia per costringere Lucia ad obbedirgli. Ogni suo tentativo riesce vano: neppure i soldati, neppure le paia di buoi riescono a smuovere Lucia che sta im­mobile come una roccia (l’episodio è narrato, tra gli altri, con potenza d’arte da Lorenzo Bassano in una pala della Basilica di S. Giorgio Maggiore di Venezia).
Tutti codesti prodigi furono ritenuti da Pascasio opera di magia, onde ordina che attorno a lei si pre­pari il rogo e sì accenda la fiamma, secondo quanto si usava contro i sospetti di arti magiche.
Vengono tosto portate pece e resina, legname ed olio; tutto viene gettato contro la Santa. Divampano le fiamme,. ma lei non ne è toccata. Anzi dice a Pascasio: Pregherò il mio Signore perché questo fuoco non si impadronisca di me.
Pascasio non si conteneva più dall’ira. Allora al­cuni dei suoi amici per impedire che fosse ancor più deriso dalla Santa e gli sforzi suoi risultassero del tutto vani, tirarono giù Lucia dal rogo perché fosse finita con la spada.

IL MARTIRIO
Lucia comprese che ormai era giunto il momento di confessare Cristo con il martirio: si pose in ginoc­chio pronta a ricevere il colpo mortale.
Prima però volle parlare alla gran folla che nel frattempo si era radunata attorno a lei: disse che la persecuzione contro i Cristiani stava terminando e la pace per la Chiesa era imminente con la caduta del­l’imperatore Diocleziano. Ricordò loro che Siracusa l’avrebbe sempre onorata così come la vicina Cata­nia aveva in venerazione S. Agata. Quando ebbe terminato di parlare, venne il colpo mortale che le recise il capo consacrandone la verginità con il mar­tirio.
Era il 13 dicembre del 304, secondo quanto narra la tradizione.

SAN MASSIMILIANO KOLBE – MISTICO E MARTIRE – 14 AGOSTO

http://www.kolbemission.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/152

SAN MASSIMILIANO KOLBE – MISTICO E MARTIRE – 14 AGOSTO

Il 1° settembre del 1939 la Germania dichiara guerra alla Polonia ed inizia l’avanzata delle sue truppe verso la capitale Varsavia.
Le truppe tedesche giungono a Niepokalanòw, mettono i sigilli alla tipografia e traggono in arresto P.Kolbe, il Vicario del convento, P.Pio Bartosik, il chierico giapponese fra Lodovico Kim e 35 fratelli.
Fra’ Juvenyn ricorda:
«Padre Kolbe, come un padre affettuoso, era tanto tempo che ci stava preparando ad affrontare quei giorni difficili.
Il 28 agosto ci parlò dei tre stadi della vita: il primo stadio è la preparazione al lavoro; il secondo è il lavoro stesso; il terzo, la sofferenza. Diceva:
« Il terzo stadio della vita, quello della sofferenza, penso che sarà quello più breve che avrò da vivere. Ma da chi, dove, come, e sotto quale aspetto arriverà questa sofferenza, questo ancora non lo so. Comunque, vorrei soffrire e morire come un cavaliere, anche fino allo spargimento dell’ultima goccia del mio sangue, per affrettare il giorno della conquista del mondo in nome di Dio, attraverso l’Immacolata. Desidero questo per me come lo desidero per voi… Cosa potrei desiderare di più nobile per voi, miei cari figli? Se conoscessi qualcosa di migliore, lo desidererei per voi, ma non lo conosco. Come scrive San Giovanni, Cristo stesso ha detto: « Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici »»
Ai fratelli dimoranti fuori Niepokalanòw scrive:
« Miei cari figli, questa volta vi offro dei brani tratti da alcune lettere che ho ricevuto dai fratelli:
Anche se ci separassero paesi, mari, oceani, tuttavia i nostri cuori e le nostre anime sarebbero ugualmente congiunte dal comune fine di ogni uomo, dall’ideale e dallo scopo della Milizia dell’Immacolata… Solo adesso vedo e sento di cuore che quello è il regno dell’Immacolata. E di lì la sua amorevole protezione mi riempie l’anima di pace…
Chi dunque, chiederete voi, può già tornare? Colui che è pronto a tutto per l’Immacolata, anche a deporre davanti a Lei la propria vita in sacrificio, perché in Europa sta’ scorrendo ancora sangue ed è difficile sapere che cosa potrà capitare… » (SK 895).
Così esorta i fratelli:
« Preghiamo, dunque, sopportiamo le piccole croci, amiamo assai le anime di tutti i nostri prossimi, senza alcuna eccezione, amici e nemici, e abbiamo fiducia, facciamo tutto questo all’unico scopo che Ella divenga al più presto e su tutta la terra la Regina di tutti e di ognuno singolarmente » (SK 892).
Sull’attività più importante afferma:
« Però l’attività più importante è in pieno svolgimento, vale a dire la preghiera. Alle pratiche precedenti si è aggiunta l’adorazione perpetua al Santissimo Sacramento… scorre ininterrottamente un torrente di preghiera, la più grande potenza dell’universo, capace di trasformare noi e di cambiare la faccia del mondo… L’attività esterna è buona, ma, ovviamente, è di secondaria importanza… Solo attraverso la preghiera è possibile raggiungere l’ideale » (SK 895 e 903).
Il desiderio di dare la propria vita per la causa dell’Immacolata e per i principi della carità evangelica era presente nel suo animo da sempre e fu rinnovata, in termini chiarissimi, il 16 marzo 1940 in una lettera all’Ufficiale distrettuale tedesco di Sochaczew:
« Infine, vorrei sottolineare che non provo odio per nessuno su questa terra. La sostanza del mio ideale si trova nelle stampe accluse. Ciò che emerge da esse è mio: per questo ideale io desidero sempre lavorare, soffrire e magari offrire in sacrificio anche la vita, mentre ciò che è contrario ad esso non è mio, ma proviene dal di fuori e perciò, secondo le mie possibilità, l’ho combattuto, lo combatto e lo combatterò sempre… » (SK 884).
Dal carcere di Pawiaksi così scrive:
« … Lasciamoci condurre sempre più perfettamente dall’Immacolata, in qualunque posto e in qualsiasi modo Ella vuole collocarci, affinchè, adempiendo bene i nostri doveri, contribuiamo a far sì che tutte le anime siano conquistate al Suo amore… » (SK 960).
Il 28 maggio del 1941 giunge ad Auschwitz e da qui scrive una sola lettera alla mamma, anche questa tutta improntata a pace e serenità:
« Mia cara mamma, verso la fine del mese di maggio sono giunto con un convoglio ferroviario nel campo di Auschwitz. Da me va tutto bene. Amata mamma, stai tranquilla per me e la mia salute, perché il buon Dio c’è in ogni luogo e con grande amore pensa a tutti e a tutto » (SK 961).
Ripeteva ai compagni di prigionia:
« L’odio non è forza creativa; solo l’amore crea… Queste sofferenze non ci spezzeranno, ma ci aiuteranno a diventare sempre più forti. Sono necessarie, insieme ai sacrifici degli altri, perché chi verrà dopo di noi possa essere felice »
Date queste premesse, per lui fu spontaneo e naturale chiedere di prendere il posto di quello sconosciuto e piangente padre di famiglia nel bunker della morte.
La carità cristiana gli chiedeva di restituire all’affetto della moglie e dei figli un povero papà e di accompagnare con la sua azione sacerdotale gli altri nove sfortunati compagni all’abbraccio con il Padre celeste.
Il suo gesto scosse anche le guardie:
« Questo sacerdote è proprio un galantuomo. Finora uno simile qui non l’abbiamo avuto. »
Giorgio Bielecki parla a nome di tutti:
« Fu uno shock enorme per tutto il campo. Ci rendemmo conto che qualcuno tra di noi, in quella oscura notte spirituale dell’anima, aveva innalzato la misura dell’amore fino alla vetta più alta… Dire che P. Kolbe morì per uno di noi o per la famiglia di quella persona sarebbe riduttivo. La sua morte fu la salvezza di migliaia di vite umane. E in questo, potrei dire, sta la grandezza di quella morte… » (Dalle testimonianze).
Ci sembra importante evidenziare che ad Auschwitz P. Massimiliano non ha difeso solo la fede ma anche l’uomo, questo suo « donarsi » non è stato altro che il compimento di tutta la sua esistenza.
Nella Chiesa e nel mondo questo gesto di P. Kolbe e, grazie ad esso, anche tutto il resto della sua opera, saranno ricordati per sempre

10 AGOSTO: SAN LORENZO, DIACONO E MARTIRE

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10 AGOSTO: SAN LORENZO, DIACONO E MARTIRE

La gloria di san Lorenzo.

La Chiesa romana, dice sant’Agostino, ci raccomanda questo giorno, veramente trionfale, in cui san Lorenzo schiacciò il mondo fremebondo. Roma intera è testimone di quella gloriosa e immensa moltitudine di virtù, varia come i fiori, di cui è cinta la corona di Lorenzo.
« Come voi già sapete, egli apparteneva, in questa chiesa, all’ordine dei diaconi. È là che egli amministrò il sangue prezioso di Cristo, è là che versò il proprio sangue per il nome di Cristo. Amò Cristo nella sua vita e lo imitò con la sua morte » (Discorso 304, n. 1).
Il santo Dottore ha riassunto in queste brevi parole l’essenziale della vita di san Lorenzo. A Roma, lui stesso aveva assistito per parecchie volte all’anniversario del santo Martire, celebrato sempre con splendore (Discorso 303, n. 1). Infatti, come i santi Apostoli, san Lorenzo aveva il privilegio di una Vigilia solenne, in ricordo di quella notte gloriosa in cui subì il martirio.
Durante l’Alto Medioevo, si celebrava, il 10 agosto, una messa sulla tomba e un’altra più solenne, nella basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, costruita da Costantino. In detta basilica figurava già una iscrizione che può essere considerata come la più antica testimonianza storica su san Lorenzo:

Sferze, ugne, fiamme, tormenti, catene,
Solo la fede di Lorenzo ha potuto vincerle.
Damaso supplicante colma questi altari di doni
Ammirando i meriti del glorioso martire [1].

Malgrado la sua brevità, questa iscrizione acquista un interesse particolare data la sua antichità: fu redatta da san Damaso un secolo circa dopo la morte di san Lorenzo. Ben presto una leggenda circondò questa morte straordinaria: sant’Ambrogio ne cita già alcuni episodi. Quanto a sant’Agostino, è sempre con alcune precauzioni oratorie che riferisce ai suoi fedeli le circostanze della vita o del martirio di san Lorenzo.

Il Diacono.
Al tempo di Papa Sisto II (m. 258), san Lorenzo era uno dei sette diaconi romani. A Roma, il numero dei diaconi restò per lungo tempo limitato a sette, uno per ogni regione ecclesiastica. Oltre al ministero dell’altare e dell’assistenza al Papa, i diaconi romani avevano la cura dell’amministrazione dei beni temporali della Chiesa romana. Tale funzione faceva di essi dei personaggi importanti e accadeva sovente che il Papa venisse scelto fra i diaconi, piuttosto che tra i sacerdoti.

Il Martire.
Poiché apparteneva alla gerarchia della Chiesa, san Lorenzo cadeva sotto il colpo del rescritto di Valeriano, datato nel 258. Questo atto ordinava l’esecuzione capitale di ogni vescovo, sacerdote o diacono su semplice costatazione della loro identità. San Sisto era stato colpito dalla persecuzione: nel corso di una cerimonia liturgica nel cimitero di Callisto era stato arrestato e decapitato. Più o meno nello stesso tempo erano stati uccisi sei diaconi.
San Lorenzo restò quindi solo. Ma anche lui non doveva tardare molto per rendere a Cristo la testimonianza del sangue.
I persecutori in questo caso avevano un motivo d’interesse: san Lorenzo infatti restava il solo depositario dei beni della Chiesa romana. Secondo sant’Ambrogio, fu intimato a san Lorenzo di consegnare i tesori della Chiesa. Dopo tre giorni di indugio, il diacono presentò al giudice, in oro e argento, i poveri soccorsi per le sue cure caritatevoli. E sant’Agostino concludeva: « Le grandi ricchezze dei cristiani sono i bisogni degli indigenti ».
Basterebbe questo episodio per spiegare che san Lorenzo fu torturato tre giorni dopo san Sisto? Egli infatti fu consegnato ai carnefici nella notte dal 9 al 10 agosto. Con « grande ardore spirituale e un fermo coraggio » [2], san Lorenzo subì il terribile supplizio del fuoco. È vero che « il raffinamento della crudeltà consistente nel bruciare il paziente a fuoco lento su una graticola era contrario alla tradizione romana » [3]. Ma non c’è tradizione che tiene quando la passione delle ricchezze ha traviato la coscienza d’un giudice e non si saprebbe, in nome di un principio generale, rigettare un fatto particolarmente spiegabile con le circostanze riportate più in alto. Il supplizio del fuoco fu d’altronde adoperato a Lione nel 177. Noi abbiamo infine, per quanto riguarda san Lorenzo, la testimonianza di san Damaso riportata più sopra. Senza dubbio, si è minimizzata l’importanza di questo epigramma vedendovi « l’enumerazione delle torture classiche ». Tuttavia, un’altra iscrizione di san Lorenzo in Damaso, che si voleva scartare perché « impossibile a datare », sarebbe, secondo un archeologo romano contemporaneo, antichissima e con molta probabilità dello stesso Papa Damaso [4].
È con la fede, dice il testo, che Lorenzo ha sormontato il tormento delle fiamme in mezzo alle quali passa la strada che conduce al cielo.
Sant’Agostino attribuisce la vittoria di san Lorenzo alla sua eminente carità: « Messo sulla graticola, egli fu bruciato in tutte le membra, fu tormentato dalle pene atrocissime delle fiamme, superando tuttavia tutte le sofferenze del corpo con la forza della carità ».
D’altra parte, il santo Dottore ci lascia intravedere, in termini ammirabili, quelli che dovettero essere gli ultimi istanti del martirio: « La vita del tempo si spegne, ma la vita eterna ne prende il posto. Quale grande dignità e quale sicurezza nel partire gioioso di quaggiù, per raggiungere la gloria in mezzo ai tormenti e alle torture; di chiudere per un istante quegli occhi con i quali vedevamo gli uomini e il mondo e riaprirli subito dopo per vedere Dio…  » (Discorso 303, n. 2).

Preghiera a san Lorenzo.
« Tre volte felice il Romano che ti onora nel luogo in cui riposano le tue ossa! Egli si prosterna nel tuo santuario; bocconi a terra, l’innaffia di lacrime e vi versa i suoi voti. O san Lorenzo è là che noi andiamo a cercare il ricordo delle tue sofferenze, perché tu hai due palazzi in cui dimori: quello del corpo sulla terra, quello dell’anima nel cielo. Il cielo, ineffabile città che ti fa membro del suo popolo, che, nelle file del suo eterno senato, pone sulla tua fronte la corona civica! Con le tue gemme risplendenti appari come l’uomo che la Roma celeste elesse a perpetuo console! Le tue funzioni, il tuo credito, la tua potenza si rivelano agli entusiasmi dei cittadini romani esauditi nelle suppliche che ti hanno presentato. Qualsiasi richiesta viene ascoltata; tutti pregano in libertà, formulano i loro voti; nessuno riporta con sé il suo dolore.
Sii sempre pronto a soccorrere i figli della città regina: che essi abbiano un fermo appoggio nel tuo amore di padre; che trovino in te la tenerezza e il latte del seno materno. Ma tra essi, tu l’onore di Cristo, ascolta anche l’umile postulante che confessa la sua miseria e rigetta le sue colpe. Io mi so indegno, lo riconosco, indegno di essere esaudito da Cristo; ma protetti dai Martiri, si può ottenere il rimedio ai propri mali. Ascolta uno che ti supplica: nella tua bontà, sciogli le mie catene, liberami dalla carne e dal mondo! » [5].

[1] A. Ferrua, Epigrammata damasiana (Città del Vaticano, 1942), p. 167.
[2] Sacram. Leon., Mense Aug., XXI.
[3] Anal. Bolland. (1933), p. 50.
[4] A. Ferrua, Epigrammata damasiana, p. 168. L’apostrofe di san Lorenzo al suo carnefice: « Rivolta e mangia » sembra improntata agli atti dei santi di Dorostorum martirizzati nell’epoca in cui, precisamente, furono redatti gli Atti di san Lorenzo.
[5] Prudent. ubi supra.

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 958-961

 

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