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BENEDETTO XVI : BARTOLOMEO APOSTOLO – 24 AGOSTO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20061004_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

PIAZZA SAN PIETRO

MERCOLEDÌ, 4 OTTOBRE 2006

BARTOLOMEO APOSTOLO  – 24 AGOSTO

Cari fratelli e sorelle,

nella serie degli Apostoli chiamati da Gesù durante la sua vita terrena, oggi è l’apostolo Bartolomeo ad attrarre la nostra attenzione. Negli antichi elenchi dei Dodici egli viene sempre collocato prima di Matteo, mentre varia il nome di quello che lo precede e che può essere Filippo (cfr Mt 10, 3; Mc 3, 18; Lc 6, 14) oppure Tommaso (cfr At 1, 13). Il suo nome è chiaramente un patronimico, perché formulato con esplicito riferimento al nome del padre. Infatti, si tratta di un nome di probabile impronta aramaica, bar Talmay, che significa appunto « figlio di Talmay ».
Di Bartolomeo non abbiamo notizie di rilievo; infatti, il suo nome ricorre sempre e soltanto all’interno delle liste dei Dodici citate sopra e, quindi, non si trova mai al centro di nessuna narrazione. Tradizionalmente, però, egli viene identificato con Natanaele: un nome che significa « Dio ha dato ». Questo Natanaele proveniva da Cana (cfr Gv 21, 2) ed è quindi possibile che sia stato testimone del grande « segno » compiuto da Gesù in quel luogo (cfr Gv 2, 1-11). L’identificazione dei due personaggi è probabilmente motivata dal fatto che questo Natanaele, nella scena di vocazione raccontata dal Vangelo di Giovanni, è posto accanto a Filippo, cioè nel posto che ha Bartolomeo nelle liste degli Apostoli riportate dagli altri Vangeli. A questo Natanaele, Filippo aveva comunicato di aver trovato « colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazaret » (Gv 1, 45). Come sappiamo, Natanaele gli oppose un pregiudizio piuttosto pesante: « Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono? » (Gv 1, 46a). Questa sorta di contestazione è, a suo modo, importante per noi. Essa, infatti, ci fa vedere che, secondo le attese giudaiche, il Messia non poteva provenire da un villaggio tanto oscuro come era appunto Nazaret (vedi anche Gv 7, 42). Al tempo stesso, però, pone in evidenza la libertà di Dio, che sorprende le nostre attese facendosi trovare proprio là dove non ce lo aspetteremmo. D’altra parte, sappiamo che Gesù in realtà non era esclusivamente « da Nazaret », ma che era nato a Betlemme (cfr Mt 2, 1; Lc 2, 4) e che ultimamente veniva dal cielo, dal Padre che è nei cieli.
Un’altra riflessione ci suggerisce la vicenda di Natanaele: nel nostro rapporto con Gesù non dobbiamo accontentarci delle sole parole. Filippo, nella sua replica, fa a Natanaele un invito significativo: « Vieni e vedi! » (Gv 1, 46b). La nostra conoscenza di Gesù ha bisogno soprattutto di un’esperienza viva: la testimonianza altrui è certamente importante, poiché di norma tutta la nostra vita cristiana comincia con l’annuncio che giunge fino a noi ad opera di uno o più testimoni. Ma poi dobbiamo essere noi stessi a venir coinvolti personalmente in una relazione intima e profonda con Gesù; in modo analogo i Samaritani, dopo aver sentito la testimonianza della loro concittadina che Gesù aveva incontrato presso il pozzo di Giacobbe, vollero parlare direttamente con Lui e, dopo questo colloquio, dissero alla donna: « Non è più per la tua parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo » (Gv 4, 42).
Tornando alla scena di vocazione, l’evangelista ci riferisce che, quando Gesù vede Natanaele avvicinarsi esclama: « Ecco davvero un Israelita, in cui non c’è falsità » (Gv 1, 47). Si tratta di un elogio che richiama il testo di un Salmo: « Beato l’uomo … nel cui spirito non c’è inganno » (Sal 32, 2), ma che suscita la curiosità di Natanaele, il quale replica con stupore: « Come mi conosci? » (Gv 1, 48a). La risposta di Gesù non è immediatamente comprensibile. Egli dice: « Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico » (Gv 1, 48b). Non sappiamo che cosa fosse successo sotto questo fico. È evidente che si tratta di un momento decisivo nella vita di Natanaele. Da queste parole di Gesù egli si sente toccato nel cuore, si sente compreso e capisce: quest’uomo sa tutto di me, Lui sa e conosce la strada della vita, a quest’uomo posso realmente affidarmi. E così risponde con una confessione di fede limpida e bella, dicendo: « Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele » (Gv 1, 49). In essa è consegnato un primo, importante passo nell’itinerario di adesione a Gesù. Le parole di Natanaele pongono in luce un doppio complementare aspetto dell’identità di Gesù: Egli è riconosciuto sia nel suo rapporto speciale con Dio Padre, di cui è Figlio unigenito, sia in quello con il popolo d’Israele, di cui è dichiarato re, qualifica propria del Messia atteso. Non dobbiamo mai perdere di vista né l’una né l’altra di queste due componenti, poiché se proclamiamo di Gesù soltanto la dimensione celeste, rischiamo di farne un essere etereo ed evanescente, e se al contrario riconosciamo soltanto la sua concreta collocazione nella storia, finiamo per trascurare la dimensione divina che propriamente lo qualifica.
Sulla successiva attività apostolica di Bartolomeo-Natanaele non abbiamo notizie precise. Secondo un’informazione riferita dallo storico Eusebio del secolo IV, un certo Panteno avrebbe trovato addirittura in India i segni di una presenza di Bartolomeo (cfr Hist. eccl. V, 10, 3). Nella tradizione posteriore, a partire dal Medioevo, si impose il racconto della sua morte per scuoiamento, che divenne poi molto popolare. Si pensi alla notissima scena del Giudizio Universale nella Cappella Sistina, in cui Michelangelo dipinse san Bartolomeo che regge con la mano sinistra la propria pelle, sulla quale l’artista lasciò il suo autoritratto. Sue reliquie sono venerate qui a Roma nella Chiesa a lui dedicata sull’Isola Tiberina, dove sarebbero state portate dall’imperatore tedesco Ottone III nell’anno 983. Concludendo, possiamo dire che la figura di san Bartolomeo, pur nella scarsità delle informazioni che lo riguardano, resta comunque davanti a noi per dirci che l’adesione a Gesù può essere vissuta e testimoniata anche senza il compimento di opere sensazionali. Straordinario è e resta Gesù stesso, a cui ciascuno di noi è chiamato a consacrare la propria vita e la propria morte.

04 GIUGNO . SAN TOMMASO APOSTOLO

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 04 GIUGNO  . SAN TOMMASO APOSTOLO

L’Apostolo San Tommaso Nato e trascorsa la giovinezza sulle rive del lago di Genezareth, dove esercitava il mestiere di pescatore, Tommaso (traduzione greca dell’aramaico « toma »: gemello) fu aggregato al collegio apostolico dopo la seconda pasqua. Certamente seguiva il Maestro dall’inizio della vita pubblica; ignoriamo, comunque, la precisa occasione quando entrò in relazione con Lui.
D’altronde quando gli apostoli devono sostituire Giuda nel numero dei Dodici per bocca di S. Pietro richiamano il criterio per la scelta: « tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato, tra di noi assunto al cielo »; che vuol dire che la qualifica di apostolo richiedeva l’essere stati con Gesù tutti e tre gli anni dalla Sua vita pubblica. Della origine e dei genitori dell’apostolo non si ha nessun ragguaglio; la tradizione apocrifa crede di aver individuato il compagno (o la compagna) di lui nel seno materno in Eleazaro o in Lidia. Che anzi Cristo stesso sarebbe stato suo gemello; e la somiglianza arrivava al punto – si diceva – che, spesso, egli veniva scambiato col Nazareno. Della personalità di S. Tommaso fanno spicco: coraggio unito a fermezza di carattere: « andiamo anche noi a morire con lui » disse nel momento in cui gli altri apostoli dissuadevano il Maestro dal recarsi di nuovo a Gerusalemme, dove da poco i Giudei avevano tentato di lapidarlo; premura di rendersi conto delle affermazioni di Gesù, non disgiunta da spirito ragionatore: « Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via » aveva fatto notare a Gesù in un’ora d’incertezza e di sconforto per l’imminente « partenza » di Lui; scetticismo e affermazione e attestazione di fede riguardo alla risurrezione del Signore. Tommaso è ricordato ancora da Giovanni e in Atti ma senza particolare specificazione. Non appena la Vergine viene assunta al cielo in anima e corpo gli apostoli, per soprannaturale disposizione, si sarebbero ritrovati per l’ultima volta a Gerusalemme (nel 42 ca.). Tommaso, mentre viene prodigiosamente trasportato dalle regioni dei Parti al monte degli Ulivi, vede il corpo di Maria salire al cielo. La Madre di Dio alle suppliche e invocazioni dell’apostolo, per consolarlo, gli getta dall’alto la cintura con la quale gli undici avevano cinto il corpo santissimo. Dopo aver evangelizzato (negli anni 42-49) i paesi della Media (regione della parte nord-occidentale dell’Iran compresa tra il mar Caspio, L’Armenia, la Mesopotamia e la Persia) e della Persia, S. Tommaso si diresse in India dove, la prima volta (anni 53-60), predicò la fede di Cristo lungo le coste sudo-occidentali (Malabar) e, successivamente, nel Coromandel (costa sud-orientale). Suggellò la sua missione col martirio – fu ucciso a colpi di lancia – in Calamina, l’odierna Mylapore (o Meliapor), sobborgo di Madras, tra gli anni 68-72. Gli Atti di Tommaso, ci parlano della predicazione, dei miracoli e del martirio dell’Apostolo: I soldati si avvicinarono, lo colpirono tutti insieme ed egli cadde a terra e morì, e concludono con le parole: « Qui finiscono gli atti di Tommaso, apostolo di nostro Signore Gesù Cristo, che fu martirizzato in terra indiana per ordine del re Mazdai ». Le reliquie del Santo il 3 luglio del 230 vennero portate da un mercante a Edessa di Mesopotamia. All’epoca delle conquiste musulmane e della II Crociata le Ossa di S. Tommaso furono trasferite nell’isola di Kios (Scio, arcipelago greco). Nel 1258 si ebbe la traslazione a Ortona. Di questo evento esistono vari documenti, in modo particolare una pergamena redatta pochi mesi dopo da pubblici notai della città di Bari. Vi è, poi l’attestazione di storici insigni quali il Baronio, L’Ughelli e degli scrittori ortonesi G. Ceccario e G.B. de Lectis. I Sommi Pontefici Bonifacio IX, Sisto IV, Clemente XII, Gregorio XIII, Benedetto XIV, per promuoverne il culto, si mostrarono generosi nell?offrire Indulgenze a coloro che visitavano il sepolcro di San Tommaso. Il 5 settembre del 1949 con la Bolla « Innumeras », in occasione della riapertura al culto del tempio dopo le distruzioni belliche, Pio XII riconfermò tutte le precedenti benevolenze. Numerosi sono i pellegrini che si recano sulla tomba del santo anche da località lontane, riportandone spesso grazie speciali. La nobile svedese S. Brigida venne a venerare il sepolcro di S. Tommaso nella città frentana, ed ebbe dal Signore la Rivelazione che le Ossa di S. Tommaso sono a Ortona: « voglio che tu ritenga con assoluta certezza che in questo luogo vi è il mio tesoro inestimabile, cioè le Reliquie intatte e indivise di S. Tommaso apostolo »; « è necessario che si sappia che come i corpi degli apostoli Pietro e Paolo sono a Roma, così le Reliquie di S. Tommaso apostolo sono a Ortona ». Riteniamo opportuno, perciò, segnalare l’edificante spettacolo di profonda fede che offrono ogni anno gli abruzzesi che, in numero eccezionalmente considerevole e di ogni età e condizione sociale, vengono a Ortona (a sande Tumasse) per pregare sulla Tomba dell’apostolo della fede e per accostarsi ai sacramenti. S. Tommaso è protettore – oltre che dei marinai e dei pescatori – dei muratori, geometri, architetti e ingegneri; l’attributo iconografico è la « squadra » da disegno (o « bacchetta » di olivo) ricevuta dal re dell’India, quando l’apostolo – secondo la tradizione – gli tracciò prodigiosamente la pianta del palazzo reale. Il santo è invocato contro i dolori delle ossa (san Tumasse dall’osse) in genere, della testa e delle affezioni reumatiche. A tal proposito è assai ricercata dai devoti l’ovatta (la « bbummèce ») che viene gelosamente conservata in segno di protezione celeste. Lo stemma araldico di S. Tommaso raffigura verticalmente la « lancia » (strumento del martirio), trasversalmente (da destra a sinistra) la squadra da disegno (di cui sopra), e da sinistra a destra la « palma » (simbolo del martirio) La traslazione delle reliquie in Ortona La più antica testimonianza della letteratura ortonese sulla traslazione delle reliquie di San Tommaso Apostolo in Ortona è costituita dalla Historia translationis corporis sancti Thomae apostoli. Attribuita da G.B. Tafuri (nella Historia degli scrittori nati nel Regno di Napoli) ad un anonimo locale – si tratta certamente di un ecclesiastico – la data di stesura è collocabile tra il 1258 e il 1262. È la narrazione di un avvenimento che, attraverso i secoli, ha inciso profondamente ed in modo positivo sulla vita e sulla realtà socio-culturale, oltre che religiosa di Ortona. In questa circostanza le acque dell’Adriatico sono precorritrici e, nello stesso tempo testimoni, della meravigliosa avventura che, iniziata nell’isola di Scio (Chion) del lontano arcipelago greco, coinvolge nella sua conclusione arciprete, clero e popolo tutto accomunati nell’osanna e nella resa di grazie all’Onnipotente per il grande dono di cui sono stati fatti degni. Al tempo di Manfredi Principe di Taranto, nell’anno 1258, il 6 settembre giorno di Venere, insieme ad altre due, portò trionfalmente a termine la navigazione la galea sulla quale si trovava il corpo dell’Apostolo [Tommaso]: è questa la frase iniziale della Historia che ci offre immediatamente e nello stesso tempo, la puntualizzazione storica ben definita e la sintesi del grande avvenimento. Le tre galee, guidate da Leone, cittadino ortonese, Valente huomo timente Dio, veramente intrepido, et animoso Leone – come si legge nella traduzione cinquecentesca, dal latino, effettuata dal de Lectis – avevano partecipato alla spedizione navale organizzata da Manfredi come appoggio ai veneziani che da tempo erano in lotta contro i genovesi. Sia Venezia che Genova tendevano a monopolizzare – ciascuno a proprio favore – il controllo delle principali vie di navigazione attraverso le quali si svolgeva il traffico delle carovane navali che portavano in patria i prodotti provenienti dall’Oriente mediterraneo e le pregiate mercanzie delle lontane Indie. L’abate Iacopo, che in quel periodo guidava la chiesa locale, avvertito da Leone del grande evento,’ ciò sentendo, il divoto clero convocato, la cosa raccontatali da Leone narrolli, le campane della Città ad allegrezza sonare fé; il che spargendosi per la Città, tutti alla maggior chiesa concorsero, et per lo duplicato gaudio non si sentivano se non allegre, et gioconde voci. Et messosi ad ordine in processione il devoto Clero con tutto il popolo, con angelici canti et hymni, alla marina discesero; et levate le beate reliquie dalla galera, con venerazione grande, Leone in capo alla cattedrale chiesa portò la quale in quei tempi alla Regina de gli Angeli era dedicata. Ma si presentò subito il problema della sistemazione delle reliquie; i pareri erano contrastanti. Dopo lunga preghiera e scrupolosa riflessione dell’opportunità o meno delle varie soluzioni prospettate, clero e Popolo giunsero alla conclusione di collocare la cassetta con le ossa dell’Apostolo nell’altare dedicato alla Vergine Santissima. Un anno dopo gli ortonesi – che avevano saputo della presenza di alcuni cittadini di Scio detenuti come prigionieri di guerra nella roccaforte di Bari mandarono il giudice Guglielmo per ricercare la verità a proposito del corpo di san Tommaso. Così, il 22 settembre 1259 il notaio Nicola di Bari, essendo giudice ai contratti Giovanni Pavone, raccoglieva in un solenne atto pubblico la testimonianza, resa sotto giuramento, che veramente gli ortonesi avevano asportato da Scio le reliquie dell’Apostolo. Ben presto il culto verso Tommaso il Didimo diventa fulcro della religiosità popolare al punto che, sul finire del XIV secolo, il principale tempio del luogo, pur continuando ad essere ufficialmente intitolato a Santa Maria Regina degli Angeli, comincia ad essere indicato, anche in documenti ufficiali, come chiesa di San Tommaso Apostolo. Alcuni secoli dopo, il Pacichelli – che è stato cappellano della chiesa di Santa Margarita nuova, fatta costruire dalla figlia dell’imperatore Carlo V sul finire del XVI secolo – nella sua opera Regno di Napoli in prospettiva parlando di Ortona, scrive « (…) alza per impresa la figura del Santo Apostolo Tommaso sovra una Torre circondata dal Mare, col titolo: Ortona vetustissima civitas ». L’immagine di Tommaso diventa simbolo ufficiale della città, ma non sarà mai un segno puramente esteriore e senza mordente; per gli abitanti della città adriatica ha sempre costituito – anche prescindendo dall’aspetto puramente religioso – motivo di coesione nel superare le difficoltà incontrate attraverso i secoli come, per esempio, in occasione delle distruzioni provocate dai turchi nel corso della drammatica irruzione dell’estate del 1566, dai francesi del generale Coutard nella cruenta e feroce repressione di un tentativo di rivolta degli ortonesi nel febbraio 1799, ed infine, durante l’ultimo conflitto mondiale, dalla tragica battaglia che per alcuni mesi ha visto contrapposte truppe tedesche e truppe canadesi ed alleate sul territorio di Ortona ed ha causato 1300 vittime tra i civili.

Publié dans:SANTI APOSTOLI |on 4 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

SAN BARNABA – 11 giugno

http://www.30giorni.it/articoli_supplemento_id_17047_l1.htm

SAN BARNABA – 11 giugno

Barnaba è il soprannome di Giuseppe, giudeo levita nato a Cipro. Eusebio di Cesarea e, prima, Clemente Alessandrino ci dicono che fu uno dei settantadue discepoli di Gesù. Fu il garante della conversione di Paolo presso i cristiani di Gerusalemme, che ancora diffidavano di lui. Fu con Paolo nel suo primo viaggio missionario, che da Cipro toccò varie città dell’Asia Minore, accompagnato nella prima parte dell’itinerario dal cugino Giovanni, cioè Marco, il futuro evangelista, che a un certo punto ritornò indietro. Verso il 51, alla vigilia della partenza per un secondo viaggio missionario per visitare le comunità fondate nel primo, Paolo e Barnaba entrarono in contrasto, perché, mentre Barnaba avrebbe voluto portare con sé anche Marco, Paolo si oppose, vista l’esperienza del viaggio precedente. «Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro» (At 15, 39). Tertulliano attribuisce a Barnaba la Lettera agli Ebrei, ipotesi che ha trovato qualche riscontro negli studi moderni. Dal momento del suo ritorno a Cipro notizie certe su di lui vengono a mancare, e occorre affidarsi agli Atti di Barnaba, opera del V secolo, che narrano con toni leggendari il suo apostolato a Cipro e il suo martirio a Salamina (a nord di Famagosta), a opera di giudei siriani, che lo avrebbero lapidato e poi bruciato. Nonostante il contesto della narrazione, gli storici sono propensi a ritenerne fondati i dati essenziali, cioè la predicazione e il martirio. Gli Atti di Barnaba riferiscono ancora che, al tempo dell’imperatore bizantino Zenone (474-491), Barnaba sarebbe apparso nel sonno all’arcivescovo Anthemios indicandogli il luogo dove scavare per ritrovare l’ipogeo che conteneva la sua sepoltura in un sarcofago, cosa che l’arcivescovo fece, ritrovando il corpo di Barnaba che aveva ancora sul petto il Vangelo di Matteo, scritto di sua mano. La tomba di Barnaba si mostra tuttora a Salamina ed è visitabile: vi si accede dall’interno di un oratorio che vi fu costruito sopra, ora abbandonato, a 150 metri circa dal monastero a lui intitolato. Si tratta di una tomba del periodo romano, scavata nel sottosuolo, di forma irregolare, dentro la quale si trovano due arcosoli e il sarcofago dove un tempo era il corpo del santo. Questo fu trasportato, sempre secondo la tradizione, da Anthemios nel luogo dove tuttora è deposto, cioè nell’abside della navata sud della basilica che l’arcivescovo stesso costruì poco lontano dalla tomba e che dedicò a Barnaba, mentre il Vangelo venne donato all’imperatore Zenone, che concesse l’autocefalia alla Chiesa di Cipro. Il luogo divenne da allora un’importante meta di pellegrinaggio e attorno alla basilica si sviluppò molto presto un monastero. Attualmente, a causa della situazione politica dell’isola (il monastero ricade nella parte occupata dall’esercito turco), i monaci sono stati allontanati e il complesso è stato trasformato in museo di icone.
Esiste in Occidente la tradizione di Barnaba primo evangelizzatore dell’Italia settentrionale, in particolare della città di Milano, dove nella chiesa di Santa Maria del Paradiso si mostra ancora (lì trasportata dalla distrutta chiesa di San Dionigi) la pietra forata nella quale egli avrebbe piantato la croce al suo arrivo nell’anno 51. La critica storica ha dimostrato come infondata questa tradizione. Parallelamente, esiste anche una tradizione della presenza a Milano del capo di Barnaba, conservato in un’urna d’argento nella chiesa di San Francesco (l’antica Basilica Naboriana) fino all’anno della sua distruzione, nel 1799, quindi trasportato nella Basilica di Sant’Ambrogio, non più visibile perché murato in un altare insieme alle reliquie dei santi Nabore e Felice. Un cranio attribuito a Barnaba sarebbe anche presso la parrocchiale di Endenna in Val Brembana.

14 MAGGIO: SAN MATTIA APOSTOLO

http://www.santiebeati.it/dettaglio/21050

SAN MATTIA APOSTOLO

14 MAGGIO

SEC. I

Di Mattia si parla nel primo capitolo degli Atti degli apostoli, quando viene chiamato a ricomporre il numero di dodici, sostituendo Giuda Iscariota. Viene scelto con un sorteggio, attraverso il quale la preferenze divina cade su di lui e non sull’altro candidato – tra quelli che erano stati discepoli di Cristo sin dal Battesimo sul Giordano -, Giuseppe, detto Barsabba. Dopo Pentecoste, Mattia inizia a predicare, ma non si hanno più notizie su di lui. La tradizione ha tramandato l’immagine di un uomo anziano con in mano un’alabarda, simbolo del suo martirio. Ma non c’è evidenza storica di morte violenta. Così come non è certo che sia morto a Gerusalemme e che le reliquie siano state poi portate da sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, a Treviri, dove sono venerate. (Avvenire)

Etimologia: Mattia = uomo di Dio, dall’ebraico

Martirologio Romano: Festa di san Mattia, apostolo, che seguì il Signore Gesù dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui Cristo fu assunto in cielo; per questo, dopo l’Ascensione del Signore, fu chiamato dagli Apostoli al posto di Giuda il traditore, perché, associato fra i Dodici, divenisse anche lui testimone della resurrezione.
Mattia, abbreviazione del nome ebraico Mattatia, che significa dono di Jahvè, fu eletto al posto di Giuda, il traditore, per completare il numero simbolico dei dodici apostoli, raffigurante i dodici figli di Giacobbe e quindi le dodici tribù d’Israele. Secondo gli Atti apocrifi, egli sarebbe nato a Betlemme, da una illustre famiglia della tribù di Giuda. Una cosa è certa, perché affermata da S. Pietro (Atti, 1,21), che Mattia fu uno di quegli uomini che accompagnarono gli apostoli per tutti il tempo che Gesù Cristo visse con loro, a cominciare dal battesimo nel fiume Giordano fino all’Ascensione al cielo. Non è improbabile che facesse parte dei 72 discepoli designati dal Signore e da lui mandati, come agnelli fra i lupi, a due a due davanti a sé, in ogni città e luogo dov’egli stava per andare. S. Mattia conosceva certamente il più antipatico degli apostoli, Giuda, nativo di Kariot, quello che nella lista dei Dodici è sempre messo all’ultimo posto e designato con l’espressione « colui che tradì il Signore ». Durante le peregrinazioni apostoliche, Gesù e i discepoli ricevevano doni e offerte dalle folle entusiaste e riconoscenti per i malati che guarivano. S’impose perciò la necessità di affidare a qualcuno di loro l’incombenza di economo. Fu scelto Giuda, ma ci dice San Giovanni che non fu onesto nel suo ufficio.
Sei giorni prima della Pasqua, Gesù fu invitato a Betania, con gli apostoli e l’amico Lazzaro risuscitato dai morti, ad un banchetto in casa di Simone, il lebbroso. Mentre Marta serviva, Maria, sua sorella, prese una libbra d’unguento di nardo genuino, di molto valore, unse i piedi di Gesù e glieli asciugò con i suoi capelli.
Allora Giuda Iscariota protestò: « Perché quest’unguento non è stato venduto per più di 300 denari e non è stato dato ai poveri? ». Ma, commenta ironicamente S. Giovanni l’evangelista, « disse questo non perché si preoccupasse dei poveri, ma perché era ladro, e avendo la borsa portava via quello che vi si metteva » (Giov 12,1-11). Aveva paura di morire di fame? Temeva forse, avaro com’era, una vecchiaia triste e solitaria? Quando seppe che i capi del Sinedrio cercavano il modo di catturare Gesù per condannarlo a morte, ingordo di denaro, andò dai sommi sacerdoti e promise loro di tradirlo per trenta monete d’argento, il compenso fissato dalla legge per l’uccisione accidentale di uno schiavo (Es. 21,32).
Durante l’ultima cena, Gesù fece più volte allusione al suo traditore, anzi lo designò apertamente (Mt 26,25), Dopo la cena, quando il Signore si ritirò a pregare al di là del torrente Cedron, il perfido Giuda giunse a capo di sgherri armati di spade e bastoni e, secondo il segnale loro dato, glielo consegnò nelle mani baciandolo. Il rimorso però non tardò ad attanagliargli l’animo. L’apostolo, infedele alla sua missione, quando seppe che il sinedrio aveva condannato il suo Maestro, che lo aveva sempre trattato con bontà anche nell’ora buia del tradimento, riportò i trenta denari, che gli scottavano in mano, ai sommi sacerdoti e agli anziani, gemendo; « Ho peccato, tradendo sangue innocente! ». Ed egli, gettati i denari d’argento nel tempio, fuggì e, in preda alla disperazione alla quale non seppe reagire, andò ad impiccarsi (Mt 27,3-5).
Gesù nell’ultima cena, dopo lo smascheramento di chi lo tradiva, aveva esclamato: « Guai a quell’uomo per opera del quale il Figlio dell’uomo è tradito: era meglio per lui che non fosse mai nato! » (Mt 26,24). Dopo l’Ascensione di Gesù al cielo, gli apostoli ritornarono a Gerusalemme, nel cenacolo. Di comune accordo essi erano perseveranti nell’orazione con alcune donne, con Maria, la Madre di Gesù, e con i cugini di lui. Mentre attendevano « la promessa del Padre », cioè lo Spirito Santo, Pietro, alzatesi in mezzo ai fratelli (c’era una folla di circa 120 persone), prese a dire: « Era necessario che si adempisse la Scrittura che lo Spirito Santo, per bocca di David, aveva predetto nei riguardi di Giuda, il quale si fece guida a coloro che catturarono Gesù; poiché egli era annoverato tra noi ed ebbe la sorte di partecipare a questo ministero. Costui, inoltre, con la mercede del suo delitto, acquistò un campo; caduto a capofitto, gli scoppiò il ventre e si sparsero tutte le sue viscere. Il fatto divenne noto a tutti gli abitanti di Gerusalemme, tanto che quel campo, nel loro idioma, fu chiamato Aceldama, cioè campo del sangue. Infatti nel libro dei Salmi sta scritto: « Divenga deserta la sua dimora, e non vi sia chi l’abiti! ». E ancora: « Prenda un altro il suo ufficio ». E’ dunque necessario che uno degli uomini che ci furono compagni per tutto il tempo che il Signore Gesù trascorse tra noi, a partire dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui fu assunto di mezzo a noi, divenga, insieme con noi, testimone della sua risurrezione » (Atti 1, 16-22).
Ne presentarono due: Giuseppe, di cognome Barsabba, il quale era soprannominato Giusto, e Mattia. Poi pregarono dicendo: « O Signore, tu che conosci i cuori di tutti, indicaci quale di questi due hai scelto per assumere l’ufficio di questo ministero e di questo apostolato, dal quale Giuda perfidamente si partì per andarsene al proprio luogo ». Poi tirarono la sorte, e la sorte cadde su Mattia, e venne annoverato con gli undici apostoli.
Quando giunse il giorno della Pentecoste, stavano tutti insieme nello stesso luogo. A un tratto, ci fu dal ciclo un fragore, come di vento impetuoso, e pervase tutta la casa dove essi si trovavano. E videro delle lingue che sembravano come di fuoco, dividersi e posarsi sopra ciascuno di loro. Tutti furono ripieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, secondo il modo in cui lo Spirito concedeva loro di esprimersi. Ora in Gerusalemme dimoravano pii Giudei di ogni nazione che è sotto il cielo. Udito quel fragore, si radunò una gran folla che rimase sbalordita, perché ciascuno li sentiva parlare nella propria lingua » (Atti c. 1).
Allora Pietro, insieme con gli undici, si fece avanti, alzò la voce e spiegò che quell’evento era stato predetto dal profeta Gioele e che Gesù, risuscitato dai morti, era stato costituito da Dio « Signore e Messia ». Molti presenti, sentendosi il cuore compunto, chiesero a Pietro e agli altri apostoli: « Fratelli, che cosa dobbiamo fare? ». E Pietro disse loro; « Convertitevi e ognuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo ».
Quelli dunque che accettarono la sua esortazione si fecero battezzare, e, in quel luogo, circa tremila persone si associarono alla Chiesa. Ed erano sempre assidui alle istruzioni degli apostoli, alle riunioni comuni, allo spezzamento del pane e alle orazioni. Il timore si era impadronito di ogni anima, poiché per mezzo degli apostoli avvenivano molti segni e prodigi. E tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune. Anzi vendevano le proprietà e i beni, e ne distribuivano fra tutti il ricavato, in proporzione al bisogno di ciascuno. E frequentavano insieme e assiduamente il tempio ogni giorno; spezzavano il pane di casa in casa; mangiavano insieme con giocondità e semplicità di cuore, lodando Iddio e godendo il favore di tutto il popolo. Il Signore, poi, associava alla Chiesa quelli che di giorno in giorno venivano salvati. (Ivi, c. 2).
La moltitudine dei credenti era di un sol cuore e di un’anima sola. Infatti tra loro non c’era alcun indigente, poiché tutti i padroni di campi o di case, man mano che li vendevano, portavano il ricavato delle cose vendute e lo mettevano a disposizione degli apostoli: poi veniva distribuito a ciascuno secondo la necessità che uno ne aveva.
E gli apostoli, frattanto, con grande energia rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e, verso tutti loro, c’era una gran simpatia. Sicché la moltitudine di uomini e donne credenti nel Signore andava aumentando sempre più. (Ivi, cc. 4 e 5).
Si mosse allora il sommo sacerdote con tutti i suoi seguaci. Al colmo della gelosia afferrarono gli apostoli e li misero nella prigione popolare. Un angelo li mette in libertà? Essi li fanno arrestare dal prefetto del tempio, dove stanno imperterriti a istruire il popolo, intimano loro, dopo averli fatti fustigare, di non parlare affatto nel nome di Gesù. Essi se ne vanno via dal sinedrio giulivi per essere stati ritenuti degni di subire oltraggi a causa di quel nome. E ogni giorno, nel tempio e per le case, continuano a insegnare e ad annunziare senza posa la buona novella del Messia Gesù, (Ivi, cap. 5) fino a tanto che il martirio di S. Stefano prima, e l’imprigionamento di S. Pietro poi, li costringe provvidenzialmente a disperdersi per il mondo allora conosciuto per fare discepole del Martire del Golgota tutte le nazioni.
Le notizie posteriori riguardanti S. Mattia sono contraddittorie. Tutte però concordano nel dirlo martire. Le sue reliquie, vere o presunte, sono venerate a Roma nella basilica di S. Maria Maggiore.

Autore: Guido Pettinati

Publié dans:SANTI APOSTOLI |on 13 mai, 2013 |Pas de commentaires »

03 MAGGIO : SAN FILIPPO E GIACOMO, APOSTOLI

http://liturgia.silvestrini.org/santo/186.html

03 MAGGIO : SAN FILIPPO E GIACOMO, APOSTOLI

BIOGRAFIA
San Filippo, nativo di Bethsaida, era un uomo giusto e godette certamente di una certa intimità con Gesù. Infatti a lui il Signore si rivolge all’atto della moltiplicazione dei pani, e a lui si indirizzano i gentili che vogliono parlare con il Salvatore. Portò il vangelo nella Scizia ove fondò una comunità di ferventi cristiani. Il seguito della sua vita è avvolto nell’oscurità, come pure la sua morte. La tradizione più comune afferma che Filippo morì crocifisso a Gerapoli, all’età di 87 anni. Le sue reliquie sarebbero state trasportate a Roma e composte insieme a quelle di S. Giacomo nella chiesa dei Ss. apostoli. Questo sarebbe il motivo per cui la Chiesa latina festeggia unitamente i due apostoli.
San Giacomo, che l’evangelista Marco chiama il Minore per distinguerlo dall’omonimo fratello di Giovanni, era di Cana di Galilea. Cugino di Gesù, entra in scena come vescovo di Gerusalemme. Qui fondò una comunità di cristiani, operando sempre numerose conversioni. Sulla sua morte possediamo notizie di antica data. Si dice che morì martire nel 62 e lasciò a monumento sempiterno la Lettera Cattolica, nella quale è celebre il suo detto: “la fede senza le opere è morta”.

MARTIROLOGIO
Festa dei santi Filippo e Giacomo, Apostoli. Filippo, nato a Betsaida come Pietro e Andrea e divenuto discepolo di Giovanni Battista, fu chiamato dal Signore perché lo seguisse; Giacomo, figlio di Alfeo, detto il Giusto, ritenuto dai Latini fratello del Signore, resse per primo la Chiesa di Gerusalemme e, durante la controversia sulla circoncisione, aderì alla proposta di Pietro di non imporre quell’antico giogo ai discepoli convertiti dal paganesimo, coronando, infine, il suo apostolato con il martirio.

DAGLI SCRITTI…
Dalle “Omelie sui Vangeli” di San Gregorio Magno, papa
Vi vorrei esortare a lasciar tutto, ma non oso. Se dunque non potete lasciare tutte le cose del mondo, usate le cose di questo mondo in modo da non essere trattenuti nel mondo; in modo da possedere le cose terrene, non da esserne posseduti; in modo che quello che possedete rimanga sotto il dominio del vostro spirito e non diventi esso stesso schiavo delle sue cose, e non si faccia avvincere dall’amore delle realtà terrestri. Dunque i beni temporali siano in nostro uso, i beni eterni siano nel nostro desiderio; i beni temporali servano per il viaggio, quelli eterni siano bramati per il giorno dell’arrivo. Tutto quello che si fa in questo mondo sia considerato come marginale. Gli occhi dello spirito siano rivolti in avanti, mentre fissano con tutto interesse le cose che raggiungeremo. Siano estirpati fin dalle radici i vizi, non solo dalle nostre azioni, ma anche dai pensieri del cuore. Non ci trattengano dalla cena del Signore né i piaceri della carne, né le brame della cupidigia, né la fiamma dell’ambizione. Le stesse cose oneste che trattiamo nel mondo, tocchiamole appena, quasi di sfuggita, perché le cose terrene che ci attirano servano al nostro corpo in modo da non ostacolare assolutamente il cuore. Non osiamo perciò, fratelli, dirvi di lasciare tutto; tuttavia, se volete, anche ritenendole tutte, le lascerete se tratterete le cose temporali in modo da tendere con tutta l’anima alle eterne. Usa infatti del mondo, ma è come se non ne usasse, colui che indirizza al servizio della sua vita anche le cose necessarie e tuttavia non permette che esse dominino il suo spirito, in modo che siano sottomesse al suo servizio e mai infrangano l’ardore dell’anima rivolta al cielo. Tutti coloro che si comportano così, hanno a disposizione ogni cosa terrena non per la cupidigia, ma per l’uso. Non vi sia niente dunque che alteri il desiderio del vostro spirito, nessun diletto di nessuna cosa vi tenga avvinti a questo mondo.
Se si ama il bene, la mente trovi gioia nei beni più alti, quelli celesti. Se si teme il male, si abbiano davanti allo spirito i mali eterni, perché mentre il cuore vede che là si trova ciò che più si deve amare e più si deve temere, non si attacchi assolutamente a quanto si trova di qui. Per far questo abbiamo come nostro aiuto il mediatore di Dio e degli uomini, per mezzo del quale otterremo prontamente ogni cosa, se ardiamo di vero amore per lui, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna Dio per tutti i secoli dei secoli. Amen.(Lib. 2, 36. 11-13; PL 76, 1272-1274)

Publié dans:SANTI APOSTOLI |on 2 mai, 2013 |Pas de commentaires »

PAOLO VI: MERCOLEDÌ 25 GENNAIO 1978 – CONVERSIONE DI SAN PAOLO

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/1978/documents/hf_p-vi_aud_19780125_it.html

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

MERCOLEDÌ 25 GENNAIO 1978 – CONVERSIONE DI SAN PAOLO

OPPORRE IL BENE ALL’OFFENSIVA DEL MALE

OGGI LA CHIESA celebra la conversione di San Paolo, avvenimento decisivo per il cristianesimo, e che confermò la vocazione universale della nuova religione, che nata in un paese determinato e nell’ambito della tradizione ebraica, ebbe nel nuovo Apostolo il missionario che più degli altri comprese e predicò il Vangelo per tutti gli uomini. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza Egli l’ha data nei tempi stabiliti, « e di essa io (è San Paolo che attesta di sé, nella prima lettera a Timoteo, [1Tim. 2, 5-7]), io – egli scrive – sono stato fatto banditore e apostolo, dico la verità, non mentisco, dottore delle genti nella fede e nella verità ». Vada all’Apostolo Paolo, oggi, il nostro riverente e amoroso saluto, associato al pensiero che oggi pure la pietà della Chiesa rivolge al grande e non ancora soddisfatto desiderio apostolico della piena ricomposizione dell’unità fra i Cristiani, nell’orazione e nella speranza, che l’aspirazione, fatta più ardente e più plausibile dall’ecumenismo contemporaneo, celebrata nei nostri cuori e, Dio voglia, in quelli dei Fratelli tuttora da noi separati, sia coronata da felice successo.
A San Paolo noi domanderemo poi una sua parola che conforti i nostri animi, turbati da tante vicende della vita attuale nel mondo, le quali scuotono la nostra fiducia nel pacifico progresso della pace nel mondo. Tutti siamo addolorati da una triste recrudescenza della violenza privata, ma organizzata nella società odierna, la quale traduce in fenomeni di incivile disordine l’insicurezza, che la travaglia e che un dominante pluralismo morale e politico, contraffazione della libertà, sembra coonestare. Per di più difficoltà economico-sociali si diffondono con effetti negativi molto pesanti, e lasciano intravvedere situazioni anche peggiori, così che desiderii folli di godimento superfluo e timori paralizzanti la normalità del lavoro si diffondono creando una psicologia di sfiducia, che inaridisce l’attività produttiva e suggerisce rimedi vani e disordinati. E come accade, un male ne genera un altro, e spesso peggiore. Tutti siamo preoccupati. Il peggio, si dice, è senza fondo; e una tentazione di pessimismo si diffonde e paralizza tante energie, che pure sono state suscitate con tanta lungimiranza di un avvenire migliore.
 Il quadro è noto a tutti e incombe con la sua ombra su questo momento della nostra civiltà e si proietta sulla storia del domani.
Ecco allora il nostro rimedio, attinto appunto dal tesoro dell’insegnamento dell’Apostolo Paolo. Egli lo presenta nella sua lettera ai Romani là dove, dopo di averli esortati con suggerimenti vibranti in varie direzioni della vita morale, quale deve derivare da persone illuminate dalla fede e sorrette dalla grazia, egli riassume la sua esortazione in questa ben nota sentenza: « Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male ».[Rom. 12. 21] Quanto semplice sembra la parola dell’Apostolo, e sembra che valga la pena fissarla nella memoria. Intanto notiamo: la dottrina apostolica è interiore, e tende a modificare la facile mentalità di chi cede al disgusto e al turbamento delle condizioni esteriori, in cui si svolge la nostra vita. Siamo in un mondo non solo avverso per tanti motivi fisici e materiali alla nostra esistenza, ma altresì nemico per le difficoltà del suo ordinamento sociale, o meglio per il disordine dei fattori che gli impediscono d’essere ordinato, vale a dire ragionevole e giusto. Noi avvertiamo questa malizia che rende difficile e talora insopportabile la convivenza sociale: che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo lasciare che il male ci vinca, cioè ci domini e ci assorba nelle sue spirali che farebbero cattivi anche noi? Questo è il processo della vendetta, che accresce il male e non lo guarisce. Ovvero dobbiamo cedere al pessimismo e alla pigrizia e abbandonarci ad una vile rassegnazione? Ciò non è cristiano. Il cristiano è paziente, ma non abulico, non indifferente. L’atteggiamento suggerito dall’Apostolo è quello d’una reazione positiva; cioè egli c’insegna a opporre la resistenza del bene all’offesa del male; c’insegna a moltiplicare lo sforzo dell’amore per riparare e vincere i danni del disordine morale; c’insegna a fare stimolo a maggiore virtù e a più operante attività per il nostro cuore dell’esperienza del male incontrato sul nostro cammino. Così San Paolo. Così i Santi. E così sia di tutti noi!

Con la nostra Benedizione Apostolica.

SAN GIOVANNI EVANGELISTA – LA VITA DELL’APOSTOLO

http://www.chiesamadresglapunta.it/index.php?option=com_content&view=article&id=42&Itemid=37

SAN GIOVANNI EVANGELISTA

La Vita dell’Apostolo

Giuseppe Cutuli

La Vita

San Giovanni, apostolo ed evangelista, è tradizionalmente identificato come l’autore del Vangelo di Giovanni, delle tre Lettere di Giovanni e della Apocalisse, facenti parte del Nuovo Testamento della Bibbia cristiana. Giovanni nasce secondo la tradizione a Betsaida di Galilea (nel nord della Palestina), località situata sulle sponde del lago di Genezareth detto anche Mar di Galilea. Betsaida significa « casa della pesca ». Figlio di Zebedeo e di Salomè, si dedica alla pesca come suo padre che sembra, a detta dei Vangeli, non essere stato un semplice pescatore ma un vero e proprio imprenditore della pesca in quanto aveva alle sue dipendenze delle maestranze. Nei vangeli capita talvolta di incontrare un riferimento ai « figli di Zebedeo » e cioè a Giovanni e Giacomo. Giovanni avrebbe incontrato Gesù di Nazaret quando già era uno dei discepoli di un maestro delle scritture, Giovanni il Battista, precursore e profeta di Gesù, imparentato, stando alle fonti cristiane, con lo stesso Gesù essendo Elisabetta, madre di Giovanni, parente di Maria, la madre di Gesù. Il Battista indicò Gesù con queste parole: « Ecco l’agnello di Dio », dopodiché fu lo stesso Giovanni il Battista a spingere i suoi due discepoli a lasciarlo per poter seguire il nuovo maestro. Presumibilmente doveva avere meno di venti anni quando avvenne questo incontro. (San Girolamo, « De Viris Illustribus »). Tutto questo accadeva vicino a Betania sul Giordano.
Giovanni e Andrea fratello di Pietro (anch’egli in quel tempo sarebbe stato discepolo del Battista) furono i primi due apostoli del maestro di Nazaret. Gesù iniziava allora a diffondere il suo insegnamento, che, secondo alcune recenti ipotesi, risentiva anche della visione dell’ebraismo propria degli esseni nome che in ebraico significa « i medici », « i terapeuti ». Subito dopo, secondo le fonti cristiane, si aggiunsero a questi primi due apostoli rispettivamente Simon Pietro fratello di Andrea e Giacomo fratello di Giovanni. In seguito i due figli di Zebedeo vennero soprannominati per la loro impetuosità « i figli del tuono » dallo stesso Rabbi Gesù. Giovanni viene descritto dai Vangeli di carattere risoluto (Marco 3,17; Luca 9,54), e non alieno da ambizioni (Marco 10, 35-37); le fonti ci dicono che era il più giovane fra i discepoli. Giovanni si rivelerà in seguito colui che più di ogni altro, anche tra quelli più intimi del maestro, avrà capito il vero senso di questo nuovo regno: il « Regno del Figlio dell’Uomo » opponendosi ad ogni sorta di interpretazione mondana della figura della persona di Gesù pur mantenendosi radicalmente fedele alla concezione di Dio quale vero uomo anche in funzione antignostica, cioè di coloro i quali invece, trasportati anche dalla polemica nel loro tentativo di combattere quelle che loro definivano le rozze concezioni cristiane della Grande Chiesa che aveva fatto scempio del pensiero aristocratico del Rabbi di Nazareth, continuavano a mantenere separati e in una contraddizione irriducibile lo spirito e la materia. Le scritture cristiane ci dicono che Giovanni non abbandonò mai il maestro nemmeno nell’ora ultima delle persecuzioni tanto da essere presente sotto la croce dove concluse i suoi 33 anni nel mondo, oltre alla madre di Gesù, Maria di Nazareth, a Maria Maddalena e alla sua stessa madre Salomé, ciò che ha fatto dire ad alcune discepole di Gesù dei millenni seguenti che le « apostole » dimostrarono di avere più coraggio degli stessi apostoli nominati ufficialmente quali « apostoli » da Gesù stesso, sennonché c’è un’eccezione: Giovanni appunto che stette accanto al maestro e amico fino alla fine. Secondo la tradizione cristiana, durante l’ultima cena posò il capo sul petto di Cristo. Testimone della trasfigurazione e dell’agonia del Signore, era presente ai piedi della croce, dove Gesù gli affidò la Madre. Insieme a Pietro vide il sepolcro vuoto e credette nella resurrezione del Signore.
Dopo la morte di Gesù si sarebbe stabilito a Gerusalemme con gli altri della comunità dei nazareni, come venivano chiamati dagli altri professanti la religione ebraica e considerati come una semplice setta dell’ebraismo. Avvennero di lì a poco, secondo le fonti neotestamentarie, la resurrezione e l’ascensione del loro maestro. Segue poco dopo quell’altro avvenimento straordinario per questa comunità che viene chiamato come l’evento della Pentecoste. Già prima della crocefissione del « Rabbi » gli apostoli più vicini al maestro e quindi più intimi erano sempre stati Pietro, Giacomo, Andrea e Giovanni. In particolare quest’ultimo verrebbe chiamato in alcuni testi del Nuovo Testamento il prediletto del Signore (Giovanni 13,23; 19,26, 20,2; 21,7).
Paolo di Tarso racconta che dopo la morte del maestro, le colonne della chiesa di Gerusalemme sarebbero stati appunto questi quattro apostoli. Dopo la Pentecoste Giovanni è sempre a Gerusalemme e dagli Atti degli apostoli risulta come una delle figure più autorevoli della Chiesa nascente ed è nominato subito dopo Pietro (Atti 3, 1-11; 4, 13-19; 8, 14), quando tra il 36 e il 38 ci sarebbe stata una prima ondata di persecuzioni. Gli scritti cristiani ci dicono che in quella occasione Pietro e Giovanni vennero incarcerati e flagellati, in quanto agli occhi delle autorità civili sarebbero stati ritenuti i principali responsabili della comunità. Dopo le persecuzioni subite a Gerusalemme, Giovanni si recò, stando alle scritture, con Pietro in Samaria, dove avrebbe svolto un’intensa opera di evangelizzazione (Atti 8, 14-15). Le fonti cristiane ci parlano di una seconda ondata di persecuzioni. Pietro lascia Gerusalemme e la guida della comunità passa a Giacomo il Minore, mentre nel 44 Giacomo di Zebedeo (detto anche Giacomo il Maggiore) fratello di Giovanni subisce il martirio. Giovanni rimarrà ancora a Gerusalemme dove condividerà la storia di questa comunità sino a che il rinnovarsi e l’intensificarsi delle persecuzioni lo costringeranno a stabilirsi, insieme a Maria di Nazaret, a Mileto, dove era presente una comunità di nazareni. Alcuni anni prima, nel 52, a Efeso, dove era una importante comunità ebraica, era giunto Paolo di Tarso, primo missionario della buona novella, e qui si era stabilito per circa tre anni. Partito poi da qui, vi lasciò i coniugi Aquila e Priscilla che proseguirono il lavoro da lui iniziato nell’evangelizzare la città e la regione intera (Atti degli Apostoli).
A questo primo viaggio di Paolo fece seguito un suo secondo ed ultimo viaggio in questa città, dopodiché si avviò verso l’ultima tappa della sua opera di missionario, Roma, dove secondo la tradizione cattolica già era Pietro; affidò quindi la comunità a Timoteo suo discepolo di lunga data (lettere di Paolo a Timoteo). Dopo la morte di Timoteo vescovo di Efeso, Giovanni si trovò ad ereditare tutto il lavoro svolto nella chiesa di Efeso da Paolo e dai suoi collaboratori. Giovanni infatti, sembra anche a seguito di una visione in cui lo stesso Gesù gli apparve, partì da Mileto dove altrimenti forse sarebbe rimasto per il resto della sua vita e cominciò a governare la chiesa di Efeso e le altre comunità cristiane dell’Asia Minore. Recandosi a Efeso, portò con sé Maria di Nazaret madre di Gesù, poiché gli era stata affidata dallo stesso Gesù nel momento del suo commiato dalla Terra. Ricerche archeologiche condotte alla fine del secolo scorso, sulla base delle visioni della stigmatizzata monaca agostiniana Anna Caterina Emmerich (1774 – 1824), hanno permesso il ritrovamento a circa 9 Km a sud di Efeso della casa dove la tradizione dice che abitò e morì Maria di Nazaret. Giovanni giunse nella città di Efeso che contava allora circa 200 mila abitanti.
Questi basavano la loro economia vivendo del commercio e del traffico portuale. In questa grande città l’apostolo svolse la sua opera di evangelizzatore e di guida delle comunità tutte dell’Asia Minore che facevano riferimento a lui quale testimone, come amava definirsi. Accadde però che nell’anno 89 si scatenò una nuova ondata di persecuzioni nei confronti dei cristiani ad opera dell’imperatore Domiziano. Tertulliano racconta che Giovanni venne arrestato e condotto a Roma, quindi torturato nei pressi di Porta Latina e infine condannato a morte (sul luogo venne costruita la chiesa di San Giovanni in Oleo). Di lì a poco questa pena però verrà commutata in quella dell’esilio nell’isola di Patmos, dove Giovanni soggiornò a lungo. In ricordo di ciò all’apostolo Giovanni sarà dedicata la cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano. A Patmos Giovanni riuscì a convertire quasi tutta l’isola. Durante la sua permanenza a Patmos acquisì il titolo di Giovanni il veggente: fu infatti a Patmos che dettò ai suoi discepoli le visioni che ebbe sulla fine del mondo e il trionfo del regno del figlio dell’uomo che costituiranno il nucleo di quel libro, l’Apocalisse che chiude la serie dei libri che costituiscono la Bibbia cristiana. Dopo la morte dell’imperatore Domiziano nel 96, sotto l’imperatore Nerva, Giovanni fece ritorno a Efeso. Morì in tardissima età, si dice intorno ai cento anni, ad Efeso nel periodo in cui regnava l’imperatore Traiano (98-117).
Riguardo alla morte di Giovanni è stato tramandato un racconto secondo il quale fu Giovanni stesso che sentendo arrivare la sua ultima ora, nel giorno di Pasqua, si scavò una fossa dopodiché vi si sdraiò e così morì. All’ultimo periodo della sua vita terrena, trascorso nuovamente ad Efeso, risale invece l’elaborazione del Vangelo secondo Giovanni e delle tre lettere. Il Vangelo secondo Giovanni è stato scritto originariamente in greco. Il testo, tuttavia, contiene latinismi ed ebraismi. Questo vangelo è molto diverso rispetto agli altri: ci sono molte meno parabole, meno miracoli, non vi è accenno all’Eucaristia, al Padre nostro, alle beatitudini. Probabilmente il testo è stato scritto da più persone e in tempi diversi, per essere completato intorno all’anno 100. Il famoso « Prologo » o « Inno al Logos » dà inizio a questo vangelo: ci è pervenuto nei reperti risalenti all’anno 200 del Papiro 66 detto anche Papiro Bodmer II attualmente conservato a Ginevra.
Alcuni hanno formulato l’ipotesi che il prologo giovanneo sia una rielaborazione di un inno al logos preesistente. «In principio era il Logos e il Logos che era in principio era presso Dio e Dio era il Logos questi, il Logos, in principio era presso Dio. Tutto ciò che è venuto ad essere è venuto ad essere per mezzo del Logos che era in principio e senza il Logos che era in principio nulla sarebbe venuto ad essere di ciò che è venuto ad essere. Nel Logos che in principio era la vita e questa vita era la vera luce degli uomini e questa luce splende ancora nelle tenebre poiché le tenebre non sono mai riuscite ad offuscarla in maniera definitiva.» (Giovanni 1,1-5) A partire da San Girolamo l’utilizzo che Giovanni fa del termine « Logos » viene reso con la traduzione in latino « Verbum »; da allora anche in italiano per lo più il concetto greco-giovanneo di Logos viene assimilato a « il Verbo ».
Come si può notare il resoconto-testimonianza della buona notizia così come viene riportata nell’interpretazione che Giovanni ne dà, alla luce della sua grande capacità riflessiva, inizia con le stesse parole con cui inizia l’interpretazione della storia riportata dalla Bibbia ebraica dalla quale lui stesso proviene e alla quale è stato formato sin dall’infanzia: « Bereshit » che in greco fa « En Archè » ovvero « In Principio ». In questo modo il prologo giovanneo che annuncia il tema portante tutta la visione giovannea del logos che era in principio, ripete lo schema della genesi riallacciandosi così a tutta la tradizione dell’ebraismo dell’antico testamento, ma rielaborandola dal punto di vista di quanto lui aveva sperimentato nel corso della sua feconda oltre che lunga esistenza, e in questa continuità riflessiva introduce quello che è il tema centrale del quarto vangelo, ovvero l’incarnazione di questo logos. Benché sia sempre stato visto con interesse e alta considerazione negli ambienti cristiani definiti gnostici, tuttavia Giovanni non esiterà a polemizzare anche con essi ribadendo la sua posizione sulla questione dell’incarnazione del logos che era in principio: Gesù non solo come vero Dio ma anche come vero uomo. Gli gnostici, pur ribadendo la divinità della persona Gesù tenevano in poco conto l’umanità di Gesù se non addirittura la negavano, giungendo ad affermare che Gesù era spiritualmente talmente al di sopra dei suoi aguzzini – definiti esseri puramente materiali, totalmente condizionati dalla materia che per loro equivaleva a « ignoranti » – che pur inchiodato sulla croce non avrebbe minimamente sofferto. La questione dell’incarnazione del Dio Vivente non è una questione marginale: il farsi uomo di Dio e il farsi Dio dell’uomo sono infatti il vero novum storico rappresentato dall’evento Gesù di Nazaret. La parola « Apocalisse » è parola di origine greca che significa letteralmente « Rivelazione ».
Il testo giovanneo, che riporta le visioni avute dall’ultimo apostolo sopravvissuto durante il suo forzato esilio nell’isola, venne messo in scritto da lui medesimo o, presumibilmente, sotto sua dettatura da alcuni suoi collaboratori e discepoli, durante il lungo esilio nell’isola di Patmos. L’autore esordisce nella forma di sette lettere inviate alle sette comunità giovannee dell’Asia minore, facenti parte, per così dire nel linguaggio attuale, della diocesi del vescovo di Efeso Giovanni. Si tratta delle chiese di Efeso, Tiatira, Smirne, Sardi, Filadelfia, Pergamo, Laodicea. Mentre nell’ »Inno al Logos » contenuto nel suo Vangelo, Giovanni tratta delle origini della storia di questo mondo, in questo testo tratta dell’ultima fase della storia di questo mondo e della sua imminente e inevitabile fine. È questo il tema che Giovanni tratta con la sua rivelazione sia pure in un linguaggio visionario e simbolico che a dura prova ha messo le capacità interpretative di tutti coloro che lungo i secoli si sono avvicinati e avvicendati a questo enigmatico testo. Di 404 versetti, 278 contengono almeno una citazione dell’Antico Testamento. I libri che hanno maggiormente influenzato l’Apocalisse sono i libri dei Profeti, principalmente Daniele, Ezechiele, Isaia, Zaccaria e poi anche il libro dei Salmi ed Esodo. Dell’abate e monaco cistercense in rotta con il suo ordine Gioacchino da Fiore ci è pervenuto un « Commentario dell’Apocalisse » e un « Tractatus super quattuor evangelia ». Tommaso d’Aquino scrisse un « Commentario al vangelo di Giovanni »
Chiamato fin da tempi remoti con l’appellativo di Aquila spirituale, San Giovanni Evangelista viene rappresentato in molti luoghi di culto con il simbolo dell’aquila. Se ne celebra la festa il 27 dicembre. San Giovanni Evangelista è stato un soggetto molto raffigurato nella storia dell’arte.

Publié dans:SANTI, SANTI APOSTOLI, SANTI EVANGELISTI |on 27 décembre, 2012 |Pas de commentaires »
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