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COMMENTO DELLA LETTERA A FILEMONE

il commento è tratto dal sito « homolaicus » quindi non strettamente biblico, ma certo, interessante:

http://www.homolaicus.com/nt/lettere/filemone/lettera_filemone.htm

COMMENTO DELLA LETTERA A FILEMONE

Filemone, chi era costui? Pur essendo un illustre sconosciuto del Nuovo Testamento, non c’è stato nome che la storiografia ateistica di tutti i tempi abbia usato più del suo, allo scopo di dimostrare che il cristianesimo primitivo parteggiava per lo schiavismo o comunque non era in grado di fare alcunché di sostanziale per superarlo.
Oggetto della lettera di accompagnamento e di raccomandazione, dal contenuto molto personale (cosa che nell’antichità sollevò qualche dubbio sulla sua canonicità), è la fuga di uno schiavo di nome Onesimo dalla casa di Filemone, un facoltoso cristiano di Colosse, convertito alla fede da Paolo.
Quest’ultimo avrebbe incontrato per la prima volta Onesimo mentre era in prigione a Efeso (ma non si è certi di questa località) e con la lettera avrebbe invitato Filemone a perdonargli la fuga e, visto che lo schiavo nel frattempo si era cristianizzato, a riprenderlo addirittura come se fosse un « fratello », un « amico ».
Da notare che esortazioni ad assumere atteggiamenti benevoli, tolleranti, rivolte sia agli schiavi che agli schiavisti, erano già state fatte da Paolo in due lettere precedenti: Col 3,22-4,1 e Ef 6,5-9.
Nel saluto iniziale Filemone non viene considerato come un « compagno di lotta », al pari del figlio Archippo, che addirittura era responsabile della comunità colossese, ma semplicemente come un « compagno di lavoro »(v. 1), cioè un « cooperatore », un collaboratore esterno, che metteva a disposizione la sua abitazione, le sue risorse ma non il suo tempo o la sua persona.
Filemone, la cui moglie era probabilmente la stessa Affia che Paolo qualifica come « sorella », è un buon uomo, un grande lavoratore, uno – diremmo oggi – che s’è fatto da sé, uno che non s’accontenta di quel che ha, ma vuole espandere la propria attività e, per tale ragione, ha bisogno di schiavi che lavorino per lui (benché qui si parli soltanto di uno di loro).
Ma se era così « buono », così « cristiano », perché Onesimo era scappato? Dalla lettera non si capisce. Paolo si limita a dire d’averlo incontrato in prigione e di averlo convertito. Forse Onesimo aveva pensato che stare presso colui che aveva convertito al cristianesimo il suo padrone gli avrebbe dato qualche sicurezza in più: in fondo il diritto di asilo veniva offerto anche da certi templi famosi, come p.es. quello di Artemide a Efeso.
Una cosa sola di Onesimo si sa con certezza: prima era fuggito come schiavo pagano, ora chiede di ritornare come schiavo cristiano, nella speranza, visto che lo stesso Filemone è cristiano, di essere trattato assai meglio di uno schiavo.
Paolo fa diversi giri di parole, dicendo una cosa e poi il suo contrario, per cercare di convincere Filemone a riprenderselo.
Anzitutto gli fa notare che potrebbe ordinarglielo (moralmente s’intende), in quanto Filemone appartiene a una comunità il cui fondatore è stato lo stesso Paolo. Quindi un certo riconoscimento istituzionale glielo deve.
Tuttavia Paolo gli chiede di riprenderlo spontaneamente, in nome dell’amore, anche per assicurare Onesimo sul suo destino di schiavo pentito. Se Filemone lo accetta liberamente, non potrà rammaricarsi tanto facilmente di non aver proceduto per vie legali.
La terza motivazione della richiesta è quella di riprenderlo come segno di benevolenza, di riconoscimento morale nei confronti di Paolo, « vecchio e prigioniero »(v. 9).
La quarta è la motivazione economica, detta in tono ironico: Onesimo, che significa « vantaggioso », può tornare di nuovo « utile » al suo proprietario, e questa volta per sempre. « Si è allontanato per breve tempo, affinché tu lo riavessi per sempre »(v. 15), gli dice appellandosi a misteriose quanto divine leggi della provvidenza.
La quinta è ideologica: tra schiavo e schiavista non vi possono più essere contrasti culturali, religiosi, avendo entrambi la stessa fede cristiana. Anzi, proprio per il fatto d’essersi convertito e d’aver accettato di collaborare con Paolo, Onesimo viene considerato come una sorta di « discepolo », sicché con la sua reintegrazione nella precedente attività lavorativa non si può ora non tener conto di questa novità.
Onesimo è diventato cristiano come Filemone, cioè uno schiavo è diventato cristiano dopo il suo schiavista: è un successo incredibile per il cristianesimo paolino. Se non fosse stato in carcere, Paolo l’avrebbe tenuto con sé, come esempio paradigmatico della capacità persuasiva della nuova concezione di vita, a questo punto fruibile non solo dai ceti benestanti ma anche da quelli meno abbienti, fino addirittura agli schiavi.
Paolo arriva addirittura a proporre una soluzione finanziaria, secondo cui se Onesimo ha rubato qualcosa, sarà lui stesso a risarcire la perdita (il « se » dubitativo qui è un po’ pleonastico, poiché come minimo Onesimo era venuto meno a una prestazione gratuita di manodopera, cui per legge era tenuto); poi però Paolo, rendendosi conto della esagerazione appena detta, fa capire, senza tanti giri di parole, che Filemone gli deve la sua stessa vita, essendo divenuto « cristiano » proprio grazie a Paolo. Come se il suo cristianesimo l’avesse salvato da sicura morte spirituale!
Da un lato lo supplica, dall’altro pretende di sapere che non rifiuterà, anche perché gli prospetta l’esigenza di ospitare lui stesso, prossimo a uscire dal carcere.
La procedura altalenante delle motivazioni ha fatto pensare non pochi critici a successive manipolazioni della missiva: a frasi toccanti, infatti, quasi commoventi ne seguono altre, stranamente, di velata minaccia, di pseudo ricatti morali. Evidentemente Paolo, che qui sembra arrampicarsi sugli specchi pur di veder esaudita la propria richiesta, temeva che due righe non sarebbero bastate per impedire delle ritorsioni a carico di Onesimo, che quella volta peraltro cadevano puntuali sulla testa degli schiavi fuggitivi.
Proprio nel periodo in cui Paolo scriveva il biglietto a Filemone, a Roma, stando al racconto di Tacito (Annali, 14, 43), il prefetto Pedanio era stato assassinato da uno dei suoi schiavi e il colpevole era stato scoperto; ma la legge dichiarava tutta la famiglia degli schiavi responsabile del delitto e così tutti i 400 schiavi di Pedanio, uomini, donne e bambini, furono crocifissi per colpa di uno solo di essi.
In ogni caso, a parte il suo valore indiscutibilmente umanitario, la lettera paolina ha l’apparenza di una vera e propria favola, dove tutti alla fine vivranno felici e contenti.
Da un lato viene chiesto a Filemone d’essere spontaneo e di riprendersi con convinzione e piena libertà il suo schiavo, accettandone altresì la sua conversione.
Dall’altro viene chiesto a Onesimo di ritornare spontaneamente dal suo padrone a fare di nuovo lo schiavo, nella convinzione che, divenuto ora cristiano, sarebbe stato trattato meglio. Indirettamente quindi Paolo fa capire al lettore che Filemone, pur essendo cristiano, non si sentiva in dovere di trattare umanamente gli schiavi di religione pagana.
Paolo insomma presenta Onesimo come un ottimo elemento, sia come uomo che come credente (lo dice testualmente al v. 16), eppure gli chiede di tornare a fare lo schiavo, benché nel contempo preghi Filemone di non considerarlo più come uno schiavo, appunto perché ora, essendosi convertito, è pari a un « fratello » nella fede. E infatti ritroviamo Onesimo a fianco di Tichico in Col 4,9, presso la comunità di Colosse, da dove era partito per andare a trovare Paolo una seconda volta.
Dunque Filemone cosa avrebbe dovuto fare? Liberare Onesimo dalla schiavitù? Considerarlo come un amico, un collaboratore domestico, un socio in affari, come se fosse lo stesso Paolo in persona? Filemone accetterà forse i buoni consigli, le perorazioni, i suggerimenti di Paolo, facendo un’eccezione alla regola della schiavitù e permettendo così a Paolo di trasformare un caso eccezionale in una regola universale?
Paolo offre qui un chiaro esempio di cosa voglia dire realizzare dei rapporti personali col potere (qui non di tipo politico ma solo sociale), soprassedendo ai rapporti oggettivi di sfruttamento economico. Per lui la schiavitù è solo una questione interiore, di coscienza, e non (anche) uno stato fisico, una condizione materiale di esistenza.
E’ fuor di dubbio tuttavia che il tentativo paolino di cristianizzare i rapporti tra padroni e schiavi contribuirà in qualche maniera al superamento del rapporto mercificato tra i due soggetti in una forma di dipendenza più vicina al servaggio, in cui l’uno riconoscerà all’altro maggiore dignità umana, pur continuando a negargli la libertà personale. L’uguaglianza sociale, pratica, è infatti possibile, secondo il cristianesimo, solo in un ordine sovratemporale o soprannaturale.
Si può qui concludere facendo il richiamo di rito alle due lettere che Plinio il Giovane (Lettere, IX, 21 e 24) spedì, nel 106-7 d. C., all’amico Sabiniano, il quale, avendo anch’egli avuto un liberto fuggiasco, veniva pregato di riprenderlo senza infierire. Il liberto infatti, giovane e inesperto, era andato da Plinio per essere rimandato da lui al padrone con garanzia di tutela. Plinio accondiscese e nella seconda lettera ringraziò Sabiniano per la clemenza usata verso il fuggitivo.
Inutile qui dire che mentre nella lettera paolina è esplicita l’uguaglianza morale di fronte a dio del padrone col suo schiavo, in quelle di Plinio il perdono dell’offesa viene concesso partenalisticamente da un padre-padrone che non avrebbe mai considerato lo schiavo moralmente uguale a lui.

Publié dans:Lettera a Filemone |on 24 février, 2011 |Pas de commentaires »

GIOVEDÌ 13 NOVEMBRE 2010 – XXXII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

GIOVEDÌ 13 NOVEMBRE 2010 – XXXII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

SAN MARTINO DI TOURS (M)

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura   Fm 1, 7-20
Accoglilo non più come schiavo, ma come fratello carissimo.

Dalla lettera di san Paolo apostolo a Filèmone
Fratello, la tua carità è stata per me motivo di grande gioia e consolazione, perché per opera tua i santi sono stati profondamente confortati.
Per questo, pur avendo in Cristo piena libertà di ordinarti ciò che è opportuno, in nome della carità piuttosto ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene, lui, che un giorno ti fu inutile, ma che ora è utile a te e a me. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore.
Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario. Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.
Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso. E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Io, Paolo, lo scrivo di mio pugno: pagherò io. Per non dirti che anche tu mi sei debitore, e proprio di te stesso! Sì, fratello! Che io possa ottenere questo favore nel Signore; da’ questo sollievo al mio cuore, in Cristo!

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dalle «Lettere» di Sulpicio Severo
(Lett. 3,6.9-10.11.14-17. 21; SC 133,336-343)

Martino povero e umile
Martino previde molto tempo prima il giorno della sua morte. Avvertì quindi i fratelli che ben presto avrebbe cessato di vivere. Nel frattempo un caso di particolare gravità lo chiamò a visitare la diocesi di Candes. I chierici di quella chiesa non andavano d’accordo tra loro e Martino, ben sapendo che ben poco gli restava da vivere, desiderando di ristabilire la pace, non ricusò di mettersi in viaggio per una così nobile causa. Pensava infatti che se fosse riuscito a rimettere l’armonia in quella chiesa avrebbe degnamente coronato la sua vita tutta orientata sulla via del bene.
Si trattenne quindi per qualche tempo in quel villaggio o chiesa dove si era recato finché la pace non fu ristabilita. Ma quando già pensava di far ritorno al monastero, sentì improvvisamente che le forze del corpo lo abbandonavano. Chiamati perciò a sé i fratelli, li avvertì della morte ormai imminente. Tutti si rattristarono allora grandemente, e tra le lacrime, come se fosse uno solo a parlare, dicevano: «Perché, o Padre, ci abbandoni? A chi ci lasci, desolati come siamo? Lupi rapaci assaliranno il tuo gregge e chi ci difenderà dai loro morsi, una volta colpito il pastore? Sappiamo bene che tu desideri di essere con Cristo; ma il tuo premio è al sicuro. Se sarà rimandato non diminuirà. Muoviti piuttosto a compassione di coloro che lasci quaggiù».
Commosso da queste lacrime, egli che, ricco dello spirito di Dio, si muoveva sempre facilmente a compassione, si associò al loro pianto e, rivolgendosi al Signore, così parlò dinanzi a quelli che piangevano: Signore, se sono ancora necessario al tuo popolo, non ricuso la fatica: sia fatta la tua volontà.
O uomo grande oltre ogni dire, invitto nella fatica, invincibile di fronte alla morte! Egli non fece alcuna scelta per sé. Non ebbe paura di morire e non si rifiutò di vivere. Intanto sempre rivolto con gli occhi e con le mani al cielo, non rallentava l’intensità della sua preghiera. I sacerdoti che erano accorsi intorno a lui, lo pregavano di sollevare un poco il suo povero corpo mettendosi di fianco. Egli però rispose: Lasciate, fratelli, lasciate che io guardi il cielo, piuttosto che la terra, perché il mio spirito, che sta per salire al Signore, si trovi già sul retto cammino. Detto questo si accorse che il diavolo gli stava vicino. Gli disse allora: Che fai qui, bestia sanguinaria? Non troverai nulla in me, sciagurato! Il seno di Abramo mi accoglie.
Nel dire queste parole rese la sua anima a Dio.
Martino sale felicemente verso Abramo. Martino povero e umile entra ricco in paradiso.

Omelia per l’11 novembre 2010 – prima lettura: Filemone 10.15

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/8530.html

Omelia (11-11-2004) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno

Ti prego per il mio figlio, che ho generato in catene, Onesimo… Forse è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore. (Filemone 10.15)

Come vivere questa Parola?
Fugge dal suo padrone rubandogli anche una discreta somma di denaro e, dopo varie peripezie, giunge a Roma, incontra un missionario e si converte. Potrebbe essere questo il trafiletto di cronaca relativo alla vicenda di Onesimo, figlio spirituale dell’apostolo Paolo e schiavo di un influente cristiano della Chiesa di Colossi, Filemone.
A lui Paolo invia un biglietto di raccomandazione, mettendolo tra le mani dello stesso fuggiasco che s’impegna a far ritorno dal suo padrone.
Secondo la legge romana, gli schiavi fuggitivi, e per giunta ladri, avrebbero potuto subire anche la pena di morte. Eppure l’Apostolo non esita a ricongiungere il neofita al suo padrone. E lo fa con estrema fiducia, ben sapendo che, in forza della fede, Onesimo non è più un semplice schiavo ribelle ma un « fratello carissimo nel Signore », anche per Filemone, che saprà accoglierlo « in nome della carità ».
A noi, che siamo abituati a logiche ben diverse, in cui la giustizia è rigida applicazione della legge, più incline a punire che a riabilitare, sembra quasi un eccesso che l’affetto di Paolo per questo suo figlio generato in catene, si spinga a tal punto da invocare la revoca della pena e addirittura a proporre che Onesimo venga accolto « non più come schiavo, ma come fratello ». Anzi, di più: « accoglilo come me stesso » – dice l’apostolo. Ci sembra davvero troppo. Ma non è forse questo lo stesso amore lungimirante di Dio che si manifesta ogni qualvolta torniamo a Lui per chiedere perdono? Pensiamoci bene! Se Dio – sempre! – ci restituisce la dignità di figli, qualunque sia il nostro peccato, come possiamo noi tradurre la giustizia in fredda e distaccata condanna, senza concedere spazio alla misericordia?

Oggi, nella mia pausa contemplativa, aprirò il cuore all’amore che libera e redime. Innanzi tutto me stesso. E con me, ogni uomo.

Concedimi, Signore, un cuore traboccante d’amore verso tutti, capace di accogliere con benevolenza e di riabilitare con lungimiranza, sottraendomi alla tentazione di applicare una giustizia senza misericordia.

La voce di un monaco della chiesa orientale
Chiunque può violare, a volte, la lettera di una legge, a condizione che lo faccia per essere più fedele allo spirito di quella legge. 

LA LETTERA A FILEMONE (commento alla lettera)

dal sito:

http://proposta.dehoniani.it/txt/filemone.html

LA LETTERA A FILEMONE
(Pedron Lino)

Lettura e commento del testo 

INTRODUZIONE 

1) Il destinatario della lettera

Paolo ha indirizzato questa lettera a Filemone che egli chiama suo diletto e suo collaboratore. Gli altri destinatari della lettera sono la sorella Appia, il compagno di lotte Archippo e la comunità che si raduna nella casa di Filemone.

Poiché la lettera ai colossesi dice espressamente che Onesimo (Col 4,6) e Archippo (Col 4,17) appartengono alla comunità di Colossi, si deve dedurre che Filemone, dalla cui casa lo schiavo Onesimo era fuggito, vivesse a Colossi. Filemone era evidentemente un benestante divenuto cristiano dopo aver incontrato Paolo (v.19). Egli aveva messo la propria casa a disposizione della comunità perché potesse riunirsi (v.2), dando così prova di amore concreto per i santi (vv.5.7).

2) L’occasione della lettera

Paolo scrive a Filemone perché vuole intercedere a favore dello schiavo di lui, Onesimo. Non fa cenno dei motivi che hanno determinato la fuga di Onesimo. Uno schiavo che si fosse procurata la libertà di propria iniziativa, poteva trovare asilo in un santuario, oppure nascondersi in una grande città e vivere di espedienti, ma se veniva ripreso doveva essere riconsegnato al padrone. Lì lo riattendeva il suo stato di schiavitù, ma gli poteva capitare anche di peggio, perché al proprietario era concesso di punirlo a proprio arbitrio o, se voleva, anche ucciderlo. Onesimo cercò scampo presso Paolo prigioniero.

Paolo si era preso cura di lui, l’aveva convertito alla fede cristiana (v. 10), si era guadagnato le sue simpatie e aveva avuto consolazione dal suo fedele servizio (v. 13). Non gli era però né possibile né lecito tenerlo con sé, perciò lo rimanda da Filemone consegnandogli una lettera con la quale intercede per lui presso il padrone, affinché questo lo riceva come un fratello diletto (v. 16), anzi come se si trattasse di Paolo in persona (v. 17). Paolo non dà ordini a Filemone, ma lascia a lui la decisione; gli ricorda solo il comandamento dell’amore e secondo questo egli dovrà agire.

3) La redazione della lettera

Paolo è prigioniero. La lettera non contiene nessuna indicazione sul luogo in cui l’apostolo è tenuto prigioniero. I più ritengono che fosse ad Efeso. Qui avrebbe scritto la lettera a Filemone, verso la metà degli anni cinquanta!

Fin dall’antichità la lettera a Filemone è stata attribuita a Paolo. Si trova già nel canone di Marcione ed è contenuta anche nel canone muratoriano. Poiché la redazione paolina di questa lettera non fu mai contestata, essa ebbe il suo posto nella raccolta delle lettere di Paolo.

LETTURA E COMMENTO DEL TESTO

Saluto iniziale
(1-3)

1Paolo, prigioniero di Cristo Gesù, e il fratello Timòteo al nostro caro collaboratore Filèmone, 2alla sorella Appia, ad Archippo nostro compagno d’armi e alla comunità che si raduna nella tua casa: 3grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo.

All’inizio, conformemente al formulario delle lettere di Paolo, ai nomi dei due mittenti seguono quelli dei vari destinatari. A tutti è indirizzato il saluto e l’augurio di grazia.

v. 1. Paolo non appone al suo nome alcun titolo ufficiale (come apostolo, servo di Cristo o altro), ma si presenta come « prigioniero di Cristo Gesù ».

Così immediatamente, all’inizio della lettera, si accenna allo stato in cui l’apostolo si trova. Egli sta « nelle catene del Vangelo » (v.13) e considera la sua prigionia come la sorte riservata all’annunciatore del Vangelo, proprio in virtù della missione ricevuta.

L’apostolo di Cristo deve patire come il suo Signore. Ma è proprio il suo patire pazientemente per il suo Signore che dà così grande peso alla sua parola rivolta alla comunità. Il destinatario della lettera si chiama Filemone. Egli è agapetòs, amato, e quindi, in qualità di cristiano, che vive e dimostra l’agàpe, non dovrebbe rifiutare lo stesso amore neppure nei confronti di uno schiavo che Paolo chiama « fratello diletto » (v.16). Filemone è inoltre chiamato collaboratore dell’apostolo. Come le persone incluse nella lista dei saluti (v.24) lui pure è, come membro attivo della comunità, partecipe del comune impegno di testimoniare il Vangelo con la parola e l’amore operoso.

v. 2. Con Filemone sono nominati Appia, Archippo e tutta la chiesa domestica, quali destinatari della lettera. Si ricordano i loro nomi perché la faccenda di cui Paolo deve trattare non è solo una questione personale da sbrigare privatamente con Filemone. La decisione che deve essere presa riguarda l’intera comunità cristiana.

v. 3. Il saluto è formulato nei termini con cui Paolo, ogni volta che inizia le lettere, augura alla comunità grazia e pace.

Ringraziamento e preghiera di supplica
(4-7)

4Rendo sempre grazie a Dio ricordandomi di te nelle mie preghiere, 5perché sento parlare della tua carità per gli altri e della fede che hai nel Signore Gesù e verso tutti i santi. 6La tua partecipazione alla fede diventi efficace per la conoscenza di tutto il bene che si fa tra voi per Cristo. 7La tua carità è stata per me motivo di grande gioia e consolazione, fratello, poiché il cuore dei credenti è stato confortato per opera tua.

Paolo ringrazia Dio perché ha ricevuto buone notizie sull’amore e sulla fede del destinatario. La preghiera di intercessione è sempre strettamente congiunta al ringraziamento. Essa mira ad ottenere che la fede di Filemone si dimostri ulteriormente operosa.

v. 4. Come gli oranti nei salmi dell’AT, Paolo pregando dice: « il mio Dio ». A Dio, non a un uomo, è diretto il ringraziamento, perché Filemone si è comportato da vero cristiano. Infatti è Dio che ha prodotto l’amore e la fede, e quindi a lui solo si deve ogni ringraziamento. L’apostolo ringrazia Dio ogniqualvolta, nella preghiera, pensa a Filemone. Nella preghiera, però, ogni ricordo si trasforma in ringraziamento e in supplica.

v. 5. Sulla condotta dei destinatari Paolo ha ricevuto buone notizie che lo inducono a ringraziare Dio.

La sostanza di ciò che ha udito è brevemente indicata come l’amore e la fede che Filemone ha dimostrato verso tutti i cristiani.

v. 6. Il ringraziamento diventa immediatamente preghiera di supplica: la partecipazione alla fede comune possa manifestarsi anche per l’avvenire. E questa fede deve essere operosa nelle opere dell’amore. Perciò se riconosce il bene che Dio ci ha dato e che quindi è in noi, Filemone potrà anche comprendere la volontà di Dio e conformarsi all’ammonizione dell’apostolo: « perché il tuo beneficio non fosse forzato, ma spontaneo » (v.14).

Ogni agire operoso della fede, che si attua nella conoscenza del bene di cui Dio ci fa partecipi, deve avvenire per l’amore di Cristo.

v. 7. Fin qui Paolo ha parlato del comportamento di Filemone con parole che potrebbero essere adoperate per ogni vero cristiano. Ora invece fa intendere che è venuto a conoscenza di un fatto specifico, per cui la comunità ha avuto un aiuto da Filemone. Questa notizia gli ha procurato grande gioia e consolazione. Paolo non spiega come ciò sia avvenuto. Dice semplicemente che per mezzo di Filemone « hanno trovato ristoro i cuori dei santi ». Con l’impegno del suo amore, Filemone ha rafforzato la comunione fraterna; perciò ancora una volta è chiamato fratello. Poiché egli, con la sua disponibilità personale, ha riempito di gioia profonda i cuori degli altri cristiani, non potrà certo rifiutare la preghiera dell’apostolo in favore di Onesimo, che considera come il suo cuore.

Preghiera in favore di Onesimo
(8-20)

8Per questo, pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, 9preferisco pregarti in nome della carità, così qual io sono, Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù; 10ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, 11Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. 12Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore. 13Avrei voluto trattenerlo presso di me perché mi servisse in vece tua nelle catene che porto per il vangelo. 14Ma non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo. 15Forse per questo è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; 16non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore. 17Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso. 18E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. 19Lo scrivo di mio pugno, io, Paolo: pagherò io stesso. Per non dirti che anche tu mi sei debitore e proprio di te stesso! 20Sì, fratello! Che io possa ottenere da te questo favore nel Signore; da’ questo sollievo al mio cuore in Cristo!

Se uno schiavo fuggiva, poteva essere ricercato con mandato di cattura. Se veniva preso, doveva essere ricondotto dal padrone, che lo poteva punire a sua discrezione.

In tal caso, l’interporsi di un uomo che fosse conoscente o amico del padrone aveva un’importanza decisiva per lo schiavo.

Anche Paolo intercede per uno schiavo fuggitivo e dice al padrone di esercitare l’amore e la fede cristiana. Egli sceglie le parole con accuratezza e costruisce la parte centrale della lettera in modo tale che il destinatario venga condotto pian piano al nocciolo della richiesta. Solo dopo aver accuratamente preparato il terreno, Paolo formula la richiesta (vv.17-20).

v. 8. L’apostolo potrebbe far uso del suo diritto legittimo di esigere ciò che Filemone deve fare. Con il termine parresìa è intesa la franchezza con cui Paolo tratta gli uomini.

Questa franchezza si fonda su quella che egli ha di fronte a Dio (2 Col 3, 12; Fil 1,20). A che cosa miri concretamente Paolo, emerge da ciò che segue. Filemone deve agire, nei riguardi del suo schiavo Onesimo conformemente a ciò che è proprio di un cristiano.

v. 9. Ma Paolo non vuole costringere ad ubbidire alla sua parola, ma desidera che Filemone, con libera decisione, compia un atto d’amore. Con questa parola non si allude né all’amore di Paolo né a quello di Filemone, ma semplicemente all’amore nel quale i cristiani si incontrano e intrecciano relazioni.

Nel presentare la sua domanda Paolo accenna alla situazione in cui si trova. Egli scrive a Filemone come un uomo carico di anni e prigioniero per amore di Gesù Cristo.

v. 10. La richiesta riguarda il figlio suo, che egli ha generato in prigione. Paolo premette questo fatto della conversione al cristianesimo prima di menzionare quel nome, Onesimo, che sicuramente Filemone non ricordava volentieri. Ora però egli non gli può più portare astio, se Paolo considera Onesimo come suo figlio. L’immagine di padre e figlio è usata per significare il rapporto fra maestro e discepolo, tra l’apostolo e il fedele convertito a Cristo. Questo figlio di Paolo è perciò fratello di Filemone (v. 16) il quale precedentemente era stato generato da Paolo alla fede in Cristo (v.19).

v. 11. Ammesso pure che Onesimo sia stato in passato uno schiavo inutile per il suo padrone, ora è diverso: egli è sommamente utile sia a Paolo che a Filemone.

I vocaboli achreston/euchreston, inutile/molto utile, hanno un’assonanza con christòs, che veniva pronunciato spesso come chrestòs. Col darsi a Cristo Signore, Onesimo non è più lo schiavo inutile, ma il fratello molto utile, di grande valore.

v. 12. L’apostolo rimanda Onesimo dal suo padrone. Così si adegua alle prescrizioni della legge. Ma Paolo manda Onesimo da Filemone assicurando espressamente che questo schiavo gli è caro come il proprio cuore. Quando Onesimo arriverà dal suo padrone, è come se fosse lui, Paolo, ad arrivare. Come potrebbe Filemone rifiutarsi di accordare allo schiavo ciò che egli deve a Paolo, vecchio e sofferente?

v. 13. Paolo espone molto brevemente le circostanze che lo hanno determinato a scrivere la lettera e a rimandargli Onesimo. Egli vuole astenersi da qualsiasi decisione che contrasti con quella di Filemone, legittimo padrone dello schiavo.

v. 14. Senza il suo consenso l’apostolo non vuol fare nulla. Filemone infatti deve decidersi all’opera buona liberamente e non per costrizione. Egli viene sollecitato ad operare per quell’amore che sa trovare la giusta strada per compiere il bene. Ma questo non può avvenire costringendo Filemone ad agire contro la propria volontà: l’amore può operare solo nella libertà.

v. 15. Paolo insinua che forse lo schiavo è stato separato per breve tempo dal padrone proprio per essere ora riaccolto da lui definitivamente. Con la forma passiva del verbo echorìsthe (= fu separato) si vuole propriamente spiegare come in tutta questa vicenda incresciosa per Filemone, si possa nascondere un disegno di Dio. La separazione è stata di breve durata, il nuovo rapporto sarà eterno.

v. 16. Filemone e Onesimo stanno ora l’uno di fronte all’altro come fratelli in Cristo. Chiamando Onesimo « fratello diletto », Paolo fa sì che d’ora innanzi sia la fraternità a costituire il rapporto tra lo schiavo e il suo padrone cristiano. Se Onesimo come schiavo è proprietà del suo padrone, questo ordinamento terreno è ora superato dall’essere uniti nel Signore.

In tal modo il rapporto tra padrone e schiavo ha subìto una trasformazione radicale. Di conseguenza può anche darsi che Filemone conceda a Onesimo la libertà: Paolo lascia a lui la decisione. Ma Filemone è in ogni circostanza vincolato al comandamento dell’amore, la cui forza rinnovatrice diviene efficace nella comunione fraterna con lo schiavo che ritorna.

v. 17. Solo ora Paolo rivolge a Filemone la preghiera di accogliere Onesimo come accoglierebbe Paolo. Se dunque Filemone considera amico intimo Paolo, si comporti di conseguenza, accogliendo Onesimo. Dicendosi koinonòs Paolo non si presenta come partner che ha interessi comuni come socio in una impresa commerciale, né soltanto si riferisce a un rapporto di amicizia umana, ma riconduce la loro koinonìa all’appartenenza, profondamente vincolante, allo stesso Signore, la quale stringe in una comune attività fondata sulla fede e sull’amore. In forza di questo vincolo Paolo formula ora la sua supplica, nella quale non solo mette una buona parola per Onesimo, ma addirittura si identifica con lui. La dimostrazione d’amore che Filemone riserverà a Onesimo varrà come se fosse rivolta a Paolo.

v. 18. Certo, bisogna ricomporre l’ordine leso dalla fuga dello schiavo. Se Onesimo ha danneggiato il suo padrone in qualcosa, o gli è diventato debitore, sarà l’apostolo a pagare per lui. Filemone può registrare sul conto di Paolo il debito insoluto.

v. 19. Di proprio pugno Paolo rilascia la dichiarazione di rispondere del debito. Ma se proprio si vuole parlare di debito, anche Paolo potrebbe aprire una contropartita e ricordare a Filemone di essere lui in debito con Paolo. Egli infatti è stato guadagnato alla fede cristiana dall’apostolo. È evidente che qui non si tratta di opporre debito a debito.

La misericordia di Dio, che un tempo rese Filemone cristiano ora ha reso cristiano anche il suo schiavo Onesimo. Perciò il padrone deve accogliere lo schiavo come un fratello.

v. 20. Per dare vigore alla sua richiesta, Paolo aggiunge un’ultima frase con cui parla nuovamente a Filemone come a un fratello, esprimendo il desiderio di essere consolato da lui nel Signore. Paolo, alla fine delle due brevi frasi del v. 20 pone le espressioni « nel Signore » e « in Cristo ». In Cristo Signore i rapporti tra gli uomini sono radicalmente rinnovati, così che schiavo e padrone sono, in Cristo, identici (Gal 3,28; 1Cor 7,21-24; 12,13). Paolo fa intendere a Filemone di essere certo che egli soddisferà la sua richiesta e accoglierà Onesimo come accoglierebbe l’apostolo stesso.

Chiusura e saluti
(21-25)

21Ti scrivo fiducioso nella tua docilità, sapendo che farai anche più di quanto ti chiedo. 22Al tempo stesso preparami un alloggio, perché spero, grazie alle vostre preghiere, di esservi restituito. 23Ti saluta Èpafra, mio compagno di prigionia per Cristo Gesù, 24con Marco, Aristarco, Dema e Luca, miei collaboratori.
25La grazia del Signore Gesù Cristo sia con il vostro spirito.

Con poche frasi Paolo conclude la lettera. Alla certezza che Filemone farà più di quanto Paolo gli ha chiesto, segue l’annuncio di una sua visita. Viene infine una breve lista di saluti e l’augurio di grazia.

v. 21. Paolo ha presentato a Filemone una richiesta e volutamente si astiene dall’impartire un ordine con l’autorità del suo ministero. Tuttavia le parole di Paolo hanno un carattere vincolante in quanto il destinatario è sottomesso al comando dell’amore. Perciò da parte di Paolo è lecito attendersi che la sua richiesta venga esaudita.

Paolo ribadisce questa fiducia assicurando di aver scritto facendo assegnamento sull’ubbidienza di Filemone. Poiché questa fiducia è fondata nella fede comune, l’obbedienza potrà essere la sola risposta adeguata del destinatario alla parola dell’apostolo.

Egli deve agire con amore cristiano e quindi obbedire alla parola di Paolo che gli rammenta il comandamento dell’agàpe. Paolo si dice convinto che Filemone farà ancor di più di ciò che l’apostolo gli ha detto.

Egli non indica in che cosa consista questo « di più ». Non fa alcuna allusione alla libertà che potrebbe essere concessa allo schiavo. È lasciato a Filemone di decidere in che modo rendere efficace l’agàpe nei confronti del fratello che ritorna.

v. 22. Paolo aggiunge che Filemone dovrebbe preparargli un alloggio perché fra breve spera di fermarsi da lui. Con l’annuncio della sua visita, l’apostolo conferisce particolare efficacia alla sua richiesta in favore di Onesimo.

Infatti lui stesso verrà e si renderà conto di ciò che sarà accaduto. La supplica che la comunità rivolge a Dio per l’apostolo prigioniero ha una grande efficacia perché il grido della comunità giunge a Dio. Paolo spera di essere liberato non tanto per se stesso, ma per la comunità presso la quale vorrebbe trovarsi.

v. 23. Con i saluti Paolo cerca di consolidare i legami con Filemone. Epafra, che Paolo chiama « mio compagno di prigionia in Cristo Gesù », nella lettera ai colossesi è indicato come fondatore della comunità di Colossi (Col 1,7-8; 4,12-13).

v. 24. Marco, Aristarco, Dema e Luca sono presentati come cooperatori di Paolo (Col 4,14). Contrariamente alla lista dei saluti espressi nella lettera ai colossesi con ricche puntualizzazioni, qui mancano dati aggiuntivi sulle persone nominate. È ricordato solo che sono al fianco di Paolo come cooperatori.

v. 25. L’augurio di grazia, con cui Paolo aveva salutato Filemone e la comunità della sua casa all’inizio della lettera, è espresso di nuovo alla fine. Anche qui l’augurio si estende a tutta la comunità che accoglie, con Filemone, la parola e la preghiera dell’apostolo. La comunità vive della grazia di Dio e continuerà a sussistere solo se con essa rimane la grazia del Signore Gesù Cristo.

LA LETTERA A FILEMONE – UN COMMENTO (PDF)

IO SONO INNAMORATA DELLA LETTERA A FILEMONE…DAL SITO:

PARROCCHIA REGINA PACIS – PRATO

http://www.reginapacis.it/studiodellabibbia/SanPaolo/san%20Paolo%20-%207%20scheda%20Lettera%20ai%20Filemone%20vangelo%20e%20schiavitu’.pdf

 

Publié dans:Lettera a Filemone, PDF â—˜ |on 5 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

DOMENICA 5 SETTEMBRE 2010 – XXIII DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 5 SETTEMBRE 2010 - XXIII DEL TEMPO ORDINARIO dans Lettera a Filemone imagen-di-spagna-2-1581

seguire Gesù

http://www.alcantarine.org/public/istituto/carisma/

DOMENICA 5 SETTEMBRE 2010 – XXIII DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinC/C23page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  Fm 9b-10. 12-17
Accoglilo non più come schiavo, ma come un fratello carissimo.

Dalla lettera a Filèmone.
Carissimo, ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore.
Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario.
Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.
Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.

UFFICIO DELLE LETTURE

(CITAZIONI A PAOLO: 1Cor)

Seconda Lettura
Dal «Discorso sulle beatitudini» di san Leone Magno, papa
(Disc. 95, 6-8; PL 54, 464-465)

La sapienza cristiana
Il Signore dice: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5, 6). Questa fame non ha nulla a che vedere con la fama corporale e questa sete non chiede una bevanda terrena, ma desidera di avere la sua soddisfazione nel bene della giustizia. Vuole essere introdotta nel segreto di tutti i beni occulti e brama di riempirsi dello stesso Signore.
Beata l’anima che aspira a questo cibo e arde di desiderio per questa bevanda. Non lo ambirebbe certo se non ne avesse già per nulla assaporato la dolcezza. Ha udito il Signore che diceva: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore» (Sal 33, 9). Ha ricevuto una parcella della dolcezza celeste. Si è sentita bruciata dell’amore della castissima voluttà, tanto che, disprezzando tutte le cose temporali, si è accesa interamente del desiderio di mangiare e bere la giustizia. Ha imparato la verità di quel primo comandamento che dice: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6, 5; cfr. Mt 22, 37; Mc 12, 30; Lc 10, 27). Infatti amare Dio non è altro che amare la giustizia. Ma come all’amore di Dio si associa la sollecitudine per il prossimo, così al desiderio della giustizia si unisce la virtù della misericordia. Perciò il Signore dice: «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7).
Riconosci, o cristiano, la sublimità della tua sapienza e comprendi con quali dottrine e metodi vi arrivi e a quali ricompense sei chiamato! Colui che è misericordia vuole che tu sia misericordioso, e colui che è giustizia vuole che tu sia giusto, perché il Creatore brilli nella sua creatura e l’immagine di Dio risplenda, come riflessa nello specchio del cuore umano, modellato secondo la forma del modello. La fede di chi veramente la pratica non teme pericoli. Se così farai, i tuoi desideri si adempiranno e possiederai per sempre quei beni che ami.
E poiché tutto diverrà per te puro, grazie all’elemosina, giungerai anche a quella beatitudine che viene promessa subito dopo dal Signore con queste parole: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8).
Grande, fratelli, è la felicità di colui per il quale è preparato un premio così straordinario. Che significa dunque avere il cuore puro, se non attendere al conseguimento di quelle virtù sopra accennate? Quale mente potrebbe afferrare, quale lingua potrebbe esprimere l’immensa felicità di vedere Dio?
E tuttavia a questa meta giungerà la nostra natura umana, quando sarà trasformata: vedrà, cioè, la divinità in se stessa, non più «come in uno specchio, né in maniera confusa, ma a faccia a faccia» (1 Cor 13, 12), così come nessun uomo ha mai potuto vedere. Conseguirà nella gioia ineffabile dell’eterna contemplazione «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo» (1 Cor 2, 9).

L’ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA NEI CONFRONTI DELLA SERVITU’: L’ESEMPIO DI SAN PAOLO:

L'ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA NEI CONFRONTI DELLA SERVITU': L'ESEMPIO DI SAN PAOLO: dans IMMAGINI (DI SAN PAOLO, DEI VIAGGI, ALTRE SUL TEMA) pietpaol

dal sito:

http://www.delfo.forli-cesena.it/ssagrario/home_Itg/medioevo/schmed3.htm

Istituto statale di Istruzione secondaria superiore – ISIS
Giuseppe Garibaldi – CESENA   

L’ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA NEI CONFRONTI DELLA SERVITU’:

(la Lettera a Filemone)

L’ESEMPIO DI SAN PAOLO:

La breve lettera che S. Paolo indirizza a un cristiano, Filemone, padrone di uno schiavo fuggitivo, costituisce un documento importante: per la prima volta   ci si occupa del problema della schiavitù.

Uno schiavo di Filemone, Onesimo, battezzato da Paolo stesso, era fuggito dal padrone, dal quale evidentemente non era stato trattato molto bene, e si era rifugiato presso Paolo. L’apostolo non libera Onesimo, ma lo rimanda da Filemone al quale scrive però che da quel momento non dovrà più trattare Onesimo come un servo, ma come un fratello. Paolo dunque non affranca quel servo; ne riconosce anzi lo stato giuridico e non lo muta, ma afferma che il rapporto tra il padrone e servo deve essere uguale a quello tra fratelli. Si direbbe dunque che l’apostolo riconosca formalmente l’istituto della servitù, svuotandolo però del suo sostanziale contenuto: esso rimane una semplice formula, qualcosa di veramente esteriore, perchè padrone e servo si trovano su un piano di assoluta uguaglianza. 

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