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MERCOLEDÌ 25 AGOSTO 2010 – XXI SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

MERCOLEDÌ 25 AGOSTO 2010 – XXI SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura   2 Ts 3, 6-10. 16-18
Chi non vuol lavorare, neppure mangi.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo i Tessalonicési
Fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, vi raccomandiamo di tenervi lontani da ogni fratello che conduce una vita disordinata, non secondo l’insegnamento che vi è stato trasmesso da noi.
Sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi.
Il Signore della pace vi dia la pace sempre e in ogni modo. Il Signore sia con tutti voi.
Il saluto è di mia mano, di Paolo. Questo è il segno autografo di ogni mia lettera; io scrivo così. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con tutti voi.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dalle «Istruzioni» di san Colombano, abate
(Istr. 13 su Cristo fonte di vita, 1-2; Opera, Dublino, 1957, 116-118)

(CENNI A PAOLO : COL)

Chi ha sete venga a me e beva
Fratelli carissimi, ascoltate attentamente. Ciò che vi dirò è necessario al vostro bene. Sono verità che ristoreranno la sete della vostra anima. Vi parlerò infatti della inesauribile sorgente divina. Però, per quanto sembri paradossale, vi dirò: Non estinguete mai la vostra sete. Così potrete continuare a bere alla sorgente della vita, senza smettere mai di desiderarla. E’ la stessa sorgente, la fontana dell’acqua viva che vi chiama a sé e vi dice: «Chi ha sete venga a me e beva» (Gv 7, 37).
Bisogna capire bene quello che si deve bere. Ve lo dica lo stesso profeta Geremia, ve lo dica la sorgente stessa: «Hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, dice il Signore» (Ger 2, 13). E’ dunque il Signore stesso, il nostro Dio Gesù Cristo, questa sorgente di vita che ci invita a sé, perché di lui beviamo. Beve di lui chi lo ama. Beve di lui chi si disseta della parola di Dio; chi lo ama ardentemente e con vivo desiderio. Beve di lui che arde di amore per la sapienza.
Osservate bene da dove scaturisce questa fonte; poiché quello stesso che è il Pane è anche la Fonte, cioè il Figlio unico, il nostro Dio Cristo Signore, di cui dobbiamo aver sempre fame. E’ vero che amandolo lo mangiano e desiderandolo lo introduciamo in noi; tuttavia dobbiamo sempre desiderarlo come degli affamati. Con tutta la forza del nostro amore beviamo di lui che è la nostra sorgente; attingiamo da lui con tutta l’intensità del nostro cuore e gustiamo la dolcezza del suo amore.
Il Signore infatti è dolce e soave: sebbene lo mangiamo e lo beviamo, dobbiamo tuttavia averne sempre fame e sete, perché è nostro cibo e nostra bevanda. Nessuno potrà mai mangiarlo e berlo interamente, perché mangiandolo e bevendolo non si esaurisce, né si consuma. Questo nostro pane è eterno, questa nostra sorgente è perenne, questa nostra fonte è dolce.
Per tale motivo il profeta afferma: «Voi tutti assetati, venite alla fonte» (Is 55, 1). Questa fonte è per chi ha sete, non per chi è sazio. Giustamente quindi chiama a sé quelli che hanno sete, che ha dichiarati beati nel discorso della montagna. Questi non bevono mai a sufficienza; anzi quanto più bevono tanto più hanno sete.
E’ dunque necessario, o fratelli, che noi sempre desideriamo, cerchiamo e amiamo «la fonte della sapienza, il Verbo di Dio altissimo» (Sir 1, 5 volg.), nel quale, secondo le parole dell’Apostolo, «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2, 3).
Se hai sete, bevi alla fonte della vita; se hai fame, mangia di questo pane di vita. Beati coloro che hanno fame di questo pane e sete di quest’acqua,
perché, pur mangiandone e bevendone sempre, desiderano di mangiarne e di berne ancora. Deve essere senza dubbio indicibilmente gustoso il cibo che si mangia e la bevanda che si beve per non sentirsene mai sazi e infastiditi, anzi sempre più soddisfatti e bramosi. Per questo il profeta dice: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore» (Sal 33, 9).

LUNEDÌ 23 AGOSTO 2010 – XXI SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

LUNEDÌ 23 AGOSTO 2010 – XXI SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura   2 Ts 1,1-5. 11-12
Sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési
Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre nostro e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo.
Dobbiamo sempre rendere grazie a Dio per voi, fratelli, come è giusto, perché la vostra fede fa grandi progressi e l’amore di ciascuno di voi verso gli altri va crescendo. Così noi possiamo gloriarci di voi nelle Chiese di Dio, per la vostra perseveranza e la vostra fede in tutte le vostre persecuzioni e tribolazioni che sopportate. È questo un segno del giusto giudizio di Dio, perché siate fatti degni del regno di Dio, per il quale appunto soffrite.
Il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dalla «Esposizione su Giovanni» di san Tommaso d’Aquino, sacerdote
(Cap. 10, lect. 3)

Il resto d’Israele pascolerà e riposerà
«Io sono il buon pastore» (Gv 10, 11). A Cristo compete chiaramente di essere pastore. Infatti, come il comune gregge viene guidato e pascolato dal pastore, così i fedeli sono ristorati da Cristo con un cibo spirituale, con il suo corpo e il suo sangue.
«Un tempo», dice l’Apostolo«, eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime» (1 Pt 2, 25). Ed il profeta: «Come un pastore egli fa pascolare il gregge» (Is 40, 11).
Ma siccome Cristo ha detto che il pastore entra per la porta e che egli è la porta, mentre qui dice di essere il pastore, ne segue che egli entra attraverso se stesso. E veramente entra attraverso se stesso, perché rivela se stesso e per se stesso conosce il Padre. Noi invece entriamo per lui, perché da lui siamo resi beati.
Ma osserva che nessun altro, all’infuori di lui, è la porta, perché nessun altro è la luce vera, ma la possiede solo in quanto gli viene partecipata da lui. «Egli non era la luce», è detto di Giovanni Battista, «ma doveva rendere testimonianza alla luce» (Gv 1, 8).
Invece di Cristo è detto: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1, 9). E perciò nessuno dice di sé di essere la porta. Questo, Cristo lo riservò solo per se stesso. Mentre partecipò ad altri il compito di essere pastori. Infatti Pietro fu pastore, lo furono gli altri apostoli, lo sono i buoni vescovi. «vi darò, dice la Scrittura, pastori secondo il mio cuore» (Ger 3, 15). sebbene, infatti, i capi della Chiesa, che sono suoi figli, tutti siano pastori, tuttavia dice di esserlo lui in modo singolare: «Io sono il buon pastore», allo scopo di introdurre con dolcezza la virtù della carità. Non si può essere infatti buon pastore se non diventando una cosa sola con Cristo e suoi membri mediante la carità. La carità è il primo dovere del buon pastore, perciò dice: «Il buon pastore offre la vita per le pecore» (Gv 10, 11). Infatti c’è differenza tra il buono e il cattivo pastore: il buon pastore ha di mira il vantaggio del gregge, mentre il cattivo proprio.
Nei guardiani di pecore non si esige che, per essere giudicati buoni, espongano la propria vita per la salvezza del gregge. Ma siccome la salvezza del gregge spirituale ha maggior peso della vita corporale del pastore, quando incombe il pericolo del gregge ogni pastore spirituale deve affrontare il sacrificio della vita corporale. Questo dice il Signore: «Il buon Pastore offre la sua vita per le sue pecore». Egli consacra a loro la sua persona nell’esercizio dell’autorità e della carità. Si esigono tutte e due le cose: che gli ubbidiscano e che le ami. Infatti la prima senza la seconda non è sufficiente.
Cristo ci ha dato l’esempio di questo insegnamento: «Se Cristo ha dato la sua vita per noi, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3, 16.)

LUNEDÌ 16 AGOSTO 2010 – XX SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

LUNEDÌ 16 AGOSTO 2010 – XX SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal «Commento sul libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa
(Lib. 3, 39-40; Pl 75, 619-620)

(CENNI A PAOLO: 2COR; 1TS;)

Battaglie all’esterno, timori all’interno
Gli uomini santi, pur se torchiati dalle prove, sanno sopportare chi li percuote e, nello stesso tempo, tener fronte a chi li vuole trascinare nell’errore. Contro quelli alzano lo scudo della pazienza, contro questi impugnano le armi della verità. Abbinano così i due metodi di lotta ricorrendo all’arte veramente insuperabile della fortezza.
All’interno raddrizzano le distorsioni della sana dottrina con l’insegnamento illuminato, all’esterno sanno sostenere virilmente ogni persecuzione. Correggono gli uni ammaestrandoli, sconfiggono gli altri sopportandoli. Con la pazienza si sentono più forti contro i nemici, con la carità sono più idonei a curare le anime ferite dal male. A quelli oppongono resistenza perché non facciano deviare anche gli altri. Seguono questi timore e preoccupazione perché non abbandonino del tutto la via della rettitudine.
Vediamo il soldato degli accampamenti di Dio che combatte contro entrambi i mali: «Battaglie all’esterno, timori al di dentro» (2 Cor 7, 5). Enumera le guerre che subisce dall’esterno, dicendo: «Pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli» (2 Cor 11, 26). Altre armi che usa in questa guerra sono: «fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità» (2 Cor 11, 27).
Ma, pur impegnato su tanti fronti, non allenta l’attenzione per la sicurezza degli accampamenti. Infatti soggiunge immediatamente: «E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese» (2 Cor 11, 28). Assume tutte su di sé le asprezze della guerra e, contemporaneamente, si prodiga con premura a difesa dei fratelli. Parla dei mali che sopporta, e aggiunge i beni che elargisce.
Consideriamo poi quanta fatica sia sopportare al medesimo tempo le avversità all’esterno e difendersi all’interno contro le proprie debolezze. All’esterno sopporta battaglie, perché è lacerato dalle battiture, è legato da catene; all’interno tollera la paura, perché teme che la sua sofferenza rechi danno non a sé, ma ai discepoli. Perciò scrive loro: «Nessuno si lasci turbare in queste tribolazioni. Voi stessi infatti sapete che a questo siamo destinati» (1 Ts 3, 3).
Nella propria sofferenza temeva la caduta degli altri, e cioè che i discepoli, venendo a conoscenza che egli veniva percosso per la fede, ricusassero di professarsi fedeli.
O sentimento di immensa carità! Sprezza ciò che egli stesso soffre, e si preoccupa che nei discepoli non si formino concezioni sbagliate. Sdegna in sé le ferite del corpo, e cura negli altri le ferite del cuore. I grandi infatti hanno questo di particolare che, trovandosi nel dolore della propria tribolazione, non cessano di occuparsi dell’utilità altrui: e, mentre soffrono in se stessi sopportando le proprie tribolazioni, provvedono agli altri, consigliando quanto loro abbisogna. Sono come dei medici eroici, colpiti da malattia: sopportano le ferite del proprio male e provvedono gli altri di cure e di medicine per la guarigione.

Prima lettera ai Tessalonicesi : San Paolo e l’ecumenismo

dal sito:

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/weeks-prayer-doc/rc_pc_chrstuni_doc_20080117_fortino-ecumenismo_it.html

PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI

RIFLESSIONE DI MONS. ELEUTERIO F. FORTINO*

Prima lettera ai Tessalonicesi
San Paolo e l’ecumenismo

L’attualità dell’iniziativa di padre Paul Wattson e
i fondamenti teologici nel Concilio Vaticano II 

« Ancora e ancora preghiamo il Signore ». Quest’invito del diacono, spesso ripetuto nel corso delle celebrazioni bizantine, sembra fare eco al tema scelto per la Settimana di preghiera per l’unità di quest’anno. A cento anni dall’inizio della prassi organizzata di una preghiera per l’unità dei cristiani, viene rivolto l’invito a « pregare continuamente », incessantemente, « senza interruzione » (1 Tessalonicesi 5, 17).

1. Il Decreto del Concilio Vaticano II sull’ecumenismo si chiude con l’affermazione che « questo santo proposito di riconciliare tutti i Cristiani nell’unica Chiesa di Cristo, una e unica, supera le forze e le doti umane », e « perciò » il Concilio « ripone tutta la sua speranza nell’orazione di Cristo per la Chiesa » (UR, 24). Quando il Decreto tratta l’esercizio dell’ecumenismo, chiede di situare le preghiere private e pubbliche in quel nucleo centrale che indica come « l’anima di tutto il movimento ecumenico », sottolineando che « queste preghiere in comune sono senza dubbio un mezzo molto efficace per impetrare la grazia dell’unità » (UR, 8).

2. In quest’anno 2008 ricorre il centenario dell’inizio della prassi di pregare regolarmente per l’unità dei cristiani per opera di padre Paul Wattson, un ministro episcopaliano (anglicano degli Stati Uniti), co-fondatore della Society of the Atonement (Comunità dei frati e delle suore dell’Atonement) a Graymoor (Garrison, New York), che in seguito aderì alla Chiesa cattolica; la sua iniziativa continua fino ai nostri giorni. A Roma la Congregazione dei Frati francescani dell’Atonement è presente e impegnata nella promozione della ricerca dell’unità dei cristiani attraverso il « Centro Pro Unione ».

Proprio per commemorare questo avvenimento, il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha chiesto alla Comunità dell’Atonement di Graymoor di ospitare il Comitato misto per la preghiera composto da rappresentanti del Consiglio ecumenico delle Chiese e della Chiesa cattolica che annualmente prepara i sussidi che vengono poi divulgati nel mondo intero. Dal 1908 la prassi della preghiera per l’unità ha avuto una lenta, ma graduale evoluzione, nella sua impostazione e nella diffusione nel mondo.

La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani nel 2008 celebra il centenario dell’istituzione dell’Ottavario per l’unità della Chiesa. Questo titolo scelto da padre Wattson è stato trasformato in Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani in seguito all’impostazione data dall’abbé Paul Couturier (1936). Il cambiamento di terminologia rispecchia lo sviluppo della storia della preghiera per l’unità. Per la Chiesa cattolica, il Decreto del Concilio Vaticano II ha dato un’impostazione teologicamente fondata ed ecumenicamente aperta tanto da rendere possibile un’ampia partecipazione degli altri cristiani alla preghiera comune. Dal 1968 si è instaurata una feconda collaborazione con il Consiglio ecumenico delle Chiese, elaborando e divulgando insieme i sussidi su un tema concordato, diverso di anno in anno.

In relazione a questo centenario, il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha chiesto alla Commissione ecumenica dei vescovi degli Stati Uniti di scegliere e di proporre un primo progetto per i sussidi dell’anno 2008. È stato scelto il tema « Pregate continuamente », indicando come testo base una breve pericope della Lettera di san Paolo ai primi cristiani di Tessalonica (1 Ts 5, 12a.13b-18), una delle più antiche lettere di Paolo. La prima comunità cristiana di Tessalonica era stata fondata da Paolo; in seguito egli aveva sentito che serie difficoltà, provenienti dall’esterno, ma anche da divisioni interne, agitavano quella comunità provocando divisioni e opposizioni. Informato, Paolo si indirizzò a quella comunità con due lettere.

3. Il breve ma denso testo biblico contiene una serie di consigli, esortazioni, ordini paterni emananti dall’amore che Paolo nutriva per questa comunità sorta dalla sua predicazione. Egli si rivolge ai Tessalonicesi con « Vi prego … vivete in pace tra voi » (1 Ts 5, 13b). I cristiani riconciliati in Cristo devono dare testimonianza della redenzione ricevuta e della comunione ristabilita con Dio. Il tema della riconciliazione e della pace tra i discepoli di Cristo è dominante nell’insegnamento di Paolo.

Anche ai primi cristiani di Efeso egli ricorda questo tema fondamentale e lo collega direttamente a quello della vocazione cristiana. « Vi scongiuro di tenere una condotta degna della vocazione a cui siete stati chiamati … studiandovi di conservare l’unità di spirito nel vincolo della pace » (Ef 4, 3). E ripresenta loro il fondamento teologico: « Non c’è che un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4, 5). La pace è un dono di Dio che i discepoli ricevono e che sono chiamati a tradurre nelle espressioni concrete della vita personale e comunitaria.

4. Nel corpo del testo scelto, Paolo dà alcune « indicazioni per risolvere le tensioni » della comunità di Tessalonica, indicazioni che vengono proposte come utili anche per la situazione attuale dei cristiani per la ricerca della loro riconciliazione e della loro piena unità. La divisione, e spesso le contrapposizioni polemiche tra i cristiani nel nostro tempo, vanno risolte per mezzo del dialogo teologico, ma vi è un grande spazio di relazioni fraterne da istituire e realizzare per creare nuove condizioni di vita fraterna e pacifica.

Il brano si conclude con l’affermazione che « questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi », verso i discepoli: fare il bene reciprocamente, evitare le ritorsioni al male ricevuto, sostenere i deboli, esercitare la pazienza con tutti, vivere nella letizia, rendere grazie a Dio in ogni cosa. Il testo paolino dà altre indicazioni valide pure come metodo per l’ecumenismo e come apertura al futuro: « Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie, esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono » (1 Ts 5, 19). Quest’ultima indicazione favorisce un atteggiamento positivo verso il patrimonio delle altre Chiese e Comunità ecclesiali con cui si può avere uno scambio di beni per la crescita cristiana e quindi ecumenica comune. Un tale processo nella storia dell’ecumenismo recente è stato indicato come « dialogo della carità », essenziale per ristabilire il clima di fraternità, necessario per una cooperazione di tutti verso l’unità. Paolo non presenta questo orientamento come semplice strumento utilitaristico di politica ecclesiastica, ma lo riconduce a Dio stesso. Questa è la volontà di Dio in Cristo verso l’insieme dei discepoli. In questa prospettiva Paolo auspica che « il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione » (1 Ts 5, 23).

5. Tra le indicazioni date da san Paolo vi è il consiglio che è stato proposto come titolo del tema della preghiera per l’unità di quest’anno: « Pregate continuamente » (1 Ts 5, 17), pregate di continuo, « senza interruzione » (adialèiptos), « incessantemente », « senza intermissione », secondo altre traduzioni. In « ogni tempo e luogo », come richiede la preghiera delle ore nella Chiesa bizantina. Il paradossale consiglio di san Paolo – pregare senza interruzione – ha fatto molto riflettere gli uomini spirituali. I Racconti di un pellegrino russo hanno inizio proprio con questo problema: « Come è possibile pregare senza interruzione? ». Eppure il consiglio di san Paolo si riferisce a tutti i discepoli di Cristo. Il Comitato misto che ha proposto il tema applica il consiglio della preghiera ininterrotta anche alla promozione dell’unità di tutti i cristiani. La proposta della preghiera non è limitata ad « una » settimana, ma si estende all’intero anno.

In un’indicazione sull’uso dei sussidi, il Comitato misto, che ha preparato i testi, afferma: « Incoraggiamo i fedeli a considerare il materiale presentato in questa sede come un invito a trovare opportunità in tutto l’arco dell’anno per esprimere il grado di comunione già raggiunto tra le Chiese e per pregare insieme per il raggiungimento della piena unità che è il volere di Cristo stesso. Il testo viene proposto nella convinzione che, ove possibile, venga adattato agli usi locali, con particolare attenzione alle pratiche liturgiche nel loro contesto socio-culturale e alla dimensione ecumenica ».

Cento anni or sono ha avuto inizio la pratica della preghiera per l’unità. Quest’anno si celebra quell’inizio per una nuova sollecitazione. Si incoraggia a continuare la preghiera per l’unità e a farla « senza interruzione ». Il pellegrinaggio verso la piena unità ha bisogno assoluto del viatico della grazia di Dio da invocare ogni giorno. La piena unità è dono di Dio.

6. La prassi della preghiera per l’unità offre l’opportunità a tutti i battezzati di partecipare al movimento ecumenico e non si limita a coloro che vivono in contesti interconfessionali, ma a tutti coloro che professano la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica.

Nell’enciclica sull’ecumenismo (UUS, 22) il servo di Dio Giovanni Paolo II ha sottolineato l’importanza della preghiera comune e continua: « Sulla via ecumenica verso l’unità, il primato spetta senz’altro alla preghiera comune, all’unione orante di coloro che si stringono insieme attorno a Cristo stesso ».

* Sottosegretario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani

I morti e i vivi al momento della venuta del Signore (1Ts 4,13-18) (sulla speranza cristiana)

dal sito:

http://www.cappellauniss.org/Paolo/tess2.htm

I morti e i vivi al momento della venuta del Signore

(Arcidiocesi di Sassari,  Cappellanìa universitaria Santa Caterina)

(1Ts 4,13-18)

   Il brano è tipico e ben si presta a sostenere la speranza cristiana, se viene letto nella Liturgia della Parola  in occasione di un funerale.

4,13 :“Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli…”. S. Paolo inizia con una frase tipica ed è sua ferma intenzione spiegare la sua dottrina escatologica affinché i destinatari la capiscano a fondo. Forse non hanno capito o hanno dubbi o lui ha detto qualcosa ed ora deve aggiungere altro.

“Fratelli” significa figli dello stesso utero perché Paolo e gli abitanti di Tessalonica sono legati da un nuovo rapporto: Dio è Padre di Gesù e Padre di coloro che credono in Cristo: dunque chi crede sono fratelli  e sorelle. Abbiamo un’ecclesiologia implicita: la Chiesa è comunità fraterna e i credenti sono figli di Dio e coeredi di Cristo. I cristiani sono figli di Dio.

“Circa quelli che sono morti” cioè “riguardo ai dormienti”. Forse Paolo risponde alle domande dei Tessalonicesi ed usa un linguaggio metaforico per parlare dei defunti. Il verbo greco usato è originale non tanto per la scelta quanto invece per l’indicazione durativa del participio: essi stanno soltanto dormendo. E’ la speranza della Resurrezione e il dormire è morte solo apparente e presuppone il concetto di risveglio alla luce della Resurrezione. I cristiani si sono addormentati nella speranza di risorgere (koimenon).

“Perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza”, cioè “Affinché non siate tristi come i restanti che non hanno la speranza”. “Affinché”  (ina) introduce lo scopo del discorso di Paolo, del suo insegnamento ed è parola chiave: Paolo esorta a non avere dolore come i pagani che non credono in Cristo. La differenza tra credenti e non è che questi non hanno speranza nella vita risorta. Per Paolo la speranza (elpis) è un concetto importante nella morale cristiana perché da ai cristiani la fiducia a vivere il presente e i problemi con pazienza, perseveranza, gioia, sperando nel ritorno del Signore.    

4,14: “Noi crediamo infatti che Gesù è morto e resuscitato”, cioè “se noi infatti crediamo che Gesù morì e resuscitò”. Si tratta di una costruzione ipotetica con due proposizioni collegate logicamente: “se questo allora quello” con valore dichiarativo: “noi crediamo che…”. Cosa? Gesù morì e resuscitò: c’è tutto il nucleo della nostra fede nei due verbi. La base della nostra fede è l’evento Cristo e Paolo accorda la prima proposizione con l’insegnamento dei defunti in Cristo, formula del Credo primitivo che i cristiani hanno professato fin da principio.

Ciò che segue si collega alla formula precedente: ciò che Dio fa al Figlio, lo farà ai defunti in Gesù: “Così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con Lui”, cioè “Dio per mezzo di Gesù condurrà con lui quelli che si sono addormentati con lui”. Si specifica la mediazione di Gesù (“di Gesù” e “con lui”). Ecco come interpretare “con lui”: 1)teologica. Dio per mezzo di Gesù conduce i defunti con lui, cioè con Dio stesso. Dio è il soggetto del verbo, autore principale di ogni azione salvifica. Gesù è mediatore di Dio che mette in luce il ruolo di Dio. 2) cristologica. Dio è sempre l’autore ma la mediazione di Gesù è sempre sottolineata: lui è mediatore di Dio e anche dei credenti e tale interpretazione è più corretta sintatticamente: “Dio per mezzo di Gesù condurrà i defunti con lui, cioè con Gesù stesso”. “Con lui” mette in relazione Dio con Gesù ed i cristiani. I destinatari perciò sono costretti a riflettere per capire chi è questo “lui” e quale sia il rapporto tra Dio e Gesù e tra Gesù e i credenti. La duplice natura di Gesù, uomo e Dio,  qui viene esplicitata: Gesù sfuma in Dio e Dio sfuma in Lui. Paolo esprime in modo sublime un concetto difficile: la divinità di Gesù: Dio guiderà tutti a sé  con Gesù. Gesù e i defunti sono compagni di viaggio nell’esperienza della comunione, sottolineata dai termini in greco che indicano questa ricchezza. 

4,15: “Questo vi diciamo sulla Parola del Signore”, cioè “Ciò infatti vi diciamo sulla Parola del Signore”. Cosa significa e a cosa si riferisce “questo”, “ciò”? Alcuni dicono si riferisca a ciò che precede, mentre altri a ciò che seguirà. Il termine greco usato fa da collegamento, in ogni caso, con ciò che precede e da transizione con ciò che seguirà. Inoltre, c’è una altro verbo greco, “diciamo” (legomen) che tecnicamente viene definito un hapax, cioè lo troviamo presente solo in questo testo relativamente al Nuovo Testamento. “Sulla Parola”, viene composto con un preposizione greca che ha valore temporale, strumentale, modale (en), ed è ricca di significati, perché in unione con il dativo del termine “parola”, mette in moto potenzialità inaspettate. Si vuole alludere alla Parola di Dio che gli evangelisti chiamano Verbo. La dottrina di Paolo perciò si basa su Gesù e su tutta la sua autorità.

“Noi che viviamo”, cioè “noi i rimanenti”. Nel testo greco, viene usata una congiunzione ad inizio proposizione, che si collega con la frase precedente e introduce quella successiva. Si amplia il soggetto della prima persona plurale: noi, i viventi, i rimanenti. Paolo vuole trasmettere un concetto base legato alla Resurrezione dei morti in Cristo. Il participio “viventi” ha un significato più profondo del senso fisico, ed anche metaforico, che ci proietta in un’altra dimensione: chi condivide la vita di Dio, per mezzo di Gesù. Ciò ha un senso fisico ed anche teologico, perché significa anche “coloro che sopravvivono e scampano alla morte eterna, i rimanenti, che tramite Gesù, con il Battesimo, hanno accesso alla Vita Eterna. Il soggetto, “i viventi” abbraccia tutti i cristiani e non solo i Tessalonicesi e risuona come affermazione globale riferita a tutta la Chiesa. Vengono usati due participi in greco, preceduti dal medesimo articolo plurale, per indicare i viventi, i rimanenti, estendendo così il campo semantico, e l’idea dell’eternità è raddoppiata.       

“Per la venuta del Signore” cioè “fino alla venuta del Signore”. Il testo è suggestivo e trasmette il dramma presente nell’uomo: cosa succede dopo la morte? Paolo fuga le incertezze e le angosce, aprendo prospettive di speranza, gioia, felicità: è la venuta del Signore alla fine dei tempi.

“Non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti”. Per Paolo i vivi non hanno nessun vantaggio sui defunti. Il suo linguaggio pone tutti in condizioni di parità, essendo consapevole di rivolgersi non solo ai Tessalonicesi ma, in qualità di apostolo sa che la buona notizia oltrepassa i confini di tempo e spazio: il vangelo è per tutti gli uomini.

4,16: “Perché il Signore stesso”. Il pronome greco “stesso” (autos) ha valore rafforzativo e sottolinea il ruolo del Signore nel suo atto salvifico. Paolo sottolinea il nome “Cristo Signore” per diversificare la sua dottrina da quella giudaica: a Damasco ha visto il Risorto e il Signore è già venuto, perché Gesù è il Signore, il Messia.

“A un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio”. C’è una preposizione greca che si ripete per tre volte, che traduciamo con “a” (en), che è riferita al Signore stesso e descrive i segni del suo ritorno in maniera apocalittica, descrivendo circostanze concomitanti con azioni apocalittiche, secondo il linguaggio apocalittico tipico della letteratura ebraica. Ma chi impartisce l’ordine? Dio o Gesù? E’ l’incrocio in Paolo tra teologia e cristologia. Visto il soggetto, il Signore si riferisce a Dio, ma i cristiani hanno dato il titolo a Gesù. Sarebbe meglio interpretare l’azione di Gesù in questi tre segni, senza però escludere Dio.

“A un  ordine” è un sostantivo che non troviamo altrove (hapax). Nel greco classico ci si vuole riferire a un ordine nel linguaggio tecnico-militare, riferito alla battaglia. C’è di fatto una guerra tra Dio e i nemici, tra cui vi è la morte. Ma il sostantivo può anche esprimere un ordine divino degli dei greci o un grido. E’ un ordine del Signore celeste che sottolinea l’autorità del comando nella battaglia.     

“Alla voce di un arcangelo”: è la spiegazione del secondo segno apocalittico (Isaia 6: la voce degli angeli fa scuotere il tempio divino), che altro non è che la voce del Signore. Si tratta di un segnale per tutti, vivi e defunti.

“Al suono della tromba di Dio”: è un segno che si pone in continuità con la vecchia Alleanza. Nella letteratura classica la tromba veniva usata per annunciare una battaglia, mentre nel giudaismo riceve una connotazione religiosa perché descrive teofanie, cioè manifestazioni di Dio, come in Es 19,10, relativo all’Alleanza tra il Signore e Mosé: “Il Signore scenderà”. Nel nostro testo c’è un legame tra la teofania e la tromba che annuncia l’arrivo del Signore ed è il segno dell’ultimo giorno per eccellenza, quello del giudizio. La tromba è tromba di Dio e pertanto l’arcangelo agisce con autorità divina. Si sottolinea l’arrivo del Signore e della fine dei tempi. Anche in Nm 10,4-segg. si sottolinea l’uso delle trombe, poiché ha un suo linguaggio per impartire ordini; anche in Gs 6,1-segg  viene menzionato il suo uso. La tromba ha la sua importanza dal punto di vista archeologico: nell’arco di Tito, sui bassorilievi spicca il candelabro a sette braccia con le trombe d’argento del tempio di Gerusalemme, segno di conquista dei romani, insieme alle tavole della legge. Sembra che Paolo descriva una scena istantanea smontandola in tre dimensioni: la simultaneità dell’obbedienza ottenuta a un cenno di comando. L’ordine è seguito da un intervento vocale dell’arcangelo ed infine la tromba carica di potenza energica auditiva: il suono viene udito ma si vedono anche i colori dell’argento metallico della tromba e il suono va in tutte le direzioni. Si potrebbe trattare di tante trombe che annunciano la venuta del Signore, le quali sono talmente in armonia che sembra una sola e l’effetto musicale e avvolgente e coinvolgente per le creature spettatrici e partecipi. Nel 50-51 d.C. il tempio accoglieva il sommo sacerdote facendo squillare la tromba come per l’arrivo del Signore: è un legame con la liturgia degli ebrei.

“Discenderà dal cielo”: è il ruolo unico di Gesù nel suo ritorno ed il verbo usato ricorre per indicare in genere la discesa nell’altro mondo. Nell’Antico Testamento il discendere indica un ispezionare e giudicare e ciò vale anche per Gesù che scenderà come giudice.

“E prima risorgeranno i morti in Cristo” cioè “E come condizione primaria risorgeranno i morti in Cristo”: Paolo usa un  pronome che ha funzione di avverbio: ”prima” (panton), che indica una priorità ordinata di condizioni necessarie: condizione prima è la Resurrezione dai morti. Solo così i credenti vanno incontro al Signore. Paolo sottolinea che i morti non saranno più tali ma resuscitando si pongono nelle giusta direzione di incontrare il Signore che è la vita e il Risorto. Sarà il trionfo della vita sulla morte: Dio vincerà l’ultima battaglia. La scena è emozionante non solo per l’intervento divino dall’alto in basso, ma anche per l’elevazione degli uomini all’ordine del capo: dal basso all’alto. Ricordiamo Ez 37,1-segg. con l’episodio delle ossa aride e pensiamo alla valle di Giosafat che in ebraico significa “Dio ha giudicato” ed è la valle del giudizio. Anche in Gl 4,1-segg. si dice: “Signore fa scendere i tuoi eroi”: è il momento del giudizio.

4,17: “Quindi noi, i vivi, i superstiti” cioè “Poi noi, i viventi, i rimasti”: il versetto si aggancia al v. 15 per sottolineare che nel giorno del Signore i vivi non hanno vantaggio rispetto ai morti: sono tutti pronti e tutti uguali. C’è un avverbio greco ad inizio versetto (epeita) per indicare ciò che segue come condizione: i morti non saranno più tali.

“Saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole” cioè “Insieme con loro saremo rapiti sulle nubi”: Paolo vuole evidenziare la simultaneità dell’azione e le stretta unione con un avverbio particolare (ama sun), per dire che come i morti obbediscono  al comando, così tutti, con i vivi, saremo attirati dall’alto come razzi e frecce. Un verbo al futuro, in greco, (arpaghezometa) vuole indicare che i morti devono essere purificati prima di essere rapiti in cielo.

“Per andare incontro al Signore nell’aria”: lo scopo di Paolo è l’incontro col Signore nell’aria, elemento tra terra e cielo, spazio intermedio tra umano e divino, in cui il Signore, intermediario tra Dio e gli uomini, incontra i suoi. Il termine greco usato da Paolo (aera) fa pensare anche allo Spirito.

“E così saremo sempre con il Signore” cioè “E tutti staremo col Signore”: è la conclusione per cui staremo tutti con il Signore. L’avverbio usato (pantote), significa per ogni tempo, per sempre, in senso totalizzante.

4,18: “Confortatevi” cioè “Consolatevi”: tale versetto conclude ed è il punto essenziale e la consolazione vicendevole dei fratelli. Il verbo “consolatevi” appare molte volte ed è ugualmente usato in Isaia 40,1-segg. per consolare Israele in Babilonia.

“Dunque a vicenda con queste parole”: in Isaia 40,1-segg. si dice: “… allora si rivelerà la Gloria del Signore e ognuno la vedrà”. Ora Paolo conforta il suo popolo nel momento di persecuzione, lutto e sofferenza. Il pronome greco che conclude il versetto (tutois) fa da inclusione con il pronome all’inizio del vers. 15 (tuto) chiudendo all’interno il percorso sviluppato da Paolo attorno ai termini “diciamo”, “parole”, “Parola”. Ciò che Paolo dice, lo dice a nome degli apostoli e i Tessalonicesi conoscono le parole degli apostoli e quindi del Signore.  

Note finali

Al v. 14 Gesù è indicato due volte come uomo uguale agli altri, mentre al v. 16 viene definito come Cristo, l’unto di Dio, il Messia scelto: è un titolo del Signore. Cosa fa? Salva il suo popolo.

Paolo ci parla di Dio (teologia), di Gesù il Cristo (cristologia), dell’ultimo giorno del Signore (escatologia) quando i morti non saranno più tali; di pienezza della salvezza attraverso il nostro corpo mortale, per cui attendiamo la Resurrezione (soteriologia) in quanto non siamo nella pienezza della salvezza; dell’uomo mortale che condivide la Vita Divina (antropologia); della consolazione vicendevole in attesa del Signore (teologia morale); di cielo, terra, aria (cosmologia).  

SABATO 6 FEBBRAIO 2010 – IV SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

SABATO 6 FEBBRAIO 2010 – IV SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

SANTI PAOLO MIKI E COMPAGNI, MARTIRI (m)

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla seconda lettera ai Tessalonicesi di san Paolo, apostolo   3, 1-18

Esortazioni e consigli
Fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore si diffonda e sia glorificata come lo è anche tra voi e veniamo liberati dagli uomini perversi e malvagi. Non di tutti infatti è la fede. Ma il Signore è fedele; egli vi confermerà e vi custodirà dal maligno.
E riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore, che quanto vi ordiniamo già lo facciate e continuiate a farlo. Il Signore diriga i vostri cuori nell’amore di Dio e nella pazienza di Cristo.
Vi ordiniamo pertanto, fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, di tenervi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata e non secondo la tradizione che ha ricevuto da noi. Sapete infatti come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo per lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello.
Il Signore della pace vi dia egli stesso la pace sempre e in ogni modo. Il Signore sia con tutti voi.
Questo saluto è di mia mano, di Paolo; ciò serve come segno di autenticazione per ogni lettera; io scrivo così. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con tutti voi.

Responsorio   Cfr. 1 Ts 2, 13; Ef 1, 13
R. Voi avete ricevuto e accolto la parola: * non una parola di uomini, ma veramente parola di Dio.
V. Avete ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza:
R. non una parola di uomini, ma veramente parola di Dio.
 
Seconda Lettura
Dalla «Storia del martirio dei santi Paolo Miki e compagni» scritta da un autore contemporaneo  (Cap. 14, 109-110; Acta Sanctorum Febr. 1, 769)

Sarete miei testimoni
Piantate le croci, fu meraviglioso vedere in tutti quella fortezza alla quale li esortava sia Padre Pasio, sia Padre Rodriguez. Il Padre commissario si mantenne sempre in piedi, quasi senza muoversi, con gli occhi rivolti al cielo. Fratel Martino cantava alcuni salmi per ringraziare la bontà divina, aggiungendo il versetto: «Mi affido alle tue mani» (Sal 30, 6). Anche Fratel Francesco Blanco rendeva grazie a Dio ad alta voce. Fratel Gonsalvo a voce altissima recitava il Padre nostro e l’Ave Maria.
Il nostro fratello Paolo Miki, vedendosi innalzato sul pulpito più onorifico che mai avesse avuto, per prima cosa dichiaro ai presenti di essere giapponese e di appartenere alla Compagnia di Gesù, di morire per aver annunziato il vangelo e di ringraziare Dio per un beneficio così prezioso. Quindi soggiunse: «Giunto a questo istante, penso che nessuno tra voi creda che voglia tacere la verità. Dichiaro pertanto a voi che non c’è altra via di salvezza, se non quella seguita dai cristiani. Poiché questa mi insegna a perdonare ai nemici e a tutti quelli che mi hanno offeso, io volentieri perdono all’imperatore e a tutti i responsabili della mia morte, e li prego di volersi istruire intorno al battesimo cristiano».
Si rivolse quindi ai compagni, giunti ormai all’estrema battaglia, e cominciò a dir loro parole di incoraggiamento.
Sui volti di tutti appariva una certa letizia, ma in Ludovico era particolare. A lui gridava un altro cristiano che presto sarebbe stato in paradiso, ed egli, con gesti pieni di gioia, delle dita e di tutto il corpo, attirò su di sé gli sguardi di tutti gli spettatori. Antonio, che stava di fianco a Ludovico, con gli occhi fissi al cielo, dopo aver invocato il santissimo nome di Gesù e di Maria, intonò il salmo Laudate, pueri, Dominum, che aveva imparato a Nagasaki durante l’istruzione catechista; in essa infatti vengono insegnati ai fanciulli alcuni salmi a questo scopo.
Altri infine ripetevano: «Gesù! Maria!», con volto sereno. Alcuni esortavano anche i circostanti ad una degna vita cristiana; con questi e altri gesti simili dimostravano la loro prontezza di fronte alla morte.
Allora quattro carnefici cominciarono ad estrarre dal fodero le spade in uso presso i giapponesi. Alla loro orribile vista tutti i fedeli gridarono: «Gesù! Maria!» e quel che è più, seguì un compassionevole lamento di più persone, che salì fino al cielo. I loro carnefici con un primo e un secondo colpo, in brevissimo tempo, li uccisero.

Responsorio    Cfr. Gal 6, 14; Fil 1, 29
R. Il nostro unico vanto è nella croce del Signore Gesù Cristo, vita e salvezza e risurrezione per noi: * egli ci ha salvati e liberati.
V. A voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui:
R. egli ci ha salvati e liberati.

VENERDÌ 5 FEBBRAIO 2010 – IV SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

VENERDÌ 5 FEBBRAIO 2010 – IV SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

SANT’AGATA (m)

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla seconda lettera ai Tessalonicesi di san Paolo, apostolo 2, 1-17

Il giorno del Signore
Vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare, né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio (Dn 11, 36. 37).
Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca (Gb 4, 9; Is 11; 4; Ap 19, 15. 20) e lo annienterà all’apparire della sua venuta, l’iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina perché non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi. E per questo Dio invia loro una potenza d’inganno perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità.
Noi però dobbiamo rendere sempre grazie a Dio per voi, fratelli amati dal Signore, perché Dio vi ha scelti come primizia per la salvezza, attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità, chiamandovi a questo con il nostro vangelo, per il possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo.
Perciò, fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete apprese così dalla nostra parola come dalla nostra lettera. E lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.

Responsorio    Cfr. Mt 24, 30; 2 Ts 2, 8
R. Apparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo, * e vedranno il Figlio dell’uomo venire con grande potenza e gloria.
V. Allora l’empio verrà scoperto e il Signore Gesù lo annienterà con il suo soffio,
R. e vedranno il Figlio dell’uomo venire con grande potenza e gloria.
 
Seconda Lettura
Dal «Discorso su sant’Agata» di san Metodio Siculo, vescovo
(Anal. Boll. 68, 76-78)

Donata a noi da Dio, sorgente stessa della bontà  

Dal «Discorso su sant’Agata» di san Metodio Siculo, vescovo,

La commemorazione annuale di sant’Agata ci ha qui radunati perché rendessimo onore a una martire, che è sì antica, ma anche di oggi. Sembra infatti che anche oggi vinca il suo combattimento perché tutti i giorni viene come coronata e decorata di manifestazioni della grazia divina.

Sant’Agata è nata dal Verbo del Dio immortale e dall’unico suo Figlio, morto come uomo per noi. Dice infatti san Giovanni: «A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1, 12).

Agata, la nostra santa, che ci ha invitati al religioso banchetto, è la sposa di Cristo. E’ la vergine che ha imporporato le sue labbra del sangue dell’Agnello e ha nutrito il suo spirito con la meditazione sulla morte del suo amante divino.

La stola della santa porta i colori del sangue di Cristo, ma anche quelli della verginità. Quella di sant’Agata, così, diviene una testimonianza di una eloquenza inesauribile per tutte le generazioni seguenti.

Sant’Agata è veramente buona, perché essendo di Dio, si trova dalla parte del suo Sposo per ren­derci partecipi di quel bene, di cui il suo nome porta il valore e il significato: Agata (cioè buona) a noi data in dono dalla stessa sorgente della bontà, Dio.

Infatti cos’è più benefico del sommo bene? E chi potrebbe trovare qualcosa degno di essere maggiormente celebrato con lodi del bene? Ora Agata significa «Buona». La sua bontà corrisponde così bene al nome e alla realtà. Agata, che per le sue magnifiche gesta porta un glorioso nome e nello stesso nome ci fa vedere le gloriose gesta da lei compiute. Agata, ci attrae persino con il proprio nome, perché tutti volentieri le vadano incontro ed è di insegnamento con il suo esempio, perché tutti, senza sosta, gareggino fra di loro per conseguire il vero bene, che è Dio solo.

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