http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RUBRICHEAUTORI/FrancescoCuccaro/FCparusianellaprimaletteraaitessalonicesidiPaolo.htm
TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO TESTAMENTO
LA « PARUSÌA » NELLA PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI DI PAOLO DI TARSO
di Francesco Cuccaro
Premessa
A partire dal 29 giugno ha inizio l’anno paolino. Quale migliore occasione per meditare sulla vita, letteratura e teologia dell’Apostolo delle Genti ?
In quest’articolo illustriamo la ‘Parusìa’ così come é stata affrontata nella Prima Lettera ai cristiani di Tessalonica.
Consideriamo ora il contesto nel quale é maturata la decisione di Paolo di scrivere questa epistola.
**************************************************
Seguendo la narrazione lucana degli Atti degli Apostoli, Paolo, intorno al 49 EV, intraprende un secondo viaggio missionario che lo conduce non tanto a fondare nuove comunità cristiane nell’Asia Minore, quanto a consolidare, sul piano della fede, quelle già esistenti.
Proprio a Listra conosce un giovane nel quale riporrà tutte le sue speranze nell’attività evangelizzatrice. Il suo nome é Timoteo, tra l’altro figlio di padre greco e di madre giudea. Non sappiamo se Timoteo, prima della conversione al Cristianesimo, sia stato un pagano oppure un timorato di Dio. E’ certo che non era circonciso. Inconveniente presso i Giudei di quel posto, del cui superamento provvede lo stesso Paolo ( At. 16,3 ).
Raggiunta la città di Troade, Paolo beneficia di una visione soprannaturale durante una notte : “…..gli stava davanti un macedone e lo supplicava : ‘Passa in Macedonia e aiutaci !’” ( At. 16,9 ). L’Apostolo si convince che -dietro quest’apparizione così insolita- ci sia un ordine divino. Dopo esser partito da Troade, con Sila e Timoteo, raggiunge Neapolis e, da qui, Filippi, citata negli Atti come “colonia romana e città del primo distretto di Macedonia” ( At. 16,12 ) , divenendo il primo centro urbano d’Europa a conoscere il Vangelo.
Dopo la conversione di Lidia, una donna benestante che simpatizza per la religione giudaica (“credente in Dio”, At. 16,14), subisce una disavventura ma senza tragiche conseguenze.
Per aver guarito una donna posseduta da uno “spirito di divinazione” (At. 16,16), si trova al centro di un conflitto di interessi che gli fa, assieme a Sila, assaggiare i rigori delle percosse e del carcere, ma per breve tempo ( At. 16,19-40 ).
Una volta liberati, Paolo e Sila si dirigono a Tessalonica, seguendo la via di Anfipoli e di Apollonia (At. 17,1). Questa città, fondata ( nel 315 prima EV ) dal generale macedone Cassandro in onore della moglie Thessalonike, sorella di Alessandro il Grande, é situata sulla punta nord del Golfo Termico. Durante l’occupazione turca prende il nome di Salonicco, per poi riassumere quello originario nel 1937.
Tessalonica é la capitale della provincia romana di Macedonia, ricchissimo centro commerciale, tanto da divenire cosmopolita, solcata dalla Via Egnatia che la congiunge a Roma attraverso Durazzo. Non vi può mancare in essa una fiorente colonia ebraica.
Paolo, come sua consuetudine, inizia a predicare nelle sinagoghe di questa città, per tre sabati consecutivi ( At. 17,2 ), cercando di dimostrare che Gesù é il Messìa e che é risorto. Sebbene alcuni suoi connazionali, assieme ad alcuni Greci proseliti oppure timorati di Dio, si convertano alla nuova fede, la sua attività suscita un’opposizione così violenta, in modo tale che il Nostro decide di abbandonare la città e rifugiarsi a Berea, dove il frutto delle conversioni risulta essere copioso, perfino presso gli Ebrei di questo luogo ( At. 17,10-12 ).
I Giudei di Tessalonica non demordono dal perseguitare Paolo. Accecati dall’invidia e da uno spirito di competizione, cercano di aizzargli contro il popolino di Berea, mostrandolo come un sovvertitore della tranquillità pubblica e come un sedizioso ( At. 17,7 ).
Per tutelare meglio l’incolumità dell’Apostolo, i neoconvertiti di Berea lo convincono a lasciare la città, mentre vi restano Sila e Timoteo. Paolo si dirige ad Atene e di lì a Corinto, permanendovi circa un anno e mezzo ( At. 18,11) .
*****************************************************
L’ Apostolo si sente onorato di aver fondato la Chiesa di Tessalonica ( più o meno intorno al 50 EV ), per le maggiori soddisfazioni che, in termini di conversioni e accrescimento nella fede, i neofiti gli hanno offerto. E di questo ringrazia Dio ( 1Tess. 1,1-3 ). I fedeli aumentano in numero e qualità, “in virtù di parola, ma anche di prodigi, di Spirito Santo e di abbondante forza di persuasione” ( 1 Tess. 1,5 ). Una comunità-modello ( 1 Tess. 1,7 ), per intenderci, nata nell’arco di un breve periodo e senza riservare le più grandi preoccupazioni di carattere dottrinale o pastorale che, invece, l’Apostolo ha dovuto subire in altre circostanze e in altri luoghi.
Ciò non toglie che si tratta di una comunità fortemente discriminata e combattuta, soprattutto dall’esterno. Quale l’avversario principale ? I Giudei ortodossi del posto che non hanno perdonato a Paolo la “defezione” dalla religione mosaica di tanti loro compatrioti e, per giunta, l’adesione al Vangelo di un buon numero di pagani.
Ovviamente sussiste, in questo contesto, un clima di persecuzione. Le autorità civili riescono appena a controllare l’eccitazione delle masse, scongiurando gli effetti perversi di rancori e di polemiche accese, tanto più che il Cristianesimo nascente non incontra ancora l’ostilità degli Imperatori.
Paolo se ne rende conto di ciò trovandosi a Corinto, dove scrive due Lettere a questi fedeli macedoni, ritenuti da lui un modello per gli altri cristiani, proprio nella tribolazione come Gesù e come lo stesso Paolo a causa dell’ostilità dei Giudei (1 Tess. 2,14).
E’ indubitabile la presenza di un orientamento antigiudaico in queste due epistole e nel quale sarà intesa la prospettiva escatologica dell’Apostolo.
Per stornare possibili accuse che potrebbero ravvisarlo come un avventuriero o un soggetto malato di protagonismo, l’Apostolo rivendica, a suo carico, la testimonianza propria di questi credenti che possono attestare come, durante il suo soggiorno a Tessalonica, “non fu di aggravio a nessuno” ( 1 Tess. 2,9 ), lavorando con le proprie mani per l’autosostentamento, comportandosi in modo irreprensibile (1 Tess. 2,10), non volendo ricercare “motivi di gloria dagli uomini” ( 1 Tess. 2,6 ). Soprattutto manifestando amore sincero e disinteressato, paragonabile a quello di una madre per i suoi figli (1Tess. 2,7).
Nella Prima Lettera, tuttavia, sostiene che l’impegno per la propria santificazione personale si deve accompagnare all’astinenza dalla fornicazione e al rifiuto dei costumi pagani connessi ad essa ( 1 Tess. 4, 1-3 ), raccomandando inoltre la promozione ( superflua, occorre dirlo, visti i lodevoli risultati dei cristiani tessalonicesi ) della carità.
La ‘Parusìa’ secondo Paolo
L’Apostolo delle Genti espone il tema del ‘ritorno glorioso di Cristo’, confermando questo dato della tradizione apostolica, indicandolo con il termine greco di ‘parousìa’ che significa ‘presenza’. Anche Platone aveva messo in risalto questa parola per sottolineare la sussistenza di un ideale intelligibile nelle cose sensibili.
Paolo la utilizza, invece, per esprimere la seconda venuta di Gesù, con la quale si conclude la storia umana secondo una concezione lineare prettamente biblica.
“Non é chiara la derivazione del termine, come per molti altri vocaboli del N.T. Si discute se provenga dalle descrizioni degli incontri dei re dei cerimoniali greco-romani o dalla letteratura escatologica giudaica o addirittura dall’una o dall’altra fonte” (1). E’ certo che viene designato per denotare una solenne apparizione di un esercito, di un generale o di un sovrano (2).
Visto il breve soggiorno a Tessalonica, é probabile che Paolo abbia trascurato di approfondire alcune importanti questioni di escatologia cristiana, dal momento che si sente autorizzato, nell’una e nell’altra lettera, a dissipare alcune preoccupazioni sorte tra i neoconvertiti circa il destino dei defunti, compresi i propri cari, tra i quali coloro che hanno creduto in Cristo, soprattutto nel momento della Parusìa, e sulla prossimità o meno di un tale evento.
Per prima cosa Paolo cita i morti con il termine di “dormienti” che, senza alcun dubbio, acquista un valore metaforico. Volendo andare, però, al di là di esso, il Nostro intende la morte non come l’ultima realtà che sopraggiunge nell’esistenza di un individuo, bensì come uno stato di assopimento ( e di sospensione delle funzioni vitali e delle attività connesse ) che dovrà, un giorno, essere superato. E’ facile presentare la ‘resurrezione dei morti’ come un ‘risveglio’ da questo stato. Anche se poi più tardi, Paolo preciserà, nella Prima Lettera ai Corinti, le modalità di quest’evento ( 1 Cor. 15, 35-55 ).
Quindi, non c’é motivo di “rattristarsi” come fanno i pagani senza alcuna speranza ( 1 Tess. 4,13 ). Del resto, é inedita l’idea di un ritorno dall’ aldilà nel mondo ellenistico – romano, se riflettiamo su alcuni versi del poeta latino Catullo (3), vissuto nel I secolo prima EV. :
“Soles occidere et redire possunt / nobis cum semel occidat brevis lux / mors est perpetua una dormiendi” ( Cat. V, 4-6 ).
“I soli possono tramontare o sorgere / per noi una volta tramontata questa breve vita / resta solo il perpetuo sonno della morte”.
Analogamente a Cristo morto e risorto, anche gli altri risorgeranno e saranno riuniti con lui ( 1 Tess. 4,14 ). E nella Parusìa del Signore non ci sarà una precedenza dell’ultima generazione vivente rispetto ai morti. Questo evento sarà caratterizzato da due fasi : prima risorgeranno i morti (Paolo utilizza immagini desunte dalla letteratura apocalittica giudaica con i suoi elementi descrittivi come “voce dell’Arcangelo”, “( segnale del )la tromba di Dio”, 1 Tess. 4,16, ecc.); dopo, i viventi saranno “rapiti insieme a loro nelle nuvole per andare incontro al Signore nell’aria” ( 1 Tess. 4,17 ).
Occorre fare una precisazione su quest’ultimo punto. “L’essere rapiti insieme a loro per andare incontro al Signore nell’aria” non racchiude una notizia circa le modalità relative al processo della trasformazione del vivente durante la seconda venuta di Gesù. Ma non possiamo fare una concessione ai bultmanniani insistendo troppo sul lato dell’allegorìa o dell’immagine letteraria, per poi rigettare questo evento solo perché l’Apostolo ha espresso un dato, come questo, in una concezione cosmologica vigente presso gli Ebrei contemporanei. La stessa vaghezza, come sembra indicare la frase, sembrerebbe suggerire un effetto di fantasìa. Risulta chiara questa convinzione di Paolo : nel momento della Parusìa l’ultima generazione umana non vivrà più la stessa vita quotidiana di tutti i giorni, ma sarà trasfigurata nella gloria del Signore. Del resto, Gesù é risorto ed é “asceso” al cielo. Se questo é avvenuto per il Nuovo Adamo, perché non deve avvenire anche ( e analogamente ) per gli altri uomini ? “Andare incontro al Signore nell’aria” significa avere un corpo dotato di perfezioni che potenziano le facoltà da esso possedute, vincono la stessa forza di gravità o, quanto meno, la tendenza dei corpi gravi verso il basso ( convinzione quasi unanime a quel tempo ), o come Dante definisce -nel suo Paradiso canto I- il “trasumanar”, cioé andare oltre l’umano, trovandosi nel Cielo della Luna con il proprio corpo, senza sapere né come né quando.
“Questo infatti vi diciamo sulla parola del Signore : noi, i viventi che potremmo essere rilasciati per la Parusìa del Signore…..” ( 1 Tess. 4,15 ).
Questo versetto può essere, giustamente, ritenuto la “croce degli interpreti”.
Consideriamo l’espressione “sulla parola del Signore”. Il Nostro non dice nulla di suo, ma si rifà alla tradizione degli Apostoli e, quindi a monte, all’insegnamento di Gesù. Non si tratta né di una opinione personale, tantomeno di una rivelazione comunicata a lui direttamente dal Redentore medesimo.
Al riguardo, una chiave esegetica mira a considerare in modo separato, nel versetto 15, i “viventi” dal termine “parusìa” ( manifestazione del Signore ), rendendo possibile questa parafrasi : “noi che viviamo attualmente non saremo separati dai nostri defunti alla venuta del Signore”. Tale posizione, sostenuta dal biblista Francesco Spadafora, si basa sulla presunta impossibilità della costruzione del verbo “perileipomenoi” ( superstiti ) con “eis” ( in ). Ma si scontra ugualmente con il testo che oppone i superstiti ai morti. E non trova il sostegno da parte dei Padri della Chiesa di lingua greca (4).
Un’altra interpretazione, quella di Giovanni Rinaldi, ritiene che Paolo non fa altro che riportare il punto di vista degli interroganti, dicendo : “quelli che voi chiamate i superstiti, non precederanno i vostri morti”, correggendo un errore circolante tra i credenti di Tessalonica circa una diversa sorte e dei morti e dell’ultima generazione umana (5). Ma non riusciamo a condividere una tale opinione.
Ci può essere una lettura –da parte escatologista- che attualizza questo brano, inducendo a ritenere che Paolo raccomandi il massimo di vigilanza per il carattere improvviso dell’evento della Parusìa, estremizzando la figura retorica dell’énallage (6), quasi come se parlasse a noi, generazione del Duemila, e si sentisse parte di questa stessa generazione, in un’iperbolica affermazione. Non che questo modo di interpretare sia sbagliato o alquanto debole. Tutt’altro. Ma può risultare riduttivo, forzato, deresponsabilizzante e anche pericoloso se fatto proprio dagli sprovveduti.
Un’altra lettura, invece, si potrà dare da parte di chi ironizza proprio su questa comunanza di destino di Paolo, nella sua esistenza storica, e della generazione vivente al momento della Parusìa, per sconfessare questo dato rivelato (non c’é e non ci sarà Parusìa perché Paolo é morto, nonostante la fede “ingenua” da lui ostentata in questo avvenimento), e come sono morti i destinatari di questa Prima Lettera, i quali si sono identificati con l’ultima generazione umana.
L’Apostolo non é incorso nell’errore riguardo alla prossimità o meno della fine della storia. Altrimenti, verrebbe compromesso il carattere ispirato di questa epistola. E l’ispirazione non può essere mai compatibile con la presenza di tenaci ed ineliminabili contraddizioni logiche . E’ fuorviante sostenere che Paolo abbia creduto, nella prima missiva, nell’imminenza della Parusìa e poi, nella seconda, l’abbia confutata ( o minimizzata ) apertamente. Se si legge con attenzione la 1 Tess. 5, 1-3, si evince bene il carattere dell’incertezza del momento della seconda venuta di Gesù (7) :
“Riguardo poi ai tempi e ai momenti precisi non avete bisogno che vi si scriva. Voi stessi infatti sapete molto bene che il giorno del Signore viene come un ladro di notte. Quando diranno ‘pace e sicurezza’ ( Ger.6,14 ), proprio allora improvvisa sopravverrà la catastrofe, come i dolori del parto a una donna gravida, e non potranno sfuggire” ( 1 Tess. 5, 1-3 ).
Come dire tutto. Paolo ignora perfettamente quando avverrà questo fatidico giorno. Domani o tra un milione di anni !? Raccomanda caldamente ai suoi fedeli di non restare impreparati, perché quel giorno si manifesterà come “un ladro di notte” ( 1 Tess. 5,3 ), sottolineando la caratteristica dell’improvvisazione e dell’imprevedibilità della Parusìa.
Inoltre, il versetto 10 del cap. 5 sembra suggerire il presentimento dell’Apostolo di non essere più tra i viventi alla fine della storia :
“….affinché sia che vigiliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui” ( 1 Tess. 5,10 ).
Il brano 1 Tess. 5, 1-4 richiama implicitamente i detti escatologici di Gesù riportati dalla tradizione sinottica ( si cfr., per esempio, Mt. 24,8.36-43.50; Mc. 13,1-37; Lc. 21,5-36 ), ricorrenti anche in altri scritti neotestamentari ( come At. 1,7; 2 Pt. 3,10; Ap. 3,10 ).
Paolo si convince di aver lasciato nel vago delle sue affermazioni circa l’imprevedibilità della circostanza della Parusìa. Ciò spiega la necessità di scrivere una seconda missiva, nell’arco di pochi mesi, non tanto per affrontare tensioni e polemiche sorte nella Chiesa di Tessalonica, quanto per neutralizzare la possibilità di equivoci e di malintesi sul tempo di questa seconda venuta di Gesù, derivanti da una lettura troppo precipitosa della prima lettera.
L’Apostolo capisce che, spinto dall’entusiasmo, ha troppo insistito su quel “noi” come comunanza di destino, sottintendendo il suo più semplice desiderio di essere riunito, ancora in carne ed ossa, al suo Signore.
La consapevolezza del carattere improvviso della seconda venuta di Gesù deve comportare, di conseguenza, la ‘vigilanza’ come si conviene ai “figli della luce e figli del giorno” ( 1 Tess. 5,5 ), perché “il giorno del Signore viene come un ladro di notte” ( 1 Tess. 5,2 ). L’invito ad essere sobri non vuol intendersi solo nel senso della moderazione nell’uso dell’alcool e nel cibo, ma piuttosto nel senso del retto cammino sulla via della santità, “indossando la corazza della fede e della carità, ( avendo come ) elmo la speranza della salvezza” ( 1 Tess. 5,8 ).
Nella Prima Lettera ai Tessalonicesi Paolo rivolge i suoi ultimi appelli circa i doveri di promozione della carità fraterna e della misericordia spirituale ( 1 Tess. 5, 14-15 ), ma con una precisa discriminazione nei confronti degli “indisciplinati” ( letteralmente “i fuori ordinanza” ), vale a dire quei credenti che, ritenendo imminente la ‘parusìa’ e illudendosi di trovarsi in uno stato di purezza e di santità, manifestano disobbedienza e ingratitudine ai superiori che si sacrificano per correggere, presiedere e fortificare nella fede la stessa comunità, pretendendo di essere mantenuti a spese degli altri fratelli, gettando discredito su questi ultimi all’esterno. Un anticipo di quelle che saranno le degenerazioni dei successivi orientamenti quietistici.
“Non vogliate spegnere lo Spirito; non disprezzate le profezie. Esaminate tutto; ritenete ciò che é bene. Guardatevi da ogni apparenza di male” ( 1 Tess. 5, 19-22 ).
Anche i ‘carismi’ servono all’edificazione della Chiesa e, pertanto, vanno promossi e, soprattutto, esaminati per discernere quello che é un genuino dono di Dio da una contraffazione di Satana (8) o, semplicemente, da una autosuggestione di origine puramente naturale. Tra questi doni é indispensabile quello della ‘profezìa’ per discernere i segni dei tempi. Ma anche l’intelligenza dello Spirito nell’esaminare le predizioni dell’A.T. per poter verificare il riscontro del contenuto da essi riportato con la realtà contemporanea all’Apostolo.
Nell’epilogo del primo scritto, Paolo invoca la benevolenza di Dio sui fedeli di Tessalonica affinché, al momento della ‘Parusìa’, l’essere di ciascuno di loro (spirito, anima e corpo) sia trovato integro, vale a dire puro e ordinato, davanti al cospetto del Cristo solenne.
Paolo espone le nozioni dell’antropologìa giudaica che insiste sull’unità psicofisica dell’individuo umano, utilizzando termini greci come ‘pneuma’, ‘psiché’, ‘soma’. Non offre per niente uno spaccato della concezione metafisica dell’uomo di tipo aristotelico, nel sostenere spirito, anima e corpo come due-tre principi sostanziali, o del tipo platonico come di due ( o più ) sostanze unite accidentalmente.
‘Pnéuma’ é anche il termine con il quale si intende sia la ‘ruah Jahveh’, ovvero lo Spirito Santo come principio di vita nuova del redento, sia la parte più alta e più profonda della mente umana che si apre all’influsso dello Spirito.
**************************************************
Il tema della ‘Parusìa’ é schiettamente biblico, le cui radici si ravvisano già nell’Antico Testamento.
Una escatologia allo stato germinale è già delineata negli scritti profetici ( i ‘Nebiim’ ), dove si evince la drammaticità della lotta tra il bene e il male nel mondo e nel cosmo fino alla fine dei tempi.
Comprimari di questa lotta sono Jahveh, da un lato, e le forze che lo avversano, dall’altro. Israele -con il suo drammatico rapporto con le nazioni- ne é il teatro. Il peccato ( in ebraico ‘awon’ ) é la causa del ‘giudizio di Dio’, dell’intervento equilibratore dell’Altissimo che punisce l’empio, ma anche purificatore.
Israele si é lasciato prostituire dal culto di altre divinità, compromettendo l’originaria alleanza con Jahveh, permettendo l’adozione di schemi mentali, appartenenti ad altri popoli, nel vivere e comunicare la propria fede. A questo cedimento idolatrico ne é seguito un rilassamento dei costumi, una morale individualista che alimenta l’ingiustizia nei rapporti umani.
Con i profeti Ezechiele e Zaccarìa si dilata la prospettiva dell’azione divina su tutto l’universo. La stessa figura del ‘nabi’ beneficia di rivelazioni che avvengono per mezzo di ‘visioni’ riguardanti lo svolgimento degli eventi e le entità soprannaturali che vi entreranno in gioco. Soprattutto con Daniele si può dire che prende avvìo il genere della ‘letteratura apocalittica’ con tutto il suo corredo di rappresentazioni plastiche, dove vengono illustrati i tempi e i luoghi della desolazione, le catastrofi cosmiche, un intervento diretto degli angeli e di altre potenze intermedie tra Dio e l’uomo.
Cominciano ad assumere un rilievo sempre crescente le tematiche del ‘giorno del Signore’ (denominato anche “giorno dell’ira”, “gran giorno”, si cfr. “…..prima che venga il giorno del Signore grande e terribile”, Gl. 3,4, ecc.; espressioni che non perderanno la loro forza incisiva e la loro efficacia neanche nei discorsi escatologici di Gesù e in tutta la letteratura neotestamentaria), del ‘Regno di Dio’ ( si cfr. Zac. 14, 7 : “sarà un unico giorno, il Signore lo conosce…”, oppure Zac. 14,9 : “Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome” ) e del ‘Messìa’ che ne sarà il titolare ( Dn 2,28, ma si tratta di un dato attestato anche dalla letteratura sapienziale : Sal. 72; Sal. 110, ecc. ). Certo, ogni giorno appartiene al Signore; ma quando si parla del ‘giorno del Signore’ si intende la ‘manifestazione finale e solenne di Jahveh’, la sua ultima teofanìa con la quale si conclude la lunghissima vicenda umana.
Questo genere apocalittico interessa buona parte degli scritti giudaici del periodo intertestamentario e il Nuovo Testamento cristiano.