Archive pour la catégorie 'Lettera ai Tessalonicesi – prima'

COMMENTI DI MARIA NOELLE THABUT 14 DICEMBRE : 1 TESSALONICESI 5: 16-24

http://www.eglise.catholique.fr/approfondir-sa-foi/la-celebration-de-la-foi/le-dimanche-jour-du-seigneur/commentaires-de-marie-noelle-thabut/

COMMENTI DI MARIA NOELLE THABUT 14 DICEMBRE

SECONDA LETTURA – 1 TESSALONICESI 5: 16-24

OCCHIO FISSI SULL’ORIZZONTE

Faccio un paragone, quando viaggiamo, è l’obiettivo (la destinazione finale) del viaggio che determina il percorso da intraprendere; Paolo, la meta del cammino cristiano è la costituzione del Regno di Dio alla fine dei tempi. E in tutte le sue lettere, si scopre come il ritorno di Cristo è l’orizzonte di tutti i suoi pensieri.
Questo è ciò che giustifica tutte le raccomandazioni qui indicate ai Tessalonicesi. Vivere gli occhi fissi sull’orizzonte (vale a dire, l’istituzione del Regno di Dio) è pregare è agire e tutta questa gioia.
Non c’è alcuna gioia, naturalmente: non è un cieco ottimismo, e poi, se San Paolo deve specificare « sempre rallegrarsi, » è che Tessalonicesi a volte faticano a rimanere gioiosi; quello che si capisce perché sappiamo che già conoscevano la persecuzione; e Paolo ha dovuto lasciare in fretta Salonicco, dopo solo poche settimane di presenza e di predicazione, perché l’insediamento ebraico ha denunciato il potere romano come un piantagrane.
Ancora oggi, a volte è difficile gioire quando pensiamo tutte le guerre assassine che hanno funestato troppi paesi ogni giorno, il terrorismo e la persecuzione religiosa che i fiori qua e là, o problemi economici e vita miserabile di tanti uomini e donne del pianeta.
Ma agli occhi di Paolo, la gioia è possibile e anche consigliata: è la profonda gioia di incontrare credere; gioia di accogliere la Buona Novella della Parola di Dio; gioia della lettura nella nostra vita i segni dello Spirito; gioia della vita fraterna …

E ‘FEDELE, IL DIO CHE TI CHIAMA
Gioia di vedere nascere, forse lentamente, ma sicuramente il regno di Dio. Gioia per non fare affidamento sulle nostre forze, ma sulla roccia della fedeltà di Dio. Avete notato nel nostro testo le ultime parole di Paolo: « Egli è Dio fedele che vi chiama: tutto ciò che ha compiuto »; in questa frase, ho letto almeno tre cose:
In primo luogo, ha compiuto; vale a dire, l’architetto capo del Regno di Dio è Dio stesso.
In secondo luogo, Egli è fedele a interlocutori ebrei, era la loro fede, la loro certezza in un lungo periodo di tempo; perché la loro storia era solo pieno di esperienza questa fedeltà di Dio, qualunque siano le infedeltà del suo popolo; ma per controparti non-ebrei, era un altro straordinario scoprire che tutta la storia dell’umanità è accompagnata dalla fedeltà di Dio; di un Dio che non ha altro scopo che la felicità di tutta l’umanità. Ricordate ciò che Paolo scrive nella lettera a Timoteo: « Raccomando soprattutto che noi facciamo richieste, preghiere, suppliche, azioni Grazia, per tutti gli uomini … Questo è ciò che è bello e piacevole da davanti a Dio, nostro Salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. « (1 Tim 2: 1-4).
Se solo tutti i nostri contemporanei erano consapevoli del fatto che Dio non ha altro scopo che la salvezza e la felicità di tutti gli uomini … Penso che il mondo intero sarebbe cambiato!
In terzo luogo, Dio vi chiama: questa espressione controbilancia quello che ho detto sopra; Da un lato, è vero che Dio è il primo architetto della venuta del Regno … Ma egli ci chiama a contribuire.
Attraverso la preghiera, prima: avete sentito nella lettera a Timoteo, ma all’inizio del testo di oggi: « Pregate continuamente, rendere grazie in ogni circostanza, ma è ciò che Dio vuole te. « Per tutto il nostro lavoro, quindi … perché pregate, non sbarazzarsi di Dio di compiti impegnati a noi, si sta attingendo alle risorse del suo Spirito, forza e fantasia per realizzare che la partecipazione si aspetta da noi.

SPEGNERE LO SPIRITO
Ed è per questo che Paolo dice: « Non spegnete lo Spirito », come diremmo noi non spegnere un incendio, una fiamma che illumina la notte; il che significa che lo Spirito è una fiamma che arde dentro di noi e già il mondo. Ricordate questa bella frase del quarto preghiera eucaristica: « Lo Spirito continua il suo lavoro nel mondo e completa tutta la santificazione. »
Paul ha fatto due raccomandazioni: « Non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa »; quando sappiamo come i Greci erano appassionati di manifestazioni carismatiche (dono delle lingue, della profezia …) possiamo capire questa doppia: da un lato, rispettare i doni che si manifestano fra voi: se qualcuno profetizza c ‘vale a dire, è la voce di Dio, accetta di lasciare che si sfida: non correre il rischio di rifiutare di ascoltare Dio stesso; ma sa discernere; non seguire nessuno ciecamente.
Come riconoscere ciò che viene dallo Spirito Santo? E ‘semplice: come ha detto più tardi, nella lettera ai Corinzi, che proviene dallo Spirito Santo è quella che edifica la comunità.
Mi sembra che qui il test diamo Paolo è « scegliere ciò che guida il Regno ».
Nelle parole di mons Coffy « Reintrodurre nei nostri pensieri, i nostri giudizi, il nostro comportamento un riferimento al Regno di Dio che viene oggi è un compito fondamentale della Chiesa, non perché la cultura si concentra sul futuro – ragione significativa – ma perché la fedeltà alla Rivelazione richiede « . (« Chiesa, la salvezza segno tra gli uomini », la Conferenza episcopale a Lourdes, 1971).
————–
complemento
Tradizionalmente, questa Domenica di Domenica chiesto « Gaudete », che significa in latino « rallegrati » e ornamenti erano rosa. La parola «gaudete » è il primo di questa seconda lettura, tratta dalla Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi

LA « PARUSÌA » NELLA PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI DI PAOLO DI TARSO

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RUBRICHEAUTORI/FrancescoCuccaro/FCparusianellaprimaletteraaitessalonicesidiPaolo.htm

TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO TESTAMENTO

LA « PARUSÌA » NELLA PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI DI PAOLO DI TARSO

di Francesco Cuccaro

Premessa
A partire dal 29 giugno ha inizio l’anno paolino. Quale migliore occasione per meditare sulla vita, letteratura e teologia dell’Apostolo delle Genti ?
In quest’articolo illustriamo la ‘Parusìa’ così come é stata affrontata nella Prima Lettera ai cristiani di Tessalonica.
Consideriamo ora il contesto nel quale é maturata la decisione di Paolo di scrivere questa epistola.

**************************************************
Seguendo la narrazione lucana degli Atti degli Apostoli, Paolo, intorno al 49 EV, intraprende un secondo viaggio missionario che lo conduce non tanto a fondare nuove comunità cristiane nell’Asia Minore, quanto a consolidare, sul piano della fede, quelle già esistenti.
Proprio a Listra conosce un giovane nel quale riporrà tutte le sue speranze nell’attività evangelizzatrice. Il suo nome é Timoteo, tra l’altro figlio di padre greco e di madre giudea. Non sappiamo se Timoteo, prima della conversione al Cristianesimo, sia stato un pagano oppure un timorato di Dio. E’ certo che non era circonciso. Inconveniente presso i Giudei di quel posto, del cui superamento provvede lo stesso Paolo ( At. 16,3 ).
Raggiunta la città di Troade, Paolo beneficia di una visione soprannaturale durante una notte : “…..gli stava davanti un macedone e lo supplicava : ‘Passa in Macedonia e aiutaci !’” ( At. 16,9 ). L’Apostolo si convince che -dietro quest’apparizione così insolita- ci sia un ordine divino. Dopo esser partito da Troade, con Sila e Timoteo, raggiunge Neapolis e, da qui, Filippi, citata negli Atti come “colonia romana e città del primo distretto di Macedonia” ( At. 16,12 ) , divenendo il primo centro urbano d’Europa a conoscere il Vangelo.
Dopo la conversione di Lidia, una donna benestante che simpatizza per la religione giudaica (“credente in Dio”, At. 16,14), subisce una disavventura ma senza tragiche conseguenze.
Per aver guarito una donna posseduta da uno “spirito di divinazione” (At. 16,16), si trova al centro di un conflitto di interessi che gli fa, assieme a Sila, assaggiare i rigori delle percosse e del carcere, ma per breve tempo ( At. 16,19-40 ).
Una volta liberati, Paolo e Sila si dirigono a Tessalonica, seguendo la via di Anfipoli e di Apollonia (At. 17,1). Questa città, fondata ( nel 315 prima EV ) dal generale macedone Cassandro in onore della moglie Thessalonike, sorella di Alessandro il Grande, é situata sulla punta nord del Golfo Termico. Durante l’occupazione turca prende il nome di Salonicco, per poi riassumere quello originario nel 1937.
Tessalonica é la capitale della provincia romana di Macedonia, ricchissimo centro commerciale, tanto da divenire cosmopolita, solcata dalla Via Egnatia che la congiunge a Roma attraverso Durazzo. Non vi può mancare in essa una fiorente colonia ebraica.
Paolo, come sua consuetudine, inizia a predicare nelle sinagoghe di questa città, per tre sabati consecutivi ( At. 17,2 ), cercando di dimostrare che Gesù é il Messìa e che é risorto. Sebbene alcuni suoi connazionali, assieme ad alcuni Greci proseliti oppure timorati di Dio, si convertano alla nuova fede, la sua attività suscita un’opposizione così violenta, in modo tale che il Nostro decide di abbandonare la città e rifugiarsi a Berea, dove il frutto delle conversioni risulta essere copioso, perfino presso gli Ebrei di questo luogo ( At. 17,10-12 ).
I Giudei di Tessalonica non demordono dal perseguitare Paolo. Accecati dall’invidia e da uno spirito di competizione, cercano di aizzargli contro il popolino di Berea, mostrandolo come un sovvertitore della tranquillità pubblica e come un sedizioso ( At. 17,7 ).
Per tutelare meglio l’incolumità dell’Apostolo, i neoconvertiti di Berea lo convincono a lasciare la città, mentre vi restano Sila e Timoteo. Paolo si dirige ad Atene e di lì a Corinto, permanendovi circa un anno e mezzo ( At. 18,11) .

*****************************************************
L’ Apostolo si sente onorato di aver fondato la Chiesa di Tessalonica ( più o meno intorno al 50 EV ), per le maggiori soddisfazioni che, in termini di conversioni e accrescimento nella fede, i neofiti gli hanno offerto. E di questo ringrazia Dio ( 1Tess. 1,1-3 ). I fedeli aumentano in numero e qualità, “in virtù di parola, ma anche di prodigi, di Spirito Santo e di abbondante forza di persuasione” ( 1 Tess. 1,5 ). Una comunità-modello ( 1 Tess. 1,7 ), per intenderci, nata nell’arco di un breve periodo e senza riservare le più grandi preoccupazioni di carattere dottrinale o pastorale che, invece, l’Apostolo ha dovuto subire in altre circostanze e in altri luoghi.
Ciò non toglie che si tratta di una comunità fortemente discriminata e combattuta, soprattutto dall’esterno. Quale l’avversario principale ? I Giudei ortodossi del posto che non hanno perdonato a Paolo la “defezione” dalla religione mosaica di tanti loro compatrioti e, per giunta, l’adesione al Vangelo di un buon numero di pagani.
Ovviamente sussiste, in questo contesto, un clima di persecuzione. Le autorità civili riescono appena a controllare l’eccitazione delle masse, scongiurando gli effetti perversi di rancori e di polemiche accese, tanto più che il Cristianesimo nascente non incontra ancora l’ostilità degli Imperatori.
Paolo se ne rende conto di ciò trovandosi a Corinto, dove scrive due Lettere a questi fedeli macedoni, ritenuti da lui un modello per gli altri cristiani, proprio nella tribolazione come Gesù e come lo stesso Paolo a causa dell’ostilità dei Giudei (1 Tess. 2,14).
E’ indubitabile la presenza di un orientamento antigiudaico in queste due epistole e nel quale sarà intesa la prospettiva escatologica dell’Apostolo.
Per stornare possibili accuse che potrebbero ravvisarlo come un avventuriero o un soggetto malato di protagonismo, l’Apostolo rivendica, a suo carico, la testimonianza propria di questi credenti che possono attestare come, durante il suo soggiorno a Tessalonica, “non fu di aggravio a nessuno” ( 1 Tess. 2,9 ), lavorando con le proprie mani per l’autosostentamento, comportandosi in modo irreprensibile (1 Tess. 2,10), non volendo ricercare “motivi di gloria dagli uomini” ( 1 Tess. 2,6 ). Soprattutto manifestando amore sincero e disinteressato, paragonabile a quello di una madre per i suoi figli (1Tess. 2,7).
Nella Prima Lettera, tuttavia, sostiene che l’impegno per la propria santificazione personale si deve accompagnare all’astinenza dalla fornicazione e al rifiuto dei costumi pagani connessi ad essa ( 1 Tess. 4, 1-3 ), raccomandando inoltre la promozione ( superflua, occorre dirlo, visti i lodevoli risultati dei cristiani tessalonicesi ) della carità.

La ‘Parusìa’ secondo Paolo
L’Apostolo delle Genti espone il tema del ‘ritorno glorioso di Cristo’, confermando questo dato della tradizione apostolica, indicandolo con il termine greco di ‘parousìa’ che significa ‘presenza’. Anche Platone aveva messo in risalto questa parola per sottolineare la sussistenza di un ideale intelligibile nelle cose sensibili.
Paolo la utilizza, invece, per esprimere la seconda venuta di Gesù, con la quale si conclude la storia umana secondo una concezione lineare prettamente biblica.
“Non é chiara la derivazione del termine, come per molti altri vocaboli del N.T. Si discute se provenga dalle descrizioni degli incontri dei re dei cerimoniali greco-romani o dalla letteratura escatologica giudaica o addirittura dall’una o dall’altra fonte” (1). E’ certo che viene designato per denotare una solenne apparizione di un esercito, di un generale o di un sovrano (2).
Visto il breve soggiorno a Tessalonica, é probabile che Paolo abbia trascurato di approfondire alcune importanti questioni di escatologia cristiana, dal momento che si sente autorizzato, nell’una e nell’altra lettera, a dissipare alcune preoccupazioni sorte tra i neoconvertiti circa il destino dei defunti, compresi i propri cari, tra i quali coloro che hanno creduto in Cristo, soprattutto nel momento della Parusìa, e sulla prossimità o meno di un tale evento.
Per prima cosa Paolo cita i morti con il termine di “dormienti” che, senza alcun dubbio, acquista un valore metaforico. Volendo andare, però, al di là di esso, il Nostro intende la morte non come l’ultima realtà che sopraggiunge nell’esistenza di un individuo, bensì come uno stato di assopimento ( e di sospensione delle funzioni vitali e delle attività connesse ) che dovrà, un giorno, essere superato. E’ facile presentare la ‘resurrezione dei morti’ come un ‘risveglio’ da questo stato. Anche se poi più tardi, Paolo preciserà, nella Prima Lettera ai Corinti, le modalità di quest’evento ( 1 Cor. 15, 35-55 ).
Quindi, non c’é motivo di “rattristarsi” come fanno i pagani senza alcuna speranza ( 1 Tess. 4,13 ). Del resto, é inedita l’idea di un ritorno dall’ aldilà nel mondo ellenistico – romano, se riflettiamo su alcuni versi del poeta latino Catullo (3), vissuto nel I secolo prima EV. :
“Soles occidere et redire possunt / nobis cum semel occidat brevis lux / mors est perpetua una dormiendi” ( Cat. V, 4-6 ).
“I soli possono tramontare o sorgere / per noi una volta tramontata questa breve vita / resta solo il perpetuo sonno della morte”.
Analogamente a Cristo morto e risorto, anche gli altri risorgeranno e saranno riuniti con lui ( 1 Tess. 4,14 ). E nella Parusìa del Signore non ci sarà una precedenza dell’ultima generazione vivente rispetto ai morti. Questo evento sarà caratterizzato da due fasi : prima risorgeranno i morti (Paolo utilizza immagini desunte dalla letteratura apocalittica giudaica con i suoi elementi descrittivi come “voce dell’Arcangelo”, “( segnale del )la tromba di Dio”, 1 Tess. 4,16, ecc.); dopo, i viventi saranno “rapiti insieme a loro nelle nuvole per andare incontro al Signore nell’aria” ( 1 Tess. 4,17 ).
Occorre fare una precisazione su quest’ultimo punto. “L’essere rapiti insieme a loro per andare incontro al Signore nell’aria” non racchiude una notizia circa le modalità relative al processo della trasformazione del vivente durante la seconda venuta di Gesù. Ma non possiamo fare una concessione ai bultmanniani insistendo troppo sul lato dell’allegorìa o dell’immagine letteraria, per poi rigettare questo evento solo perché l’Apostolo ha espresso un dato, come questo, in una concezione cosmologica vigente presso gli Ebrei contemporanei. La stessa vaghezza, come sembra indicare la frase, sembrerebbe suggerire un effetto di fantasìa. Risulta chiara questa convinzione di Paolo : nel momento della Parusìa l’ultima generazione umana non vivrà più la stessa vita quotidiana di tutti i giorni, ma sarà trasfigurata nella gloria del Signore. Del resto, Gesù é risorto ed é “asceso” al cielo. Se questo é avvenuto per il Nuovo Adamo, perché non deve avvenire anche ( e analogamente ) per gli altri uomini ? “Andare incontro al Signore nell’aria” significa avere un corpo dotato di perfezioni che potenziano le facoltà da esso possedute, vincono la stessa forza di gravità o, quanto meno, la tendenza dei corpi gravi verso il basso ( convinzione quasi unanime a quel tempo ), o come Dante definisce -nel suo Paradiso canto I- il “trasumanar”, cioé andare oltre l’umano, trovandosi nel Cielo della Luna con il proprio corpo, senza sapere né come né quando.
“Questo infatti vi diciamo sulla parola del Signore : noi, i viventi che potremmo essere rilasciati per la Parusìa del Signore…..” ( 1 Tess. 4,15 ).
Questo versetto può essere, giustamente, ritenuto la “croce degli interpreti”.
Consideriamo l’espressione “sulla parola del Signore”. Il Nostro non dice nulla di suo, ma si rifà alla tradizione degli Apostoli e, quindi a monte, all’insegnamento di Gesù. Non si tratta né di una opinione personale, tantomeno di una rivelazione comunicata a lui direttamente dal Redentore medesimo.
Al riguardo, una chiave esegetica mira a considerare in modo separato, nel versetto 15, i “viventi” dal termine “parusìa” ( manifestazione del Signore ), rendendo possibile questa parafrasi : “noi che viviamo attualmente non saremo separati dai nostri defunti alla venuta del Signore”. Tale posizione, sostenuta dal biblista Francesco Spadafora, si basa sulla presunta impossibilità della costruzione del verbo “perileipomenoi” ( superstiti ) con “eis” ( in ). Ma si scontra ugualmente con il testo che oppone i superstiti ai morti. E non trova il sostegno da parte dei Padri della Chiesa di lingua greca (4).
Un’altra interpretazione, quella di Giovanni Rinaldi, ritiene che Paolo non fa altro che riportare il punto di vista degli interroganti, dicendo : “quelli che voi chiamate i superstiti, non precederanno i vostri morti”, correggendo un errore circolante tra i credenti di Tessalonica circa una diversa sorte e dei morti e dell’ultima generazione umana (5). Ma non riusciamo a condividere una tale opinione.
Ci può essere una lettura –da parte escatologista- che attualizza questo brano, inducendo a ritenere che Paolo raccomandi il massimo di vigilanza per il carattere improvviso dell’evento della Parusìa, estremizzando la figura retorica dell’énallage (6), quasi come se parlasse a noi, generazione del Duemila, e si sentisse parte di questa stessa generazione, in un’iperbolica affermazione. Non che questo modo di interpretare sia sbagliato o alquanto debole. Tutt’altro. Ma può risultare riduttivo, forzato, deresponsabilizzante e anche pericoloso se fatto proprio dagli sprovveduti.
Un’altra lettura, invece, si potrà dare da parte di chi ironizza proprio su questa comunanza di destino di Paolo, nella sua esistenza storica, e della generazione vivente al momento della Parusìa, per sconfessare questo dato rivelato (non c’é e non ci sarà Parusìa perché Paolo é morto, nonostante la fede “ingenua” da lui ostentata in questo avvenimento), e come sono morti i destinatari di questa Prima Lettera, i quali si sono identificati con l’ultima generazione umana.
L’Apostolo non é incorso nell’errore riguardo alla prossimità o meno della fine della storia. Altrimenti, verrebbe compromesso il carattere ispirato di questa epistola. E l’ispirazione non può essere mai compatibile con la presenza di tenaci ed ineliminabili contraddizioni logiche . E’ fuorviante sostenere che Paolo abbia creduto, nella prima missiva, nell’imminenza della Parusìa e poi, nella seconda, l’abbia confutata ( o minimizzata ) apertamente. Se si legge con attenzione la 1 Tess. 5, 1-3, si evince bene il carattere dell’incertezza del momento della seconda venuta di Gesù (7) :
“Riguardo poi ai tempi e ai momenti precisi non avete bisogno che vi si scriva. Voi stessi infatti sapete molto bene che il giorno del Signore viene come un ladro di notte. Quando diranno ‘pace e sicurezza’ ( Ger.6,14 ), proprio allora improvvisa sopravverrà la catastrofe, come i dolori del parto a una donna gravida, e non potranno sfuggire” ( 1 Tess. 5, 1-3 ).
Come dire tutto. Paolo ignora perfettamente quando avverrà questo fatidico giorno. Domani o tra un milione di anni !? Raccomanda caldamente ai suoi fedeli di non restare impreparati, perché quel giorno si manifesterà come “un ladro di notte” ( 1 Tess. 5,3 ), sottolineando la caratteristica dell’improvvisazione e dell’imprevedibilità della Parusìa.
Inoltre, il versetto 10 del cap. 5 sembra suggerire il presentimento dell’Apostolo di non essere più tra i viventi alla fine della storia :
“….affinché sia che vigiliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui” ( 1 Tess. 5,10 ).
Il brano 1 Tess. 5, 1-4 richiama implicitamente i detti escatologici di Gesù riportati dalla tradizione sinottica ( si cfr., per esempio, Mt. 24,8.36-43.50; Mc. 13,1-37; Lc. 21,5-36 ), ricorrenti anche in altri scritti neotestamentari ( come At. 1,7; 2 Pt. 3,10; Ap. 3,10 ).
Paolo si convince di aver lasciato nel vago delle sue affermazioni circa l’imprevedibilità della circostanza della Parusìa. Ciò spiega la necessità di scrivere una seconda missiva, nell’arco di pochi mesi, non tanto per affrontare tensioni e polemiche sorte nella Chiesa di Tessalonica, quanto per neutralizzare la possibilità di equivoci e di malintesi sul tempo di questa seconda venuta di Gesù, derivanti da una lettura troppo precipitosa della prima lettera.
L’Apostolo capisce che, spinto dall’entusiasmo, ha troppo insistito su quel “noi” come comunanza di destino, sottintendendo il suo più semplice desiderio di essere riunito, ancora in carne ed ossa, al suo Signore.
La consapevolezza del carattere improvviso della seconda venuta di Gesù deve comportare, di conseguenza, la ‘vigilanza’ come si conviene ai “figli della luce e figli del giorno” ( 1 Tess. 5,5 ), perché “il giorno del Signore viene come un ladro di notte” ( 1 Tess. 5,2 ). L’invito ad essere sobri non vuol intendersi solo nel senso della moderazione nell’uso dell’alcool e nel cibo, ma piuttosto nel senso del retto cammino sulla via della santità, “indossando la corazza della fede e della carità, ( avendo come ) elmo la speranza della salvezza” ( 1 Tess. 5,8 ).
Nella Prima Lettera ai Tessalonicesi Paolo rivolge i suoi ultimi appelli circa i doveri di promozione della carità fraterna e della misericordia spirituale ( 1 Tess. 5, 14-15 ), ma con una precisa discriminazione nei confronti degli “indisciplinati” ( letteralmente “i fuori ordinanza” ), vale a dire quei credenti che, ritenendo imminente la ‘parusìa’ e illudendosi di trovarsi in uno stato di purezza e di santità, manifestano disobbedienza e ingratitudine ai superiori che si sacrificano per correggere, presiedere e fortificare nella fede la stessa comunità, pretendendo di essere mantenuti a spese degli altri fratelli, gettando discredito su questi ultimi all’esterno. Un anticipo di quelle che saranno le degenerazioni dei successivi orientamenti quietistici.
“Non vogliate spegnere lo Spirito; non disprezzate le profezie. Esaminate tutto; ritenete ciò che é bene. Guardatevi da ogni apparenza di male” ( 1 Tess. 5, 19-22 ).
Anche i ‘carismi’ servono all’edificazione della Chiesa e, pertanto, vanno promossi e, soprattutto, esaminati per discernere quello che é un genuino dono di Dio da una contraffazione di Satana (8) o, semplicemente, da una autosuggestione di origine puramente naturale. Tra questi doni é indispensabile quello della ‘profezìa’ per discernere i segni dei tempi. Ma anche l’intelligenza dello Spirito nell’esaminare le predizioni dell’A.T. per poter verificare il riscontro del contenuto da essi riportato con la realtà contemporanea all’Apostolo.
Nell’epilogo del primo scritto, Paolo invoca la benevolenza di Dio sui fedeli di Tessalonica affinché, al momento della ‘Parusìa’, l’essere di ciascuno di loro (spirito, anima e corpo) sia trovato integro, vale a dire puro e ordinato, davanti al cospetto del Cristo solenne.
Paolo espone le nozioni dell’antropologìa giudaica che insiste sull’unità psicofisica dell’individuo umano, utilizzando termini greci come ‘pneuma’, ‘psiché’, ‘soma’. Non offre per niente uno spaccato della concezione metafisica dell’uomo di tipo aristotelico, nel sostenere spirito, anima e corpo come due-tre principi sostanziali, o del tipo platonico come di due ( o più ) sostanze unite accidentalmente.
‘Pnéuma’ é anche il termine con il quale si intende sia la ‘ruah Jahveh’, ovvero lo Spirito Santo come principio di vita nuova del redento, sia la parte più alta e più profonda della mente umana che si apre all’influsso dello Spirito.

**************************************************
Il tema della ‘Parusìa’ é schiettamente biblico, le cui radici si ravvisano già nell’Antico Testamento.
Una escatologia allo stato germinale è già delineata negli scritti profetici ( i ‘Nebiim’ ), dove si evince la drammaticità della lotta tra il bene e il male nel mondo e nel cosmo fino alla fine dei tempi.
Comprimari di questa lotta sono Jahveh, da un lato, e le forze che lo avversano, dall’altro. Israele -con il suo drammatico rapporto con le nazioni- ne é il teatro. Il peccato ( in ebraico ‘awon’ ) é la causa del ‘giudizio di Dio’, dell’intervento equilibratore dell’Altissimo che punisce l’empio, ma anche purificatore.
Israele si é lasciato prostituire dal culto di altre divinità, compromettendo l’originaria alleanza con Jahveh, permettendo l’adozione di schemi mentali, appartenenti ad altri popoli, nel vivere e comunicare la propria fede. A questo cedimento idolatrico ne é seguito un rilassamento dei costumi, una morale individualista che alimenta l’ingiustizia nei rapporti umani.
Con i profeti Ezechiele e Zaccarìa si dilata la prospettiva dell’azione divina su tutto l’universo. La stessa figura del ‘nabi’ beneficia di rivelazioni che avvengono per mezzo di ‘visioni’ riguardanti lo svolgimento degli eventi e le entità soprannaturali che vi entreranno in gioco. Soprattutto con Daniele si può dire che prende avvìo il genere della ‘letteratura apocalittica’ con tutto il suo corredo di rappresentazioni plastiche, dove vengono illustrati i tempi e i luoghi della desolazione, le catastrofi cosmiche, un intervento diretto degli angeli e di altre potenze intermedie tra Dio e l’uomo.
Cominciano ad assumere un rilievo sempre crescente le tematiche del ‘giorno del Signore’ (denominato anche “giorno dell’ira”, “gran giorno”, si cfr. “…..prima che venga il giorno del Signore grande e terribile”, Gl. 3,4, ecc.; espressioni che non perderanno la loro forza incisiva e la loro efficacia neanche nei discorsi escatologici di Gesù e in tutta la letteratura neotestamentaria), del ‘Regno di Dio’ ( si cfr. Zac. 14, 7 : “sarà un unico giorno, il Signore lo conosce…”, oppure Zac. 14,9 : “Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome” ) e del ‘Messìa’ che ne sarà il titolare ( Dn 2,28, ma si tratta di un dato attestato anche dalla letteratura sapienziale : Sal. 72; Sal. 110, ecc. ). Certo, ogni giorno appartiene al Signore; ma quando si parla del ‘giorno del Signore’ si intende la ‘manifestazione finale e solenne di Jahveh’, la sua ultima teofanìa con la quale si conclude la lunghissima vicenda umana.
Questo genere apocalittico interessa buona parte degli scritti giudaici del periodo intertestamentario e il Nuovo Testamento cristiano.

Publié dans:Lettera ai Tessalonicesi - prima |on 27 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

1 TESSALONICESI 4,13-18

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Tessalonicesi%204,13-18

1 TESSALONICESI 4,13-18

Fratelli, 13 non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. 14 Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui.
15 Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti.
16 Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; 17 quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nubi, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore.
18 Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.

COMMENTO
1 Tessalonicesi 4,13-18
I morti e i vivi alla venuta del Signore
La prima parte della prima lettera ai Tessalonicesi (cc. 1-3) conteneva un lungo ringraziamento a ondate successive. La seconda invece (cc. 4-5) contiene una serie di raccomandazioni con le quali l’apostolo risponde a richieste specifiche dei tessalonicesi o affronta problemi che gli erano stati segnalati dai suoi collaboratori. Ne testo liturgico è riportata la terza esortazione di Paolo, nella quale egli dà una risposta a un problema specifico della comunità, quello della sorte di coloro che sono morti prima del ritorno del Signore.
Il problema a cui Paolo risponde non è noto, ma i suoi termini si colgono abbastanza bene dalle sue parole, lette nel contesto della tematica da lui affrontata nel corso della lettera. Egli aveva annunziato l’imminente ritorno di Gesù come giudice escatologico (cfr. 1Ts 1,10): per i tessalonicesi era quindi spontaneo pensare che sarebbero stati esonerati dall’esperienza della morte per entrare direttamente nel suo regno glorioso. Ora invece il ritorno del Signore non si era ancora attuato mentre alcuni membri della comunità erano morti.
Ciò aveva determinato un certo malessere: che fine avevano fatto i loro fratelli defunti? Sarebbero stati esclusi per sempre dalla salvezza? Si potrebbe pensare che questo disagio nascesse dal fatto che l’apostolo non aveva ancora detto nulla circa la risurrezione finale dei credenti; siccome ciò è improbabile, potrebbe darsi che i dubbi dei tessalonicesi derivassero dalla difficoltà, tipica del mondo greco, di capire e di accettare la dottrina della risurrezione finale dei morti (cfr. 1Cor 15,35). Comunque le prime morti verificatesi dopo l’evangelizzazione di Tessalonica suscitavano un doloroso problema a cui Paolo non poteva non rispondere. Anzi, forse era questa la causa principale che lo aveva determinato a scrivere la sua prima lettera.
Come risposta ai dubbi espressi dai tessalonicesi, Paolo chiarisce il suo insegnamento circa il destino dei defunti. Egli intende dissipare le incertezze derivanti dal fatto che essi «ignorano» (agnoein) la sorte di coloro che dormono (koimômenoi) nel sonno della morte, affinché non si affliggano come gli «altri», cioè i non credenti, i quali «non hanno speranza» (v. 13). La speranza, di cui ha già parlato all’inizio in connessione con la fede e l’amore (cfr. 1,3) è la virtù che permette al credente di attendere l’intervento risolutivo di Dio in questo mondo e di passare indenne attraverso le tribolazioni della vita.
Per dare fondamento alla speranza vacillante dei tessalonicesi Paolo richiama anzitutto l’evento su cui si fonda la loro fede: «Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato» (v. 14a). È questo il centro della professione di fede che aveva ricordato all’inizio come sintesi di ciò che i tessalonicesi stessi avevano divulgato circa il suo insegnamento nella loro città (cfr. 1,10). Da questo principio egli ricava direttamente una conseguenza: i fratelli che si sono addormentati (koimêthentes) nel sonno della morte, Dio «li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui» (v. 14b): Gesù è la «primizia» (cfr. 1Cor 15,20), e la sua risurrezione non ha senso se non comporta anche la risurrezione di coloro che credono in lui. La frase può essere letta, senza cambiamento di senso, in questo modo: «…così Dio riunirà con lui anche quanti si sono addormentati in Gesù».
A questo punto, rifacendosi a una «parola del Signore», che egli ricava non da una rivelazione privata ma dalla tradizione evangelica (cfr. Mc 13 e par.) Paolo fa una dichiarazione di principio: «Noi che viviamo, che saremo lasciati in vita fino al momento della venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio (phthanô, precedere) su quelli che sono morti» (v. 15). Alla sua seconda venuta il Signore troverà alcune persone ancora in vita, ma questo fatto non rappresenterà per loro un privilegio. Paolo convalida poi questa affermazione con una descrizione di ciò che avverrà alla fine: allora «il Signore stesso, a un ordine (keleusma), alla voce (phônê) dell’arcangelo e al suono della tromba (salpinx) di Dio, discenderà dal cielo». (v. 16a). Queste immagini erano note nel mondo culturale giudaico dell’epoca di Paolo: non è infatti difficile trovare mescolate nell’apocalittica giudaica e cristiana allusioni al comando di Dio, alla voce dell’arcangelo (Ap 5,2; 7,2), al suono della tromba (cfr. Es 19,13.16.19; Ap 1,10; 4,1 ecc.) e alla venuta del Figlio dell’uomo (cfr. Dn 7,13).
Quando avrà luogo la venuta del Signore, risorgeranno per primi «i morti in Cristo» (v. 16), cioè i defunti che, avendo creduto in Cristo durante la loro vita, sono diventati partecipi anche della sua morte (cfr. Rm 6,4): la morte del credente non è semplicemente un evento biologico, ma il momento della piena assimilazione a colui che è morto per noi. Dopo di ciò anche «noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore» (v. 17). È significativo che l’apostolo, designando coloro che saranno ancora in vita al momento della seconda venuta del Signore con la prima persona plurale (cfr. v. 15), annovera tra essi anche se stesso: egli è dunque convinto che la fine del mondo avrà luogo nel corso della sua generazione. Egli immagina il termine della vita terrena per coloro che saranno in vita alla venuta del Signore alla luce dei “rapimenti in cielo” di cui si parla nel giudaismo per esempio a proposito di Elia (cfr. 2Re 2,11; 1Mac 2,58) e di Enoc (Sir 49,14). Questo rapimento avrà lo scopo di rendere possibile l’incontro con il Signore. La salvezza raggiungerà il suo culmine quando tutti i giusti saranno ammessi alla piena comunione con lui e con il Padre. Per questo Paolo conclude: «Confortatevi (parakaleite) dunque a vicenda con queste parole» (v. 18). All’afflizione iniziale, determinata dalla mancanza di speranza, subentra la consolazione della fede.

Linee interpretative
L’attesa della seconda venuta del Signore occupava un posto importante nella predicazione di Paolo. Sullo sfondo della mentalità e della cultura biblica e giudaica egli situava l’attuazione del piano divino, che già agli inizi aveva manifestato tutte le sue potenzialità, nel momento finale e decisivo della storia umana. Questo momento era già arrivato con la persona di Gesù, ma la sua morte precoce aveva impedito la piena instaurazione del regno di Dio. Questo problema poteva essere risolto unicamente vedendo nella persona di Gesù, e specialmente nella sua morte e risurrezione, una semplice inaugurazione del Regno e proiettando in un momento futuro la piena attuazione del progetto di Dio. Era quindi naturale aspettare una seconda venuta del Messia, Gesù, non più nell’umiltà dell’esperienza umana ma nella gloria di Dio.
La mentalità apocalittica predominante al tempo della chiesa primitiva ha inserito nell’attesa del momento finale della storia una connotazione di imminenza. I tempi erano difficili ed era diffusa nella popolazione l’attesa di un evento risolutivo che avrebbe liberato il popolo eletto dal giogo dei gentili alleviato le sue molteplici sofferenze. Non deve dunque stupire il fatto che anche Paolo, come tutta la prima generazione cristiana, di fronte al fallimento del progetto di Gesù, abbia fatto leva non solo sul motivo del suo ritorno, ma anche su quello di una vicinanza temporale di questo evento. Solo verso la fine del I sec. i cristiani si sarebbero resi conto, spinti dai fatti, che il ritorno di Gesù non era così imminente. Il movimento di Gesù ha dimostrato di essere sufficientemente fondato da poter sussistere anche quando questa credenza si è dimostrata inconsistente. Questa poi con l’andar del tempo si è dimostrata più che altro come un’immagine per indicare il governo di Dio che guida il mondo a fini di salvezza e non di distruzione.
Nel contesto di attese apocalittiche prese in un senso eccessivamente letterale si capiscono le preoccupazioni dei tessalonicesi per i loro fratelli defunti. Come risposta alle loro domande Paolo è costretto a ridurre l’importanza dell’evento finale e a presentarlo come il coronamento di una salvezza che già si attua nella vita e nella morte dei credenti. Egli ha potuto valorizzare così il tempo dell’attesa, dando spazio alla ricerca della santità, all’amore fraterno e alla fondazione di nuove comunità. Esortando poi i credenti a vivere con il lavoro delle proprie mani egli ha dato importanza all’impegno per migliorare il mondo in cui viviamo, mostrando che nulla meno si addice a una visione cristiana del mondo di una vita oziosa

Publié dans:Lettera ai Tessalonicesi - prima |on 19 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

“VI SIETE CONVERTITI AL DIO VIVO E VERO”

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124978

“VI SIETE CONVERTITI AL DIO VIVO E VERO”

La comunità di Tessalonica appare con evidenza come espressione di una Chiesa missionaria. Propone anche a noi di esserlo. In particolare quei cristiani si rivolgono a voi giovani e vi incitano ad essere una presenza missionaria tra i vostri coetanei. Diceva Giovanni Paolo II: “Non è tempo di vergognarsi del Vangelo; è tempo di predicarlo sui tetti”.
Saluto cordialmente tutti voi giovani. I vari momenti in cui si snoda la nostra Veglia hanno una denominazione comune: la conversione al Dio vivo e vero. Nell’anno dedicato all’apostolo Paolo il primo momento è stato dedicato proprio a lui, a Paolo, e al suo incontro con il Dio vivo e vero. Avvenne sulla strada di Damasco quando gli si manifestò Gesù risorto e vivo. Incontrando lui, egli fu intimamente trasformato dall’Amore divino (cfr. Messaggio del Papa). E così, da persecutore, divenne testimone e missionario.

Paolo scrive ai cristiani di Tessalonica
Ora siamo al secondo momento della nostra Veglia. È dedicato a una comunità di persone che, attraverso la predicazione dell’apostolo Paolo, si sono convertite al Dio vivo e vero. A loro, che vivevano nelle città di Tessalonica, l’apostolo Paolo invia una sua lettera: la prima in assoluto del suo epistolario. La invia insieme con due suoi stretti collaboratori: Silvano e Timoteo. Silvano era un uomo eminente della comunità di Gerusalemme e Paolo l’aveva scelto perché lo accompagnasse nel suo secondo viaggio missionario, quello che lo ha portato non solo nelle regioni dell’Asia Minore, ma in Europa (cfr At 15-40). Timoteo venne conosciuto da Paolo nella prima parte di questo secondo viaggio. Lo incontrò andando a Derbe e Listra. Là c’era un discepolo chiamato Timoteo “figlio di una donna giudea e di padre greco. Egli era assai stimato dai fratelli di Listra e Iconio. Paolo volle che partisse con lui” (At 16,1-2).
La comunità a cui è destinata la lettera è quella che è nata nella città di Tessalonica, capitale della provincia di Macedonia. Una città di prim’ordine. Dal punto di vista religioso vi si adoravano le divinità più svariate: culti locali, religione ufficiale romana, religioni misteriche provenienti dall’Egitto e dall’Asia Minore. C’era pure una sinagoga, con una consistente comunità. I giudei godevano di piena libertà religiosa. Proprio nella sinagoga Paolo andò, per tre sabati, a predicare (cfr At 17,2-3). Ci furono delle conversioni. I missionari vennero anche ospitati in casa di un certo Giasone, che pure si era convertito a Gesù, predicato da Paolo. “Ma i Giudei, ingelositi, mettevano in subbuglio la città”. Andarono nella casa di Giasone, cercando Paolo e Silvano. Non li trovarono. Condussero dai capi Giasone e altri fratelli della nuova comunità. Perciò “subito, durante la notte, i fratelli fecero partire Paolo e Silvano verso Berea” (At 17,5-10), a circa 75 km, da dove pure Paolo dovrà fuggire perché i Giudei di Tessalonica avevano mandato anche là delle spie (cfr At 17,13-15). Paolo era preoccupato per la comunità di Tessalonica: egli era rimasto troppo brevemente fra loro. Non aveva avuto il tempo di far approfondire la fede. Per di più erano perseguitati. Desiderava tornare (cfr 1 Ts 2,17-18). Ma gli era impossibile. Pensò allora di inviare il suo collaboratore Timoteo. Quando fu di ritorno, portò anche i dubbi sorti in quella comunità su alcuni punti della fede che avrebbero richiesto ulteriori chiarimenti. Perciò Paolo decide di scrivere una lettera. Nella veglia di questa sera ne è stata proclamata la prima pagina (cfr 1 Ts 1,1-10). C’è un passaggio, in questo brano, a cui vorrei dare particolare evidenza. Si trova verso la fine. È un elogio nei confronti dei cristiani di Tessalonica.
Eccolo:
“Sono loro (gli abitanti di Macedonia e di Acaia) a parlare di noi,
dicendo come noi siamo venuti in mezzo a voi
e come vi siete convertiti a Dio,
allontanandovi dagli idoli,
per servire il Dio vivo e vero” (v. 9).
Dinanzi a questo passo mi pongo alcune domande: donde questa conversione e chi ne è il soggetto? Che cosa significa, in concreto, convertirsi? Che cosa qualifica in modo originale e profondo l’esistenza cristiana?

“Fratelli amati da Dio, eletti da lui”
Alla prima domanda Paolo ci risponde che la conversione è un dono. Scrive infatti: “Noi ben sappiamo, fratelli amati da Dio, che siete stati eletti da lui”.
Non dice solo “fratelli” (un termine frequente in Paolo e che dice un rapporto di affetto dell’apostolo con le sue comunità). Il vocativo prende particolare rilievo perché aggiunge: “Amati dal Signore”. Paolo vuol far comprendere ai cristiani di Tessalonica che, se sono diventati cristiani, lo devono all’amore del Signore che li ha scelti. Essi hanno ricevuto da lui una “vocazione” (cfr 1 Cor 1,26ss). Questa grazia precede sia l’opera dell’apostolo sia la loro risposta.
Se il primo soggetto è Dio, ve ne sono altri due: i “collaboratori di Dio” che sono Paolo, Silvano e Timoteo; e poi i Tessalonicesi stessi perché da loro è stata espressa la decisione personale di accogliere l’annuncio e di fare il passo della fede, senza dimenticare che Dio agisce con la sua grazia in chi annuncia: “Il nostro Vangelo, infatti, non si è diffuso tra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo” (v. 5).
Protagonista della vita cristiana rimane dunque il Signore. E anche la risposta dei Tessalonicesi, mentre include la loro decisione personale, è accompagnata e sostenuta dalla forza di Dio ed è vissuta “con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione” (v. 6). E non è ancora tutto: la grazia che ha condotto i Tessalonicesi ad accogliere il Vangelo diventa grazia che conduce i Tessalonicesi a diventare, a loro volta, “segno” per gli altri: “Infatti la parola del Signore riecheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell’Acaia, ma la vostra fede si è diffusa dappertutto” (v. 8).

“Vi siete convertiti”
Alla seconda domanda circa il significato concreto del convertirsi, Paolo risponde: “Vi siete convertiti a Dio, abbandonate gli idoli, per servire il Dio vivo e vero” (v. 9). Accogliendo l’annuncio del Vangelo e compiendo il passo della fede “non si è fatto soltanto un cambio passando da uno dei tanti dèi a un altro. È cosa diversa ciò che è avvenuto: si è passati da ciò che è vano a ciò che è realtà, da ciò che è nulla all’unico Dio vivo e vero, rivelato pienamente nella persona di Gesù e nella sua missione (cfr H. Schlier, L’apostolo e la sua comunità, p. 32).
Chi si converte al Dio vivo e vero, riconoscendolo come l’unico Dio e il centro della sua esistenza, cerca ogni giorno di vivere come piace al Signore. come scriverà Paolo ai cristiani di Roma: “Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi (cioè la vostra esistenza stessa) come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Lo stesso Paolo, all’inizio della lettera ai Romani dirà di se stesso: “Paolo, servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1).
Ecco dunque in che cosa consiste la conversione: comprende una “adesione” nei confronti di Dio; comprende un “distacco” nei confronti degli idoli; e comprende la decisione di amare e servire Dio con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutto se stessi.

Fede, carità, speranza
Quanto alla terza domanda relativa a ciò che qualifica in modo originale e profondo l’intera esistenza cristiana, trovo la risposta di Paolo all’inizio della pagina che stiamo meditando, là dove dice il suo “grazie” dinanzi a Dio nella preghiera. Scrive: “Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere, continuamente memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo”.
Con questo triplice riferimento Paolo riassume, già nella prima pagina della sua prima lettera, l’esistenza cristiana. Come scrive l’autore già citato, “sono i doni dello Spirito Santo e accettandoli, conservandoli, dandone prova, il cristiano si rivela cristiano”. Che cos’è “l’impegno nella fede”? Paolo “intende dire che la fede dei Tessalonicesi è diventata efficace annuncio di fede. è la loro fede «missionaria»”. Che cos’è “l’operosità nella carità”? Paolo “non allude solo alla fatica di coloro che nella comunità hanno incarichi particolari”, ma anche allo spirito di servizio di tutti i membri della comunità”. Che cos’è “la costante speranza”? “È quella che contraddistingue la condizione cristiana della fede, e precisamente la «speranza nel nostro Signore Gesù Cristo”. Questa speranza genera la capacità di affrontare con fermezza le tribolazioni (in particolare, la persecuzione)”. Poiché nella comunità di Tessalonica “fede, amore, speranza sono vivi nel senso che hanno dato frutto nell’opera della predicazione”, Paolo ha motivo di far salire all’orecchio di Dio, nella preghiera il suo ringraziamento (cfr. Schlier, p. 25).

Meditatio
a) Di fronte a una Chiesa missionaria
La comunità di Tessalonica appare con evidenza come espressione di una Chiesa missionaria. Propone anche a noi di esserlo. In particolare quei cristiani (e anzitutto Paolo, Silvano e Timoteo) si rivolgono a voi giovani e vi incitano ad essere una presenza missionaria tra i vostri coetanei. Diceva Giovanni Paolo II: “Non è tempo di vergognarsi del Vangelo; è tempo di predicarlo sui tetti”. Questa veglia è un invito che attende la risposta.
b) Di fronte a una Chiesa che vive in una città moderna
La condizione concreta dei cristiani di Tessalonica appare molto moderna: multiculturale e multi religiosa. Non era certamente facile diventare cristiani, né rimanere fedeli al Signore. Doveva affrontare anche la persecuzione. Quei cristiani si rivolgono a voi giovani per dirvi di non avere paura degli ostacoli che trovate sulla strada del cammino della fede; nemmeno di qualche forma di persecuzione. E vi ricordano un segreto molto importante, già indicato da Gesù ai suoi discepoli: “Riceverete forza dallo Spirito Santo e sarete testimoni di me fino ai confini del mondo”. Vita di preghiera, ascolto della Parola di Dio, partecipazione ai Sacramenti: ecco dove si attinge luce e forza per essere credenti nel secolo XXI, anche da parte di voi giovani. Questa veglia è un invito a verificare se poggiamo la nostra vita personale e quella dei nostri gruppi di adolescenti e giovani sulla potenza dello Spirito Santo o semplicemente sulle forze umane.
c) Di fronte a una Chiesa che mette Dio al primo posto
Gli idoli c’erano già allora e ci sono anche oggi. Sono quelle realtà che pretendono di occupare nella nostra vita il posto di Dio. L’apostolo Paolo vuole trasmettere a noi quel che ha cercato di trasmettere ai Tessalonicesi. Era qualcosa che partiva dal profondo. Come ha detto Benedetto XVI, “ciò che lo motivava nel più profondo era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore”. Ha scritto ai Galati: “Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). “Tutto ciò che Paolo fa – nota ancora il Papa –, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza di essere amato da Gesù Cristo in modo del tutto personale: è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come risorto, lo ama tuttora”. Egli è colpito “dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fino nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria. È l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così, questa fede è amore per Gesù Cristo” (Omilia del 28 giugno 2008). È questo amore di Gesù e per Gesù quello che libera il campo della nostra vita dall’invasione distruttiva degli idoli, quelli antichi e quelli di oggi.
Questa veglia è tempo nel quale chiedere, per ciascuno di noi, di conoscere l’amore di Cristo ed è tempo per rispondere al Signore Gesù Cristo dal profondo del nostro cuore. Signore, sii tu il primo e l’ultimo, l’alfa e l’omega, la gioia del mio cuore, la luce della mia anima, la via, la verità, la vita.

(Teologo Borèl) Aprile 2009 – autore: mons. Renato Corti

Publié dans:Lettera ai Tessalonicesi - prima |on 24 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

RAPITO IN ESTASI DALLA TERRA AL CIELO – 1Tess

http://web.tiscali.it/pulchritudo/page174/page211/page211.html

RAPITO IN ESTASI DALLA TERRA AL CIELO – 1Tess

Siamo nell’anno 51. San Paolo è a Corinto. Alle spalle ha il ricordo delle settimane trascorse a Tessalonica, capitale della Macedonia, dell’accoglienza festosa dei pagani, della dura reazione degli Ebrei là residenti, della sommossa da loro ordita e della fuga a cui è stato costretto, il discepolo Timoteo gli reca ora notizie della neonata Chiesa tessalonicese e delle sue prime incertezze. Paolo decide, allora, di inviare un messaggio a quella comunità, «da leggersi a tutti i fratelli»: è la prima Lettera ai Tessalonicesi, il primo scritto paolino a noi giunto, quasi certamente il primo testo del Nuovo Testamento.

Proponiamo ora questa Lettera anche perché ben s’adatta al clima dell’Avvento che sta iniziando. Serpeggia, infatti, nelle pagine di quest’opera una specie di brivido d’attesa: la Chiesa di quella città sentiva come imminente la nuova e definitiva venuta del Signore per suggellare la storia. L’Apostolo cerca di contrastare questa tensione eccessiva che, come si vedrà, svaluta l’impegno nel presente e, usando un’immagine introdotta da Gesù, elimina ogni tentazione di avere oroscopi sulla fine del mondo: «Il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte» (5,2).

È, certo, necessaria la vigilanza e la veglia, senza però fanatismi e ossessioni perché «Dio non ci ha destinati all’ira ma a ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (5,9). Anzi, contro l’eccitazione di coloro che si dimettono dalle responsabilità quotidiane per decollare idealmente verso quell’alba eterna di luce, Paolo raccomanda come «punto d’onore quello di vivere in pace, di attendere ai propri impegni, di lavorare con le proprie mani così da condurre una vita dignitosa di fronte agli estranei e da non aver bisogno di nessuno» (4,11-12).

Tuttavia anche l’Apostolo vuole gettare uno sguardo su quell’orizzonte atteso ma ignoto, forse per non sembrare troppo evasivo. Egli cerca, però, di risolvere solo un quesito secondario avanzato dai cristiani di Tessalonica: nell’istante supremo, coloro che saranno ancora in vita alla seconda venuta del Cristo quale sorte avranno? Ecco la risposta paolina intrisa del linguaggio simbolico apocalittico, linguaggio che abbiamo già imparato a conoscere a suo tempo leggendo il libro dell’Apocalisse: «I morti in Cristo risorgeranno. Poi, noi ancor vivi e superstiti, saremo rapiti insieme con loro nella morte per andare incontro al Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore» (4,16-17).

Scenari cosmici, dunque, per un passaggio indolore dal tempo all’eterno, dallo spazio terreno all’infinito celeste. Una visione che l’Apostolo nella prima Lettera ai Corinzi in qualche modo varierà, introducendo la necessità di una metamorfosi radicale anche dei viventi in quel transito estremo: «Non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati» (15,51). La risposta di Paolo, a quanto pare, non basterà a calmare i Tessalonicesi. Ci sarà una seconda Lettera a loro indirizzata, più tesa e di più ardua lettura, segno comunque di un cristianesimo che non si perde e disperde nelle pieghe della storia, ma che neppure migra verso i cieli mitici e mistici dell’alienazione religiosa.

PAPA BENEDETTO: OMELIA PRIMI VESPRI DELLA I DOMENICA DI AVVENTO 2008 (anno A, credo)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2008/documents/hf_ben-xvi_hom_20081129_vespri-avvento_it.html

CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI DELLA I  DOMENICA DI AVVENTO

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana Sabato, 29 novembre 2008 (anno A, credo) 

Cari fratelli e sorelle!

Con questa liturgia vespertina, iniziamo l’itinerario di un nuovo anno liturgico, entrando nel primo dei tempi che lo compongono: l’Avvento. Nella lettura biblica che abbiamo appena ascoltato, tratta dalla Prima Lettera ai Tessalonicesi, l’apostolo Paolo usa proprio questa parola: « venuta », che in greco è « parusia » e in latino « adventus » (1 Ts 5,23). Secondo la comune traduzione di questo testo, Paolo esorta i cristiani di Tessalonica a conservarsi irreprensibili « per la venuta » del Signore. Ma nel testo originale si legge « nella venuta » (e? t? pa???s?a), quasi che l’avvento del Signore fosse, più che un punto futuro del tempo, un luogo spirituale in cui camminare già nel presente, durante l’attesa, e dentro il quale appunto essere custoditi perfettamente in ogni dimensione personale. In effetti, è proprio questo che noi viviamo nella liturgia: celebrando i tempi liturgici, attualizziamo il mistero – in questo caso la venuta del Signore – in modo tale da potere, per così dire, « camminare in essa » verso la sua piena realizzazione, alla fine dei tempi, ma attingendone già la virtù santificatrice, dal momento che i tempi ultimi sono già iniziati con la morte e risurrezione di Cristo. La parola che riassume questo particolare stato, in cui si attende qualcosa che deve manifestarsi, ma che al tempo stesso si intravede e si pregusta, è « speranza ». L’Avvento è per eccellenza la stagione spirituale della speranza, e in esso la Chiesa intera è chiamata a diventare speranza, per se stessa e per il mondo. Tutto l’organismo spirituale del Corpo mistico assume, per così dire, il « colore » della speranza. Tutto il popolo di Dio si rimette in cammino attratto da questo mistero: che il nostro Dio è « il Dio che viene » e ci chiama ad andargli incontro. In che modo? Anzitutto in quella forma universale della speranza e dell’attesa che è la preghiera, che trova la sua espressione eminente nei Salmi, parole umane in cui Dio stesso ha posto e pone continuamente sulle labbra e nei cuori dei credenti l’invocazione della sua venuta. Soffermiamoci perciò qualche istante sui due Salmi che abbiamo pregato poco fa e che sono consecutivi anche nel Libro biblico: il 141 e il 142, secondo la numerazione ebraica. « Signore, a te grido, accorri in mio aiuto; / ascolta la mia voce quando t’invoco. / Come incenso salga a te la mia preghiera, / le mie mani alzate come sacrificio della sera » (Sal 141,1-2). Così inizia il primo salmo dei primi Vespri della prima settimana del Salterio: parole che all’inizio dell’Avvento acquistano un nuovo « colore », perché lo Spirito Santo le fa risuonare in noi sempre nuovamente, nella Chiesa in cammino tra tempo di Dio e tempi degli uomini. « Signore … accorri in mio aiuto » (v. 1). E’ il grido di una persona che si sente in grave pericolo, ma è anche il grido della Chiesa fra le molteplici insidie che la circondano, che minacciano la sua santità, quell’integrità irreprensibile di cui parla l’apostolo Paolo, che deve invece essere conservata per la venuta del Signore. E in questa invocazione risuona anche il grido di tutti i giusti, di tutti coloro che vogliono resistere al male, alle seduzioni di un benessere iniquo, di piaceri offensivi della dignità umana e della condizione dei poveri. All’inizio dell’Avvento la liturgia della Chiesa fa proprio nuovamente questo grido, e lo innalza a Dio « come incenso » (v. 2). L’offerta vespertina dell’incenso è infatti simbolo della preghiera, dell’effusione dei cuori rivolti al Dio, all’Altissimo, come pure « le mani alzate come sacrificio della sera » (v. 2). Nella Chiesa non si offrono più sacrifici materiali, come avveniva anche nel tempio di Gerusalemme, ma si eleva l’offerta spirituale della preghiera, in unione a quella di Gesù Cristo, che è al tempo stesso Sacrificio e Sacerdote della nuova ed eterna Alleanza. Nel grido del Corpo mistico, riconosciamo la voce stessa del Capo: il Figlio di Dio che ha preso su di sé le nostre prove e le nostre tentazioni, per donarci la grazia della sua vittoria. Questa identificazione di Cristo con il Salmista è particolarmente evidente nel secondo Salmo (142). Qui, ogni parola, ogni invocazione fa pensare a Gesù nella passione, in particolare alla sua preghiera al Padre nel Getsemani. Nella sua prima venuta, con l’incarnazione, il Figlio di Dio ha voluto condividere pienamente la nostra condizione umana. Naturalmente non ha condiviso il peccato, ma per la nostra salvezza ne ha patito tutte le conseguenze. Pregando il Salmo 142, la Chiesa rivive ogni volta la grazia di questa com-passione, di questa « venuta » del Figlio di Dio nell’angoscia umana fino a toccarne il fondo. Il grido di speranza dell’Avvento esprime allora, fin dall’inizio e nel modo più forte, tutta la gravità del nostro stato, il nostro estremo bisogno di salvezza. Come dire: noi aspettiamo il Signore non alla stregua di una bella decorazione su un mondo già salvo, ma come unica via di liberazione da un pericolo mortale. E noi sappiamo che Lui stesso, il Liberatore, ha dovuto patire e morire per farci uscire da questa prigione (cfr v. 8). Insomma, questi due Salmi ci mettono al riparo da qualsiasi tentazione di evasione e di fuga dalla realtà; ci preservano da una falsa speranza, che forse vorrebbe entrare nell’Avvento e andare verso il Natale dimenticando la drammaticità della nostra esistenza personale e collettiva. In effetti, una speranza affidabile, non ingannevole, non può che essere una speranza « pasquale », come ci ricorda ogni sabato sera il cantico della Lettera ai Filippesi, con il quale lodiamo Cristo incarnato, crocifisso, risorto e Signore universale. A Lui volgiamo lo sguardo e il cuore, in unione spirituale con la Vergine Maria, Nostra Signora dell’Avvento. Mettiamo la nostra mano nella sua ed entriamo con gioia in questo nuovo tempo di grazia che Dio regala alla sua Chiesa, per il bene dell’intera umanità. Come Maria e con il suo materno aiuto, rendiamoci docili all’azione dello Spirito Santo, perché il Dio della pace ci santifichi pienamente, e la Chiesa diventi segno e strumento di speranza per tutti gli uomini. Amen! 

« UNA BUONA SPERANZA » – (È UN’ALTRA OMELIA MA QUASI TUTTA SU PAOLO)

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/32-Domenica-2013_C/32-Domenica-2013_C-MP.html

10 NOVEMBRE 2013  |  32A DOMENICA – T. ORDINARIO C  | OMELIA DI APPROFONDIMENTO               

(è una seconda omelia, ma praticamente quasi tutta sulla lettera di San Paolo)

« UNA BUONA SPERANZA »

S. Paolo, nella lettura di oggi, non fa cenno alla risurrezione (l’aveva fatto nella lettera scritta in precedenza alla stessa comunità [1 Ts 4,18] e ne parlerà in seguito di proposito e con insistenza); ma quella espressione « una buona speranza » può ben avviare le nostre riflessioni sul tema della risurrezione, che è centrale nella 1ª lettura e nel Vangelo. Del resto è lo stesso Paolo che, nella prima lettera ai Tessalonicesi ora menzionata, compiange i pagani, i quali non credono nella risurrezione, come quelli « che non hanno speranza » (1 Ts 4,13).

Una sicura certezza
Solo una convinzione ben ferma, una fede che non ammette esitazioni e dubbi, poteva indurre i tre fratelli Maccabei (qui non si riferisce il comportamento, altrettanto eroico, degli altri quattro e della madre), sottoposti alle torture più atroci, a resistere fino alla fine motivando così il rifiuto di « trasgredire le patrie leggi ». Dice il secondo dei fratelli: « Il re del mondo… ci risusciterà a vita nuova ed eterna ». Il terzo: « Da Dio ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, ma da lui spero di riaverle di nuovo ». Anche il quarto attende « da Dio l’adempimento delle speranze di essere da lui di nuovo risuscitato ». È questo che importa sottolineare. Se poi qualcuno giudica effetto di fanatismo lasciarsi uccidere piuttosto che « cibarsi di carni suine proibite », non potrà non ammirare l’eroismo di questi pii Ebrei che vedevano in ciò un segno di fedeltà al vero Dio a cui non intendevano assolutamente venir meno.
Ma, ritornando al tema della risurrezione, abbiamo la risposta perentoria di Gesù ai sadducei che la negavano. Il caso che gli presentarono può sembrare strano, anche se non era alieno dalle usanze del tempo porre ai rabbini quesiti di tal genere. Quanto a noi, possiamo rallegrarci che l’abbiano fatto, offrendo così al Maestro l’occasione di darci un insegnamento prezioso. Noi risorgeremo. « Il Signore è fedele », ci assicura s. Paolo, e manterrà la parola con cui ce l’ha promesso, nei passi letti ora e tante altre volte, specialmente nel Nuovo Testamento. Come Abramo, Isacco e Giacobbe, morti da tanti secoli, vivono per Dio in quanto egli si è proclamato loro Dio per sempre perché essi sono vissuti per lui, così anche noi siamo chiamati a vivere per sempre grazie alla potenza e alla fedeltà di Dio, a vivere per lui e con lui, se saremo vissuti nella fede e nell’amore per lui.
La Chiesa non si stanca di richiamarci la verità fondamentale della vita che ci attende dopo la morte e della risurrezione. Ci invita a professare questa fede nella conclusione del Credo: « Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà ». Ascoltiamo il richiamo del Concilio: « In faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo. Non solo si affligge, l’uomo, al pensiero dell’avvicinarsi del dolore e della dissoluzione del corpo, ma anche, ed anzi più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre. Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte… la Chiesa, istruita dalla rivelazione divina, afferma che l’uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini della miseria terrena. Inoltre la morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, insegna la fede cristiana che sarà vinta, quando l’uomo sarà restituito allo stato perduto per il peccato, dall’onnipotenza e dalla misericordia del Salvatore. Dio infatti ha chiamato e chiama l’uomo a stringersi a lui con tutta intera la sua natura in una comunione perpetua con l’incorruttibile vita divina. Questa vittoria l’ha conquistata il Cristo risorgendo alla vita, dopo aver liberato l’uomo dalla morte mediante la sua morte » (Gaudium et spes, 18).

« Come risuscitano i morti? »
È s. Paolo che pone questa domanda in bocca a un ipotetico interlocutore, dopo aver con forza riaffermato la risurrezione di Cristo e la nostra risurrezione. Risponde tentando qualche spiegazione, ma non per soddisfare una curiosità fuor di posto, poiché quello che annunzia è un « mistero » (1 Cor 15,35-51). Non aspettiamo nemmeno da Gesù una risposta che ci faccia comprendere tutto il mistero. Il quesito-tranello dei sadducei non si regge in piedi, perché « quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio ».
La vita dei risorti non la possiamo immaginare; è una vita vera, la più vera, ma trasformata, come quella di Gesù risorto: vita di figli di Dio; con Dio che vedremo « faccia a faccia », che ameremo, e ameremo in lui tutti i suoi figli e nostri fratelli, nel godimento d’una felicità che non ha paragone con tutti i godimenti che ci può offrire la vita su questa terra.

Consolazione, conforto, speranza
Il passo che abbiamo ascoltato della seconda lettera ai Tessalonicesi comincia con un riconoscimento della bontà di Dio per noi: « Lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza », e continua con un augurio: « Conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene ». Anche se qui l’apostolo non si riferisce alla risurrezione, nella luce di questo mistero ciò ch’egli dice acquista un particolare significato d’incoraggiamento e di esortazione; Gesù Cristo nostro Signore e Dio Padre nostro (« Io e il Padre siamo una cosa sola » [Gv 10,30]) ci amano e ci ameranno sempre: la morte non potrà spezzare il vincolo di cui Dio ha detto per bocca di Geremia: « Ti ho amato di amore eterno » (Ger 31,3); la « consolazione » che egli « ci ha dato, per sua grazia », dono immeritato e del tutto gratuito, è « eterna » e fonda in noi « una buona speranza », sulla quale possiamo contare, certi che non sarà delusa. Di qui l’augurio che è anche preghiera: « Conforti i vostri cuori », che nell’amore di Gesù Cristo e di Dio Padre troveranno sempre consolazione e incoraggiamento, « e li confermi », dandovi la forza necessaria per parlare e operare da cristiani. Paolo ha « fiducia nel Signore » che così sarà, e conclude questo brano ancora con un augurio che riprende ed esplicita quanto ha già detto: « Il Signore diriga i vostri cuori nell’amore di Dio », di quel Dio che è padre e che vi ama immensamente più del più tenero fra i padri, « e nella pazienza di Cristo ».
Perché come per Cristo la nuova vita di risorto è stata preparata dalle sofferenze e dall’umiliazione della morte, così noi dobbiamo accettare di soffrire con lui e morire al peccato. Scriverà più tardi Paolo: « Se siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione… Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui… Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri; non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi, tornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio » (Rm 6,5-13). Il sacrificio della Messa, memoriale della morte e risurrezione del Signore, ci confermi in questa certezza, ravvivi la nostra speranza!

Da: PELLEGRINO M., Servire la Parola, Anno C,

12345...10

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01