La preghiera di chi si fida : (Col 2, 6-12
dal sito:
http://www.terrasantalibera.org/PREGHIERA%20E%20RESPIRO.htm
Preghiera e respiro
Stefano Maria Chiari
15/09/2007
La preghiera di chi si fida : (Col 2, 6-12)
«Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie.
Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.
E’ in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà.
In lui voi siete stati anche circoncisi, di una circoncisione però non fatta da mano di uomo, mediante la spogliazione del nostro corpo di carne, ma della vera circoncisione di Cristo.
Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti». (Col 2, 6-12)
La preghiera è il respiro dell’anima; come accade per il corpo, chi volesse vivere senza ossigeno, privandosi di un elemento principe nella dinamica delle funzioni fisiologiche dell’essere umano, resterebbe prima o poi privo di vita, così anche nel mondo dello spirito, colui che decida deliberatamente o per pigrizia o inerzia di prescindere dall’orazione finirebbe col giacere morto.
La ragione fondamentale di questo inevitabile esito risiede nella medesima struttura esistenziale dell’uomo; esso non possedendo alcun fondamento ontologico in se stesso, procede da Dio, nell’ordine dell’esistenza e delle sue finalità.
L’armonia tripartita (ma unitaria) della natura umana – costituita, come insegna San Paolo, da corpo, anima e spirito – implica necessariamente un equilibrio gerarchico delle sue parti costitutive: all’anima (psychè) deve soggiacere il corpo e la prima allo spirito (pneuma); a sua volta, quest’ultimo (nephesh) – creato per comunicare (vivendolo partecipativamente) con lo stesso Spirito di Dio nell’uomo (Rouah) – da Lui dipende totalmente, attingendo gioia piena, potenza di vita e di immortalità.
La preghiera si colloca proprio in quest’ottica comunicativa di effusione del cuore nel Cuore di Dio, subordinando il nulla del proprio essere al tutto infinito dell’Essere.
Lo stato originale di innocenza contemplava questa piena assonanza esistenziale: Dio e l’uomo in colloqui frequenti ed intimi, la natura umana, sovrana e signora dell’intero creato, capace di porre il nome agli animali, libera dalle pastoie del dolore e della morte e dal vincolo inesorabile di un servigio estremo, quello del ritorno alla terra, della polvere del proprio niente, chiaro segno del perduto dominio sugli elementi materiali della creazione.
L’uomo pecca e la corruzione del male commesso, rompendo l’armonia gerarchica menzionata, fraziona l’interiorità della persona (discorsività del pensiero, incapacità di concentrazione, dissonanze cognitive, illusioni legate alla errata percezione della propria corporeità) e proietta nel mondo sensibile la radice dell’essere stesso (la vita dello spirito), la quale, priva della sua unica Sorgente eterna ed infinita (Dio stesso), finisce con lo scagliare la sua ragion d’essere fuori del luogo ad essa deputato (la vita trinitaria), per restare assorbito e legato inesorabilmente al disfacimento progressivo della parte che di sé appartenga al transeunte.
L’uomo è ormai completamente servo del mondo creato (che invece era chiamato a dominare nell’amore), della materia nella quale egli si ingabbia sempre di più; peccato chiama peccato e il male paga con il male; ne ricava una vita precaria e una morte certa.
La corporeità cambia radicalmente il proprio modo di essere: da tempio vivo dello Spirito divino, diviene semplicemente «carne», che non mantiene la propria esistenza se non nell’ordine naturale (materiale).
In questo senso San Paolo parla di essa e della necessità di una sua mortificazione, ossia del bisogno estremo che le tendenze mortifere, che con sé medesima rechi, vengano uccise, purificate e sublimate nella divinizzazione che procede dallo Spirito Santo.
«Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l’ira di Dio su coloro che disobbediscono.
Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi.
Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca.
Non mentitevi gli uni gli altri.
Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore.
Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti». (Col 3, 5-11).
Il combattimento contro la carne è dunque reviviscenza per il corpo; l’ascesi di mortificazione, tuttavia, non ha senso se non nella misura in cui implichi anche un’esperienza mistica attiva (alla quale tutti sono chiamati e mistica che non dipende da se stessi o dai meriti personali, ma essenzialmente dalla propria collaborazione all’iniziativa dello Spirito divino), un’apertura del cuore all’azione di Dio, che ci renda capaci di ricevere la vita divina e di vivere del Logos eterno del Padre; in altri termini che ci apra all’ascolto autentico della Parola e ci faccia atti alla ricezione trasformante della persona.
Per questo alle pratiche dell’ascesi deve essere associata quella dell’orazione.
La preghiera ed il sacrificio devono sempre agire congiuntamente, sotto la guida dello Spirito del Padre che predispone all’accoglienza, alla purificazione ed alla santificazione.
I diversi elementi dell’ascesi (digiuni, astinenze, veglia, continenza, elemosina, lavoro, ossia fatica fisica e dedizione corporale) devono procedere simultaneamente ed essere coronati e corroborati dall’interno da un’intensa vita di preghiera.
L’ascesi verte e riguarda l’essere intero: l’uomo, decaduto in tutte le sue facoltà, deve rialzarsi integralmente, mediante l’applicazione di ogni sua potenza unita all’azione dello Spirito di Dio.
Questo ritrovato equilibrio, in Cristo Signore ed in virtù dell’effusione del suo sangue, comporta e genera una profonda pace interiore: l’uomo che prega e si sacrifica, mortificando se stesso, con l’aiuto della grazia, diviene dimora stabile dell’Altissimo, imperturbabile.
Ora, si vede bene quale sia la necessità di una vita d’orazione: la preghiera è il mezzo principe per instaurare nuovamente un rapporto con Dio.
Questa possibilità esiste solo perché è Dio, che per primo cerca tale rapporto.
Se non fosse così a nulla varrebbero tutti gli sforzi dell’umano potere.
In quest’ottica dobbiamo collocare le esperienze «mistiche» delle religioni orientali, legate al compimento di pratiche ascetiche ed ancora nell’ambito di tale visione dobbiamo leggere le differenze profonde tra preghiera e meditazione yoga, per esempio.
L’iniziativa di Dio è il sigillo della preghiera cristiana, che resterebbe altrimenti sempre arenata all’insufficienza di mezzo inadeguato per accedere al Mistero.
Che dire, dunque, di una possibile fisiologia della preghiera?
Che ruolo può o deve avere il corpo nel percorso ascetico dello spirito in Dio?
Che utilità vi può essere nell’utilizzo di posizioni fisiche o di specifici esercizi respiratori?
Riteniamo che sia sempre valido un principio aureo di Sant’Ignazio di Loyola: avvalersi di tutto quel che sia utile per unirci di più a Dio, prescindere da tutto quel che allontana o divide da Lui.
E’ chiaro che anche universalizzare un metodo rischia di essere restrittivo per la sensibilità spirituale di ognuno.
Procediamo per gradi.
In primis, dobbiamo rilevare un’evidenza: è certo che i portamenti, le posizioni ed i movimenti del corpo possano favorire, o addirittura provocare, stati psichici, come è anche vero che ogni attività mentale comporti ripercussioni somatiche; il corpo, in modo sensibile o impercettibile o perfino involontario, partecipa ad ogni moto dell’anima, di qualunque natura esso sia (sentimentale, intellettivo o spirituale).
E’ altresì verissimo che uno stato timico a volte possa essere quasi localizzato organicamente: un particolare stato umorale può esercitare una specifica attrazione ed influenza su certe parti dell’organismo più che su altre.
Solo il pensiero errante e discorsivo – necessariamente non legato ad una individuabile vena timica e solitamente determinato dal meccanismo complesso delle associazioni d’idee autogene, e/o delle impressioni ricevute dall’ambiente esteriore e/o delle onde subcoscienti messe in moto a caso dalla meditazione – difficilmente è in grado di trovare una propria collocazione fisica «residenziale». Tanto assertiamo per mostrare come indubbiamente la preghiera abbia una influenza notevole anche sul corpo e non soltanto sullo spirito.
Conosce bene questo, chi, abbandonato ad un tempo di preghiera, al terminare la stessa, si ritrovi con un nuovo insospettato senso di benessere, di pace e di vigore, che, seppur passando per lo spirito, ha notevoli ripercussioni anche sul corpo; come è anche semplice sperimentare come uno stato fisico di trambusto (arrivare di corsa in chiesa, per esempio) non deponga a favore di una calma concentrazione, certamente utile al momento orante.
Come dunque potersi avvalere del corpo per pregare con maggiore efficacia?
Uno dei modi può essere proprio quello di controllare il respiro, calmandolo nel suo vagabondo errare.
Il consiglio che chi scrive si sente di dare non concerne l’acquisizione di una specifica tecnica o l’utilizzo si procedure tramandate dalla tradizione esicasta, ma quello di un prudente ascolto dei messaggi del corpo.
La posizione di chi si dedichi alla preghiera prolungata deve essere necessariamente quella che riesca a conseguire il migliore stato di concentrazione per l’orante; il respiro scandito, ma non forzato (1) ritmicamente aiuta da un lato a fissare il pensiero, a canalizzarlo, come sosteneva Evagrio, verso il centro d’attenzione prefissato, e dall’altro, a sedare l’eventuale nervosismo, anche latente, che possa disturbare l’avvenimento dell’incontro.
Occorre preliminarmente sapere che questo è il momento, il tempo sacro, preziosissimo, in cui l’uomo creatura si deve trovare con il suo Creatore, per essere pienamente se stesso.
Non esiste istante di maggior valore di quello in cui la persona «si perda» nelle Persone.
Per questo è assolutamente indispensabile, come recita la divina liturgia greco-cattolica di San Giovanni Crisostomo, «deporre ogni mondana preoccupazione».
L’orazione deve procedere mentalmente da uno spirito libero e da un cuore arreso del tutto al Pensiero divino.
Qualunque turbamento, di qualsiasi natura, quand’anche fosse lecito, deve sciogliersi come cera al fuoco dello Spirito dimorante nel cuore.
Presupposto di tale atteggiamento intimo è la consapevolezza brillante e rassicurante di sperare tutto da Dio ed in Dio, affidando tutto e confidando per tutto.
Del resto la stessa coroncina della Divina Misericordia di santa Faustina vede il suo culmine in questa medesima fiducia filiale: «Gesù, confido in te».
Il corpo seguirà l’anima in questo percorso di totale rasserenamento; il battito cardiaco decelererà, il respiro diverrà regolare, una sensazione di benessere e di rilassatezza pian piano prenderanno possesso dell’orante; ma tutti questi segni restano sempre nella sfera dell’accidente.
Una preghiera efficace può anche nascere nelle corsie di un letto d’ospedale, nell’offerta silenziosa di un cuore fiducioso, che palpita all’interno di un corpo lacerato o martoriato dal dolore.
Elemento essenziale infatti non è tanto la tecnica che si abbia deliberato di adottare (o che lo Spirito abbia suggerito) per rendere più viva la Presenza, quanto la necessità impellente che tale preghiera «divenga respiro»; per usare una sorta di gioco di parole, il respiro può essere utile alla preghiera, ma soprattutto la preghiera che deve essere respirata.
In questo si torna forse allusivamente a certa prassi della fisiologia orante, ma da cui tranquillamente possiamo prescindere: la preghiera deve divenire stato abituale dell’uomo, comunque costui riesca a realizzare tale evento.
Quindi torniamo all’essenziale: primo, assenza di preoccupazioni o di distrazioni; offerta di quel che c’è dentro di noi.
Gesù dice di dare in elemosina quel che v’è dentro e tutto sarà puro.
Quindi effusione del cuore davanti al Signore (come recitano alcuni salmi), cioè fiducia estrema e totale nella bontà infinita ed imperscrutabile dell’eccellenza divina.
Secondo: fede forte, irremovibile, piena consapevolezza di essere alla presenza di Dio, che stabilmente dimora nell’anima in grazia; o che si occulta nelle Specie Eucaristiche.
Stare presenti a se stesso, per dimorare alla Presenza, sapendo che Dio prescinde dalla mia poca o molta capacità e che Lui è in grado di fare tutto.
Piena certezza della parola di Cristo: «Rimanete in me ed io in voi», «siete tempio dello Spirito Santo»; «il Padre lo amerà e noi verremo a lui»; «il regno di Dio è dentro di voi» ecc., sapere che Dio non mente; l’anima che lo cerca ed è in grazia (confessata e senza peccato grave) vive di Dio, anche nella incoscienza di questo persistere «dentro».
Fede nella permanenza di Cristo, che va adorato nel cuore (come dice San Pietro) e che prega in noi, come capo, per noi, come sacerdote ed è pregato da noi come Dio (come meravigliosamente sintetizza Sant’Agostino).
Terzo: fede di essere esauditi, secondo il compimento della sua volontà.
Abbandono alla volontà divina e piena certezza che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio»; quindi, pregare, sapendo che il Padre mai rifiuta cose buone e lo Spirito Santo, all’anima perseverante, umile e colma di amore.
Pregare, sapendo che se si chiede bene e come si conviene, si ottiene sempre il meglio per sé e per gli altri, anche quando questo non corrisponda al nostro volere.
Quarto: umiltà! Essa deve costituire sigillo interiore della preghiera e manifestazione esteriore di solennità sacra; riconoscimento dell’infinita maestà sovrana di Dio, di fronte alla quale l’adorazione del corpo e dello spirito deve essere sentita come ineluttabilmente obbligatoria.
Il timore di Dio, questo amore adorante e tremante dell’uomo che si scopre nudo, senza grazia, incapace di ottenere alcunché, se non gli viene concesso dalla mano amorosissima dell’Altissimo, deve percorrere come un onda tutto l’essere ed impregnare di sé la coscienza.
Per questo ben si colloca, in quest’ottica, un’invocazione di carattere penitenziale, che chieda misericordia a Dio, per l’iniquità di cui si è profondamente impastati e che rende immensamente indegni di chiamare a sé il Santo.
Dall’umiltà discende senza equivoci il bisogno di essere convertito.
Recidere la complicità con il male, nell’intimo di una orazione penitente e di una supplica continua e colma di speranza, può essere il farmaco più dolce per il peccatore incallito che voglia, però, redimersi (e tutti siamo peccatori, nessuno si chiami fuori).
Ma come può questa preghiera così praticata divenire abitudine dell’anima, perenne presenza dello Spirito Santo nel cuore?
Come può l’uomo pregare sempre, per beneficiare della potenza e della dolcezza e della misericordia infinita del Santo dei santi?
Forzando, per quanto possibile e con serenità, la volontà a compiere una preghiera attenta; non tralasciando mai questo momento sacro, esclusivamente dedicato a Dio; richiamando alla memoria, incessantemente, come sottofondo musicale che accompagni in ogni dove ed in ogni tempo, il Divino che ci circonda, in cui viviamo e ci muoviamo; saper scorgere dietro ogni circostanza o apparenza della vita la mano divina della Provvidenza.
L’esperienza della preghiera come respiro diviene allora quasi un simbolo: come l’aria non può non avvolgere e contenere la persona, così la luce santificante e la grazia divinizzante dello Spirito non può non voler possedere un’anima; Dio, nella sua libertà infinita, vuole certamente, ma l’uomo deve consentire questo lasciarsi possedere; deve aprirsi seriamente al mistero che lo trascende, sapendo scorgere sempre un segno dell’amore che Dio ha per lui.
Non esisterà mai una tecnica che obblighi Dio a donarsi; soltanto l’amore è in grado di «costringere l’Eterno».
La preghiera diviene respiro quando lo sguardo si volge con frequenza al Cuore di chi dimora nel cuore; chi ama, non fatica a pensare alla persona amata; anzi il pensiero sorge in lui spontaneo; quasi riesce a percepirne l’odore e a carpirne lo sguardo.
Così, chi trova Cristo, sa incrociare i suoi occhi, oltre il visibile percorso dell’esistenza, nella certezza di sentirsi amato, voluto, protetto e benedetto.
Le giaculatorie possono essere di aiuto in tal senso; ponti attraverso i quali giungere al faccia a faccia nelle tenebre (per usare un’espressione ripresa da Beata Elisabetta della Trinità) in un istante, un momento, un attimo.
Altro mezzo può essere quello di un’attenzione parallela che ci consenta di vivere ad un tempo in qualunque luogo o accadimento, però assaporando intimamente (senza che ciò significhi sentire sensibilmente, ma soltanto prenderne coscienza) la dolcezza estrema del soffiare di Dio nell’anima.
Tutto questo premesso, non possiamo che evincere la seguente verità: «la preghiera nasce in un atto di fede che ci mette a confronto con l’Increato, il Dio personale e vivente: essa non dipende da alcun artificio e non può essere conquistata nè con l’astuzia nè con la violenza; è libero dono di sè, da una parte e l’altra. Il corpo non è dunque un organo produttore, ma un criterio oggettivo; ciò che si esige da esso, come pure dal pensiero discorsivo, è il silenzio ed il ritorno all’unità; è attivo, ma non creatore: è, come tutto nell’uomo, una terra fertile in attesa del seme; parte integrante dell’uomo totale, anche esso porterà i suoi frutti di santità, poichè è chiamato alla trasfigurazione, alla resurrezione e alla vita eterna» (2).
In questo netta è, pertanto, la differenza che intercorre tra un autentico atteggiamento orante e la pratica di un esercizio yoga.
«Nello yoga indiano, il fine dell’asceta è l’annullamento totale della propria individualità in Icvara, se si accetta la versione teista delle tecniche yogiche, e nella vacuità (vuoto), secondo la versione buddhista.
L’asceta, nella fase detta di samadhi (= unione), tende a passare dalla samadhi detta con sostegno a quella senza sostegno. E, mentre nella prima ha fissato il pensiero in un punto dello spazio o in un’idea (concentrazione in un solo punto, ekagratà), nella seconda deve annullare ogni precedente stadio di pensiero.
Ancora più esplicitamente, nello yoga buddhistico, quale è esposto nei testi del Dìghanikaya, il monaco, attraverso i quattro ultimi stadi di coscienza (samapatti), deve raggiungere la ‘regione della non-esistenza’, cioè una condizione che è totale soppressione di ogni presenza meditante e conoscitiva (…) lo yoga tende alla soppressione mentale e fisica del meditante, e, nelle sue forme tibetane, all’abolizione progressiva di tutte le figure divine, come forme ingannevoli della conoscenza (una sorta, cioè, di fagocitazione mentale degli dèi, come inutili schermi fra il meditante e la realtà» (3).
Nella preghiera cristiana, l’uomo deve riconoscere la propria creaturalità sia in relazione alla propria assoluta dipendenza da Dio (che, quindi, non è in grado di raggiungere da sè) sia come oggettivo riconoscimento del fatto che, pur peccatore, per superare il suo stato di decadenza, non deve rinnegare il proprio essere (quindi annullare se stesso), ma ottenere la divinizzazione di quel che è, per grazia e misericordia.
In appendice, un’ultima considerazione.
Esistono parole verbali, che debbano di preferenza utilizzarsi nella preghiera?
Ad una domanda simile, rispose Gesù.
Cosa insegnò?
Monte degli Ulivi, Gerusalemme, una delle decine di tabelle, scritte in tutte le lingue, che si trovano all’interno del chiostro della Chiesa del Pater, attigua alla Grotta del Pater, dove la tradizione vuole che N.S. Gesù Cristo abbia predicato per la seconda volta l’orazione al Padre ai suoi discepoli (nota e foto di www.jerusalem-holy-land.org)
Non sprecare parole, non pensare che la ripetizione cieca di un mantra possa essere di qualche ausilio; ma pregare il Padre, con la più bella preghiera mai scritta o inventata.
Il «Padre nostro» è preghiera eccelsa, contenente in sé tutto quel che si debba chiedere o domandare, nel debito ordine e secondo il divino compiacimento.
Il Pater è preghiera ricchissima, che può terminare anche solo al suo principio: «Padre».
Così pregava Gesù; non serviva altro.
Non posizioni yoga, non particolari respirazioni, non astrusi ragionamenti di canali energetici, in grado di migliorare l’equilibrio interno dell’essere.
Padre!
Così come chiunque può già esaurire e far consistere tutta la propria orazione nel pronunciare semplicemente il nome dolcissimo di Gesù oppure di Maria Santissima.
«Carissimi, non crediate a ogni spirito, ma provate gli spiriti per sapere se sono da Dio; perché molti falsi profeti sono sorti nel mondo. Da questo conoscete lo Spirito di Dio: ogni spirito, il quale riconosce pubblicamente che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce pubblicamente Gesù, non è da Dio, ma è lo spirito dell’anticristo. Voi avete sentito che deve venire; e ora è già nel mondo». (1Giovanni 4:1-6)
Stefano Maria Chiari