Lavorò con uomini e donne « in sinergia »
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Lavorò con uomini e donne « in sinergia »
Articolo di Angelo Colacrai in « Vita pastorale », n. 1/2006, pp. 97-99.
Per far nascere e crescere la Chiesa l’individuo, per quanto dotato, non basta. Sinergia è la parola chiave, inventata da Paolo, per la costruzione delle Chiese. Per la sua missione « a tutto tondo » egli non poteva fare a meno di uomini e donne fidati che trattò – e raccomandò di trattare – come apostoli e non come esecutori di ordini. Una lezione attualissima.
I1 vocabolario specifico sulla collaborazione nella Bibbia (synergeo-synergos), e quindi sulla sinergia, è quasi esclusivo di Paolo. Infatti, di un totale di 22 versetti con queste due parole – un verbo e un aggettivo sostantivato – solo 7 non gli appartengono. La prima volta che synergeo (« lavorare insieme a », « collaborare ») compare, in 2Esdra (o 4Esdra) 7,2, indica che nella ricostruzione del tempio di Gerusalemme ci furono persone ben disposte che « assistevano » i giudei rientrati dall’esilio. Lo stesso verbo è in 1Mac 12,1, che narra come « Gionata, vedendo che il tempo (kairos) opera (synergei) con lui », ne approfitta e sceglie uomini adatti da inviare a Roma per rinnovare l’amicizia con quel popolo. La « collaborazione » è una « occasione sinergetica ».
Similmente, in 2Mac 8,7, synergos (« collaboratore ») è riferito a « notte », ancora quindi a un tempo alleato, questa volta alle incursioni di Giuda contro i suoi nemici greci. Anche in 2Mac 14,5, synergos consiste in una « occasione complice » ma « della follia » di Alcimo, un tale che era stato prima sommo sacerdote e poi si era volontariamente contaminato con l’ellenismo.
Vecchio e Nuovo testamento
Finisce qui la serie di occorrenze di synergeo e di synergos nell’AT. Trattandosi di testi quasi sicuramente prodotti in greco, ci chiediamo se non sia di derivazione greca, e quindi pagana, la stessa idea o metodo della « collaborazione » o « sinergia ». Nel NT però, Mc 16,20 utilizza synergeo nella frase: « Operando insieme con loro il Signore », nel contesto della risurrezione di Gesù e della sua assunzione al cielo con contemporanea missione per gli undici: « Essi partirono e predicarono dappertutto », mentre il Signore confermava « la parola con i prodigi che 1′accompagnavano ». Apostoli e Cristo risorto costituiscono un’associazione in una sinergia continua e non condizionata da spazio e tempo.
Ancora fuori del corpus paulinum, nel NT synergeo compare anche in Gc 2,22: « La fede cooperava con le opere di lui » e « per le opere quella fede divenne perfetta ». San Giacomo porta ai suoi lettori l’esempio di Abramo per mettere in evidenza la tesi più volte ripetuta (2,18.20.26) per la quale senza opere la fede è morta, uccisa da un pietismo individualista quanto insufficiente. In questa nostra interpretazione di Giacomo può aiutarci Paolo che unisce spesso fede e agape, come in Gal 5,6 (cf 1Cor 13,2.13): in Cristo non è la circoncisione ebraica che conta né la libertà derivante dalla sapienza o coscienza greca, ma è « la fede che opera (energoumene) per mezzo della carità ».
L’agape (1 Cor 12,31-13,1-13) poi è il compimento di quel comandamento che, solo, riassume la legge di Dio: « L’amore non fa (ergazetai) nessun male al prossimo: compimento della legge è l’amore » (Rm 13,10). Amore e fede collaborano intimamente. Se non lo fanno, sono destinate a scomparire.
Un’ultima occorrenza di synergos fuori dei testi di Paolo è in 3Gv 1,8, in un invito di chi scrive ad « accogliere tali persone per cooperare alla diffusione della verità ». Ospitare itineranti è partecipare alla diffusione del Vangelo.
Nelle lettere paoline
Seguendo l’ordine tradizionale delle 6 lettere in cui l’apostolo Paolo parla di sinergia, il primo testo che incontriamo è Rm 8,28: « Sappiamo che tutto concorre (synergei) al bene di coloro che amano Dio ». Chi conosce e pratica Dt 6,5 (« Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore ») ha dalla sua parte tutti e tutto, la « collaborazione » di ogni creatura.
Paolo scrive la lettera ai Romani quasi sicuramente da Corinto, dove conobbe Aquila e Priscilla che, profughi da Roma, lo accolsero in casa per farlo lavorare con loro (At 18,2.26). Ora, in Rm 16,3, li chiama « collaboratori (synergous) in Cristo Gesù » ed esprime loro riconoscenza assieme a « tutte le Chiese dei gentili ». Ancora scrivendo ai Corinzi, forse da Efeso, Paolo aggiunge i saluti di Aquila e Priscilla e della Chiesa che si riunisce in casa loro (1Cor 16,19). Anche secondo 2Tm 4,19 Timoteo dovrà trasmettere i saluti di Paolo a questi due coniugi.
Nella lettera ai Romani i nomi propri con cui Paolo si rapporta sono almeno 38. Tra questi ci sono: Giudea, Gerusalemme, Roma, Asia, Acaia, Cencre, Macedonia, Illirico, Spagna, che segnalano i diversi spostamenti dell’apostolo dei gentili (cf Rm 11,13), ma i restanti sono di persone che egli conosce e saluta con gratitudine. L’intera comunità di Roma è invitata a partecipare a un vasto progetto missionario: « Quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e di essere da voi aiutato per recarmi in quella regione, dopo aver goduto un poco della vostra presenza » (Rm 15,24; cf 15,28).
Una domanda che la stessa lettera suscita è allora se Paolo, senza collaboratori, avrebbe potuto compiere la missione affidatagli dal Risorto (cf At 9; At 22 e At 26). In Rm 16,9, ancora chiede di salutargli « Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio caro Stachi ». In 16,21, trasmette invece ai Romani i saluti di « Timòteo mio collaboratore, e con lui Lucio, Giasone, Sosìpatro, miei parenti ». Pensiamo, con E. Randolph Richards, che a Paolo per scrivere, editare, copiare e inviare lettere fossero indispensabili i collaboratori, tanti e ovunque.
Numerose anche le donne
Ancora in Rm Paolo cita anche diverse donne: « Giulia e la sorella di Nereo » (16,15); « Maria, che ha faticato molto per voi » (16,6); « la carissima Pèrside che ha lavorato per il Signore » (16,12); « Trifèna e Trifòsa che hanno lavorato per il Signore » (16,12), vale a dire, per la Chiesa ovunque, come è chiaro nel caso di « Febe, nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cencre » (16,1).
In 1 Cor 3,9, affrontando divisioni dovute a schieramenti per Paolo, o per Apollo o per Cefa, Paolo definisce gli apostoli « collaboratori di Dio ». Descrive quindi la propria missione come collaborazione con Dio, esaltandosi ad esempio del Figlio di Dio, consapevole del valore alto del proprio lavoro, aggiogato com’è a Cristo come in un unico paio di buoi (cf 1 Cor 9,9). Un’ulteriore raccomandazione ai « fratelli » riguarda la famiglia di Stefana, « primizia dell’Acaia », i cui componenti hanno dedicato loro stessi al servizio della Chiesa. Paolo esorta i lettori a essere « deferenti verso di loro e verso quanti collaborano e si affaticano con loro » (1 Cor 16,15-16). La definizione dei collaboratori sembra ora quella di « fratelli » insieme nell’edificazione dell’unità della Chiesa (cf 1Cor 12,2-27).
In 2Cor 1,24, utilizzando il « noi » e non 1- »io », dichiara che « non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia ». Poco dopo, in 2Cor 6,1, ripresenta sé stesso e gli apostoli suoi collaboratori, come « collaboratori » di Dio, per riconciliare, assieme a Cristo, i Corinzi tra loro. Cerca anche, grazie « a Tito, mio compagno e collaboratore presso di voi » (2Cor 8,23), di migliorare i cattivi rapporti con alcuni Corinzi che non lo considerano apostolo. Nello stesso testo Paolo menziona altri « nostri fratelli », « delegati delle Chiese e gloria di Cristo ».
La collaborazione apostolica con Dio e con Tito dovrebbe sfociare in una riconciliazione, superando i conflitti che probabilmente vengono dalla tensione tra giudei e greci, come fa supporre la forte affermazione di 1 Cor 12,13: « In realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito ».
Con i Filippesi, invece, le relazioni sono buone. « Per il momento ho creduto necessario mandarvi Epafrodìto, questo nostro fratello che è anche mio compagno di lavoro e di lotta, vostro inviato per sovvenire alle mie necessità » (Fil 2,25). Epafrodito è un aiutante prezioso, letteralmente un « liturgo » e un « commilitone », forse nel combattimento per la propagazione della fede anche nella casa di Cesare (Fil 4,22), dove Paolo è probabilmente tenuto prigioniero. Anche Fil 4,3 presenta un’ambiguità interessante. Scrive Paolo: « prego te [chi?] pure, mio fedele « collaboratore » [oppure dobbiamo tradurre "Sizigo", un nome di persona che significa "socio; aggiogato allo stesso giogo"?], di aiutarle [Evòdia e Sìntiche], poiché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me, con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita ». I nomi di chi collabora sono scritti nella memoria eterna di Dio.
Anche ai Colossesi recettori della lettera sono indicate varie persone con meriti speciali: « Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni – se verrà da voi, fategli buona accoglienza – e Gesù, chiamato Giusto. Di quelli venuti dalla circoncisione questi soli hanno collaborato con me per il regno di Dio e mi sono stati di consolazione » (4,10-11). Marco, a causa del quale era finita, tempo prima, una grande collaborazione con Barnaba (At 15,37-39) è ora « collaboratore » di Paolo.
Nella 1Ts, forse il primo scritto del NT, Paolo annuncia con una certa solennità, usando il plurale: « Abbiamo inviato Timòteo, nostro fratello e collaboratore di Dio nel Vangelo di Cristo, per confermarvi ed esortarvi nella vostra fede » (3,2). Le decisioni importanti sono evidentemente discusse e adottate assieme.
Un esempio di « collaborazione » sono un testo all’inizio del biglietto inviato a Filemone e l’altro alla fine. All’inizio è scritto: « Paolo, prigioniero di Cristo Gesù, e il fratello Timòteo al nostro caro collaboratore Filemone ». Poi, nel saluto a più voci diretto al solo Filemone: « Ti saluta Epafra, mio compagno di prigionia per Cristo Gesù con Marco [cf Co14,10], Aristarco [idem], Dema e Luca, miei collaboratori ». Strategia di Paolo è qui quella di mettere in buoni rapporti gli uni con gli altri, incrementando l’unità tra comunità e famiglie e individui diversi, chiamati tutti a collaborare con Dio per la crescita della Chiesa.
Negli scritti di Paolo, anche quindi senza prendere in considerazione gli Atti degli Apostoli, sono usati altri termini del vocabolario della collaborazione, spesso con sfumature atte ad approfondire la comunione ecclesiale e con Dio, oltre che con Paolo il quale, in fin dei conti, supera ogni barriera tra i credenti , nel Vangelo, come efficacemente ripete più volte (cf Rm 10,12 e, sopra, 1Cor 12,13): « Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù » (Gal 3,28).
Tra i termini che non abbiamo esaminato, c’è per esempio meris, « parte » (cf 2Cor 6,15; Col 1,12), il verbo koinoneo, « condividere, partecipare; mettere in comune » (cf Rm 12,13; 15,27; Gal 6,6; Fil 4,15; ITm 5,22); il verbo « edificare » ed « edificazione-costruzione » (Rm 14,19; 15,2; 1Cor 3,9; 14,3, 5, 12,26; 2Cor 5,1; 10,8; 12,19; 13,10; Ef 2,21; 4,12, 16, 29). Abbiamo trascurato i composti di « con+ » (syn- o meta) e l’elenco completo dei nomi associati in qualche modo a Paolo o presenti nelle 13 lettere.
Lezione valida per l’oggi
I testi esaminati bastano a convincerci di alcune cose importanti per Paolo e che potrebbero giustificare la scelta della collaborazione nell’edificazione della Chiesa di oggi. Sinergia è la parola chiave per la costruzione delle Chiese. Per la sua missione, orale o scritta, Paolo, collaboratore di Dio, ha collaborato con uomini e donne di culture diverse.
Dobbiamo presumere che per far nascere e crescere la Chiesa l’individuo non basta, per quanto dotato. La collaborazione è indispensabile come lo è stata per Cristo, che si è circondato di apostoli come Pietro e come Paolo, e per Dio che ha chiamato a collaborare con sé in una forma speciale Paolo. Allora la regola d’oro per l’edificazione ecclesiale non può essere che teologica: a partire cioè dall’Unità di tre Persone uguali e distinte.
Non si tratta pertanto di esaltare più un modello gerarchico, competitivo ed esclusivo, che crea rancori, e tra l’altro rallenta l’ecumenismo, quanto di valorizzare i carismi di tutti, in una comunione tra pari. Paolo insegna che anche i laici, uomini e donne, ebrei e greci, diversi da lui e privi della sua personale esperienza sulla via di Damasco, sono reali « collaboratori », « compagni d’armi », « apostoli » e non suoi discepoli a vita.
E del resto impensabile che, ragionando come collaboratore di Dio, Paolo pensi dall’alto in basso per sfruttare subordinati o esecutori dei suoi ordini, come meccanici trasmettitori della sua dottrina o delle sue personali convinzioni, anziché del Vangelo. Al di sopra di Pietro, di Apollo e di sé stesso – solo ministri di Dio – Paolo ha posto « voi », la Chiesa che è di Cristo, che è di Dio (1Cor 3,22-23). Ha anche elevato tutti i « fratelli » a collaboratori suoi e di Dio.
Angelo Colacrai