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I SALMI E I CANTICI : Is 42,10-16 – GIOVANNI PAOLO II (2003)

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I SALMI E I CANTICI : Is 42,10-16  – GIOVANNI PAOLO II (2003)

CANTIAMO AL SIGNORE VITTORIOSO

All’interno del libro che porta il nome del profeta Isaia, gli studiosi hanno identificato la presenza di diverse voci, poste tutte sotto il patronato del grande profeta vissuto nell’ottavo secolo a.C. È il caso del vigoroso inno di gioia e di vittoria, che si proclama al lunedì della quarta settimana del Salterio. Gli esegeti lo riferiscono al cosiddetto Secondo Isaia, un profeta vissuto nel sesto secolo a.C., al tempo del ritorno degli Ebrei dall’esilio di Babilonia. L’inno si apre con un appello a «cantare al Signore un canto nuovo» (cf Is 42,10), proprio come accade in altri Salmi (cf 95,1 e 97,1). La «novità» del canto a cui invita il profeta si rifà certamente all’aprirsi dell’orizzonte della libertà, quale svolta radicale nella storia di un popolo che ha conosciuto l’oppressione e il soggiorno in terra straniera (cf Sal 136).

Lo spazio divino La «novità» ha spesso nella Bibbia il sapore di una realtà perfetta e definitiva. È quasi il segno del sorgere di un’èra di pienezza salvifica che sigilla la storia travagliata dell’umanità. Il Cantico di Isaia presenta questa alta tonalità, che ben s’adatta alla preghiera cristiana. Ad elevare al Signore un «canto nuovo» è invitato il mondo nella sua globalità che include terra, mare, isole, deserti e città (cf Is 42,10-12). Tutto lo spazio è coinvolto con i suoi estremi confini orizzontali, che comprendono anche l’ignoto, e con la sua dimensione verticale, che parte dalla pianura desertica, ove si trovano le tribù nomadi di Kedar (cf Is 21,16-17), e ascende fino ai monti. Lassù si può collocare la città di Sela, da molti identificata con Petra, nel territorio degli Edomiti, una città posta tra i picchi rocciosi. Tutti gli abitanti della terra sono invitati a formare come un immenso coro per acclamare il Signore con esultanza e dargli gloria.

La storia nelle mani di Dio Dopo il solenne invito al canto (cf vv. 10-12), il profeta fa entrare in scena il Signore, rappresentato come il Dio dell’Esodo, che ha liberato il suo popolo dalla schiavitù egiziana: «Il Signore avanza come un prode, come un guerriero» (v. 13). Egli semina il terrore tra gli avversari, che opprimono gli altri e commettono ingiustizia. Anche il cantico di Mosè dipinge il Signore durante la traversata del Mar Rosso come un «prode in guerra», pronto a stendere la sua destra potente e ad atterrire i nemici (cf Es 15,3-8). Col ritorno degli Ebrei dalla deportazione di Babilonia si sta per compiere un nuovo esodo e i fedeli devono essere certi che la storia non è in mano al fato, al caos, o alle potenze oppressive: l’ultima parola spetta al Dio giusto e forte. Cantava già il Salmista: «Nell’oppressione vieni in nostro aiuto perché vana è la salvezza dell’uomo» (Sal 59,13).

Il silenzio di Dio Entrato in scena, il Signore parla e le sue parole veementi (cf Is 42,14-16) intrecciano giudizio e salvezza. Egli comincia con il ricordare che «per molto tempo» ha «fatto silenzio», cioè non è intervenuto. Il silenzio divino è spesso motivo di perplessità per il giusto e persino di scandalo, come attesta il lungo grido di Giobbe (cf Gb 3,1-26). Tuttavia non si tratta di un silenzio che indica un’assenza, quasi che la storia sia lasciata in mano ai perversi e il Signore rimanga indifferente e impassibile. In realtà, quel tacere sfocia in una reazione simile al travaglio di una partoriente che s’affanna, sbuffa e urla. È il giudizio divino sul male, raffigurato con immagini di aridità, distruzione, deserto (cf v. 15), che ha come meta un risultato vivo e fecondo. Infatti, il Signore fa sorgere un mondo nuovo, un’èra di libertà e di salvezza. A chi era cieco vengono aperti gli occhi perché goda della luce che sfolgora. Il cammino si fa agile e la speranza fiorisce (cf v. 16), rendendo possibile continuare a confidare in Dio e nel suo futuro di pace e di felicità.

Vedere Dio nella storia Ogni giorno il credente deve saper scorgere i segni dell’azione divina, anche quando essa è nascosta dal fluire, apparentemente monotono e senza meta, del tempo. Come scriveva uno stimato autore cristiano moderno, «la terra è pervasa da un’estasi cosmica: c’è in essa una realtà e una presenza eterna che, però, normalmente dorme sotto il velo dell’abitudine. La realtà eterna deve ora rivelarsi, come in un’epifania di Dio, attraverso tutto ciò che esiste» (R. Guardini, Sapienza dei Salmi, Brescia 1976, p. 52). Scoprire, con gli occhi della fede, questa presenza divina nello spazio e nel tempo, ma anche in noi stessi, è sorgente di speranza e di fiducia, anche quando il nostro cuore è turbato e scosso «come si agitano i rami del bosco per il vento» (Is 7,2). Il Signore, infatti, entra in scena per reggere e giudicare «il mondo con giustizia e con verità tutte le genti» (Sal 95,13).

Giovanni Paolo II – L’Osservatore Romano, 3-04-2003

GIOVANNI PAOLO II – CELEBRAZIONE DELLA SANTA MESSA DELLA NATIVITÀ DI MARIA

https://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/homilies/1985/documents/hf_jp-ii_hom_19850908_liechtenstein.html

VISITA PASTORALE NEL LIECHTENSTEIN

CELEBRAZIONE DELLA SANTA MESSA DELLA NATIVITÀ DI MARIA

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Eschen-Mauren (Liechtenstein)

Domenica, 8 settembre 1985

Cari fratelli e sorelle.

1. Come Chiesa di Cristo festosamente riunita celebriamo oggi la Natività della beata Vergine Maria. La liturgia ci invita a ringraziare la santissima Trinità per la nascita della Madre del nostro Salvatore, “la cui santa vita illumina l’intera Chiesa” (“Antifona di Terza”). La nascita di Maria porta luce e speranza per tutte le comunità di Cristo e oggi in particolare per la Chiesa nel Liechtenstein. Questo mistero forma la cornice spirituale per la visita pastorale del successore di Pietro alla vostra Chiesa locale. In essa io saluto una parte dell’antica diocesi di Coira, le cui radici arrivano fino alla provincia romana della Retia. Voi onorate tra i primi padri della vostra fede i santi Lucio e Gallo, e attraverso la loro opera missionaria voi siete, fin dagli albori del cristianesimo, Chiesa di Cristo nell’area delle Alpi e nei pressi del Reno che collega i popoli. In molti modi, nel passato e nel presente, avete testimoniato di riconoscere Maria anche come Madre della vostra Chiesa locale, e di venerarla come Patrona del vostro Paese, come esempio e speranza della vostra fede, e di emularla nella sua “santa vita”. 2. Le Scritture della liturgia odierna ci inducono a considerare il mistero di Maria contemporaneamente da due visuali diverse. Il profeta Michea lo considera dalla distanza dell’antica alleanza. La sua predizione annuncia la nascita del Messia e Unto: “. . . che deve essere il dominatore di Israele. Le sue origini sono dall’antichità” (Mi 5, 1). Con ciò si intende la parola eterna di Dio, che è il Figlio della stessa natura del Padre. Egli sarà il nostro “pastore nella potenza del Signore”; con lui noi vivremo “in sicurezza”; perché lui sarà la nostra “pace”. Allo stesso tempo il profeta parla della donna, “che deve partorire” (Mi 5, 2). Una creatura, una donna è prescelta per svolgere un ruolo decisivo nell’opera salvifica di Dio; sarà lei la prima per la quale si adempirà la “sicurezza” e la “pace” messianica in modo concreto. Ella sarà benedetta tra tutte le donne; ella sarà un dono per tutta l’umanità, perché partorirà il Salvatore. 3. Al contrario, molto da vicino l’evangelista Matteo osserva l’odierno mistero. Qui ci troviamo già al centro di quell’avvenimento che il profeta Michea aveva potuto solamente delineare da lontano. Maria entra nella luce del pubblico come donna incinta. In un primo momento, gli uomini sono sconcertati; sembra che ci si vergogni di lei. Poi però Giuseppe, suo marito, viene a conoscere l’importanza di questo bambino che si attende: esso è voluto in modo unico da Dio; esso è “dello Spirito Santo”. Il suo nome sarà “Gesù”, nome che indica il suo compito futuro: “Egli salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Sì, egli sarà un autentico “Emmanuele”: in lui “Dio è con noi”: e Giuseppe prese con sé la sua sposa (cf. Mt 1, 18-24). Così egli si dichiara per Maria e per il frutto del suo corpo; coraggiosamente egli si pone al fianco della Madre del Salvatore e sostiene così la grande prova della sua vita. 4. In questo modo le letture odierne ci inducono a considerare da due diverse visuali il grande mistero della parola eterna che si è fatta uomo e contemporaneamente il mistero della maternità di Maria. Noi meditiamo su questo stretto legame tra i due misteri ogni anno, in particolare tra Natale e Capodanno, tra il giorno della nascita di Cristo e il giorno della maternità di Maria; particolare evidenza deve essere però conferita a questo legame nel corso della preparazione dell’ormai non lontana celebrazione dei duemila anni della nascita umana del nostro Redentore. Dio ha scelto Maria per diventare la Madre di Gesù Cristo. Secondo la fede della Chiesa, tutta la persona e l’esistenza di Maria sono improntate a questa chiamata eccezionale. Questo è il motivo per cui noi guardiamo al suo ingresso in questo mondo, alla sua nascita, con venerazione e con riconoscenza; e anche se la data esatta di questa nascita non ci è nota, essa cade inequivocabilmente negli anni immediatamente precedenti quella santa notte di Betlemme. 5. La liturgia, oggi, non parla però solamente di avvenimenti passati. La lettura della Lettera di San Paolo ai Romani ci rammenta l’eterno piano di salvezza di Dio con il suo significato sempre attuale anche per il nostro tempo. Questo piano nasce direttamente dal divenire uomo del Figlio di Dio, “il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8, 29). È volontà di Dio che noi diventiamo fratelli e sorelle di Gesù e che “prendiamo parte alla sostanza e alla forma di suo Figlio”; in Gesù egli ha “reso giusti” e “glorificato” già tutti coloro che ha chiamato alla sua sequela. Meravigliose parole dell’apostolo, in cui la Chiesa riconosce la parola di Dio stesso! Sì, grandi cose il Signore ha fatto rendendoci membri della sua Chiesa. Una gioia e una riconoscenza spontanee devono sgorgare dal nostro cuore; la nostra risposta deve essere quella di amare Dio con il corpo e con l’anima, con il cuore e con la ragione, con tutte le nostre forze. Solo allora anche su di noi si potrà adempiere quanto la lettera di San Paolo afferma grandiosamente all’inizio: “Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (cf. Rm 8, 28-30). Come sono diventate vere queste parole per Gesù stesso, che attraverso il sacrificio della sua vita è divenuto il nostro Redentore; ma come sono diventate vere anche per Maria, la prima redenta, che per amore del Figlio è rimasta preservata dal peccato ed è quindi divenuta la Madre di tutti i redenti. In questo modo Maria, attraverso la sua vocazione ad essere la Madre di Cristo, partecipa in misura particolare a quella chiamata comune, rivolta da Cristo a tutti gli uomini e che può essere realizzata in comunione con lui. Se noi veneriamo il mistero della nascita di Maria con amore, ci renderemo conto sempre più chiaramente che mediante il suo “sì” e attraverso la sua maternità Dio è con noi. “Emmanuele” (Dio con noi): questo è il nome per il Figlio di Dio, che è venuto in questo mondo e che attraverso la sua presenza fraterna santifica ogni realtà umana e la apre a Dio. 6. Questo vale anche per quella primissima sorgente della comunità umana che noi chiamiamo famiglia. L’odierna festa della nascita di Maria e il mistero della nascita umana di Dio nel grembo della Sacra Famiglia guidano la nostra attenzione, nel corso di questa celebrazione eucaristica, proprio sulla famiglia. Nel corso dell’udienza particolare per i pellegrini del Liechtenstein venuti a Roma due anni fa ebbi a dire, tra l’altro, riguardo alla famiglia e alla sua grande importanza per la vita naturale e soprannaturale del singolo e per la società: “La riconciliazione personale con Dio è la necessaria premessa perché la riconciliazione e la pace possano divenire realtà anche nella comunità umana. Ogni singolo è chiamato a portare il proprio contributo. Iniziate nello stretto ambito della famiglia! La Chiesa è convinta che il benessere della società e quello proprio siano strettamente legati al benessere della famiglia. Tutto quanto avviene per la guarigione e il rafforzamento della famiglia torna al vantaggio dell’intera comunità” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI/2 [1983] 767). Allora ho anche caldamente ammonito: “L’umanità di oggi ha urgente bisogno di riconciliazione cristiana. Istituiamola e doniamola lì dove siamo in grado di procurarla agli altri: nelle nostre famiglie, nei nostri posti di lavoro, nella comunità, nella comunità di tutto il popolo!” (Ivi). Proprio nella stretta cerchia familiare o nel vicinato ci troviamo a sperimentare, talora, la durezza del litigio e dell’intransigenza tra gli uomini in modo molto doloroso. Come cristiani dobbiamo essere sempre pronti a pronunciare una parola conciliante e a tendere la mano alla riconciliazione. 7. Un matrimonio che sia entrato in crisi; un matrimonio che dal punto di vista umano è prossimo alla rovina; un matrimonio appesantito dal vicendevole estraniarsi dei partner può essere salvato dai coniugi solo a condizione che essi sappiano perdonarsi a vicenda e operino con perseveranza verso una riconciliazione. Quanto è valido per il rapporto tra i coniugi, vale anche per il rapporto dei genitori con i figli e dei figli con i genitori. Quando in una famiglia nascono conflitti tra giovani e anziani, tra padre o madre e figlio o figlia, questi devono essere risolti nella vicendevole comprensione e nel vicendevole perdono. Ragazzi e adolescenti, padri e madri, non siate mai troppo orgogliosi o troppo testardi, tanto da non essere in grado di tendervi la mano per la riconciliazione, quando ha avuto luogo una discussione! Non siate ostinati e non portate rancore quando si tratta di risolvere una lite! È però parte essenziale di tutto ciò la riconciliazione con Dio mediante una buona confessione personale, dato che ogni offesa recata al nostro prossimo è anche un’offesa recata a Dio, di cui siamo tutti creature amate. Quindi, non escludete Dio nella riconciliazione tra gli uomini e afferrate quel mezzo di salvezza che si chiama confessione e che dona la pace interiore, che solo il Signore può dare! Matrimonio e famiglia possono rispondere alla loro altissima chiamata cristiana solamente quando la pratica regolare della conversione e confessione personale e della riconciliazione attraverso la confessione hanno il loro posto fisso nella vita dei coniugi e dei membri della famiglia. La missione popolare del Liechtenstein, che avrà inizio tra breve, mancherebbe a un suo compito essenziale, direi addirittura che non potrebbe dare il via all’“incontro con la vita” in Cristo, qualora rinunciasse a condurre i fedeli anche a una buona Confessione. Prego quindi vivamente i predicatori della missione di riservare a questo argomento la loro viva attenzione; in particolare suggerisco la celebrazione comunitaria del sacramento della Penitenza con la successiva Confessione personale e l’assoluzione di ogni singola persona. “Incontro alla vita” – questo il leit-motiv della missione – è in primo luogo una liberazione dal peccato e dalla colpa, dalla mancanza di libertà e dall’egocentrismo, dall’errore e dalla confusione e quindi un cammino verso la santità e la santificazione della vita comunitaria. Maria, che nacque e visse senza la macchia del peccato, si pone davanti ai nostri occhi come il grande esempio di tale santità. Il suo esempio sia per noi luce e forza! 8. La famiglia come cellula della società e pietra viva della comunità ecclesiale è contemporaneamente anche il primo luogo della preghiera. Il Concilio Vaticano II dice: “Quando i genitori, mediante il loro esempio e la loro preghiera comune iniziano il loro cammino, anche i figli e tutti coloro che vivono in quella comunità familiare, riusciranno più facilmente a trovare questa via dell’autentica umanità, della salvezza e della santità. I coniugi però debbono, nella loro dignità e nel loro incarico di padre e di madre, assolvere accuratamente al dovere dell’educazione, soprattutto di quella religiosa, che è in particolare di loro competenza” (Gaudium et spes, 48). Allo stesso modo è però anche vero che i figli, come membri della famiglia donati da Dio, contribuiscono a modo loro alla santificazione dei genitori. In questa diocesi, e quindi anche nel vostro Paese del Liechtenstein, alcuni anni fa è iniziata l’azione “Chiesa familiare”, che vorrebbe servire alla preghiera comune nella famiglia. Portate avanti questo importante compito e promuovetelo secondo le vostre forze! La preghiera comune a tavola non dovrebbe mancare in nessuna famiglia cristiana. Sono cosciente del fatto che per alcuni comporti un grande sforzo ricominciare con questa usanza. Mettete da parte ogni falsa vergogna religiosa e pregate insieme! “Perché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”, ci promette il Signore (Mt 18, 20). A ragione possiamo pensare che la Madre del Signore sia nata in una famiglia religiosa e devota. Maria stessa prega molto. Nel Magnificat, famosa lode della potenza e gloria del Signore, essa ci insegna l’indirizzo principale di ogni preghiera: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore” (Lc 1, 46-47). Cantate anche voi questa lode a Dio! Mostrate a Dio, mediante la fedele partecipazione alle celebrazioni eucaristiche della domenica e dei giorni feriali, che lo amate e onorate sopra ogni cosa e contemporaneamente siete pronti a dare a quest’amore un’espressione concreta e comunitaria! Andate al Signore eucaristico nel tabernacolo e pregate lì il Dio misteriosamente presente per voi stessi, per la vostra famiglia, per le vostre famiglie della vostra patria, per la famiglia dell’umanità e per la famiglia di Dio nella Chiesa! Esorto voi tutti, bambini, ragazzi e adulti, laici e sacerdoti, religiosi e religiose, sani e malati, impediti e attempati: pregate! Sì, mantenetevi fedeli alla preghiera quotidiana! La preghiera è la forza che veramente cambia e libera la nostra vita; nella preghiera avviene l’autentico “incontro con la vita”. 9. La famiglia è quindi un fondamentale rifugio e luogo d’esercizio per i valori e le qualità fondamentali che caratterizzano la singola persona. La famiglia è il terreno da cui trae nutrimento la coscienza della dignità della persona umana. L’ordine morale del matrimonio e della famiglia, come Dio lo ha fissato nel piano di creazione, viene oggigiorno frequentemente disturbato dal comportamento incosciente di molti, e non raramente viene addirittura distrutto. Ideologie disgregatrici che si ritengono moderne vogliono farci credere che quest’ordine sia superato e addirittura nemico dell’uomo. Così avviene già che molti cristiani si vergognano di impegnarsi con convinzione per quei principi morali fondamentali. Un simile atteggiamento dell’uomo non può portare alcuna benedizione, né per il singolo né per la società, la quale a sua volta è, in forte misura, determinata dalla qualità morale e religiosa del singolo e della sua famiglia. La Chiesa cattolica non si stancherà di ripetere integralmente e senza limiti e di sottolineare sempre nuovamente quei principi che riguardano il male della convivenza extraconiugale, dell’infedeltà coniugale, della pratica divorzista sempre in aumento, del cattivo uso del matrimonio e dell’aborto. I compiti della famiglia cristiana nel mondo di oggi sono molteplici e importanti. Ogni famiglia religiosamente e moralmente sana è contemporaneamente un prezioso fermento per l’intera comunità dei popoli. L’autentica famiglia cristiana è una benedizione per il mondo. Vorrei incoraggiare tutte le famiglie tra di voi a divenire sempre più famiglie veramente cristiane e ad affrontare il compito a ciò connesso nel tempo odierno con grande coraggio. L’umanità ha bisogno di questa testimonianza di fede nell’ora storica in cui viviamo. Non lasciatevi deviare da nessun contraccolpo, insuccesso, delusione o insicurezza e formate la vostra vita coniugale e familiare nello spirito di Cristo e della sua Chiesa! 10. Il cristiano convinto non si arrende mai! Egli prosegue fiducioso e con tenacia perché sa che c’è qualcuno che lo accompagna, che dà forza e fiducia proprio nei momenti di angoscia della vita. Questo esempio ce lo ha dato Maria, l’aurora della salvezza che ci ha partorito Cristo, il sole della giustizia (cf. “Prefazio della Festa”). Essa ha percorso la via con il suo Figlio divino fin sotto la croce. Grazie alla fedeltà sofferta, in cui ha vissuto la sua non facile vocazione di Madre di Cristo, essa ha potuto conoscere per sé stessa ciò che Paolo afferma oggi nella seconda lettura: “Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8, 28). Possa la santa vita della Vergine Maria, la cui nascita la Chiesa celebra oggi in maniera così solenne nel principato del Liechtenstein con il successore di Pietro, diventare luce anche per la vostra vita di cristiani nelle vostre famiglie e nell’intera vostra comunità di popolo. Il suo esempio e il suo aiuto vi mettono in condizioni di vivere degnamente la vostra vocazione. Rimanete, soprattutto, una grande famiglia religiosamente e moralmente sana all’interno delle vostre frontiere, che si possono abbracciare con lo sguardo, di questo vostro bel Paese e vivete sempre nell’unione con la Chiesa universale e con il suo supremo pastore. Dio vi benedica e vi protegga per l’intercessione di Nostra Signora del Liechtenstein, la Madre del nostro Redentore, che sotto la croce è divenuta anche la Madre di noi tutti. Amen.

 

GIOVANNI PAOLO II – CANTICO CFR COL 1,3.12-20

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GIOVANNI PAOLO II – CANTICO CFR COL 1,3.12-20

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 5 maggio 2004

Cristo fu generato prima di ogni creatura, è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti Vespri del mercoledì della 1a settimana (Lettura: Col 1,3.12-15.17)

1. Abbiamo ascoltato il mirabile inno cristologico della Lettera ai Colossesi. La Liturgia dei Vespri lo propone in tutte le quattro settimane nelle quali essa si snoda e lo offre ai fedeli come Cantico, ripresentandolo nella veste che forse il testo aveva fin dalle sue origini. Infatti, molti studiosi ritengono che l’inno potrebbe essere la citazione di un canto delle Chiese dell’Asia minore, posto da Paolo nella Lettera indirizzata alla comunità cristiana di Colossi, una città allora fiorente e popolosa. L’Apostolo, però, non si recò mai in questo centro della Frigia, una regione dell’attuale Turchia. La Chiesa locale era stata fondata da un suo discepolo, originario di quelle terre, Epafra. Costui fa capolino nel finale della Lettera insieme all’evangelista Luca, «il caro medico», come lo chiama san Paolo (4,14), e con un altro personaggio, Marco, «cugino di Barnaba» (4,10), forse l’omonimo compagno di Barnaba e Paolo (cfr At 12,25; 13,5.13), divenuto poi evangelista. 2. Poiché avremo occasione di tornare a più riprese in seguito su questo Cantico, ci accontentiamo ora di offrirne uno sguardo d’insieme e di evocare un commento spirituale, elaborato da un famoso Padre della Chiesa, san Giovanni Crisostomo (IV sec. d.C.), celebre oratore e Vescovo di Costantinopoli. Nell’inno emerge la grandiosa figura di Cristo, Signore del cosmo. Come la divina Sapienza creatrice esaltata dall’Antico Testamento (cfr ad esempio Pr 8,22-31), «egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui »; anzi, «tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Col 1,16-17). Si dispiega, dunque, nell’universo un disegno trascendente che Dio attua attraverso l’opera del Figlio. Lo proclama anche il Prologo del Vangelo di Giovanni quando afferma che «tutto è stato fatto per mezzo del Verbo e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,3). Anche la materia con la sua energia, la vita e la luce portano l’impronta del Verbo di Dio, «suo Figlio diletto» (Col 1,13). La rivelazione del Nuovo Testamento getta una nuova luce sulle parole del sapiente dell’Antico Testamento, il quale dichiarava che «dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore» (Sap 13,5). 3. Il Cantico della Lettera ai Colossesi presenta un’altra funzione di Cristo: Egli è anche il Signore della storia della salvezza, che si manifesta nella Chiesa (cfr Col 1,18) e si compie nel «sangue della sua croce» (v. 20), sorgente di pace e di armonia per l’intera vicenda umana. Non è, quindi, soltanto l’orizzonte esterno a noi ad essere segnato dalla presenza efficace di Cristo, ma anche la realtà più specifica della creatura umana, ossia la storia. Essa non è in balía di forze cieche e irrazionali ma, pur nel peccato e nel male, è sorretta e orientata – per opera di Cristo – verso la pienezza. È così che per mezzo della Croce di Cristo tutta la realtà è «riconciliata» col Padre (cfr v. 20). L’inno traccia, in tal modo, uno stupendo affresco dell’universo e della storia, invitandoci alla fiducia. Non siamo un granello di polvere inutile, disperso in uno spazio e in un tempo senza senso, ma siamo parte di un sapiente progetto scaturito dall’amore del Padre. 4. Come abbiamo annunziato, passiamo ora la parola a san Giovanni Crisostomo, perché sia lui a coronare questa riflessione. Nel suo Commento alla Lettera ai Colossesi egli si sofferma ampiamente su questo Cantico. All’inizio egli sottolinea la gratuità del dono di Dio «che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (v. 12). «Perché la chiama « sorte »?», si domanda il Crisostomo, e risponde: «Per mostrare che nessuno può conseguire il Regno con le proprie opere. Anche qui, come il più delle volte, la « sorte » ha il senso di « fortuna ». Nessuno mostra un comportamento tale da meritare il Regno, ma tutto è dono del Signore. Per questo egli dice: « Quando avete fatto ogni cosa, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare »» (PG 62, 312). Questa benevola e potente gratuità riemerge più avanti, quando leggiamo che per mezzo di Cristo sono state create tutte le cose (cfr Col 1,16). «Da lui dipende la sostanza di tutte le cose – spiega il Vescovo -. Non soltanto le fece passare dal non essere all’essere, ma è ancora lui che le sostiene, cosicché, se fossero sottratte alla sua provvidenza, perirebbero e si dissolverebbero… Dipendono da lui: infatti, anche solo l’inclinare verso di lui è sufficiente a sostenerle e a rafforzarle» (PG 62, 319). E a maggior ragione è segno di amore gratuito quanto Cristo viene compiendo per la Chiesa, di cui è il Capo. In questo punto (cfr v. 18), spiega il Crisostomo, «dopo aver parlato della dignità di Cristo, l’Apostolo parla anche del suo amore per gli uomini: « Egli è il capo del suo corpo, che è la Chiesa », volendo mostrare la sua intima comunione con noi. Colui, infatti, che è così in alto e superiore a tutti, si unì a coloro che sono in basso» (PG 62, 320).

GIOVANNI PAOLO II – ATTESA E STUPORE DELL’UOMO DI FRONTE AL MISTERO

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GIOVANNI PAOLO II – ATTESA E STUPORE DELL’UOMO DI FRONTE AL MISTERO

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 26 luglio 2000

1. “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!”. La grande invocazione di Isaia (63,19), che ben sintetizza l’attesa di Dio presente innanzitutto nella storia dell’Israele biblico, ma anche nel cuore di ogni uomo, non è caduta nel nulla. Dio Padre ha varcato la soglia della sua trascendenza: mediante suo Figlio, Gesù Cristo si è messo sulle strade dell’uomo e il suo Spirito di vita e di amore è penetrato nel cuore delle sue creature. Egli non ci lascia vagare lontano dalle sue vie né lascia che il nostro cuore s’indurisca per sempre (cfr Is 63,17). In Cristo, Dio si fa vicino a noi, soprattutto quando il nostro “volto è triste” e allora, al calore della sua parola, come accadde ai discepoli di Emmaus, il nostro cuore comincia ad ardere nel petto (cfr Lc 24,17.32). Il passaggio di Dio, però, è misterioso e richiede occhi puri per essere scoperto, e orecchi disponibili all’ascolto. 2. In questa prospettiva, vogliamo oggi focalizzare due atteggiamenti fondamentali da assumere in rapporto al Dio-Emmanuele che ha deciso di incontrare l’uomo sia nello spazio e nel tempo, sia nell’intimo del suo cuore. Il primo atteggiamento è quello dell’attesa, ben illustrato nel brano del Vangelo di Marco che abbiamo prima ascoltato (cfr Mc 13,33-37). Nell’originale greco troviamo tre imperativi che scandiscono questa attesa. Il primo è: “State attenti”, letteralmente: “Guardate, badate!”. “Attenzione”, come dice la stessa parola, significa tendere, essere protesi verso una realtà con tutta l’anima. È l’opposto della distrazione che è, purtroppo, la nostra condizione quasi abituale, soprattutto in una società frenetica e superficiale com’è quella contemporanea. È difficile potersi fissare su un obiettivo, su un valore, e perseguirlo con fedeltà e coerenza. Rischiamo di far così anche con Dio, che, incarnandosi, è venuto a noi per diventare la stella polare della nostra esistenza. 3. All’imperativo dell’attenzione subentra quello del“vegliare”, che nell’originale greco del Vangelo equivale a “rimanere insonne”. È forte la tentazione di lasciarsi scivolare nel sonno, avvolti nelle spire della notte tenebrosa, che nella Bibbia è simbolo di colpa, di inerzia, di rifiuto della luce. Si comprende pertanto l’esortazione dell’apostolo Paolo: “Voi, fratelli, non siete nelle tenebre (…) Voi, infatti, siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre. Non dormiamo, dunque, come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobrii” (1Ts 5,4-6). Solo liberandoci dall’oscura attrattiva delle tenebre e del male riusciremo ad incontrare il Padre della luce, nel quale “non c’è variazione né ombra di cambiamento” (Gc 1,17). 4. C’è un terzo imperativo ripetuto due volte con lo stesso verbo greco: “Vigilate!”. È il verbo della sentinella che deve stare all’erta, mentre attende pazientemente il passare del tempo notturno per veder spuntare all’orizzonte la luce dell’alba. Il profeta Isaia raffigura in modo intenso e vivace questa lunga attesa introducendo un dialogo tra due sentinelle, che diventa un simbolo dell’uso giusto del tempo: “Sentinella, quanto resta della notte? La sentinella risponde: Viene il mattino, poi ancora la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!” (Is 21,11-12). Bisogna interrogarsi, convertirsi e andare incontro al Signore. I tre appelli di Cristo: “State attenti, vegliate, vigilate!” riassumono in modo limpido l’attesa cristiana dell’incontro col Signore. L’attesa dev’essere paziente, come ci ammonisce san Giacomo nella sua Lettera: “Siate pazienti fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d’autunno e le piogge di primavera. Siate pazienti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina” (Gc 5,7-8). Perché cresca una spiga o sbocci un fiore ci sono tempi che non si possono forzare; per la nascita di una creatura umana occorrono nove mesi; per comporre un libro o una musica di valore bisogna spesso impegnare anni in paziente ricerca. Questa è anche la legge dello spirito. “Tutto quello che è frenetico / presto sarà passato”, cantava un poeta (R. M. Rilke, I sonetti a Orfeo). Per l’incontro col mistero occorrono pazienza, purificazione interiore, silenzio, attesa. 5. Parlavamo prima di due atteggiamenti spirituali per scoprire il Dio che viene verso di noi. Il secondo – dopo l’attesa attenta e vigilante – è quello dello stupore, della meraviglia. È necessario aprire gli occhi per ammirare Dio che si nasconde e insieme si mostra nelle cose e che ci introduce negli spazi del mistero. La cultura tecnologica, e ancor più l’eccessiva immersione nelle realtà materiali, ci impediscono spesso di cogliere il volto nascosto delle cose. In realtà ogni cosa, ogni evento, per chi sa leggerlo in profondità, porta un messaggio che, in ultima analisi, conduce a Dio. I segni rivelativi della presenza di Dio sono dunque molteplici. Ma per non lasciarli sfuggire dobbiamo essere puri e semplici come bambini (cfr Mt 18,3-4), capaci di ammirare, stupirci, meravigliarci, incantarci per i gesti divini di amore e di vicinanza nei nostri confronti. In un certo senso, si può applicare al tessuto della vita quotidiana ciò che il Concilio Vaticano II afferma circa la realizzazione del grande disegno di Dio mediante la rivelazione della sua Parola: “Dio invisibile, nel suo grande amore, parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro per invitarli e ammetterli alla comunione con sé” (Dei Verbum, n. 2).

GIOVANNI PAOLO II (UN ALTRO CONSOLATORE, LO SPIRITO SANTO) (1991)

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1991/documents/hf_jp-ii_aud_19910313.html

GIOVANNI PAOLO II (UN ALTRO CONSOLATORE, LO SPIRITO SANTO)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 13 marzo 1991

1. Nel discorso d’addio agli Apostoli, durante l’ultima Cena, alla vigilia della sua passione, Gesù promise: “Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi sempre” (Gv 14, 16). Il titolo “Consolatore” traduce qui la parola greca Parakletos, nome dato da Gesù allo Spirito Santo. “Consolatore”, infatti, è uno dei sensi possibili di Paraclito. Nel discorso del Cenacolo Gesù suggerisce questo senso, perché promette ai discepoli la presenza continua dello Spirito come rimedio alla tristezza provocata dalla sua dipartita (cf. Gv 16, 6-8). Lo Spirito Santo, mandato dal Padre, sarà “un altro Consolatore”, inviato nel nome di Cristo, la cui missione messianica deve concludersi con la sua dipartita da questo mondo per ritornare al Padre. Questa dipartita, che avviene mediante la morte e la risurrezione, è necessaria perché possa venire l’“altro Consolatore” (Gv 16, 7). Gesù lo afferma chiaramente quando dice: “Se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore”. La Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II presenta questo invio dello “Spirito di verità” come momento conclusivo del processo rivelativo e redentivo rispondente all’eterno disegno di Dio (Dei Verbum, 4). E noi tutti nella Sequenza di Pentecoste lo invochiamo: “Veni . . ., Consolator optime”. 2. Nelle parole di Gesù sul Consolatore si sente l’eco dei libri dell’Antico Testamento, e in particolare del “Libro di consolazione d’Israele” compreso negli scritti raccolti sotto il nome del profeta Isaia: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio . . . Parlate al cuore di Gerusalemme . . . è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità” (Is 40, 1-2). E in seguito: “Giubilate, o cieli: rallègrati, o terra; gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo” (Is 49, 13). Il Signore è per Israele come una donna che non può dimenticare il suo bambino. E anzi Isaia insiste col far dire al Signore: “Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49, 15). Nella oggettiva finalità della profezia di Isaia, oltre l’annuncio del ritorno di Israele a Gerusalemme dopo l’esilio, la “consolazione” promessa racchiude un contenuto messianico, che i pii israeliti, fedeli all’eredità dei loro padri, hanno avuto presente fino alle soglie del Nuovo Testamento. Così si spiega ciò che leggiamo nel Vangelo di Luca circa il vecchio Simeone, il quale “aspettava il conforto (o consolazione) d’Israele; lo Spirito Santo, che era su di lui, gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia del Signore” (Lc 2, 25-26). 3. Secondo Luca, che parla di fatti avvenuti e narrati nel contesto del mistero dell’Incarnazione, è lo Spirito Santo a compiere la promessa profetica legata alla venuta del primo Consolatore, Cristo. È Lui, infatti, a operare in Maria il concepimento di Gesù, Verbo incarnato (cf. Lc 1, 35); è Lui a illuminare Simeone e a condurlo al Tempio al momento della presentazione di Gesù (cf. Lc 2, 27); è in Lui che Cristo, all’inizio del ministero messianico, dichiara, riferendosi al profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi” (Lc 4, 18; cf. Is 61, 1-2). Il Consolatore di cui parlava Isaia, visto in prospettiva profetica, è Colui che porta la Buona Novella da parte di Dio, confermandola con dei “segni”, cioè con delle opere contenenti i beni salutari di verità, di giustizia, di amore, di liberazione: la “consolazione d’Israele”. E quando Gesù Cristo, compiuta la sua opera, lascia questo mondo per andare al Padre, annunzia “un altro Consolatore”, cioè lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel nome del Figlio (cf. Gv 14, 26). 4. Il Consolatore, lo Spirito Santo, sarà con gli Apostoli; quando Cristo non sarà più sulla terra, vi sarà nei lunghi tempi dell’afflizione, che dureranno per secoli (cf. Gv 16, 17). Sarà dunque con la Chiesa e nella Chiesa, specialmente nei periodi di lotte e di persecuzioni, come Gesù stesso promette agli Apostoli con quelle parole riportate nei Vangeli sinottici: “Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire: perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire” (Lc 12, 11-13; cf. Mc 13, 11): “non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10, 20). Parole riferibili alle tribolazioni subite dagli Apostoli e dai cristiani delle comunità da loro fondate e presiedute; ma anche a tutti coloro che, in qualunque luogo della terra, in tutti i secoli, avranno da soffrire per Cristo. E in realtà sono molti coloro che in tutti i tempi, anche recenti, hanno sperimentato questo aiuto dello Spirito Santo. Ed essi sanno, e possono testimoniare, quale gioia è la vittoria spirituale che lo Spirito Santo ha loro concesso di riportare. Tutta la Chiesa di oggi lo sa, e ne è testimone. 5. Fin dagli inizi, in Gerusalemme, non mancano alla Chiesa contrarietà e persecuzioni. Ma già negli Atti degli Apostoli leggiamo: “La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo” (At 9, 31). Era lo Spirito Consolatore promesso da Gesù che aveva sostenuto gli Apostoli e gli altri seguaci di Cristo nelle prime prove e sofferenze, e continuava a concedere alla Chiesa il suo conforto anche nei periodi di tregua e di pace. Da Lui dipendeva quella pace, e quella crescita delle persone e delle comunità nella verità del Vangelo. Così sarebbe stato sempre nei secoli. 6. Una grande “consolazione” per la Chiesa primitiva fu la conversione e il battesimo di Cornelio, un centurione romano (cf. At 10, 44-48). Era il primo “pagano” che entrava nella Chiesa, insieme con la sua famiglia, battezzato da Pietro. Da quel momento andarono moltiplicandosi coloro che, convertiti dal paganesimo, specialmente per l’attività apostolica di Paolo di Tarso e dei suoi compagni, rinforzavano la moltitudine dei cristiani. Pietro, nel suo discorso all’assemblea degli Apostoli e degli “anziani” riuniti a Gerusalemme, riconobbe in quel fatto l’opera dello Spirito Consolatore: “Fratelli, voi sapete che già da molto tempo Dio ha fatto una scelta tra voi, perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del Vangelo e venissero alla fede. E Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro favore concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi” (At 15, 7-9). La “consolazione” per la Chiesa apostolica era che nel dare lo Spirito Santo, come dice Pietro, Dio “non ha fatto nessuna discriminazione tra noi e loro, purificandone i cuori con la fede” (At 15, 9). Una “consolazione” era anche l’unità che a questo proposito si era espressa in quella riunione di Gerusalemme: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi” (At 15, 28). Quando la lettera che riferiva le decisioni liberatrici di Gerusalemme fu letta alla comunità di Antiochia, tutti “si rallegrarono per la consolazione (greco paraklesei) che infondeva” (At 15, 31). 7. Un’altra “consolazione” dello Spirito Santo fu per la Chiesa la stesura del Vangelo come testo della Nuova Alleanza. Se i testi dell’Antico Testamento, ispirati dallo Spirito Santo, sono già per la Chiesa una sorgente di consolazione e di conforto, come dice San Paolo ai Romani (Rm 5, 4), quanto più lo saranno i libri che riferiscono “tutto ciò che Gesù fece e insegnò dal principio” (At 1, 1). Di questi possiamo dire a maggior ragione che sono stati scritti “per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza” (Rm 15, 4). È, d’altra parte, una consolazione da attribuire allo Spirito Santo (cf. 1 Pt 1, 12) l’attuazione della predizione di Gesù, cioè che “il Vangelo del Regno sarà annunziato a tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti” (Mt 24, 14). Tra queste “genti”, che coprono ogni epoca, vi sono anche quelle del mondo contemporaneo, che sembra così distratto e persino smarrito tra i successi e le attrattive del suo troppo unilaterale progresso di ordine temporale. Anche a queste genti – e a noi tutti – si estende l’opera dello Spirito Paraclito che non cessa di essere consolazione e conforto con la “Buona Novella” di salvezza.

GIOVANNI PAOLO II – “LA CARITÀ NON TIENE CONTO DEL MALE RICEVUTO” (1 COR 13,5)

 http://www.collevalenza.it/Riviste/2001/Riv0301/Riv0301_02.htm

GIOVANNI PAOLO II – “LA CARITÀ NON TIENE CONTO DEL MALE RICEVUTO” (1 COR 13,5)

Dal Vaticano, 7 Gennaio 2001 Messaggio di Sua Santità Giovanni Paolo II per la Qauresima 2001

La Quaresima, pertanto, rappresenta per i credenti l’occasione propizia di una profonda revisione di vità. L’unica via della pace è il perdono. Accettare e donare il perdono rende possibile una nuova qualità di rapporti tra gli uomini, interrompe la spirale dell’odio e della vendetta e spezza le catene del male, che avvincono il cuore dei credenti. Un cuore riconciliato con Dio e con il prossimo è un cuore generoso 1. “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme” (Mc 10, 33). Con queste parole il Signore invita i discepoli a percorrere con Lui il cammino che dalla Galilea conduce al luogo dove si consumerà la sua missione redentrice. Questo cammino verso Gerusalemme, che gli Evangelisti presentano come il coronamento dell’itinerario terreno di Gesù, costituisce il modello della vita del cristiano, impegnato a seguire il Maestro sulla via della Croce. Anche agli uomini e alle donne di oggi Cristo rivolge l’invito a “salire a Gerusalemme”. Lo rivolge con forza particolare in Quaresima, tempo favorevole per convertirsi e ritrovare la piena comunione con Lui, partecipando intimamente al mistero della sua morte e risurrezione. La Quaresima, pertanto, rappresenta per i credenti l’occasione propizia di una profonda revisione di vita. Nel mondo contemporaneo, accanto a generosi testimoni del Vangelo, non mancano battezzati che, dinanzi all’esigente appello ad intraprendere la “salita verso Gerusalemme”, assumono un atteggiamento di sorda resistenza ed a volte anche di aperta ribellione. Sono situazioni in cui l’esperienza della preghiera è vissuta in modo piuttosto superficiale, così che la parola di Dio non incide nell’esistenza. Lo stesso Sacramento della Penitenza è ritenuto da molti insignificante e la Celebrazione eucaristica domenicale soltanto un dovere da assolvere. Come accogliere l’invito alla conversione che Gesù ci rivolge anche in questa Quaresima? Come realizzare un serio cambiamento di vita? Occorre innanzitutto aprire il cuore ai toccanti messaggi della liturgia. Il periodo che prepara alla Pasqua rappresenta un provvidenziale dono del Signore ed una preziosa possibilità per avvicinarsi a Lui, rientrando in se stessi e mettendosi in ascolto dei suoi interiori suggerimenti. 2. Ci sono cristiani che pensano di poter fare a meno di tale costante sforzo spirituale, perché non avvertono l’urgenza di confrontarsi con la verità del Vangelo. Essi tentano di svuotare e rendere innocue, perché non turbino il loro modo di vivere, parole come: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano” (Lc 6, 27). Tali parole, per queste persone, risuonano quanto mai difficili da accettare e da tradurre in coerenti comportamenti di vita. Sono infatti parole che, se prese sul serio, obbligano ad una radicale conversione. Invece, quando si è offesi e feriti, si è tentati di cedere ai meccanismi psicologici dell’autocompassione e della rivalsa, ignorando l’invito di Gesù ad amare il proprio nemico. Eppure le vicende umane d’ogni giorno mettono in luce, con grande evidenza, quanto il perdono e la riconciliazione siano irrinunciabili per porre in essere un reale rinnovamento personale e sociale. Questo vale nelle relazioni interpersonali, ma anche nei rapporti fra comunità e fra nazioni. 3. I numerosi e tragici conflitti che dilaniano l’umanità, scaturiti talvolta anche da malintesi motivi religiosi, hanno scavato solchi di odio e di violenza tra popoli e popoli. A volte, questo avviene anche tra gruppi e fazioni all’interno di una stessa nazione. Si assiste infatti talora, con un doloroso senso di impotenza, al riaffiorare di lotte che si credevano definitivamente sopite e si ha l’impressione che alcuni popoli siano coinvolti in una spirale di violenza inarrestabile, che continuerà a mietere vittime e vittime, senza una concreta prospettiva di soluzione. E gli auspici di pace, che si levano da ogni parte del mondo, risultano inefficaci: l’impegno necessario per avviare verso la desiderata concordia non riesce ad affermarsi. Di fronte a questo inquietante scenario, i cristiani non possono restare indifferenti. E’ per questo che, nell’Anno giubilare appena concluso, mi sono fatto voce della richiesta di perdono della Chiesa a Dio per i peccati dei suoi figli. Siamo ben consapevoli che le colpe dei cristiani ne hanno purtroppo offuscato il volto immacolato, ma, confidando nell’amore misericordioso di Dio che non tiene conto del male in vista del pentimento, sappiamo anche di poter continuamente riprendere fiduciosi il cammino. L’amore di Dio trova la sua espressione più alta proprio quando l’uomo, peccatore e ingrato, viene riammesso alla piena comunione con Lui. In quest’ottica, la “purificazione della memoria” costituisce soprattutto la rinnovata confessione della misericordia divina, una confessione che la Chiesa, ai suoi diversi livelli, è chiamata ogni volta a fare propria con rinnovata convinzione. 4. L’unica via della pace è il perdono. Accettare e donare il perdono rende possibile una nuova qualità di rapporti tra gli uomini, interrompe la spirale dell’odio e della vendetta e spezza le catene del male, che avvincono il cuore dei contendenti. Per le nazioni in cerca di riconciliazione e per quanti auspicano una coesistenza pacifica tra individui e popoli, non c’è altra via che questa: il perdono ricevuto ed offerto. Quanto ricche di salutari insegnamenti risuonano le parole del Signore: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5, 44-45)! Amare chi ci ha offesi disarma l’avversario e può trasformare in un luogo di solidale cooperazione anche un campo di battaglia. E’ una sfida, questa, che concerne le singole persone, ma anche le comunità, i popoli e l’intera umanità. Interessa, in modo speciale, le famiglie. Non è facile convertirsi al perdono ed alla riconciliazione. Riconciliarsi può già apparire problematico quando all’origine c’è una propria colpa. Se poi la colpa è dell’altro, riconciliarsi può essere visto addirittura come irragionevole umiliazione. Per fare un simile passo è necessario un cammino di interiore conversione; occorre il coraggio dell’umile obbedienza al comando di Gesù. La sua parola non lascia dubbi: non solo chi provoca l’inimicizia, ma anche chi la subisce deve cercare la riconciliazione (cfr Mt 5, 23-24). Il cristiano deve fare la pace anche quando si sente vittima di chi l’ha ingiustamente offeso e percosso. Il Signore stesso ha agito così. Egli attende che il discepolo lo segua, cooperando in tal modo alla redenzione del fratello. In questo nostro tempo, il perdono appare sempre più come dimensione necessaria per un autentico rinnovamento sociale e per il consolidarsi della pace nel mondo. La Chiesa, annunciando il perdono e l’amore per i nemici, è consapevole di immettere nel patrimonio spirituale dell’intera umanità un modo nuovo di rapportarsi agli altri; un modo certo faticoso, ma ricco di speranza. In questo essa sa di poter contare sull’aiuto del Signore, che mai abbandona chi a Lui ricorre nelle difficoltà. 5. “La carità non tiene conto del male ricevuto” (1 Cor 13,5). In questa espressione della prima Lettera ai Corinti, l’apostolo Paolo ricorda che il perdono è una delle forme più elevate dell’esercizio della carità. Il periodo quaresimale rappresenta un tempo propizio per meglio approfondire la portata di questa verità. Mediante il Sacramento della riconciliazione, il Padre ci dona in Cristo il suo perdono e questo ci spinge a vivere nella carità, considerando l’altro non come un nemico, ma come un fratello. Possa questo tempo di penitenza e di riconciliazione incoraggiare i credenti a pensare e ad operare nel segno di una carità autentica, aperta a tutte le dimensioni dell’uomo. Questo atteggiamento interiore li condurrà a portare i frutti dello Spirito (cfr Gal 5, 22) e ad offrire con cuore nuovo l’aiuto materiale a chi è nel bisogno. Un cuore riconciliato con Dio e con il prossimo è un cuore generoso. Nei giorni sacri della Quaresima la ‘colletta’ assume un significativo valore, perché non si tratta di donare qualcosa del superfluo per tranquillizzare la propria coscienza, ma di farsi carico con sollecitudine solidale della miseria presente nel mondo. Considerare il volto dolorante e le condizioni di sofferenza di tanti fratelli e sorelle non può non spingere a condividere almeno parte dei propri beni con chi è in difficoltà. E l’offerta quaresimale risulta ancor più ricca di valore, se chi la compie si è liberato dal risentimento e dall’indifferenza, ostacoli che tengono lontani dalla comunione con Dio e con i fratelli. Il mondo attende dai cristiani una coerente testimonianza di comunione e di solidarietà. Sono al riguardo quanto mai illuminanti le parole dell’apostolo Giovanni: “Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3, 17). Fratelli e Sorelle! San Giovanni Crisostomo, commentando l’insegnamento del Signore sul cammino verso Gerusalemme, ricorda che Cristo non lascia i discepoli ignari delle lotte e dei sacrifici che li attendono. Egli sottolinea che rinunciare al proprio ‘io’ è difficile, ma non impossibile quando si può contare sull’aiuto di Dio a noi concesso “mediante la comunione con la persona di Cristo” (PG 58, 619 s). Ecco perché, in questa Quaresima, desidero invitare tutti i credenti ad un’ardente e fiduciosa preghiera al Signore, perché conceda a ciascuno di fare una rinnovata esperienza della sua misericordia. Solo questo dono ci aiuterà ad accogliere e vivere in modo sempre più gioioso e generoso la carità di Cristo, che “non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità” (1 Cor 13, 5-6). Con questi sentimenti invoco la protezione della Madre della Misericordia sul cammino quaresimale dell’intera Comunità dei credenti e di cuore imparto a ciascuno la Benedizione Apostolica.

 

GIOVANNI PAOLO II – “QUANTI SIETE STATI BATTEZZATI IN CRISTO, VI SIETE RIVESTITI DI CRISTO” (GAL 3, 27) – 25.1.’84

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CELEBRAZIONE ECUMENICA A SAN PAOLO FUORI LE MURA

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Mercoledì, 25 gennaio 1984

“QUANTI SIETE STATI BATTEZZATI IN CRISTO, VI SIETE RIVESTITI DI CRISTO” (GAL 3, 27).

1. San Paolo, l’apostolo delle genti, riassume con questa espressione il mistero della redenzione dell’uomo, dell’incorporazione a Cristo, della creazione dell’uomo a somiglianza del Figlio di Dio, che è “l’immagine del Dio invisibile” (Col 1, 15). Infatti “voi tutti siete figli di Dio per la fede in Gesù Cristo” (Gal 3, 26). Ed è per mezzo del Battesimo che si è resi partecipi della sua morte e della sua risurrezione, cioè della vita divina. Questo avvenimento di grazia sovrabbondante cancella tutte le divisioni etnico-religiose, le discriminazioni a causa della condizione sociale, della razza e del sesso. “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28). Gesù Cristo ha realizzato questa unità per mezzo del sacrificio della croce, su cui offrì se stesso per il perdono, per il riscatto e per la vita dell’umanità intera. Egli è morto “per radunare insieme nell’unità i figli di Dio dispersi” (Gv 11, 52). È il mistero dell’amore di Dio, che ha creato l’uomo e lo chiama alla salvezza definitiva. Su questo argomento è attirata la nostra attenzione oggi, festa della conversione di san Paolo, a conclusione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che cade nell’Anno Giubilare della Redenzione. Durante quest’anno la celebrazione speciale della redenzione dell’uomo operata da Cristo rende più lucida e impegnativa l’esigenza della piena riconciliazione di tutti i cristiani, accomunati dalla grazia dell’unico Battesimo. 2. “Il Battesimo, infatti, costituisce il vincolo sacramentale dell’unità che vige fra tutti quelli che per mezzo di esso sono stati rigenerati” (Unitatis redintegratio, 22). Le tragiche divisioni introdotte tra i cristiani non distruggono questa unità fondamentale; impediscono però la piena realizzazione delle intrinseche esigenze emananti dal Battesimo. Le divisioni mortificano il Battesimo; esso infatti “è ordinato all’integra professione della fede, all’integrale incorporazione nell’istituzione della salvezza, come lo stesso Cristo ha voluto, e infine alla piena inserzione nella comunione eucaristica” (Unitatis redintegratio, 22). Il Concilio Vaticano II, del quale ricorre oggi il 25° anniversario del primo annuncio dato in questa Basilica, con un’immagine di particolare delicatezza, ha descritto questi due aspetti, entrambi profondamente veri e cioè che la divisione è una realtà peccaminosa che tuttavia non distrugge l’unità profonda generata dalla Grazia. Anche qui si usa l’immagine della veste, della veste di Cristo. Le divisioni, si afferma, “hanno intaccata l’inconsutile tunica di Cristo” (Unitatis redintegratio, 13). Se la veste di Cristo rimane “inconsutile”, tuttavia essa è stata intaccata. “È stato forse diviso il Cristo – chiede con espressione drammatica san Paolo ai cristiani di Corinto – oppure è stato crocifisso Paolo per voi?” (1 Cor 1, 13). La croce di Cristo, che salva tutti, è un costante appello al superamento di ogni divisione. L’opera di Cristo per l’umanità, la sua croce e la missione, da lui affidata alla Chiesa, di fare discepoli e battezzare tutte le genti (cf. Mt 28, 19-20), chiamano tutti i battezzati a tendere alla piena unità nella fede e nella vita sacramentale, superando ogni divisione e frattura. 3. La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani si celebra sempre più concordemente fra cattolici, ortodossi e protestanti. Essa è diffusa ormai nel mondo intero. Il Signore ascolti questa invocazione unanime e renda fecondi gli sforzi sinceri di studio e di dialogo, che si fanno tra i cristiani per il ristabilimento della piena unità. L’unità resta sempre un dono di Dio, perché essa implica il perdono dei peccati, la purificazione dei cuori, la comunione alla vita divina. Si esige però anche lo sforzo dell’uomo e la perseveranza in un cammino intrapreso “per grazia dello Spirito Santo” (Unitatis redintegratio, 1). Di anno in anno, la Settimana di preghiera ci fa constatare, assieme alle difficoltà che ancora permangono, anche buoni progressi verso l’intesa ecumenica. E il cuore si riscalda per la gioia, e lo spirito si rafforza per la speranza. Siano rese grazie a Dio. Quest’anno il Comitato misto fra i rappresentanti della Chiesa cattolica e del Consiglio ecumenico delle Chiese, che sceglie il tema e prepara i testi per l’annuale preghiera per l’unità, ha fatto notare che si pongono in evidenza “convergenze teologiche notevoli circa la natura dell’unità cristiana, il Battesimo e l’Eucaristia, il ministero e l’autorità nella Chiesa”. Ciò è fonte di gioia profonda per chiunque crede veramente nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Il faticoso cammino verso l’unità voluta da Cristo per i suoi discepoli diventa così concreta espressione della comune volontà di ubbidire al Signore fino in fondo. In questa prospettiva bisogna perseverare con sempre maggiore intensità nella preghiera, consolidare l’azione ecumenica e rafforzare la tensione verso la piena unità. 4. Le contingenze sempre più inquietanti del nostro tempo, i conflitti armati aperti qua e là nel mondo, i rischi di una catastrofe nucleare, la paura dell’uomo, sempre più minacciato, costituiscono un nuovo stimolo per i cristiani a trovare una riconciliazione piena per portare il loro effettivo contributo ai bisogni dell’uomo. Il profeta Isaia apre la nostra mente alla visione del monte del tempio del Signore, a cui affluiranno tutte le genti. Allora “forgeranno le loro spade in vomeri, e le loro lance in falci” (Is 2, 4). La forza sprecata nell’avversione e nella distruzione sarà adoperata per i veri bisogni della vita. In cammino verso questa meta “nella luce del Signore” (Is 2, 5), fondandosi sul comune Battesimo, i cristiani sin da oggi possono congiungere le loro forze per dare insieme una comune testimonianza di fede nell’azione di servizio a tutto l’uomo e a tutti gli uomini. Le sofferenze del mondo di oggi sono una realtà che ci interroga. Sempre san Paolo, con il suo discorso vivo, attuale ed esigente, ci dice: “Prendete parte alle necessità dei fratelli” (Rm 12, 13). La collaborazione pratica tra i cristiani delle varie confessioni è possibile e ad essa il Concilio Vaticano II conferisce anche una potenza di evangelizzazione: “La cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quell’unione che già vige tra di loro, e pone in più chiara luce il volto di Cristo servo” (Unitatis redintegratio, 12). Le iniziative di sensibilizzazione, come quella che si apre oggi nell’ambito di questa Abbazia, sono utili a formare una coscienza di partecipazione e di comunione per le sorti dell’umanità. Ad un livello più generale la Santa Sede ha un Gruppo consultivo con il Consiglio ecumenico delle Chiese sulla collaborazione circa il pensiero e l’azione sociale, il quale è ricco di possibilità in questo campo. 5. Alla vigilia del suo sacrificio sulla croce, Gesù affidò al Padre i suoi discepoli e tutti coloro che per le loro parole avrebbero creduto in lui. Egli pregò: “Che siano una cosa sola, perché il mondo creda” (Gv 17, 21). Domandò una unità senza alcuna ombra, una unità piena, totale, vitale. Egli invocò: “Che siano perfetti nell’unità” (Gv 17, 23). Lo sforzo dei cristiani verso la piena unità deve perciò continuare, finché non si giunga alla meta indicata da Gesù Cristo. E occorre perseverare nello studio approfondito delle questioni, che ancora dividono i cristiani, nel dialogo franco e leale, nell’azione congiunta, e in particolare nella preghiera che sostiene, fortifica e orienta. Il Concilio Vaticano II ha consigliato la preghiera in comune con gli altri cristiani: “Queste preghiere in comune sono senza dubbio un mezzo molto efficace per impetrare la grazia dell’unità” (Unitatis redintegratio, 8). 6. A tutti voi qui presenti, a tutti i battezzati del mondo intero, dico con tutto il cuore: la pace e la grazia di Dio siano sempre con voi! Il Signore sia sempre con noi tutti e ci guidi sulle vie che portano all’unità, affinché per mezzo di essa possiamo portare più efficacemente a tutti gli uomini il Vangelo di amore, di riconciliazione e di pace. Amen.

 

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