LUNEDÌ 28 FEBBRAIO 2011 – VIII SETTIMANA DEL T.O.
LUNEDÌ 28 FEBBRAIO 2011 – VIII SETTIMANA DEL T.O.
Prima Lettura
Dal libro di Giobbe 2, 1-13
Giobbe, tutto ricoperto di piaghe, è visitato dagli amici
Quando un giorno i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore, anche satana andò in mezzo a loro a presentarsi al Signore. Il Signore disse a satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Da un giro sulla terra che ho percorsa». Il Signore disse a satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male. Egli è ancor saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto contro di lui, senza ragione, per rovinarlo». Satana rispose al Signore: «Pelle per pelle; tutto quanto ha, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia!». Il Signore disse a satana: «Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita».
Satana si allontanò dal Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. Allora sua moglie disse: «Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!». Ma egli le rispose: «Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?».
In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.
Nel frattempo tre amici di Giobbe erano venuti a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita, e si accordarono per andare a condolersi con lui e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano ma non lo riconobbero e, dando in grida, si misero a piangere. Ognuno si stracciò le vesti e si cosparse il capo di polvere. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore.
Responsorio Sal 37, 2. 3. 4. 12
R. Signore, non castigarmi nel tuo sdegno. Le tue frecce mi hanno trafitto; * per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano.
V. Gli amici si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza;
R. per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano.
Seconda Lettura
Dal «Commento al Libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa
(Lib. 3, 15-16; PL 75, 606-608)
Se da Dio accettiamo il bene,
perché non dovremo accettare anche il male?
Paolo, osservando in se stesso le ricchezze della sapienza interiore e vedendo che all’esterno egli era corpo corruttibile, disse: «Abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4, 7).
Ecco che nel beato Giobbe il vaso di creta sentì all’esterno i colpi e le rotture, ma questo tesoro internamente rimase intatto. Al di fuori si screpolò a causa delle ferite, ma il tesoro della sapienza all’interno rinasceva inesauribilmente, tanto da manifestarsi all’esterno in queste sante espressioni: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2, 10).
Chiama beni i doni sia temporali che eterni; mali invece i flagelli presenti, dei quali il Signore dice per bocca del profeta: «Io sono il Signore e non c’è alcun altro; fuori di me non c’è dio. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura» (Is 45, 5a. 7).
«Io formo la luce e creo le tenebre», perché, mentre con i flagelli si creano all’esterno le tenebre del dolore, si accende all’interno la luce delle grandi esperienze spirituali. «Faccio il bene e provoco la sciagura», perché alla pace con Dio veniamo riportati quando le cose create bene, ma non bene desiderate, si mutano, per noi, in flagelli e sofferenze. Noi entrammo in conflitto con Dio a causa della colpa. E’ giusto dunque che torniamo in pace con lui per mezzo dei flagelli. Quando infatti ogni cosa creata bene si volge per noi in sofferenza, siamo ricondotti sulla retta via, e l’anima nostra è rigenerata con l’umiltà alla pace del Creatore.
Ma nelle parole di Giobbe bisogna osservare attentamente con quanta abilità di ragionamento egli sappia concludere contro le affermazioni di sua moglie, dicendo: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».
E’ certamente un grande conforto nelle tribolazioni richiamare alla memoria i benefici del nostro Creatore, mentre si sopportano le avversità. Né ciò che viene dal dolore ci può scoraggiare, se subito richiamano alla mente il conforto che i doni ci recano. Per questo è stato scritto: Nel tempo della prosperità non dimenticare la sventura e nel tempo della sventura non dimenticare il benessere (cfr. Sir 11, 25).
Chiunque gode prosperità, ma nel tempo di essa non ha timore anche dei flagelli, a causa del benessere cade nell’arroganza. Chi invece, oppresso da flagelli, non cerca al tempo stesso di consolarsi con la memoria dei doni ricevuti, è annientato dai sentimenti di sconforto o anche di disperazione. Bisogna dunque unire assieme le due cose, in modo che l’una sia sempre sostenuta dall’altra: il ricordo del bene mitigherà la sofferenza del flagello; la diffidenza circa le gioie terrestri e il timore del flagello freneranno la gioia del dono.
L’uomo santo perciò, per alleviare il suo animo oppresso in mezzo alle ferite, nella sofferenza dei flagelli consideri la dolcezza dei doni, e dica: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».