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«La grazia di Dio salvatore: libera, bastevole, per noi necessaria» – Paolo VI (l’esperienza e il messaggio di Paolo)

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  DA 30 GIORNI –

«La grazia di Dio salvatore: libera, bastevole, per noi necessaria» (Paolo VI)

Con queste parole Giovanni Battista Montini, negli appunti scritti da giovane sacerdote sulle Lettere di san Paolo, indica l’esperienza e il messaggio dell’Apostolo

di don Giacomo Tantardini  
 
      Ringrazio chi mi ha invitato in questa bella città di Ortona dove, nella Cattedrale, è custodito il corpo dell’apostolo Tommaso. Ringrazio sua eccellenza monsignor Ghidelli per la sua presenza a questo incontro.
      Io non ho competenza specifica per parlare di san Paolo. Quello che conosco di Paolo nasce semplicemente dalla lettura delle sue Lettere, in particolare da quella lettura che ne viene fatta nella santa messa e nella preghiera del breviario, e credo che questa sia la cosa più importante. Paolo VI in un discorso tenuto in un convegno di esegeti sulla risurrezione di Gesù, citando sant’Agostino, diceva che per comprendere la Scrittura «praecipue et maxime orent ut intelligant», la cosa «più importante e principale è pregare per capire».
      Così nella preghiera può essere donato di intuire l’esperienza che ha fatto Paolo, l’esperienza di essere amato da Gesù. Iniziando l’Anno paolino, papa Benedetto XVI ha detto che Paolo è un nulla amato da Gesù Cristo. «Io sono un nulla», dice Paolo stesso al termine della seconda Lettera ai Corinzi (2Cor 12, 11) e nella Lettera ai Galati: «Ha amato me e ha dato sé stesso per me» (Gal 2, 20).
      Così anche a noi, nella distanza infinita dall’apostolo, può accadere la stessa esperienza, la stessa comunione di grazia, perché è reale la comunione dei santi. Ed è questa identità di esperienza, l’esperienza di essere gratuitamente amati da Gesù Cristo, che fa rivivere le parole dell’apostolo, che può rendere Paolo così vicino, così prossimo, così amico, così familiare.
      Vorrei iniziare leggendo alcune frasi pronunciate da papa Benedetto durante l’Angelus di domenica 25 gennaio. Quest’anno, la festa della conversione di san Paolo è caduta di domenica, e il Papa, spiegando l’incontro di Saulo con Gesù sulla via di Damasco (anche nella messa di oggi lo abbiamo letto dagli Atti degli apostoli), ha detto queste parole che mi hanno sorpreso e confortato, e che ho riletto tante volte: «In quel momento [quando ha incontrato Gesù: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9, 5)] Saulo comprese che la sua salvezza [possiamo anche dire la sua felicità, perché il riverbero umano della salvezza è la felicità, il riverbero umano della Sua grazia è il piacere della Sua grazia] non dipendeva dalle opere buone compiute secondo la legge [mi ha molto colpito l’aggettivo buone. Opere buone. Il Papa ha voluto sottolineare che la salvezza non dipende dalle opere buone, compiute secondo la legge, opere buone, come buona e santa è la legge (cfr. Rm 7, 12)], ma dal fatto che Gesù era morto anche per lui, il persecutore [«Ha amato me e ha dato sé stesso per me» (Gal 2, 20)], ed era, ed è, risorto». L’altra parola che mi ha colpito è stata quel verbo al presente: «Era, ed è, risorto».
      Benedetto XVI, quest’anno, ha tenuto venti meditazioni su san Paolo durante le udienze del mercoledì. Una di queste meditazioni, forse la più bella, l’undicesima, tratta della fede di Paolo nella risurrezione del Signore. Commentando il capitolo 15 della prima Lettera ai Corinzi, il Papa ha sottolineato che Paolo trasmette ciò che a sua volta ha ricevuto (cfr. 1Cor 15, 3), cioè «che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e che è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15, 3-5). La risurrezione di Gesù è un fatto accaduto in un momento preciso del tempo e Colui che è risuscitato, in quel preciso momento, è vivo ora, in questo momento. È risorto e quindi vivo nel presente.
      La conversione di Paolo, secondo il Papa, sta in questo passaggio. Il passaggio dal ritenere che la salvezza dipendeva dalle sue opere buone, compiute secondo la legge (la legge è la legge di Dio, la legge sono i dieci comandamenti di Dio), al riconoscere semplicemente che la salvezza era ed è la presenza di un Altro. Era ed è la presenza di Gesù.
      Sempre nell’Angelus di domenica 25 gennaio Benedetto XVI ha aggiunto (e la cosa mi ha colpito anche perché il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che stimo molto e che posso dire amico di 30Giorni, ha sottolineato questo accenno del Papa) che non si potrebbe propriamente parlare di conversione di Paolo, perché Paolo già credeva nel Dio unico e vero ed era «irreprensibile» per quanto riguarda la legge di Dio. Lo dice lui stesso nella Lettera ai Filippesi (3, 6).
      La conversione di Paolo (e qui permettetemi di riprendere le parole che sant’Agostino usa per indicare la propria conversione) è semplicemente il passaggio dalla sua dedizione a Dio al riconoscimento di quello che Dio ha compiuto e compie in Gesù.
      Agostino così descrive la propria conversione: «Quando ho letto l’apostolo Paolo [e subito dopo – perché non basta neppure leggere le Scritture – aggiunge:] e quando la Tua mano ha curato la tristezza del mio cuore, allora ho compreso la differenza inter praesumptionem et confessionem / tra la dedizione e il riconoscimento». Praesumptio non indica inizialmente una cosa cattiva. Alla lunga decade in presunzione cattiva; ma inizialmente indica il tentativo dell’uomo di voler raggiungere l’ideale buono intuìto. La conversione cristiana è il passaggio da questo tentativo dell’uomo di compiere il bene (le opere buone, diceva papa Benedetto) al semplice riconoscimento della presenza di Gesù. Dalla praesumptio, dedizione, alla confessio, riconoscimento. La confessio, riconoscimento, è come quando il bambino dice: «Mamma». Come quando la mamma viene incontro al bambino e lui le dice: «Mamma». 
 
      La conversione cristiana, per Agostino e per Paolo, è (permettetemi di usare questa immagine di don Giussani che, secondo me, non ha l’equivalente) il passaggio dall’entusiasmo della dedizione all’entusiasmo della bellezza; dall’entusiasmo della propria dedizione, che in sé è buono, all’entusiasmo destato da una presenza che attrae il cuore, una presenza che gratuitamente si fa incontro e gratuitamente si fa riconoscere. Paolo non ha fatto nulla per incontrarLo. Il Suo gratuito venire incontro attua il passaggio dalla nostra dedizione alla bellezza della Sua presenza che per attrattiva si fa riconoscere. E tra dedizione e riconoscimento non c’è contraddizione. Giussani dice semplicemente che «l’entusiasmo della dedizione è imparagonabile all’entusiasmo della bellezza». È lo stesso termine che usa sant’Agostino quando descrive il rapporto tra la virtù degli uomini e i primi piccoli passi di chi pone la speranza nella grazia e nella misericordia di Dio.
      Potremmo anche dire che, quando accade di vivere per grazia l’esperienza stessa che Paolo ha vissuto, l’identica sua esperienza, nell’infinita distanza da lui, è come se tutte le parole cristiane, la parola fede, la parola salvezza, la parola chiesa, fossero trasparenti dell’iniziativa di Gesù Cristo. È Lui che desta la fede. La fede è opera Sua. È Lui che salva. È Sua iniziativa il donare la salvezza. È Lui che costruisce la Sua chiesa. «Aedificabo ecclesiam meam» (Mt 16, 18). Aedificabo è un futuro: «Edificherò la mia chiesa» sulla professione di fede di Pietro, sulla grazia della fede donata a Pietro (cfr. Mt 16, 18). È Lui che edifica personalmente, nel presente, la Sua chiesa su un Suo dono.
      Come è bello dire le parole cristiane più semplici, la parola fede, la parola speranza, la parola carità, e accorgersi che queste parole indicano un’iniziativa Sua, fanno intravvedere un gesto Suo, il Suo agire. Come è accaduto a santa Teresina di Gesù Bambino: «Quando sono caritatevole, è solo Gesù che agisce in me».
      Noi sacerdoti, la seconda settimana dopo Pasqua, abbiamo letto nel breviario, dall’Apocalisse, le lettere che Gesù invia alle sette chiese. In una di queste lettere Gesù dice: «Non hai rinnegato la mia fede» (Ap 2, 13). La mia fede. È la fede di Gesù.
      «Gratia facit fidem». Come è semplice e bella questa espressione di san Tommaso d’Aquino! È la grazia che crea la fede. È Lui che si fa riconoscere. «Nessuno viene a me se non lo attira il Padre mio» (Gv 6, 44.65), dice Gesù. E sant’Agostino commenta: «Nemo venit nisi tractus / Nessuno viene [a Gesù], se non è attirato». È Sua iniziativa la fede. È Sua iniziativa la salvezza. È Sua iniziativa la Sua chiesa.
      Permettetemi di raccontarvi uno dei miei primi incontri con don Giussani. L’occasione mi è stata data dal fatto che a Venegono, nel mio seminario, ho conosciuto Angelo Scola, l’attuale patriarca di Venezia. È stato lui a farmi incontrare don Giussani. Ricordo ancora quell’incontro a Milano. Giussani parlava a un gruppo di giovani. A un certo punto chiese: «Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo? Che cosa, adesso, ci mette in rapporto con Gesù Cristo?». Alcuni risposero: «La chiesa», «la comunità», «la nostra amicizia», eccetera. Alla fine di tutti questi interventi, Giussani ripeté la domanda: «Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo?», e poi diede lui stesso la risposta: «Il fatto che è risorto». Questa cosa non la dimenticherò più! «Il fatto che è risorto». Perché se non fosse risorto, se non fosse vivo, la chiesa sarebbe un’istituzione meramente umana, come tante altre. Un peso in più. Tutte le cose meramente umane alla fine diventano un peso.
      «Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo? Il fatto che è risorto». La chiesa è la visibilità di Lui vivo. «La chiesa non ha altra vita», dice il Credo del popolo di Dio di Paolo VI, «se non quella della Sua grazia». Non ha altro inizio, momento per momento, che l’attrattiva Sua, l’attrattiva della Sua grazia. La chiesa è il termine visibile del gesto di Gesù vivo che incontra il cuore e lo attrae.
      Leggere san Paolo, vivendo per grazia quello che Paolo ha compreso (come dice il Papa) nella sua conversione, rende tutte le parole cristiane trasparenti di Lui, di Gesù Cristo, dona a tutte le parole cristiane questa leggerezza. Altrimenti diventano pesanti. Se la fede fosse un’iniziativa nostra, saremmo finiti. Siccome è un’iniziativa Sua, è possibile sempre il rinnovarsi del Suo dono. E quindi è possibile sempre ricominciare. È un’iniziativa Sua, in ogni istante. «Gratia facit fidem… quamdiu fides durat».
      È stata una cosa molto bella che nel 1999 la Commissione teologica di studio tra la Chiesa cattolica e i luterani, valorizzando proprio questa frase di san Tommaso d’Aquino, ha riconosciuto che tra la teologia di Lutero sulla giustificazione per la fede e aspetti essenziali della dottrina dogmatica del Concilio di Trento nel decreto De iustificatione c’è una sorprendente identità.
      San Tommaso d’Aquino dunque dice che «la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia, ma in ogni istante in cui dura». E aggiunge questa osservazione bellissima: ci vuole la stessa attrattiva di grazia, lo stesso tesoro di grazia, sia per far rimanere nella fede, adesso, noi che crediamo, sia per far passare una persona (se ci fosse qui uno che non crede) dalla non fede alla fede.
      Ho detto questo solo per dire che la conversione di Paolo, come di ogni cristiano, si attua nel passaggio dall’iniziativa dell’uomo all’iniziativa di Gesù, allo stupore dell’iniziativa di Gesù, alla confessio supplex. Com’era bello, nella messa in latino, quando, prima del Sanctus, si diceva sempre: «Supplici confessione / Con riconoscimento che domanda». Perché non si può riconoscere una presenza che ti ama se non domandando che essa continui a volerti bene.
      Ora, tre suggerimenti.  
 
      1. «… nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato…»
      Leggiamo Galati 1, 15 in cui Paolo stesso descrive il passaggio dalla sua iniziativa all’iniziativa di Dio.
      «Ma quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre… [c’è un mistero da cui nasce la grazia della fede ed è la scelta di Dio, l’elezione di Dio. Non possiamo giudicare noi questo mistero: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16)] … quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia [com’è bello questo mi chiamò con la sua grazia! Non basta la voce, neppure la voce di Gesù, se l’attrattiva di Gesù non tocca il cuore. È la Sua grazia, è la Sua attrattiva che commuove il cuore] si compiacque di rivelare a me suo Figlio…». Si degnò di mostrarmi Suo Figlio. Questa è la conversione di Paolo. Colui che mi ha scelto e mi ha chiamato con la Sua grazia mi ha fatto riconoscere Suo Figlio.
      Galati 2, 20: «Questa vita che vivo nella carne [nella condizione umana, segnata dal peccato originale, anche dopo il battesimo. Il battesimo toglie il peccato, ma lascia la fragilità che proviene dal peccato e che inclina al peccato], io la vivo nella fede del Figlio di Dio [nel riconoscimento del Figlio di Dio], che mi ha amato e ha dato sé stesso per me».
      Vi leggo come papa Benedetto XVI ha commentato questa frase: «La sua fede [la fede di Paolo] è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale […] Cristo ha affrontato la morte […] per amore di lui – di Paolo – e, come Risorto, lo ama tuttora. […] La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore».
      La fede nasce dall’impatto dell’amore di Gesù con il cuore di Paolo. La fede è l’iniziativa dell’amore di Gesù Cristo sul suo cuore.
      Permettetemi di leggervi una frase che ho scoperto andando a Cascia a pregare santa Rita (santa Rita era sposata e aveva due figli. Il marito viene ucciso e lei perdona pubblicamente l’assassino e domanda che i suoi due figli non vendichino il padre. Poi entra nel monastero delle monache agostiniane di Cascia). La frase che vi leggo è di un beato monaco agostiniano il cui scritto sulla passione di Gesù era conosciuto da santa Rita: «L’amicizia è una virtù, ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità». Mi sembra che queste parole indichino da dove provenga la carità e che cosa sia la carità. L’amicizia è una virtù, è il vertice delle virtù. San Tommaso d’Aquino dice che la carità è amicizia. Ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità. Viene prima l’essere amati (cfr. 1Gv 4, 19). Per amare bisogna prima essere amati. Bisogna prima essere contenti di essere amati.
      Sant’Agostino, in quel brano stupendo in cui, paragonando tra loro gli apostoli Pietro e Giovanni, si domanda chi sia più buono tra i due, risponde che più buono è Pietro, tanto è vero che a Gesù che gli domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?» (Gv 21, 15), Pietro risponde: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene» (Gv 21, 15). Quindi Pietro è più buono di Giovanni. Confrontando la condizione di Pietro, che vuole bene di più a Gesù, con la condizione di Giovanni, che è più amato da Gesù, Agostino dice: «Facile responderem meliorem Petrum, feliciorem Ioannem / È facile per me rispondere che Pietro è più buono [perché vuole più bene a Gesù] ma Giovanni è più felice [perché è amato di più da Gesù]». L’essere felice dipende dall’essere amato. Non dipende neppure dal nostro povero amore. Pietro è più buono perché vuole più bene a Gesù, ma Giovanni è più felice perché è più amato da Gesù.
      Il Papa dice che la fede di Paolo è l’impatto dell’amore di Gesù sul suo cuore e così questa stessa fede, proprio perché è l’impatto dell’amore di Gesù sul suo cuore, desta ed è anche il povero amore di Paolo a Gesù. Questa attrattiva amorosa di Gesù, rendendo lieto il cuore di Paolo, desta anche il povero amore di Paolo a Gesù, povero come quello di Pietro.
      Papa Benedetto, in un’udienza del mercoledì, commentando la domanda di Gesù a Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?», ha insistito sulla differenza dei verbi greci che Gesù e Pietro usano. Gesù usa un verbo che indica un amore totalizzante («… mi ami tu?»). Pietro usa un verbo che esprime il povero amore umano («tu sai che ti voglio bene»). «Ti voglio bene così come è possibile a un povero uomo». Allora, la terza volta (è bellissimo come il Papa descrive questo!), Gesù si adegua al povero amore umano di Pietro e gli chiede semplicemente se gli vuole bene, così come un povero uomo può volere bene.
      Leggo ora 1 Corinzi 15, 8 e seguenti. Anche qui Paolo descrive l’incontro con Gesù sulla via di Damasco: «In seguito, ultimo fra tutti…». Come è bello questo ultimo fra tutti! Nella liturgia ambrosiana il sacerdote che celebra la messa dice: «Nobis quoque minimis et peccatoribus». Nella liturgia romana dice solo: «Nobis quoque peccatoribus». Nella liturgia ambrosiana colui che celebra la santa messa, che sia il vescovo oppure l’ultimo prete, dice: «Anche a noi che siamo i più piccoli e peccatori». Così Paolo dice di essere l’ultimo, il più piccolo.
      «In seguito ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io, infatti, sono l’ultimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me». 
 
      2. Paolo è sempre sospeso all’iniziativa di Gesù
      Paolo è sempre sospeso all’iniziativa della grazia. E questa è una delle cose più impressionanti per chi legge le sue Lettere. Non solo l’inizio è grazia, non solo l’inizio è iniziativa di Gesù. Paolo è sempre sospeso all’iniziativa di Gesù, momento per momento. Come è nella realtà per ciascuno di noi. Ma l’esperienza di Paolo, da questo punto di vista, è di una drammaticità e di una bellezza uniche.
     
      Vi leggo un brano, che già nel mio seminario mi confortava tanto, dalla seconda Lettera ai Corinzi, 12, 7 e seguenti. Allora mi colpivano le parole, ora il cammino della vita, per Sua grazia e Sua rinnovata misericordia, ha donato realtà a quelle parole.
      La seconda Lettera ai Corinzi per me è la Lettera più bella perché è quella in cui Paolo – lo dice lui stesso – apre tutto il suo cuore (2Cor 6, 11). È la Lettera in cui Paolo di fronte alla «dolcezza e mitezza di Cristo» (2Cor 10, 1) descrive quello che lui è, l’inermità che lui è, la fragilità che lui è.
      «Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia [comunque si legga questa “spina nella carne”, questa fragilità, questa tentazione, Paolo dice così]. A causa di questo [a causa di questa sofferenza] per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me [che allontanasse questa sofferenza, questa tentazione, questa fragilità]. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”». La Sua forza si manifesta pienamente nella debolezza.
      Permettetemi di fare una piccola correzione a una frase che ho letto prima in un pannello della mostra su san Paolo. Non avrei scritto che Paolo è «orgoglioso della sua debolezza». Non si può essere orgogliosi della propria debolezza. Sant’Ireneo, commentando questo brano della seconda Lettera ai Corinzi, e avendo presente la gnosi (uno degli elementi essenziali dell’eresia gnostica è la non distinzione tra il bene e il male, fino a porre, ed Hegel lo teorizza, il male in Dio e da Dio), è attentissimo a distinguere la debolezza dalla grazia. La debolezza rende evidente la grazia. La debolezza, quando viene abbracciata, rende più evidente l’essere abbracciati. Ma il positivo è l’essere abbracciati, non la debolezza. Nella debolezza, che è la condizione umana, l’essere abbracciati gratuitamente da Gesù è più evidente. Quando un bambino è ammalato, la mamma e il papà è come se gli volessero più bene, ma non è un valore l’essere ammalato del bambino. È che quella debolezza rende più evidente l’essere amato. In un tempo in cui la gnosi culturalmente è egemone nella mentalità del mondo e tante volte anche nella Chiesa del Signore, come è importante questa distinzione! La debolezza non è in sé stessa un bene. La debolezza rende più evidente l’essere abbracciati quando si è abbracciati, l’essere amati quando si è amati. Rende più evidente la gratuità dell’essere amati. Il peccato è peccato e il peccato mortale merita l’inferno, come dice il Catechismo. Ma quando Gesù, dopo essere stato tradito, guardò Pietro (Lc 22, 61), quello sguardo rese più evidente l’amore di Gesù al povero Pietro.
      «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo». La debolezza è la condizione perché la Sua potenza si riveli con più evidenza a tutti.  
 
      3. Il Vangelo che Paolo trasmette
      Due brevi cenni sull’annuncio di Paolo.
      Che cosa annuncia Paolo? Innanzitutto quello che lui, a sua volta, ha ricevuto. Come è bello! Paolo non inventa nulla, annuncia quello che, a sua volta, ha ricevuto.
      Vi leggo 1 Corinzi 15, 1 e seguenti. Questi versetti racchiudono tutto l’annuncio di Paolo. Tutto l’annuncio di Gesù Cristo.
      «Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve lo ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici». Paolo annuncia la testimonianza di Gesù. «La testimonianza di Dio» (1Cor 2, 1). La testimonianza che Dio ha dato col risuscitare Gesù dai morti. La testimonianza che Gesù Cristo ha dato di essere risorto col mostrarsi ai discepoli. Fa parte dell’essenza dell’annuncio cristiano il rendersi visibile del Risorto ai testimoni che Lui sceglie. Se non si fosse reso visibile ai testimoni, se non avesse dato Lui stesso testimonianza di essere risorto, la testimonianza degli apostoli sarebbe stata una loro invenzione.
      Heinrich Schlier, che, secondo me, è il più grande esegeta che la Chiesa abbia avuto nel secolo scorso, come insiste su questo fatto! È Gesù che, rendendosi visibile, dà testimonianza di Sé stesso. È Gesù che, rendendosi visibile agli apostoli, facendosi toccare e mangiando con loro, testimonia della realtà della Sua risurrezione: «Tommaso, guarda e metti la tua mano» (cfr. Gv 20, 27). «Visus est, tactus est et manducavit. Ipse certe erat / Fu visto, fu toccato, mangiò. Era proprio Lui», dice sant’Agostino in un discorso contro gli gnostici, commentando l’apparizione di Gesù risorto agli apostoli dal Vangelo di Luca (Lc 24, 36-49).
      È Gesù che, rendendosi visibile, testimonia di essere risorto, di essere vivo. La testimonianza degli apostoli è un riflesso della Sua testimonianza. Com’è importante questo! La luce della Chiesa è solo una luce riflessa. «Lumen gentium cum sit Christus / È Cristo la luce delle genti». La Chiesa riflette questa Sua luce come in uno specchio. Una delle frasi più belle di Paolo, che mi è così cara, dice: «Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo, come in uno specchio, la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine [il riflesso di Gesù è efficace: cambia la vita], di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3, 18).
      Paolo annuncia ciò che ha ricevuto, ciò che Gesù Cristo stesso ha testimoniato ai Suoi apostoli.
      Un secondo cenno riguardo all’annuncio di Paolo. Anche questa cosa bellissima si legge nella prima Lettera ai Corinzi, 2, 1 e seguenti. L’annuncio di Gesù porta in sé la prova della sua verità. Non si tratta di dimostrare noi che Gesù è vivo. È Gesù stesso che mostrandosi, operando, dimostra di essere vivo. Altrimenti, aumentiamo il dubbio, nostro e degli altri. È Gesù che, agendo, e quindi mostrandosi, dimostra di essere vivo. La dimostrazione della verità del cristianesimo è l’agire e il mostrarsi di Gesù nel presente.
      Schlier dice questo con un’espressione bellissima: «Il kerygma e i doni, il kerygma e i miracoli formano un tutt’uno». E Paolo lo dice più semplicemente che non il grande esegeta: «Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio [la testimonianza che Dio ha donato] con sublimità di parola e di sapienza. Io ritenni, infatti, di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza [come è bello questo!] e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza [non voleva lui dimostrare che Gesù era reale], ma sulla manifestazione dello Spirito [cioè sul fatto che Gesù risorto si manifesta] e della sua potenza [sul Suo agire, sul Suo manifestarsi], perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2, 1-5).
      La fede può essere fondata solo sulla potenza di Dio, cioè sull’agire di Gesù, sul manifestarsi di Gesù. Non si vince la paura della morte (cfr. Eb 2, 15) con gli argomenti di sapienza, con i nostri discorsi. La paura della morte è vinta quando Gesù, agendo nel presente, si fa riconoscere vivo. Gesù si dimostra reale, vivo, quando si mostra. Quando mostra la Sua azione, quando mostra la Sua potenza. «Con una prova totalmente Sua», scrive Schlier, che si sperimenta «come realtà tangibile». 
     
      Termino con le parole di Giovanni Battista Montini, nei suoi appunti sulle Lettere di san Paolo, scritti a Roma quando era giovane sacerdote, tra il 1929 e il 1933: «Nessuno più di lui [Paolo] ha sentito l’insufficienza umana e ha riconosciuto ed esaltato l’azione libera, da sé sola bastevole, necessaria per noi, della grazia di Dio Salvatore». È bellissimo! Libera: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16). Da sé sola bastevole: «Ti basta la mia grazia» (2Cor 12, 9). Necessaria per noi: «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15, 5).
      E Montini aggiunge una frase, commovente se si pensa anche alle umiliazioni ricevute: «Egli [Paolo] ha sentito il fastidio della sua presenza “contemptibilis” [disprezzabile]».
      «Praesentia corporis infirma [scrive nella seconda Lettera ai Corinzi, 10, 10] / La presenza fisica è debole / et sermo contemptibilis / e la parola è da disprezzare».
      «Egli ha sentito il fastidio della sua presenza contemptibilis. Ha provato desolanti depressioni di spirito».
      Un’espressione di questa umanità così debole di Paolo si trova nella seconda Lettera ai Corinzi, 2, 12: «Giunto pertanto a Troade per annunciare il Vangelo di Cristo, sebbene la porta mi fosse aperta nel Signore [quindi gli era possibile annunciare il Vangelo di Cristo], non ebbi pace nello spirito perché non vi trovai Tito, mio fratello; perciò, congedandomi da loro, partii per la Macedonia». Paolo non ha neanche la forza di annunciare il Vangelo, se non ha il conforto della grazia del Signore che brilla riflessa sul volto di una persona cara. Cara semplicemente per questo riflesso di grazia.
      E poi continua (2Cor 7, 5 e seguenti): «Da quando siamo giunti in Macedonia, la nostra carne [la nostra debole umanità] non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori al di dentro».
      Com’è vero! «La Chiesa vive», dice la Lumen gentium, «tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio». Sant’Agostino, nel brano del De civitate Dei da cui è tratta questa frase, scrive che le persecuzioni del mondo provengono innanzitutto dall’interno della Chiesa. Anche perché le persecuzioni del mondo sono innanzitutto i nostri poveri peccati che fanno soffrire il cuore di chi è amato da Gesù e vuole bene a Gesù.
      Continua Paolo: «Ma Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito, e non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi». Paolo che a Troade non aveva avuto la forza di annunciare il Vangelo, quando arriva Tito è confortato anche perché Tito gli parla dell’affetto che le persone di Corinto hanno per lui.
      «A questa nostra consolazione si è aggiunta una gioia ben più grande per la letizia di Tito» (2Cor 7, 13). Perché non basta ricordare l’affetto di persone lontane, se chi ne parla non è lui stesso lieto, contento nel presente.      
      Quando vado a pregare sulla tomba di Paolo nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, a Roma, in ginocchio, ripeto sempre un inno: «Pressi malorum pondere, te, Paule, adimus supplices / Oppressi dal peso di tante contrarietà [innanzitutto dei nostri poveri peccati] veniamo a te, Paolo, supplici / […] quos insecutor oderas defensor inde amplecteris / [...] quelli che tu quando eri persecutore hai odiato, adesso come difensore li abbracci». In questo abbraccio, in questo essere amati da Gesù, anche attraverso gli amici di Gesù, possiamo ripetere: «L’amicizia è una virtù, ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità».
      Grazie. 

Omelia del cardinale Albino Luciani nella messa di suffragio per Paolo VI (9 agosto 1978)

dal sito:

http://www.30giorni.it/it/articolo_stampa.asp?id=10591

Omelia del cardinale Albino Luciani nella messa di suffragio per Paolo VI nella Basilica di San Marco a Venezia, 9 agosto 1978
 
Il patriarca Albino Luciani con Paolo VI durante la visita del Papa a Venezia, il 16 settembre 1972   
 
      «Come vuoi essere chiamato?», gli era stato chiesto quindici anni fa al termine del Conclave. E lui: «Mi chiamerò Paolo». Chi lo conosceva, ci avrebbe giurato che la scelta del nome sarebbe stata quella. Da sempre Montini era stato un appassionato degli scritti, della vita, del dinamismo del grande Apostolo delle genti. E visse la sua “paolinità” per intero e fino all’ultimo.
      Il 29 giugno scorso parlò dei quindici anni del suo pontificato; fece sue le parole che san Paolo, anche lui prossimo alla fine, aveva scritto a Timoteo: «Ho conservato e difeso la fede» (2Tm 4, 7).
      La fede da conservare e da difendere fu il primo punto del suo programma. Nel discorso dell’incoronazione, il 30 giugno 1963, aveva dichiarato: «Difenderemo la santa Chiesa dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori dei suoi confini ne minacciano l’integrità e ne velano la bellezza».
      San Paolo aveva scritto ai Galati: «Se un angelo del cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema» (Gal 1, 8).
      Angeli, ai nostri giorni, possono venire considerati la cultura, la modernità, l’aggiornamento, tutte cose cui teneva moltissimo papa Paolo. Ma quando esse gli parvero contrarie al Vangelo e alla sua dottrina, egli disse no inflessibilmente. Basti accennare alla Humanae vitae, al suo “Credo”, alla posizione da lui presa circa il catechismo olandese, alla chiara affermazione sull’esistenza del diavolo.
      Qualcuno ha detto che l’Humanae vitae è stata un suicidio per Paolo VI, il crollo della sua popolarità e l’inizio di critiche feroci. Sì, in un certo senso, ma egli l’aveva previsto e, sempre con san Paolo, s’era detto: «… È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio?… Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo» (Gal 1, 10).
      San Paolo aveva anche detto di sé: «Sono stato crocifisso con Cristo» (Gal 2, 20). Paolo VI confidò: «Forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio [pontificale] non già perché io abbia qualche attitudine o io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che egli, non altri, la guida e la salva». Ha anche detto: «Il Papa ha le pene, che gli provengono anzitutto dalla propria insufficienza umana, la quale ad ogni istante si trova di fronte e quasi in conflitto con il peso enorme e smisurato dei suoi doveri e della sua responsabilità». Ciò arriva talvolta sino all’agonia.
      I Corinzi facevano su Paolo il seguente apprezzamento: «Le [sue] lettere sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa» (2Cor 10, 10). Tutti abbiamo visto Paolo VI in televisione o in fotografia abbracciare il patriarca Atenagora: faceva la figura di un bambino che scompare tra le braccia, e di fronte alla barba imponente di un gigante.
      Anche quando parlava, la sua voce era piuttosto cupa; rare volte essa esternava la convinzione e l’entusiasmo, che gli bollivano dentro. Ma il pensiero! Ma gli scritti! Questi erano limpidissimi, penetranti, profondi e talora scultorei.
      I popoli della fame» ha scritto per esempio «interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido di angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello». Sviluppo sì – ha detto –, ma integrale, «d’ogni uomo e di tutto l’uomo». «Ogni uomo» e non soltanto la classe dei fortunati; «tutto l’uomo»: questi, dunque, deve aver modo di svilupparsi e progredire in una dimensione non solo economica, ma anche morale, spirituale e religiosa. «Fare, conoscere e avere di più per essere di più».
      Ma san Paolo è stato soprattutto l’apostolo dei gentili, di quelli che allora si consideravano opposti agli ebrei. In loro favore egli s’è battuto, nonostante la perplessità di altri apostoli, ha tanto viaggiato e sofferto. Scrisse: «Cinque volte dai giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli…» (2Cor 11, 24-26). A sua somiglianza, Paolo VI ha percorso in aereo 130mila chilometri: Palestina, India, sede delle Nazioni Unite, Fatima, Turchia, Colombia, Africa, Estremo Oriente sono state le tappe principali del suo viaggiare. Tutti questi viaggi non hanno ottenuto, forse, delle conversioni, ma hanno fatto sentire la vicinanza della Chiesa ai popoli e ai loro problemi.
      Altra vicinanza, o meglio avvicinamento, che Paolo VI ha cercato, è quello dei contatti con governi di professione ateistica. Punto, questo, delicato: su di esso il Papa è stato criticato da alcuni. Indubbiamente il rischio c’era. Ma limitato e calcolato. Limitato, perché non egli cedeva sui princìpi in base all’evangelico «iota unum aut unus apex non praeteribit a lege». Calcolato, perché, sia pure con speranze talora esigue, egli cercava il vantaggio della religione.
      C’era il problema dei tanti cattolici che vivono sotto governi persecutori: bisogna pure che il Papa invii loro dei vescovi o cerchi di ottenere per essi qualche briciola di libertà religiosa. Gli stessi atei sono un problema: sono tanti, tanti; può la Chiesa rinchiudersi in sé stessa di fronte a loro?
      San Paolo aveva scritto: «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9, 22). Perché allora non ammirare il coraggio di un Papa che rischia? Quando Pio VII stava trattando il concordato con Napoleone, ebbe contro di sé oppositori aperti anche tra i cardinali. «Trattare con quel delinquente!» dicevano. «E spazzar via dalle diocesi tutti i vescovi anziani, tra i quali parecchi si possono considerare martiri della fede! E mettere al loro posto i vescovi graditi al primo console!». Pio VII, con lo strazio nel cuore, chiese o impose ai vecchi vescovi di soffrire non solo per la Chiesa, ma anche dalla Chiesa; fece al primo console tutte le concessioni moralmente lecite per averne, in cambio, grossi vantaggi per la religione. Naturalmente l’esito felice delle trattative non lo si vide subito, ma con il tempo. La storia ha i suoi corsi e ricorsi. Anche quella della Chiesa. Nell’archivio patriarcale esistono lettere scambiate tra il patriarca Roncalli e il sostituto Montini. Il Papa – scrive in una Roncalli – desidera a Roma il tal sacerdote; concederlo è un grave sacrificio per Venezia, ma io cedo, perché nella Chiesa «bisogna vedere largo e lontano». Grazie, gli risponde Montini; grazie per il sacerdote concesso e per il «largo e lontano».
      Miei fratelli, nessun uomo è perfetto; anche Paolo VI, che tanto rimpiangiamo, avrà forse fatto imperfettamente alcune cose. A me sembra, tuttavia, ch’egli, coltissimo come uomo, esemplare come sacerdote, come Papa abbia veramente visto «largo e lontano».

Paolo VI: « L’anima mia magnifica il Signore »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090822

Beata Maria Vergine Regina, memoria : Lc 1,39-47
Meditazione del giorno
Paolo VI, papa dal 1963 al 1978
Esortazione apostolica sulla gioia cristiana « Gaudete in Domino » (© Libreria Editrice Vaticane)

« L’anima mia magnifica il Signore »

Dopo venti secoli, la sorgente della gioia cristiana non ha cessato di zampillare nella Chiesa, e specialmente nel cuore dei santi…
Al primo posto ecco la Vergine Maria, piena di grazia, la Madre del Salvatore. Disponibile all’annuncio venuto dall’alto, essa, la serva del Signore, la sposa dello Spirito Santo, la Madre dell’eterno Figlio, fa esplodere la sua gioia dinanzi alla cugina Elisabetta, che ne esalta la fede: «L’anima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore . . . D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata».

Essa, meglio di ogni altra creatura, ha compreso che Dio compie azioni meravigliose: santo è il suo Nome, egli mostra la sua misericordia, egli innalza gli umili, egli è fedele alle sue promesse. Non che l’apparente corso della vita di Maria esca dalla trama ordinaria: ma essa riflette sui più piccoli segni di Dio, meditandoli nel suo cuore (Lc 2,19.51). Non che le sofferenze le siano state risparmiate: essa sta in piedi accanto alla croce, associata in modo eminente al sacrificio del Servo innocente, Lei ch’è madre dei dolori. Ma essa è anche aperta senza alcun limite alla gioia della Risurrezione; ed essa è anche elevata, corpo e anima, alla gloria del cielo. Prima creatura redenta, immacolata fin dalla concezione, dimora incomparabile dello Spirito, abitacolo purissimo del Redentore degli uomini, essa è al tempo stesso la Figlia prediletta di Dio e, nel Cristo, la Madre universale. Essa è il tipo perfetto della Chiesa terrena e glorificata.

Quale mirabile risonanza acquistano, nella sua esistenza singolare di Vergine d’Israele, le parole profetiche rivolte alla nuova Gerusalemme: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto col manto della giustizia, come uno sposo che si cinge di diadema e come una sposa che si adorna di gioielli» (Is 61,10)

PAOLO VI, OMELIA PER LA SOLENNE BEATIFICAZIONE DI PADRE MASSIMILIANO MARIA KOLBE

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1971/documents/hf_p-vi_hom_19711017_it.html

SOLENNE BEATIFICAZIONE DI PADRE MASSIMILIANO MARIA KOLBE

OMELIA DI PAOLO VI

Domenica, 17 ottobre 1971  

Massimiliano Maria Kolbe, Beato. Che cosa vuol dire? Vuol dire che la Chiesa riconosce in lui una figura eccezionale, un uomo in cui la grazia di Dio e l’anima di lui si sono così incontrate da produrre una vita stupenda, nella quale chi bene la osserva scopre questa simbiosi d’un duplice principio operativo, il divino e l’umano, misterioso l’uno, sperimentabile l’altro, trascendente ma interiore l’uno, naturale l’altro ma complesso e dilatato, fino a raggiungere quel singolare profilo di grandezza morale e spirituale che chiamiamo santità, cioè perfezione raggiunta sul parametro religioso, che, come si sa, corre verso le altezze infinite dell’Assoluto. Beato dunque vuol dire degno di quella venerazione, cioè di quel culto permissivo, locale e relativo, che implica l’ammirazione verso chi ne è l’oggetto per qualche suo insolito e magnifico riflesso dello Spirito santificante. Beato vuol dire salvo e glorioso. Vuol dire cittadino del cielo, con tutti i segni peculiari del cittadino della terra; vuol dire fratello e amico, che sappiamo ancora nostro, anzi più che mai nostro, perché identificato come membro operoso della comunione dei Santi, la quale è quel corpo mistico di Cristo, la Chiesa vivente sia nel tempo che nell’eternità; vuol dire avvocato perciò, e protettore nel regno della carità, insieme con Cristo «sempre vivo da poter intercedere per noi (Hebr. 7, 25; cfr. Rom. 8, 34); vuol dire finalmente campione esemplare, tipo di uomo, al quale possiamo uniformare la nostra arte di vivere, essendo a lui, al beato, riconosciuto il privilegio dell’apostolo Paolo, di poter dire al popolo cristiano: «siate imitatori di me, come io lo sono di Cristo» (1 Cor. 4, 16; 11, 1; Phil. 3, 17; cfr. 1 Thess. 3, 7).

VITA ED OPERE DEL NUOVO BEATO

Così possiamo da oggi considerare Massimiliano Kolbe, il nuovo beato. Ma chi è Massimiliano Kolbe?

Voi lo sapete, voi lo conoscete. Così vicino alla nostra generazione, così imbevuto della esperienza vissuta di questo nostro tempo, tutto si sa di lui. Forse pochi altri processi di beatificazione sono documentati come questo. Solo per la nostra moderna passione della verità storica leggiamo, quasi in epigrafe, il profilo biografico di Padre Kolbe, dovuto ad uno dei suoi più assidui studiosi.

«Il P. Massimiliano Kolbe nacque a Zdusnka Wola, vicino a Lodz, l’otto gennaio 1894. Entrato nel 1907 nel Seminario dei Frati Minori Conventuali, fu inviato a Roma per continuare gli studi ecclesiastici nella Pontificia Università Gregoriana e nel “Seraphicum” del suo Ordine.

Ancora studente, ideò un’istituzione, la Milizia della Immacolata. Ordinato sacerdote il 28 aprile 1918 e tornato in Polonia cominciò il suo apostolato mariano, specialmente con la pubblicazione mensile Rycerz Niepokalanej (il Cavaliere della Immacolata), che raggiunse il milione di copie nel 1938.

Nel 1927 fondò la Niepokalanbw (Città dell’Immacolata), centro di vita religiosa e di diverse forme di apostolato. Nel 1930 partì per il Giappone, ove fondò un’altra simile istituzione.

Tornato definitivamente in Polonia si dedicò interamente alla sua opera, con diverse pubblicazioni religiose. La seconda guerra mondiale lo sorprese a capo del più imponente complesso editoriale della Polonia.

Il 19 settembre 1939 fu arrestato dalla Gestapo, che lo deportò prima a Lamsdorf (Germania), poi nel campo di concentramento preventivo di Amtitz. Rilasciato il giorno 8 dicembre 1939, tornò a Niepokalanow, riprendendo l’attività interrotta. Arrestato di nuovo nel 1941 fu rinchiuso nel carcere di Pawiak, a Varsavia, e poi deportato nel campo di concentramento di Oswiecim (Auschwitz).

Avendo offerta la vita al posto di uno sconosciuto condannato a morte, quale rappresaglia per la fuga d’un prigioniero, fu rinchiuso in un Bunker per morirvi di fame. Il 14 agosto 1941, vigilia dell’Assunta, finito da una iniezione di veleno, rendeva la sua bell’anima R Dio, dopo aver assistito e confortato i suoi compagni di sventura. Il suo corpo fu cremato» (Padre Ernesto Piacentini, O.F.M. Conv.).

IL CULTO DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE

Ma m una cerimonia come questa il dato biografico scompare nella luce delle grandi linee maestre della figura sintetica del nuovo Beato; e fissiamo per un istante lo sguardo su queste linee, che lo caratterizzano e lo consegnano alla nostra memoria.

Massimiliano Kolbe è stato un apostolo del culto alla Madonna, vista nel suo primo, originario, privilegiato splendore, quello della sua definizione di Lourdes : l’Immacolata Concezione. Impossibile disgiungere il nome, l’attività, la missione del Beato Kolbe da quello di Maria Immacolata. È lui che istituì la Milizia dell’Immacolata, qui a Roma, ancora prima d’essere ordinato Sacerdote, il 16 ottobre 1917. Ne possiamo oggi commemorare l’anniversario. È noto come l’umile e mite Francescano, con incredibile audacia e con straordinario genio organizzativo, sviluppò l’iniziativa e fece della devozione alla Madre di Cristo, contemplata nella sua veste solare (Cfr. Apoc. 12, 1) il punto focale della sua spiritualità, del suo apostolato, della sua teologia. Nessuna esitazione trattenga la nostra ammirazione, la nostra adesione a questa consegna che il nuovo Beato ci lascia in eredità e in esempio, come se anche noi fossimo diffidenti d’una simile esaltazione mariana, quando due altre correnti teologiche e spirituali, oggi prevalenti nel pensiero e nella vita religiosa, quella cristologica e quella ecclesiologica, fossero in competizione con quella mariologica. Nessuna competizione. Cristo, nel pensiero del Kolbe, conserva non solo il primo posto, ma l’unico posto necessario e sufficiente, assolutamente parlando, nell’economia della salvezza; né l’amore alla Chiesa e alla sua missione è dimenticato nella concezione dottrinale o nella finalità apostolica del nuovo Beato. Anzi proprio dalla complementarietà subordinata della Madonna, rispetto al disegno cosmologico, antropologico, soteriologico di Cristo, Ella deriva ogni sua prerogativa, ogni sua grandezza.

Ben lo sappiamo. E Kolbe, come tutta la dottrina, tutta la liturgia e tutta la spiritualità cattolica, vede Maria inserita nel disegno divino, come «termine fisso d’eterno consiglio», come la piena di grazia, come la sede della Sapienza, come la predestinata alla Maternità di Cristo, come la regina del regno messianico (Luc. 1, 33) e nello stesso tempo l’ancella del Signore, come l’eletta a offrire all’Incarnazione del Verbo la sua insostituibile cooperazione, come la Madre dell’uomo-Dio, nostro Salvatore, «Maria è Colei mediante la quale gli uomini arrivano a Gesù, e Colei mediante la quale Gesù arriva agli uomini» (L. BOUYER, Le trône de la Sagesse, p. 69).

Non è perciò da rimproverare il nostro Beato, né la Chiesa con lui, per l’entusiasmo che è dedicato al culto della Vergine; esso non sarà mai pari al merito, né al vantaggio d’un tale culto, proprio per il mistero di comunione che unisce Maria a Cristo, e che trova nel Nuovo Testamento una avvincente documentazione; non ne verrà mai una «mariolatria», come non mai sarà oscurato il sole dalla luna; né mai sarà alterata la missione di salvezza propriamente affidata al ministero della Chiesa, se questa saprà onorare in Maria una sua Figlia eccezionale e una sua Madre spirituale. L’aspetto caratteristico, se si vuole, ma per sé punto originale, della devozione, della «iperdulia», del Beato Kolbe a Maria è l’importanza ch’egli vi attribuisce in ordine ai bisogni presenti della Chiesa, all’efficacia della sua profezia circa la gloria del Signore e la rivendicazione degli umili, alla potenza della sua intercessione, allo splendore della sua esemplarità, alla presenza della sua materna carità. Il Concilio ci ha confermati in queste certezze, ed ora dal cielo Padre Kolbe ci insegna e ci aiuta a meditarle e a viverle.

Questo profilo mariano del nuovo Beato lo qualifica e lo classifica fra i grandi santi e gli spiriti veggenti, che hanno capito, venerato e cantato il mistero di Maria.

TRAGICO E SUPERNO EPILOGO

Poi il tragico e sublime epilogo della vita innocente e apostolica di Massimiliano Kolbe. A questo è principalmente dovuta la glorificazione che oggi la Chiesa celebra dell’umile, mite, operoso religioso, alunno esemplare di S. Francesco e cavaliere innamorato di Maria Immacolata. Il quadro della sua fine nel tempo è così orrido e straziante, che preferiremmo non parlarne, non contemplarlo mai più, per non vedere dove può giungere la degradazione inumana della prepotenza che si fa dell’impassibile crudeltà su esseri ridotti a schiavi indifesi e destinati allo sterminio il piedistallo di grandezza e di gloria; e furono milioni codesti essere sacrificati all’orgoglio della forza e alla follia del razzismo. Ma bisogna pure ripensarlo questo quadro tenebroso per potervi scorgere, qua e là, qualche scintilla di superstite umanità. La storia non potrà, ahimé!, dimenticare questa sua pagina spaventosa. E allora non potrà non fissare lo sguardo esterrefatto sui punti luminosi che ne denunciano, ma insieme ne vincono l’inconcepibile oscurità. Uno di questi punti, e forse il più ardente e il più scintillante è la figura estenuata e calma di Massimiliano Kolbe. Eroe calmo e sempre pio e sospeso a paradossale e pur ragionata fiducia. Il suo nome resterà fra i grandi, svelerà quali riserve di valori morali fossero giacenti fra quelle masse infelici, agghiacciate dal terrore e dalla disperazione. Su quell’immenso vestibolo di morte, ecco aleggiare una divina e imperitura parola di vita, quella di Gesù che svela il segreto del dolore innocente: essere espiazione, essere vittima, essere sacrificio, e finalmente essere amore: «Non vi è amore più grande che quello di dare la propria vita per i propri amici» (Io. 15, 13). Gesù parlava di sé nell’imminenza della sua immolazione per la salvezza degli uomini. Gli uomini sono tutti amici di Gesù, se almeno ascoltano la sua parola. Padre Kolbe realizzò, nel fatale campo di Oswiecim, la sentenza dell’amore redentore. A duplice titolo.

IL SACERDOTE, «ALTER CHRISTUS»

Chi non ricorda l’episodio incomparabile? «Sono un sacerdote cattolico», egli disse offrendo la propria vita alla morte – e quale morte! – per risparmiare alla sopravvivenza uno sconosciuto compagno di sventura, già designato per la cieca vendetta. Fu un momento grande: l’offerta era accettata. Essa nasceva dal cuore allenato al dono di sé, come naturale e spontanea quasi come una conseguenza logica del proprio Sacerdozio. Non è un Sacerdote un «altro Cristo»? Non è stato Cristo Sacerdote la vittima redentrice del genere umano? Quale gloria, quale esempio per noi Sacerdoti ravvisare in questo nuovo Beato un interprete della nostra consacrazione e della nostra missione! Quale ammonimento in quest’ora d’incertezza nella quale la natura umana vorrebbe tal volta far prevalere i suoi diritti sopra la vocazione soprannaturale al dono totale a Cristo in chi è chiamato alla sua sequela! E quale conforto per la dilettissima e nobilissima schiera compatta e fedele dei buoni Preti e Religiosi, che, anche nel legittimo e lodevole intento di riscattarla dalla mediocrità personale e dalla frustrazione sociale, così concepiscono la loro missione: sono Sacerdote cattolico, perciò io offro la mia vita per salvare quella degli altri! Sembra questa la consegna che il Beato lascia particolarmente a noi, ministri della Chiesa di Dio, e analogamente a quanti di essa ne accettano Io Spirito.

FIGLIO DELLA NOBILE E CATTOLICA POLONIA

E a questo titolo sacerdotale un altro si aggiunge; un altro comprovante che il sacrificio del Beato aveva la sua motivazione in una amicizia: egli era Polacco. Come Polacco era condannato a quell’infausto «Lager», e come Polacco egli scambiava la sua sorte con quella a cui il connazionale Francesco Gajownicek era destinato; cioè subiva la pena crudele e mortale in vece di lui. Quante cose sorgono nell’animo a ricordo di questo aspetto umano, sociale ed etnico della morte volontaria di Massimiliano Kolbe, figlio lui pure della nobile e cattolica Polonia! Il destino storico di sofferenza di questa Nazione pare documentare in questo caso tipico ed eroico la vocazione secolare del Popolo Polacco a trovare nella comune passione la sua coscienza unitaria, la sua missione cavalleresca alla libertà raggiunta nella fierezza del sacrificio spontaneo dei suoi figli, e la lo8ro prontezza a darsi gli uni per gli altri per il superamento della loro vivacità in una invitta concordia, il suo carattere indelebilmente cattolico che lo sigilla membro vivente e paziente della Chiesa universale, la sua ferma convinzione che nella prodigiosa, ma sofferta protezione della Madonna è il segreto della sua rinascente floridezza, sono raggi iridescenti che si effondono dal novello martire della Polonia e fanno risplendere l’autentico volto fatidico di questo Paese, e ci fanno invocare dal Beato suo tipico eroe la fermezza nella fede, l’ardore nella carità, la concordia, la prosperità e la pace di tutto il suo Popolo. La Chiesa e il mondo ne godranno insieme. Così sia.                                

Paolo VI: Cristo ci chiama tutti alla conversione

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090714

Martedì della XV settimana del Tempo Ordinario : Mt 11,20-24
Meditazione del giorno
Paolo VI, papa dal 1963 al 1978
Constituzione apostolica « Paenitemini » del 18/02/1966 (© Libreria Editrice Vaticana)

Cristo ci chiama tutti alla conversione

Cristo, che sempre nella sua vita fece ciò che insegnò, prima di iniziare il suo ministero, passò quaranta giorni e quaranta notti nella preghiera e nel digiuno, e inaugurò la sua missione pubblica col lieto messaggio: «Il regno di Dio è vicino», cui tosto aggiunse il comando: «Ravvedetevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Queste parole costituiscono in certo modo il compendio di tutta la vita cristiana. al Regno annunciato da Cristo si può accedere soltanto mediante la «metánoia», cioè attraverso quell’intimo e totale cambiamento e rinnovamento di tutto l’uomo… L’invito del Figlio alla metánoia diviene più indeclinabile in quanto egli non soltanto la predica, ma offre anche esempio di penitenza. Cristo infatti è il modello supremo dei penitenti: ha voluto subire la pena per i peccati non suoi, ma degli altri.
Dinanzi a Cristo, l’uomo è illuminato da una luce nuova, e per conseguenza riconosce sia la santità di Dio sia la malizia del peccato; attraverso la parola di Cristo gli viene trasmesso il messaggio che invita alla conversione e concede il perdono dei peccati, doni questi che egli pienamente consegue nel battesimo. Tale sacramento, infatti, lo configura alla passione, alla morte e alla risurrezione del Signore, e sotto il sigillo di questo mistero pone tutta la vita futura del battezzato. Seguendo perciò il divino Maestro, ogni cristiano deve rinnegare se stesso, prendere la propria croce, partecipare ai patimenti di Cristo; trasformato in tal modo in una immagine della sua morte, egli è reso capace di meritare la gloria della Risurrezione. Seguendo inoltre il Maestro, dovrà non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui (Gal 2,20), e dovrà anche vivere per i fratelli, dando compimento «nella sua carne a ciò che manca alle tribolazioni di Cristo… a pro del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).

DOMENICA 28 GIUGNO – XIII DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 28 GIUGNO - XIII DEL TEMPO ORDINARIO dans Lettera ai Corinti - seconda giotto_giairo

http://www.atma-o-jibon.org/images5/giotto_giairo.jpg

DOMENICA 28 GIUGNO – XIII DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO, LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinB/B13page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura   2 Cor 8,7.9.13-15
La vostra abbondanza supplisca all’indigenza dei fratelli poveri.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa.
Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di Paolo VI, papa    (Manila, 29 novembre 1970)

Noi predichiamo Cristo a tutta la terra
«Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9, 16). Io sono mandato da lui, da Cristo stesso per questo. Io sono apostolo, io sono testimone. Quanto più è lontana la meta, quanto più difficile è la mia missione, tanto più urgente è l’amore che a ciò mi spinge. Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, Figlio di Dio vivo (cfr. Mt 16, 16). Egli è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito d’ogni creatura (cfr. Col 1, 15). E’ il fondamento d’ogni cosa (cfr. Col 1, 12). Egli è il Maestro dell’umanità, e il Redentore. Egli è nato, è morto, è risorto per noi. Egli è il centro della storia e del mondo. Egli è colui che ci conosce e che ci ama. Egli è il compagno e l’amico della nostra vita. Egli è l’uomo del dolore e della speranza. E’ colui che deve venire e che deve un giorno essere il nostro giudice e, come noi speriamo, la pienezza eterna della nostra esistenza, la nostra felicità. Io non finirei più di parlare di lui. Egli è la luce, è la verità, anzi egli è «la via, la verità, la vita» (Gv 14, 6). Egli è il pane, la fonte d’acqua viva per la nostra fame e per la nostra sete, egli è il pastore, la nostra guida, il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello. Come noi, e più di noi, egli è stato piccolo, povero, umiliato, lavoratore e paziente nella sofferenza. Per noi egli ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo, dove i poveri sono beati, dove la pace è principio di convivenza, dove i puri di cuore e i piangenti sono esaltati e consolati, dove quelli che aspirano alla giustizia sono rivendicati, dove i peccatori possono essere perdonati, dove tutti sono fratelli.
Gesù Cristo: voi ne avete sentito parlare, anzi voi, la maggior parte certamente, siete già suoi, siete cristiani. Ebbene, a voi cristiani io ripeto il suo nome, a tutti io lo annunzio: Gesù Cristo è il principio e la fine; l’alfa e l’omega. Egli è il re del nuovo mondo. Egli è il segreto della storia. Egli è la chiave dei nostri destini. Egli è il mediatore, il ponte fra la terra e il cielo; egli è per antonomasia il Figlio dell’uomo, perché egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito; è il Figlio di Maria, la benedetta fra tutte le donne, sua madre nella carne, madre nostra nella partecipazione allo Spirito del Corpo mistico.
Gesù Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annunzio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra, e per tutti i secoli dei secoli.

Paolo VI: « Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina li creò » (Gen 1,27)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090612

Venerdì della X settimana del Tempo Ordinario : Mt 5,27-32
Meditazione del giorno
Paolo VI, papa dal 1963 al 1978
Humanae vitae, 8-9

« Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina li creò  » (Gen 1,27)

L’amore coniugale rivela massimamente la sua vera natura e nobiltà quando è considerato nella sua sorgente suprema, Dio, che è Amore… Il matrimonio non è quindi effetto del caso o prodotto della evoluzione di inconsce forze naturali: è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore. Per mezzo della reciproca donazione personale… gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite. Per i battezzati, poi, il matrimonio riveste la dignità di segno sacramentale della grazia, in quanto rappresenta l’unione di Cristo e della Chiesa (Ef 5,32).

In questa luce appaiono chiaramente le note e le esigenze caratteristiche dell’amore coniugale… È prima di tutto amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale. Non è quindi semplice trasporto di istinto e di sentimento, ma anche e principalmente è atto della volontà libera, destinato non solo a mantenersi, ma anche ad accrescersi mediante le gioie e i dolori della vita quotidiana; così che gli sposi diventino un cuor solo e un’anima sola, e raggiungano insieme la loro perfezione umana.

È poi amore totale, vale a dire una forma tutta speciale di amicizia personale, in cui gli sposi generosamente condividono ogni cosa, senza indebite riserve o calcoli egoistici. Chi ama davvero il proprio consorte, non lo ama soltanto per quanto riceve da lui, ma per se stesso, lieto di poterlo arricchire del dono di sé.

È ancora amore fedele ed esclusivo fino alla morte. Così infatti lo concepiscono lo sposo e la sposa nel giorno in cui assumono liberamente e in piena consapevolezza l’impegno del vincolo matrimoniale…. È infine amore fecondo, che non si esaurisce tutto nella comunione dei coniugi, ma è destinato a continuarsi, suscitando nuove vite.

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