(L’Osservatore Romano 3-4 agosto 2009)
Il curato d’Ars modello sacerdotale in un discorso dell’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini
(SECONDA PARTE)
Ma non si crede a un prete che se la godeIl primo aspetto che l’Enciclica pone è l’ascesi, cioè l’esercizio, cioè la lotta, cioè la penitenza. E quale fu! E poi il secondo aspetto è l’ascensione dell’anima, la preghiera, il contatto con Dio, la conversazione con questo alter presente, invisibile, che è il Santissimo Sacramento; questa tensione di un’anima sempre proiettata fuori di sé verso questa trascendenza così vicina, così confidente, così paterna, ma anche così misteriosa, così adorabile, così degna di ogni tributo, di quanto di migliore la nostra anima possa produrre.
E finalmente il terzo punto illustrato dall’Enciclica è lo zelo pastorale, il servizio delle anime, sia sotto il punto di vista sacerdotale, sia proprio da quello del pascere, cioè dell’alimentare negli altri la vita spirituale.
Questo che dà a noi un quadro, mi pare, completo, ci induce ad un’osservazione ripetuta in quelli che hanno parlato del Curato d’Ars in questo periodo; e cioè che manca di originalità. È tutto qui. Ma chi è di noi che non cerca insomma di mortificare se stesso, di vivere una vita disciplinata e contenuta? La nostra stessa vita, segnata da questo stupendo giogo del celibato ecclesiastico, è già una penitenza. E poi chi è di noi che non prega? Abbiamo il breviario e il messale in mano ogni giorno, si potrebbe dire dalla mattina alla sera. E chi è che non è devoto all’Eucaristia, quando l’Eucaristia è proprio il centro della nostra vita di pietà e delle nostre cerimonie di culto? E chi è di noi che non è tutto proteso a servire gli altri? E tutto quello che noi facciamo è un programma ordinario. Ecco, confratelli carissimi, che cosa ci deve rendere in simpatia con il Curato d’Ars; e cioè proprio questa mancanza di singolarità, di formule nuove, di una originalità capricciosa, di qualche cosa che ci porti lontano da questa strada maestra che è il Sacerdozio dedicato alla cura delle anime.
« Nell’Enciclica – scrive Monsignor Giovanni Colombo, Rettore del nostro Seminario milanese – è delineata la figura del Curato d’Ars. Essa viene intagliata tutta nella sostanza viva del sacerdozio cattolico, quella che, appunto perché sostanza, non è mai giù di moda, non perde mordente, non invecchia, anzi previene i tempi, perché di tutti i tempi. Essa viene costruita con pochi elementi di cui nessuno è nuovo, ma tutta è cavata dalla tradizione più comune, ma tutti gli elementi provengono da una pura ed estrema essenzialità, del sacerdozio: celebrare la Messa e recitare il breviario, predicare e confessare, meditare e mortificarsi, fare le opere di misericordia. La semplice grandezza del pastore di Ars è tutta qui, in questi elementi ripetuti con esasperante monotonia, ma insieme con sempre più scrupolosa fedeltà, con presenza di spirito sempre più riflessa e approfondita, con purezza di cuore sempre più cristallina, con amore sempre più crescente, sempre più bruciante ».
Presentandoci con queste linee la figura di San Giovanni Maria Vianney, il Santo Padre, pur incoraggiando sante ricerche di adeguate forme pastorali, ci suggerisce di non andare troppo lontano. Di fronte all’insufficienza della nostra azione sacerdotale, spesso e volentieri, diamo la colpa ai metodi non aggiornati; e non sempre a torto. Ma se i preti oggi hanno bisogno di tecniche nuove, il Papa insegna che il loro bisogno più grande e più urgente, è di approfondimento e di impegno nell’essenziale. E questa sarà una conquista molto dura, ma senza di essa anche le tecniche più aggiornate resteranno inefficaci.
Ed è questo un aspetto notato, ripeto, da quanti si sono soffermati, almeno in questa celebrazione centenaria, sul Curato d’Ars. Un altro scrittore belga, molto autorevole, Lochet, dice: « La straordinaria attualità del messaggio del Santo Curato d’Ars deriva proprio dal fatto che egli non introduce una forma particolare di azione, un nuovo metodo di apostolato adattato al suo tempo e quindi ben presto superato. Egli infatti non annuncia una verità legata al tempo, egli annuncia un messaggio eterno, un messaggio che supera i caratteri accidentali d’una epoca, un messaggio sempre attuale. Infatti ciò che ci colpisce quando contempliamo con uno sguardo d’insieme la vita del Santo Curato d’Ars è il fatto che il progressivo svolgersi di questa vita non è costituito da una serie di spostamenti, di avanzamenti, ma da un approfondimento spirituale di un’unica condizione, quella di parroco ».
E allora qui si pone una questione, anche questa comune, ricorrente, ma sempre degna di riflessione, quella della possibilità che noi cosiddetti preti secolari o diocesani, che dir si voglia, con la correzione che il Cardinal Mercier ha suggerito, che noi preti lanciati nella vita ordinaria del Sacerdozio abbiamo di santificarci, di diventare perfetti.
E restiamo certamente in fase di perplessità. Perché? Perché a noi mancano alcuni degnissimi mezzi che rendono più facile, che rendono più accessibile la perfezione cristiana: mancano i voti religiosi, mancano tutte queste provvidenze, questa organizzazione della vita che la vita religiosa vuol dare per renderci capaci, per portarci in una via di acquisizione più spedita e più efficace della santità.
E, quindi, noi anche parlando delle nostre condizioni, dobbiamo guardare con ammirazione e anche con un po’ d’invidia quei confratelli religiosi, i quali invece hanno scelto con coraggio e hanno avuto dalla Provvidenza questa vocazione di mettersi su una via organizzata di santità, in uno stato per acquistare la perfezione. Ma allora siamo noi Sacerdoti di seconda categoria? Saremo degli infelici? Dovremo accontentarci così di stare ai secondi posti nel paradiso di Dio? O invece c’è una qualche possibilità di recupero, qualche maniera di diventar santi prescindendo da questa sublime organizzazione della vita in cerca di santità? Dobbiamo rinunciare ad alcuni mezzi, degnissimi e altissimi mezzi. E allora restiamo sprovvisti? Ecco, non restiamo sprovvisti. Noi possiamo trovare sorgente di santità nell’oggetto del nostro Sacerdozio, nella carità di cui il nostro Sacerdozio è impregnato.
Il Sacerdozio pastorale è quello che riceve di più, essenzialmente, direttamente la carità di Dio che difende. È quello che realizza di più l’infusione dell’amore di Dio verso gli uomini e che mettiamo nella linea perpendicolare di questa intenzione divina. Il Signore vuol salvare il mondo e sceglie qualcuno. Siamo noi. Questa carità passa direttamente per il sacerdozio che è destinato a prendere tutta questa carità e a riversarla agli altri. Non c’è una maggiore carità che quella di dare la propria vita per gli altri, parola di Cristo. Noi siamo sulla traiettoria non della sistematica della santificazione, ma siamo sulla linea percorsa da Cristo ed a noi insegnata da Cristo per essere santi: la Sua santità. Possiamo anche nella nostra vita, così com’è, così descritta e così regolata dal Diritto Canonico, trovare sorgente inesauribile di santità. E guardate che dobbiamo trovarla. Guai a noi se credessimo che per l’essere privi di questi impegni perfezionanti, che sono i voti religiosi, noi potessimo dire: possiamo essere meno perfetti, possiamo essere meno osservanti, meno amorosi. Noi andiamo piano piano, gli altri corrono e volano. Noi andremo così alla buona.
Noi siamo più tenuti perché abbiamo un patrimonio maggiore di carità da amministrare, da ricevere e da dare; noi siamo più tenuti perché siamo più responsabili; noi siamo più tenuti perché abbiamo più contatto con la liturgia, che celebra i misteri della grazia coi sacramenti; noi siamo più tenuti perché siamo a colloquio continuo con le anime.
Noi siamo degli impegnati, lo dice San Tommaso del resto, il dottore che ha pur magnificato e difeso l’altezza e la dignità dei voti religiosi e dello stato religioso: è più grande l’impegno di santità che si richiede nel Sacerdote al servizio delle anime che non quello dello stesso religioso. Con questa spiegazione, che quella è una santità in acquisto, in via di acquisizione, questa, ed è qualche cosa che ci rende perfino commossi e trepidanti e quasi come il Curato d’Ars desiderosi di fuggire, ci rende obbligati a praticare la santità.
La dovremmo possedere, la dovremmo rendere immanente nel nostro sacerdozio la santità e la carità. Noi siamo nell’esercizio della santità, in exercenda perfectione, non in acquirenda perfectione, come lo stato religioso. E se siamo meno sorretti da mezzi che organizzano e che allontanano pericoli e rendono possibili virtù, esempi, organizzazione di conforti, eccetera, dobbiamo tanto di più, tanto di più galvanizzare in noi questo senso della vicinanza di Cristo, dell’imitazione Sua, del ricevere da Lui ogni grazia e del vivere secondo Lui e del sacrificarci come ha fatto Lui, se vogliamo essere pari alla nostra vocazione.
Questo significa appunto che dobbiamo avere una adesione interiore alla nostra professione di Sacerdoti in cura d’anime. Guardate che è frequente fra noi preti uno stato d’animo, direi, di evasione, di lamento, di supposizione che se fossimo in un altro posto andrebbe molto meglio, che siamo degli esseri un po’ misconosciuti, non abbastanza valorizzati, non ancora promossi, non considerati per quello che abbiamo fatto e per quello che potremmo fare e cerchiamo appunto con questa fantasia di consolarci di quello che ci manca di soddisfazione umana e naturale nel nostro ministero.
Questo è inganno, figliuoli miei e fratelli miei, questa non è la psicologia del Curato d’Ars. Il Curato d’Ars ci insegna che bisogna incumbere sopra la propria missione, qualunque sia, ed essere, direi, paghi di questa, dandoci a fondo e non desiderando nessuna evasione. Il Curato d’Ars ha tanto sentito il peso, dicevamo, del suo Sacerdozio, che ha avuto anche lui i suoi momenti di tentazione di scappare, di evadere, perché non ne poteva più. Fu richiamato, sappiamo come, e lui stesso confessò che quella era la verità, che quella era la vita. E quando fu fatto, oh! con tutto il rispetto per i signori canonici, fu fatto canonico, subito vendette il giorno stesso le camail, credo che sia la mozzetta, che gli avevano regalato in quella occasione.
E quando vollero offrirgli una parrocchia un po’ più importante di quella che contava neanche trecento anime, rifiutò: « Mi basta questa, mi basta questa e qui devo restare ». E per quarant’anni, tutta la sua vita pastorale restò sullo stesso piccolo terreno, sulla stessa zolla del campo che gli era stata affidata da coltivare.
Adesione interiore e adesione esteriore al proprio ministero, al proprio ufficio con una obbedienza che anche qui vale, io credo, quanto quella di chi fa obbedienza a un superiore di vita religiosa. Il nostro promitto alcune volte ha esigenze che non sono facili e leggere, e il concedersi con lealtà e con perseveranza a questa promessa iniziale, davvero può essere una sorgente che lima la nostra vita ma enormemente, fecondamente la santifica.
Monsignor Guerry, studiando alcuni anni fa questa spiritualità del clero diocesano, nota anche lui questa stessa cosa. Dice: « L’originalità del clero diocesano è giustamente quella di essere indifferenziato sotto l’aspetto spirituale, d’essere dunque nativamente più vicino di chiunque altro alla spiritualità generale, alla spiritualità della Chiesa. Per dovere di stato il sacerdote del clero parrocchiale deve farsi tutto a tutti, a disposizione di tutte le anime quali che siano le loro tendenze. E al servizio del popolo cristiano ed è per questo che si può pensare che, stando al carattere generale di questo clero, si trova in lui una relazione alla liturgia più stretta che in altri, specialmente alla liturgia del sacramento dell’Eucaristia. Egli è al servizio di quella liturgia che deve animare il popolo cristiano ».
Ecco la spiritualità del Curato d’Ars, ed ecco quanto è simile a quella che ogni giorno è proposta a noi come programma, come piano di vita consueta.
E qui viene un ultimo punto da considerare: questo è il piano, questo è il modo di vivere il proprio Sacerdozio; e allora i mezzi? I mezzi? Il come si fa in pratica? Come ci si adegua alle condizioni concrete? Come ci si aggiorna con le situazioni che ci circondano? Questa adesione al nostro ministero, al bisogno cioè di renderlo efficace, di estenderlo a un maggior numero di fedeli ci porta sul terreno e ci assilla, e ci assilla con tante questioni.
Credo che ogni onesto Sacerdote debba essere tormentato un po’ da questa domanda: « Ma io ho in mano dei mezzi efficaci, sì o no? Sono operanti questi sistemi che la Chiesa mi mette in mano o invece sono invecchiati? Questo Diritto Canonico, come è stato concepito? Su quali motivi storici? Su quali concorrenze di diritto pubblico e di diritto civile? E ancora è qui immobile! Speriamo che venga il Concilio a correggerlo un po’! Tutti aspettano questo riformismo che possa un po’ aggiornare la Chiesa di Dio. E questo benedetto latino! Perbacco, devo predicare al popolo e gli parlo una lingua che non conosce ». C’è una impazienza che è degna, che è indice di zelo e proprio ci porta a questa applicazione pratica dei doveri del nostro Sacerdozio.
Ebbene, permettetemi, per quel po’ di esperienza che vado facendo anch’io adesso con la Visita Pastorale diretta, che io vi richiami sopra tre tentazioni che possono sorgere da questa ricerca dei mezzi.
La prima tentazione è quella di limitare il nostro ministero alla ricerca dei mezzi. Uno dice: « Io costruirò un oratorio, io ho da fabbricare la chiesa, io devo pagare i debiti, bisogna che stampi un libro, devo fare una scuola ». Son tutti mezzi.
Se io però limito la mia attività sacerdotale alla ricerca e alla conquista dei mezzi e faccio di questo la misura del mio rendimento – oh! quello è un bravo prete: ha costruito una casa, non c’era la casa parrocchiale e l’ha fatta lui, non c’era il campo del football e lo ha potuto creare, ha messo il cinematografo nella sua parrocchia, eccetera, che sono, ripeto, tutti mezzi di cui dovremo certamente occuparci – ma se il disegno della mia conquista sacerdotale è questo, noi non siamo dei sacerdoti che hanno compreso né l’ora nostra, né l’esempio del Curato d’Ars, né il mistero di Cristo operante per mezzo di noi. E quanti invece ci si fermano, e come è doloroso vedere che tante forme religiose non arrivano a contatto del popolo se non con la cartolina che cerca la sottoscrizione o va mendicando dei mezzi. Mi scriveva proprio qualche giorno fa, si vede un buon operaio, perché tale si dice, e la calligrafia e gli errori di grammatica del suo scritto lo documentavano: « Ma! io trovo, dice, tutte le mattine nella cassetta della posta delle domande di collette, di iscrizioni, di abbonamenti, di offerte; tutta roba che io non ho mai visto; come hanno ottenuto il nostro indirizzo, non si sa ».
E questo dovrebbe in quelle anime semplici, in quelle anime già turbate dagli assalti della irreligiosità e già ferite, forse, da qualche obiezione di ateismo, il mondo religioso dovrebbe documentarsi così: la ricerca che viene da sorgenti mai conosciute e che perseguita questa gente con una persistente ricerca di denaro per opere di cui non godranno nemmeno la visione o l’esercizio e di cui dovrebbero, con fatica enorme, connettere il rapporto col mondo di Dio, non è una buona propaganda, non è un buon Sacerdozio.
Vi è anche nella nostra pratica religiosa una tendenza a rendere utilitaria la pietà. Questo è un Santo che rende, che ha una immagine con le candele, questo farà fortuna; se noi diamo questo titolo alla chiesa, la costruiamo subito, eccetera.
Non è questa la religione di Dio, non è questa la religione di Cristo! Anche perché, fratelli carissimi, diciamocelo qui con grande sincerità, la ricerca dei mezzi per il regno di Dio può diventare, quando diventa così sistematica, così assorbente, una ricerca di mezzi per sé. Noi sostituiamo inavvertitamente, quasi per una deformazione professionale, la nostra persona e il nostro vantaggio al vantaggio della causa che serviamo. Diventiamo tante volte affaristi, diventiamo dei cercatori, degli accumulatori di ricchezze, abbiamo trasformato tante volte delle forme di carità in forme di lucro. Ma che cosa sarà il giorno in cui un popolo, una storia, una Chiesa ci giudicherà, quando Dio ci giudicherà? Questa era la mia carità: era tutto dono e tu ne hai fatto una fonte di speculazione. Quando doveva essere anche questo maneggio del denaro così scrupoloso, così timido nelle nostre mani e invece è diventato così disinvolto e associato a tutte le libertà e, tante volte, anche a tutte le possibili ingiustizie, che si possono commettere in questo.
Siamo rigorosi in questo, e sentiamo nella povertà del Curato d’Ars e nelle raccomandazioni che la Chiesa ci fa su questo punto, il bisogno che abbiamo anche noi di ritornare liberi di fronte a quei mezzi stessi che vogliamo impiegare per dar gloria a Dio e per salvare le anime.
Dare tutto – diceva il Curato d’Ars – dare tutto e non conservare niente e praticare la parola di Cristo detta da San Paolo: egenus factus est, cum esset dives. Guai a colui che dovesse mutare questo programma di Cristo in un altro: era povero ed è diventato ricco, facendo il prete.
Un secondo pericolo. Un secondo pericolo in questa ricerca dei mezzi può essere questo: bisogna trovarne dei nuovi, bisogna riformare la Chiesa, bisogna aprire delle strade non mai percorse. Diremo subito che l’aggiornamento, che l’efficacia dei mezzi è sì una cosa non solo onesta, ma doverosa. Ma è la mentalità che si va generando, che bisogna aver sfiducia in ciò che la Chiesa è oggi, nella sua compagine, nel suo diritto, nella sua autorità, nelle sue forme tradizionali, quasi che fosse anchilosata dalla sua stessa struttura e dalla sua stessa esperienza, invece che ricavare una energia di azione ricavasse un freno che la trattiene e la immobilizza.
La riforma della Chiesa, ricordiamolo bene, è un problema di autorità, e che l’autorità sia vigilante su questo punto lo dicono cento sintomi, vero, che alcune volte vengono perfino a svegliare una nostra pigrizia. Quante critiche io ho sentito, per esempio, sulla traduzione nuova che Papa Pio xii ha divulgato del Salterio. Ma stavamo così bene con quello! ma perché? eccetera. Ma il Papa antevede, vede che il bisogno di intelligenza nel mondo moderno è tale che bisogna adattarvi le parole meglio che si può a questa intelligenza; e così via. Potrebbe questo abito del desiderio di riforma, che non spetta a noi, ripeto, promuovere, ma dobbiamo pregare la Chiesa che ce lo dia, pregare il Signore che dia alla Chiesa i lumi e che la governi secondo il Suo spirito, potrebbe generare, primo, uno spirito di capriccio, il fare così, il tentare a caso e, secondo, che è più comune, uno spirito di critica, di malcontento. Guardate che questa è una corrosione spirituale, ci toglie una comunione di spirito anche con confratelli forse meno colti, meno evoluti di noi, ma la cui comunione ci è preziosa.
Guai a noi se, per il nostro spirito di critica, non sappiamo più conversare con gli altri, compatirli, aiutarli, riceverne esempi, riceverne ammonimenti! Lo spirito di critica comincia a corrodere prima di tutto le cose, poi va a corrodere il principio d’autorità e dissocia la nostra comunione, anche esteriore, col resto della Chiesa. (…)
La riforma, la riforma vera che dobbiamo fare noi, è quella del Curato d’Ars e cioè, dicevamo, di approfondire. Diventiamo noi dei buoni, noi dei fedeli, noi dei perfetti, noi dei santi e vedrete che la Chiesa in breve si riformerà.
E la terza tentazione su questo punto, la ricerca dei mezzi, è anche qui un punto tanto divulgato e tanto commentato – è la soverchia fiducia posta nelle cause naturali: il preferire la causalità naturale e temporale alla causalità soprannaturale, per esempio l’attività esterna sulla vita interiore e sui mezzi spirituali di santificare e governare le anime; il credere che gli influssi sociali e politici e gli appoggi delle grandi persone possono valerci di più che non l’influsso dei Santi e la umiltà della nostra povertà e del nostro tirare avanti così, come meglio si può.
Questa valutazione, specialmente se viene in confronto con quella dei mezzi soprannaturali, ci porta fuori strada, è una ricerca esagerata, è una ricerca che può davvero farci perdere l’equilibrio della nostra attività sacerdotale. Con questo riaffermiamo e invochiamo anche su questo l’autorità dello stesso Curato d’Ars, che l’aggiornamento dei mezzi e anche l’impiego dei mezzi più utili e ovvi per il nostro ministero è, non solo consentito, ma saggio, ma doveroso.
Il Curato d’Ars ha creato delle scuole, il Curato d’Ars ha avuto la sensibilità per le missioni, il Curato d’Ars ha avuto un orfanotrofio, il Curato d’Ars non finiva più di restaurare la sua chiesa, di creare cappelle, di restaurare perfino il campanile per un paese, pensate, di trecento anime, vero, quindi di una modestia che addirittura circoscriveva e impediva qualsiasi azione di più; ma non ha mai, anzi, non ha mai parlato male delle cosiddette novità o dei tentativi di avvicinare il popolo, scegliendo per avvicinarlo le linee dei suoi interessi, delle sue aspirazioni.
Se noi cerchiamo quali sono le linee di interesse e di aspirazione del popolo, troviamo subito il ponte, anche facendo testate di ponti sulla nostra tradizione per avvicinarlo e per venire a colloquio e, se Dio vuole, per convertirlo.
Ma soprattutto occorre, e ce lo insegna qui in maniera superlativa il Santo Curato d’Ars, bisogna avere, Confratelli carissimi, una grande, una temeraria fiducia nei mezzi soprannaturali. Li abbiamo in mano: ma ci crediamo davvero? Siamo davvero convinti che la preghiera può modificare le cose del mondo e le cose delle anime? E se lo siamo, facciamo davvero ricorso a queste implorazioni vive, forti, persistenti, perché davvero il nostro ministero diventi efficace? È sostenuto da questa anima il nostro ministero, di spiritualità, di colloquio con lo Spirito Santo perché diventi davvero efficace?
E con la preghiera, la penitenza. Quanta ne ha praticata il Santo Curato d’Ars! Non tutti certo siamo, nessuno anzi, direi, è invitato a imitarlo in ciò che vediamo in lui di eccessivo e di misterioso. Ma questa mortificazione che pervade tutta questa vita, che quasi sembra intristirla, sembra immiserirla, ma quanta nobiltà, quanta dignità e quanta forza! Guardate adesso il fenomeno per mezzo di Padre Pio. Ma credete che vengano per vedere i miracoli? Ma è forse invece quest’aura di spiritualità e proprio di povertà e di mortificazione e sono queste mai viste stigmate, che avrebbe sulle mani, che attraggono anche i lontani. Sono curiosità potenti che possono risvegliare davvero l’attrattiva delle anime. A un prete mortificato ci si crede, a un prete che fa penitenza ci si crede, a un prete che se la gode, potrebbe predicare il Vangelo, non ci si crede.
E poi, e poi il catechismo; e poi questa meravigliosa sorgente di vivificazione delle anime che è la confessione. Anche qui se sapessimo che cosa è, anche umanamente parlando, questo sacramento, come è moderno, come ce lo rubano tutti gli psicanalisti, tutti i romanzieri, tutta la gente che predica questo spiritualismo senza Dio. Cosa abbiamo in mano! E come in questo sacramento la causalità divina miracolosa che rimette i peccati può essere accompagnata dalla causalità umana, la mia, se la so esercitare, di pedagogia dello spirito, di parola, di potenza di entrare nelle sorti altrui, di esplorazione delle anime.
Ministero grandissimo! E anche qui, se lo eserciteremo in forme anche molto semplici, sempre molto discrete, ma più attente, più profonde, più efficaci, certamente un mezzo che lo possa eguagliare non potremo trovare. La nostra efficacia dipende dall’uso che sappiamo fare di queste cause soprannaturali che sono nelle nostre mani: dai nostri doni sacerdotali, dalla grazia di cui siamo depositari, dalla preghiera che ci è sempre disponibile, dalla penitenza, dalla mortificazione, dalla povertà di vita a cui siamo invitati.
E allora vedrete, confratelli carissimi, che cosa avverrà. E anche qui la vita del Curato d’Ars ci dà dei quadri che sono molto parlanti, ma così parlanti che ci tolgono la voce e ci fanno tacere. Cioè chi praticherà il Sacerdozio così entrerà in una esperienza di Cristo, non soltanto d’imitazione esteriore, ma di una certa convissuta presenza, di una riproduzione sua, che non è senza avvertimento in chi la subisce.
E sappiamo quale fu per il Curato d’Ars. Cominciò a sentire la sua dedizione; fu un’esperienza dolorosa, si può dire, per il Curato d’Ars. Non turbò la serenità, non tolse il sorriso, non rese nevrastenica o eccitata la sua conversazione quotidiana, ma dolce, ma umile, ma umana. Ma dentro, che dramma! Perdette la sua pace; la sua pace fu venduta a tutti i postulanti, a tutti i penitenti che correvano a lui; perdette la sua visione tranquilla del mondo, che è così bello per noi: oh com’è sereno questo mondo!
Il Curato d’Ars ne ha una visione fosca, perché? Perché si sente responsabile, perché sente che tra lui e il mondo c’è un nesso che non può più scindersi e su cui sarà interrogato, di cui dovrà rendere conto. La responsabilità cresce a dismisura quando vede che il mondo è pieno di male. Il Curato d’Ars ha avuto la conoscenza, la percezione del male come pochi Santi; l’afflizione di sentire che cosa è il peccato.
La sua vita si può paragonare molto bene a un Getzemani. E a un dato momento, sapete, che questa opprimente visione del male del mondo si animò e divenne l’apparizione dello spirito del male che lo tormentò, che lo derise, che lo confuse, che lo umiliò, che lo straziò e con cui combatté con l’umiltà, la preghiera, la penitenza e finalmente con la prova più grande che possa capitare a noi, a noi che abbiamo la fede, la speranza, la carità. La mia tentazione, diceva il Curato d’Ars, è la disperazione di perdere ciò che ho di più prezioso! L’afflizione più profonda e più acuta. Cupiebam anathema esse pro fratribus meis. Anche san Paolo ha rasentato e sperimentato questa sottile e penetrante e velenosa esperienza. Il perdere ogni bene, perfino quello della speranza. Non lo perdette, ma ne sentì l’atroce mancanza, ne sentì lo strappo, ne sentì il peso e morì così.
Ma fuori, il piccolo paese di Ars era diventato cristiano.