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Papa Paolo VI: «Credo nella Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica» (1973)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/1973/documents/hf_p-vi_aud_19730124_it.html
 
PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 24 gennaio 1973

«Credo nella Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica»

Oggi, Fratelli e Figli carissimi, un pensiero, – un’idea, una Verità, una Realtà – si accende davanti agli occhi dei nostri animi, richiama i nostri sguardi, li assorbe, li riempie, al tempo stesso, d’entusiasmo e di affanno, com’è proprio delle cose che captano l’amore. Qual è questo pensiero? È quello dell’unità della Chiesa. Appena capito nel suo significato generale, esso ci prende, esso ci domina. L’unità: subito si impone per la sua forza logica e metafisica; riferito alla Chiesa, cioè all’umanità chiamata da Cristo ad essere una cosa sola con Lui e in se stessa; esso c’incanta per la sua profondità teologica; esso poi ci tormenta per il suo volto storico, di ieri e ancora di oggi, sanguinante e sofferente come quello di Cristo crocifisso; esso ci rimprovera e ci risveglia, come un suono di tromba, il quale ci chiama con l’urgenza d’una vocazione, che diventa attuale e caratteristica nel tempo nostro; esso, il pensiero dell’unità, irradia sulla scena del mondo cosparso dalle avulse, magnifiche membra e dalle rovine di tante Chiese, isolate alcune come autosufficienti, frantumate altre in centinaia di sette, tutte invase ora da due forze contrastanti in una commovente tensione, centrifuga l’una, fuggente, autonomista, verso mete scismatiche ed eretiche; centripeta l’altra, la quale esige con rinata nostalgia la ricomposizione dell’unità, che Roma, non priva certo di colpe e carica per se stessa d’immensa responsabilità, si ostina, come proprio dovere, che sa di testimonianza e di martirio, materna e impavida, ad affermare ed a promuovere, la forza autenticamente ecumenica ed unitaria, che va cercando il suo principio e il suo centro, la base, che Cristo, la vera pietra d’angolo dell’edificio ecclesiale, scelse e fissò, in sua vece, per significare e perpetuare il cardine del suo regno . . . . e ancora esso, questo pensiero dell’unità, si riverbera nel foro interno di tante anime pensose e religiose, suscitando in esse un problema spirituale: come rispondo io a questo imperativo dell’unità?
«Credo nella Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica». Quanto spesso queste parole del Credo salgono alle nostre labbra durante le preghiere pubbliche o private; e quanto spesso noi dobbiamo considerarle e meditarle perché esprimono la grande verità che «Cristo ha costituito sulla terra e incessantemente sostenuta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità» (Lumen Gentium, 8) e comunicando il suo Spirito per essa opera in noi e con noi nel mondo per la sua salvezza.
«La Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Ibid. 1).
Se ogni parola di questa nostra professione di fede merita di essere meditata, le circostanze particolari di questo momento ci suggeriscono di considerare, oggi insieme, una parte di essa: Credo nella Chiesa Una. Infatti noi siamo oggi impegnati nella celebrazione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, e in questo periodo particolare i Cristiani di tutto il mondo pregano il Signore nostro Padre, affinché l’unità ecclesiale che professiamo nel Credo, si realizzi concretamente e in modo visibile nella nostra vita.
Noi abbiamo letto ed udito frequentemente le parole dell’Apostolo Paolo: «Un solo corpo e un solo Spirito, siccome anche, grazie alla vostra vocazione, siete stati chiamati a una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, e agisce per mezzo di tutti, ed è in tutti» (Eph. 4, 4-6); «Tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal. 3, 28); «Ora vi è varietà di doni, ma è lo stesso Spirito; vi è varietà di ministeri, ma è lo stesso Signore, vi è varietà di operazioni, ma è lo stesso Dio che opera tutto in tutti» (1 Cor. 12, 4-6); «E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, poiché ad essa foste pure chiamati formando un solo corpo» (Col. 3, 15).
E soprattutto le parole sublimi del Signore ci sollecitano irresistibilmente: «Affinché tutti siano una sola cosa, siccome tu, o Padre, sei in me ed io in te, anch’essi siano uno in noi, cosicché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Io. 17, 21).
Queste parole di nostro Signore e del Suo grande Apostolo hanno un valore universale. Esse sono destinate a toccare le menti ed i cuori di tutti i Cristiani, ad essere fonte di ispirazione e a guidare le azioni di tutti coloro che portano il nome di Cristo. Ci ricordano il dono divino dell’unità, ma nello stesso tempo anche l’obbligo che incombe agli uomini, all’unità. Il Concilio Vaticano II, quasi riassumendo la propria dottrina sul mistero della Chiesa, dice: «È questa l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, e che il Salvatore nostro, dopo la sua risurrezione, diede da pascere a Pietro (Cfr. Io. 21, 17), affidandone a lui e agli altri Apostoli la diffusione e la guida (Matth. 28, 18 ss.), e costituì per sempre colonna e sostegno della verità» (Cfr. 1 Tim. 3, 15; Lumen Gentium, 8).
Le lettere di S. Paolo citate sopra contengono una teologia profonda, ma non costituiscono un trattato teorico. Esse erano dirette alla situazione concreta nelle Chiese di Efeso, Corinto, Colossi. Nella preghiera sacerdotale per l’unità Gesù parlava nell’intimo circolo dei suoi Apostoli, riferendosi però a tutti quelli che per la parola degli Apostoli crederanno in Lui (Cfr. Io. 17, 20).
Perciò se i principii enunciati da Gesù e dall’Apostolo hanno un valore universale, per tutti i Cristiani di ogni tempo, essi ricevono la loro concreta attuazione in comunità particolari e attraverso queste comunità.
L’unità che è un vero dono di Cristo, si sviluppa e cresce nella situazione concreta rappresentata dalla vita delle comunità cristiane. La comprensione dell’importante ruolo delle comunità particolari, delle Chiese particolari è stata formulata chiaramente dal Concilio: «I singoli Vescovi sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari, formate ad immagine della Chiesa universale, e in esse e da esse è costituita l’una e l’unica Chiesa cattolica» (Lumen Gentium, 23; cfr. BOSSUET, Œuvrer, vol. XI, lettre IV, pp. 114 ss.).
Infatti l’unità della Chiesa, che, come dicevamo, nel carisma storico della Chiesa cattolica intera e romana in ispecie, è già realtà, nonostante le deficienze degli uomini che la compongono, tuttavia non è completa, non è perfetta nel quadro statistico e sociale del mondo, non è universale. Unità e cattolicità non si pareggiano, sia nella sfera che più esige tale corrispondenza, la sfera dei battezzati e dei credenti in Cristo, e sia tanto più in quella dell’intera umanità vivente sulla terra, dove la maggior parte dei viventi ancora non aderisce al Vangelo. Sono questi i due grandi problemi della Chiesa, quello ecumenico e quello missionario, drammatico l’uno e l’altro.
Noi oggi parliamo del primo, cioè dell’unione dei Cristiani in un’unica Chiesa.
E vorremmo indicare come una delle vie di soluzione, anche se già nota, lunga, delicata e difficile, il dovere e la possibilità di interessare alla questione ecumenica le Chiese locali, in armonia, s’intende (se non vogliamo peggiorare, piuttosto che migliorare la situazione), con la Chiesa universale e centrale.
Noi vediamo quanto sia importante che le Chiese particolari della comunione cattolica valutino i loro compiti e le loro responsabilità ecumeniche caratteristiche.
Mediante la Chiesa particolare la Chiesa cattolica è presente nello stesso ambito locale e regionale nel quale vivono ed operano anche altre Chiese e Comunità cristiane. Spesso la instaurazione di contatti e relazioni fraterne si rivela più facile in questo contesto.
Con tutto il nostro cuore, perciò, noi esortiamo tutti i nostri Fratelli e Figli a far sì che l’impegno per l’unità dei Cristiani divenga parte integrale della vita anche delle Chiese particolari.
«Il dialogo di carità», l’espressione tanto cara al nostro venerato e compianto fratello, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, si può realizzare pienamente tra persone e comunità che hanno un frequente contatto reciproco, condividono sofferenze e speranze, si aprono l’una all’altra, e, insieme, allo Spirito operante in loro nel corso delle concrete esperienze della loro vita.
La cattolicità e l’unità della Chiesa si manifestano nella capacità delle Chiese particolari e dell’insieme di radicarsi in mondi, tempi e luoghi diversi; di ritrovarsi in ogni mondo, tempo e luogo in comunione vicendevole.
L’unità a livello locale è sempre un segno e una manifestazione del mistero dell’unità che è il dono del Signore alla Chiesa. Le Chiese particolari possono essere con le loro esperienze di arricchimento per il movimento ecumenico nel suo insieme, possono dare un contributo fecondo per tutta la Chiesa. Nello stesso tempo riceveranno suggerimenti e direttive provenienti dal Centro dell’unità cioè dalla Sede Apostolica, «universo caritatis coetui praesidens» (IGN Ad Rom., Inscr.), per essere aiutate nei loro problemi e per saper giudicare della validità e della fecondità delle proprie esperienze.
«Credo nella Chiesa Una» – questa professione di fede ci sospinge, allora, a consacrare noi stessi alla causa dell’unità dei Cristiani, con tutto l’ardore di cui siamo capaci, e con tutte le possibilità che la vita della Chiesa ci offre a molti livelli.
Cari Figli, in questa settimana di preghiera per l’unità comune a tutti i Cristiani, noi tutti chiediamo perdono per i difetti commessi contro questo grande dono superiore ad ogni nostro merito. Uniamoci di cuore con la sublime preghiera di Gesù, che Egli, come sacerdote e come vittima, rivolse al Padre per la sua Chiesa: «perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me ed io in te, Egli disse, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Io. 17, 21).
Sicuri che questa voce divina trovi eco nelle vostre anime, noi mandiamo oggi ai Fratelli separati un affettuoso, rispettoso saluto; e tutti di cuore vi benediciamo.

Il curato d’Ars modello sacerdotale in un discorso dell’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini (SECONDA PARTE)

(L’Osservatore Romano 3-4 agosto 2009)

Il curato d’Ars modello sacerdotale in un discorso dell’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini

(SECONDA PARTE)

Ma non si crede a un prete che se la godeIl primo aspetto che l’Enciclica pone è l’ascesi, cioè l’esercizio, cioè la lotta, cioè la penitenza. E quale fu! E poi il secondo aspetto è l’ascensione dell’anima, la preghiera, il contatto con Dio, la conversazione con questo alter presente, invisibile, che è il Santissimo Sacramento; questa tensione di un’anima sempre proiettata fuori di sé verso questa trascendenza così vicina, così confidente, così paterna, ma anche così misteriosa, così adorabile, così degna di ogni tributo, di quanto di migliore la nostra anima possa produrre.
E finalmente il terzo punto illustrato dall’Enciclica è lo zelo pastorale, il servizio delle anime, sia sotto il punto di vista sacerdotale, sia proprio da quello del pascere, cioè dell’alimentare negli altri la vita spirituale.
Questo che dà a noi un quadro, mi pare, completo, ci induce ad un’osservazione ripetuta in quelli che hanno parlato del Curato d’Ars in questo periodo; e cioè che manca di originalità. È tutto qui. Ma chi è di noi che non cerca insomma di mortificare se stesso, di vivere una vita disciplinata e contenuta? La nostra stessa vita, segnata da questo stupendo giogo del celibato ecclesiastico, è già una penitenza. E poi chi è di noi che non prega? Abbiamo il breviario e il messale in mano ogni giorno, si potrebbe dire dalla mattina alla sera. E chi è che non è devoto all’Eucaristia, quando l’Eucaristia è proprio il centro della nostra vita di pietà e delle nostre cerimonie di culto? E chi è di noi che non è tutto proteso a servire gli altri? E tutto quello che noi facciamo è un programma ordinario. Ecco, confratelli carissimi, che cosa ci deve rendere in simpatia con il Curato d’Ars; e cioè proprio questa mancanza di singolarità, di formule nuove, di una originalità capricciosa, di qualche cosa che ci porti lontano da questa strada maestra che è il Sacerdozio dedicato alla cura delle anime.
« Nell’Enciclica – scrive Monsignor Giovanni Colombo, Rettore del nostro Seminario milanese – è delineata la figura del Curato d’Ars. Essa viene intagliata tutta nella sostanza viva del sacerdozio cattolico, quella che, appunto perché sostanza, non è mai giù di moda, non perde mordente, non invecchia, anzi previene i tempi, perché di tutti i tempi. Essa viene costruita con pochi elementi di cui nessuno è nuovo, ma tutta è cavata dalla tradizione più comune, ma tutti gli elementi provengono da una pura ed estrema essenzialità, del sacerdozio:  celebrare la Messa e recitare il breviario, predicare e confessare, meditare e mortificarsi, fare le opere di misericordia. La semplice grandezza del pastore di Ars è tutta qui, in questi elementi ripetuti con esasperante monotonia, ma insieme con sempre più scrupolosa fedeltà, con presenza di spirito sempre più riflessa e approfondita, con purezza di cuore sempre più cristallina, con amore sempre più crescente, sempre più bruciante ».
Presentandoci con queste linee la figura di San Giovanni Maria Vianney, il Santo Padre, pur incoraggiando sante ricerche di adeguate forme pastorali, ci suggerisce di non andare troppo lontano. Di fronte all’insufficienza della nostra azione sacerdotale, spesso e volentieri, diamo la colpa ai metodi non aggiornati; e non sempre a torto. Ma se i preti oggi hanno bisogno di tecniche nuove, il Papa insegna che il loro bisogno più grande e più urgente, è di approfondimento e di impegno nell’essenziale. E questa sarà una conquista molto dura, ma senza di essa anche le tecniche più aggiornate resteranno inefficaci.
Ed è questo un aspetto notato, ripeto, da quanti si sono soffermati, almeno in questa celebrazione centenaria, sul Curato d’Ars. Un altro scrittore belga, molto autorevole, Lochet, dice:  « La straordinaria attualità del messaggio del Santo Curato d’Ars deriva proprio dal fatto che egli non introduce una forma particolare di azione, un nuovo metodo di apostolato adattato al suo tempo e quindi ben presto superato. Egli infatti non annuncia una verità legata al tempo, egli annuncia un messaggio eterno, un messaggio che supera i caratteri accidentali d’una epoca, un messaggio sempre attuale. Infatti ciò che ci colpisce quando contempliamo con uno sguardo d’insieme la vita del Santo Curato d’Ars è il fatto che il progressivo svolgersi di questa vita non è costituito da una serie di spostamenti, di avanzamenti, ma da un approfondimento spirituale di un’unica condizione, quella di parroco ».
E allora qui si pone una questione, anche questa comune, ricorrente, ma sempre degna di riflessione, quella della possibilità che noi cosiddetti preti secolari o diocesani, che dir si voglia, con la correzione che il Cardinal Mercier ha suggerito, che noi preti lanciati nella vita ordinaria del Sacerdozio abbiamo di santificarci, di diventare perfetti.
E restiamo certamente in fase di perplessità. Perché? Perché a noi mancano alcuni degnissimi mezzi che rendono più facile, che rendono più accessibile la perfezione cristiana:  mancano i voti religiosi, mancano tutte queste provvidenze, questa organizzazione della vita che la vita religiosa vuol dare per renderci capaci, per portarci in una via di acquisizione più spedita e più efficace della santità.
E, quindi, noi anche parlando delle nostre condizioni, dobbiamo guardare con ammirazione e anche con un po’ d’invidia quei confratelli religiosi, i quali invece hanno scelto con coraggio e hanno avuto dalla Provvidenza questa vocazione di mettersi su una via organizzata di santità, in uno stato per acquistare la perfezione. Ma allora siamo noi Sacerdoti di seconda categoria? Saremo degli infelici? Dovremo accontentarci così di stare ai secondi posti nel paradiso di Dio? O invece c’è una qualche possibilità di recupero, qualche maniera di diventar santi prescindendo da questa sublime organizzazione della vita in cerca di santità? Dobbiamo rinunciare ad alcuni mezzi, degnissimi e altissimi mezzi. E allora restiamo sprovvisti? Ecco, non restiamo sprovvisti. Noi possiamo trovare sorgente di santità nell’oggetto del nostro Sacerdozio, nella carità di cui il nostro Sacerdozio è impregnato.
Il Sacerdozio pastorale è quello che riceve di più, essenzialmente, direttamente la carità di Dio che difende. È quello che realizza di più l’infusione dell’amore di Dio verso gli uomini e che mettiamo nella linea perpendicolare di questa intenzione divina. Il Signore vuol salvare il mondo e sceglie qualcuno. Siamo noi. Questa carità passa direttamente per il sacerdozio che è destinato a prendere tutta questa carità e a riversarla agli altri. Non c’è una maggiore carità che quella di dare la propria vita per gli altri, parola di Cristo. Noi siamo sulla traiettoria non della sistematica della santificazione, ma siamo sulla linea percorsa da Cristo ed a noi insegnata da Cristo per essere santi:  la Sua santità. Possiamo anche nella nostra vita, così com’è, così descritta e così regolata dal Diritto Canonico, trovare sorgente inesauribile di santità. E guardate che dobbiamo trovarla. Guai a noi se credessimo che per l’essere privi di questi impegni perfezionanti, che sono i voti religiosi, noi potessimo dire:  possiamo essere meno perfetti, possiamo essere meno osservanti, meno amorosi. Noi andiamo piano piano, gli altri corrono e volano. Noi andremo così alla buona.
Noi siamo più tenuti perché abbiamo un patrimonio maggiore di carità da amministrare, da ricevere e da dare; noi siamo più tenuti perché siamo più responsabili; noi siamo più tenuti perché abbiamo più contatto con la liturgia, che celebra i misteri della grazia coi sacramenti; noi siamo più tenuti perché siamo a colloquio continuo con le anime.
Noi siamo degli impegnati, lo dice San Tommaso del resto, il dottore che ha pur magnificato e difeso l’altezza e la dignità dei voti religiosi e dello stato religioso:  è più grande l’impegno di santità che si richiede nel Sacerdote al servizio delle anime che non quello dello stesso religioso. Con questa spiegazione, che quella è una santità in acquisto, in via di acquisizione, questa, ed è qualche cosa che ci rende perfino commossi e trepidanti e quasi come il Curato d’Ars desiderosi di fuggire, ci rende obbligati a praticare la santità.
La dovremmo possedere, la dovremmo rendere immanente nel nostro sacerdozio la santità e la carità. Noi siamo nell’esercizio della santità, in exercenda perfectione, non in acquirenda perfectione, come lo stato religioso. E se siamo meno sorretti da mezzi che organizzano e che allontanano pericoli e rendono possibili virtù, esempi, organizzazione di conforti, eccetera, dobbiamo tanto di più, tanto di più galvanizzare in noi questo senso della vicinanza di Cristo, dell’imitazione Sua, del ricevere da Lui ogni grazia e del vivere secondo Lui e del sacrificarci come ha fatto Lui, se vogliamo essere pari alla nostra vocazione.
Questo significa appunto che dobbiamo avere una adesione interiore alla nostra professione di Sacerdoti in cura d’anime. Guardate che è frequente fra noi preti uno stato d’animo, direi, di evasione, di lamento, di supposizione che se fossimo in un altro posto andrebbe molto meglio, che siamo degli esseri un po’ misconosciuti, non abbastanza valorizzati, non ancora promossi, non considerati per quello che abbiamo fatto e per quello che potremmo fare e cerchiamo appunto con questa fantasia di consolarci di quello che ci manca di soddisfazione umana e naturale nel nostro ministero.
Questo è inganno, figliuoli miei e fratelli miei, questa non è la psicologia del Curato d’Ars. Il Curato d’Ars ci insegna che bisogna incumbere sopra la propria missione, qualunque sia, ed essere, direi, paghi di questa, dandoci a fondo e non desiderando nessuna evasione. Il Curato d’Ars ha tanto sentito il peso, dicevamo, del suo Sacerdozio, che ha avuto anche lui i suoi momenti di tentazione di scappare, di evadere, perché non ne poteva più. Fu richiamato, sappiamo come, e lui stesso confessò che quella era la verità, che quella era la vita. E quando fu fatto, oh! con tutto il rispetto per i signori canonici, fu fatto canonico, subito vendette il giorno stesso le camail, credo che sia la mozzetta, che gli avevano regalato in quella occasione.
E quando vollero offrirgli una parrocchia un po’ più importante di quella che contava neanche trecento anime, rifiutò:  « Mi basta questa, mi basta questa e qui devo restare ». E per quarant’anni, tutta la sua vita pastorale restò sullo stesso piccolo terreno, sulla stessa zolla del campo che gli era stata affidata da coltivare.
Adesione interiore e adesione esteriore al proprio ministero, al proprio ufficio con una obbedienza che anche qui vale, io credo, quanto quella di chi fa obbedienza a un superiore di vita religiosa. Il nostro promitto alcune volte ha esigenze che non sono facili e leggere, e il concedersi con lealtà e con perseveranza a questa promessa iniziale, davvero può essere una sorgente che lima la nostra vita ma enormemente, fecondamente la santifica.
Monsignor Guerry, studiando alcuni anni fa questa spiritualità del clero diocesano, nota anche lui questa stessa cosa. Dice:  « L’originalità del clero diocesano è giustamente quella di essere indifferenziato sotto l’aspetto spirituale, d’essere dunque nativamente più vicino di chiunque altro alla spiritualità generale, alla spiritualità della Chiesa. Per dovere di stato il sacerdote del clero parrocchiale deve farsi tutto a tutti, a disposizione di tutte le anime quali che siano le loro tendenze. E al servizio del popolo cristiano ed è per questo che si può pensare che, stando al carattere generale di questo clero, si trova in lui una relazione alla liturgia più stretta che in altri, specialmente alla liturgia del sacramento dell’Eucaristia. Egli è al servizio di quella liturgia che deve animare il popolo cristiano ».
Ecco la spiritualità del Curato d’Ars, ed ecco quanto è simile a quella che ogni giorno è proposta a noi come programma, come piano di vita consueta.
E qui viene un ultimo punto da considerare:  questo è il piano, questo è il modo di vivere il proprio Sacerdozio; e allora i mezzi? I mezzi? Il come si fa in pratica? Come ci si adegua alle condizioni concrete? Come ci si aggiorna con le situazioni che ci circondano? Questa adesione al nostro ministero, al bisogno cioè di renderlo efficace, di estenderlo a un maggior numero di fedeli ci porta sul terreno e ci assilla, e ci assilla con tante questioni.
Credo che ogni onesto Sacerdote debba essere tormentato un po’ da questa domanda:  « Ma io ho in mano dei mezzi efficaci, sì o no? Sono operanti questi sistemi che la Chiesa mi mette in mano o invece sono invecchiati? Questo Diritto Canonico, come è stato concepito? Su quali motivi storici? Su quali concorrenze di diritto pubblico e di diritto civile? E ancora è qui immobile! Speriamo che venga il Concilio a correggerlo un po’! Tutti aspettano questo riformismo che possa un po’ aggiornare la Chiesa di Dio. E questo benedetto latino! Perbacco, devo predicare al popolo e gli parlo una lingua che non conosce ». C’è una impazienza che è degna, che è indice di zelo e proprio ci porta a questa applicazione pratica dei doveri del nostro Sacerdozio.
Ebbene, permettetemi, per quel po’ di esperienza che vado facendo anch’io adesso con la Visita Pastorale diretta, che io vi richiami sopra tre tentazioni che possono sorgere da questa ricerca dei mezzi.
La prima tentazione è quella di limitare il nostro ministero alla ricerca dei mezzi. Uno dice:  « Io costruirò un oratorio, io ho da fabbricare la chiesa, io devo pagare i debiti, bisogna che stampi un libro, devo fare una scuola ». Son tutti mezzi.
Se io però limito la mia attività sacerdotale alla ricerca e alla conquista dei mezzi e faccio di questo la misura del mio rendimento – oh! quello è un bravo prete:  ha costruito una casa, non c’era la casa parrocchiale e l’ha fatta lui, non c’era il campo del football e lo ha potuto creare, ha messo il cinematografo nella sua parrocchia, eccetera, che sono, ripeto, tutti mezzi di cui dovremo certamente occuparci – ma se il disegno della mia conquista sacerdotale è questo, noi non siamo dei sacerdoti che hanno compreso né l’ora nostra, né l’esempio del Curato d’Ars, né il mistero di Cristo operante per mezzo di noi. E quanti invece ci si fermano, e come è doloroso vedere che tante forme religiose non arrivano a contatto del popolo se non con la cartolina che cerca la sottoscrizione o va mendicando dei mezzi. Mi scriveva proprio qualche giorno fa, si vede un buon operaio, perché tale si dice, e la calligrafia e gli errori di grammatica del suo scritto lo documentavano:  « Ma! io trovo, dice, tutte le mattine nella cassetta della posta delle domande di collette, di iscrizioni, di abbonamenti, di offerte; tutta roba che io non ho mai visto; come hanno ottenuto il nostro indirizzo, non si sa ».
E questo dovrebbe in quelle anime semplici, in quelle anime già turbate dagli assalti della irreligiosità e già ferite, forse, da qualche obiezione di ateismo, il mondo religioso dovrebbe documentarsi così:  la ricerca che viene da sorgenti mai conosciute e che perseguita questa gente con una persistente ricerca di denaro per opere di cui non godranno nemmeno la visione o l’esercizio e di cui dovrebbero, con fatica enorme, connettere il rapporto col mondo di Dio, non è una buona propaganda, non è un buon Sacerdozio.
Vi è anche nella nostra pratica religiosa una tendenza a rendere utilitaria la pietà. Questo è un Santo che rende, che ha una immagine con le candele, questo farà fortuna; se noi diamo questo titolo alla chiesa, la costruiamo subito, eccetera.
Non è questa la religione di Dio, non è questa la religione di Cristo! Anche perché, fratelli carissimi, diciamocelo qui con grande sincerità, la ricerca dei mezzi per il regno di Dio può diventare, quando diventa così sistematica, così assorbente, una ricerca di mezzi per sé. Noi sostituiamo inavvertitamente, quasi per una deformazione professionale, la nostra persona e il nostro vantaggio al vantaggio della causa che serviamo. Diventiamo tante volte affaristi, diventiamo dei cercatori, degli accumulatori di ricchezze, abbiamo trasformato tante volte delle forme di carità in forme di lucro. Ma che cosa sarà il giorno in cui un popolo, una storia, una Chiesa ci giudicherà, quando Dio ci giudicherà? Questa era la mia carità:  era tutto dono e tu ne hai fatto una fonte di speculazione. Quando doveva essere anche questo maneggio del denaro così scrupoloso, così timido nelle nostre mani e invece è diventato così disinvolto e associato a tutte le libertà e, tante volte, anche a tutte le possibili ingiustizie, che si possono commettere in questo.
Siamo rigorosi in questo, e sentiamo nella povertà del Curato d’Ars e nelle raccomandazioni che la Chiesa ci fa su questo punto, il bisogno che abbiamo anche noi di ritornare liberi di fronte a quei mezzi stessi che vogliamo impiegare per dar gloria a Dio e per salvare le anime.
Dare tutto – diceva il Curato d’Ars – dare tutto e non conservare niente e praticare la parola di Cristo detta da San Paolo:  egenus factus est, cum esset dives. Guai a colui che dovesse mutare questo programma di Cristo in un altro:  era povero ed è diventato ricco, facendo il prete.
Un secondo pericolo. Un secondo pericolo in questa ricerca dei mezzi può essere questo:  bisogna trovarne dei nuovi, bisogna riformare la Chiesa, bisogna aprire delle strade non mai percorse. Diremo subito che l’aggiornamento, che l’efficacia dei mezzi è sì una cosa non solo onesta, ma doverosa. Ma è la mentalità che si va generando, che bisogna aver sfiducia in ciò che la Chiesa è oggi, nella sua compagine, nel suo diritto, nella sua autorità, nelle sue forme tradizionali, quasi che fosse anchilosata dalla sua stessa struttura e dalla sua stessa esperienza, invece che ricavare una energia di azione ricavasse un freno che la trattiene e la immobilizza.
La riforma della Chiesa, ricordiamolo bene, è un problema di autorità, e che l’autorità sia vigilante su questo punto lo dicono cento sintomi, vero, che alcune volte vengono perfino a svegliare una nostra pigrizia. Quante critiche io ho sentito, per esempio, sulla traduzione nuova che Papa Pio xii ha divulgato del Salterio. Ma stavamo così bene con quello! ma perché? eccetera. Ma il Papa antevede, vede che il bisogno di intelligenza nel mondo moderno è tale che bisogna adattarvi le parole meglio che si può a questa intelligenza; e così via. Potrebbe questo abito del desiderio di riforma, che non spetta a noi, ripeto, promuovere, ma dobbiamo pregare la Chiesa che ce lo dia, pregare il Signore che dia alla Chiesa i lumi e che la governi secondo il Suo spirito, potrebbe generare, primo, uno spirito di capriccio, il fare così, il tentare a caso e, secondo, che è più comune, uno spirito di critica, di malcontento. Guardate che questa è una corrosione spirituale, ci toglie una comunione di spirito anche con confratelli forse meno colti, meno evoluti di noi, ma la cui comunione ci è preziosa.
Guai a noi se, per il nostro spirito di critica, non sappiamo più conversare con gli altri, compatirli, aiutarli, riceverne esempi, riceverne ammonimenti! Lo spirito di critica comincia a corrodere prima di tutto le cose, poi va a corrodere il principio d’autorità e dissocia la nostra comunione, anche esteriore, col resto della Chiesa. (…)
La riforma, la riforma vera che dobbiamo fare noi, è quella del Curato d’Ars e cioè, dicevamo, di approfondire. Diventiamo noi dei buoni, noi dei fedeli, noi dei perfetti, noi dei santi e vedrete che la Chiesa in breve si riformerà.
E la terza tentazione su questo punto, la ricerca dei mezzi, è anche qui un punto tanto divulgato e tanto commentato – è la soverchia fiducia posta nelle cause naturali:  il preferire la causalità naturale e temporale alla causalità soprannaturale, per esempio l’attività esterna sulla vita interiore e sui mezzi spirituali di santificare e governare le anime; il credere che gli influssi sociali e politici e gli appoggi delle grandi persone possono valerci di più che non l’influsso dei Santi e la umiltà della nostra povertà e del nostro tirare avanti così, come meglio si può.
Questa valutazione, specialmente se viene in confronto con quella dei mezzi soprannaturali, ci porta fuori strada, è una ricerca esagerata, è una ricerca che può davvero farci perdere l’equilibrio della nostra attività sacerdotale. Con questo riaffermiamo e invochiamo anche su questo l’autorità dello stesso Curato d’Ars, che l’aggiornamento dei mezzi e anche l’impiego dei mezzi più utili e ovvi per il nostro ministero è, non solo consentito, ma saggio, ma doveroso.
Il Curato d’Ars ha creato delle scuole, il Curato d’Ars ha avuto la sensibilità per le missioni, il Curato d’Ars ha avuto un orfanotrofio, il Curato d’Ars non finiva più di restaurare la sua chiesa, di creare cappelle, di restaurare perfino il campanile per un paese, pensate, di trecento anime, vero, quindi di una modestia che addirittura circoscriveva e impediva qualsiasi azione di più; ma non ha mai, anzi, non ha mai parlato male delle cosiddette novità o dei tentativi di avvicinare il popolo, scegliendo per avvicinarlo le linee dei suoi interessi, delle sue aspirazioni.
Se noi cerchiamo quali sono le linee di interesse e di aspirazione del popolo, troviamo subito il ponte, anche facendo testate di ponti sulla nostra tradizione per avvicinarlo e per venire a colloquio e, se Dio vuole, per convertirlo.
Ma soprattutto occorre, e ce lo insegna qui in maniera superlativa il Santo Curato d’Ars, bisogna avere, Confratelli carissimi, una grande, una temeraria fiducia nei mezzi soprannaturali. Li abbiamo in mano:  ma ci crediamo davvero? Siamo davvero convinti che la preghiera può modificare le cose del mondo e le cose delle anime? E se lo siamo, facciamo davvero ricorso a queste implorazioni vive, forti, persistenti, perché davvero il nostro ministero diventi efficace? È sostenuto da questa anima il nostro ministero, di spiritualità, di colloquio con lo Spirito Santo perché diventi davvero efficace?
E con la preghiera, la penitenza. Quanta ne ha praticata il Santo Curato d’Ars! Non tutti certo siamo, nessuno anzi, direi, è invitato a imitarlo in ciò che vediamo in lui di eccessivo e di misterioso. Ma questa mortificazione che pervade tutta questa vita, che quasi sembra intristirla, sembra immiserirla, ma quanta nobiltà, quanta dignità e quanta forza! Guardate adesso il fenomeno per mezzo di Padre Pio. Ma credete che vengano per vedere i miracoli? Ma è forse invece quest’aura di spiritualità e proprio di povertà e di mortificazione e sono queste mai viste stigmate, che avrebbe sulle mani, che attraggono anche i lontani. Sono curiosità potenti che possono risvegliare davvero l’attrattiva delle anime. A un prete mortificato ci si crede, a un prete che fa penitenza ci si crede, a un prete che se la gode, potrebbe predicare il Vangelo, non ci si crede.
E poi, e poi il catechismo; e poi questa meravigliosa sorgente di vivificazione delle anime che è la confessione. Anche qui se sapessimo che cosa è, anche umanamente parlando, questo sacramento, come è moderno, come ce lo rubano tutti gli psicanalisti, tutti i romanzieri, tutta la gente che predica questo spiritualismo senza Dio. Cosa abbiamo in mano! E come in questo sacramento la causalità divina miracolosa che rimette i peccati può essere accompagnata dalla causalità umana, la mia, se la so esercitare, di pedagogia dello spirito, di parola, di potenza di entrare nelle sorti altrui, di esplorazione delle anime.
Ministero grandissimo! E anche qui, se lo eserciteremo in forme anche molto semplici, sempre molto discrete, ma più attente, più profonde, più efficaci, certamente un mezzo che lo possa eguagliare non potremo trovare. La nostra efficacia dipende dall’uso che sappiamo fare di queste cause soprannaturali che sono nelle nostre mani:  dai nostri doni sacerdotali, dalla grazia di cui siamo depositari, dalla preghiera che ci è sempre disponibile, dalla penitenza, dalla mortificazione, dalla povertà di vita a cui siamo invitati.
E allora vedrete, confratelli carissimi, che cosa avverrà. E anche qui la vita del Curato d’Ars ci dà dei quadri che sono molto parlanti, ma così parlanti che ci tolgono la voce e ci fanno tacere. Cioè chi praticherà il Sacerdozio così entrerà in una esperienza di Cristo, non soltanto d’imitazione esteriore, ma di una certa convissuta presenza, di una riproduzione sua, che non è senza avvertimento in chi la subisce.
E sappiamo quale fu per il Curato d’Ars. Cominciò a sentire la sua dedizione; fu un’esperienza dolorosa, si può dire, per il Curato d’Ars. Non turbò la serenità, non tolse il sorriso, non rese nevrastenica o eccitata la sua conversazione quotidiana, ma dolce, ma umile, ma umana. Ma dentro, che dramma! Perdette la sua pace; la sua pace fu venduta a tutti i postulanti, a tutti i penitenti che correvano a lui; perdette la sua visione tranquilla del mondo, che è così bello per noi:  oh com’è sereno questo mondo!
Il Curato d’Ars ne ha una visione fosca, perché? Perché si sente responsabile, perché sente che tra lui e il mondo c’è un nesso che non può più scindersi e su cui sarà interrogato, di cui dovrà rendere conto. La responsabilità cresce a dismisura quando vede che il mondo è pieno di male. Il Curato d’Ars ha avuto la conoscenza, la percezione del male come pochi Santi; l’afflizione di sentire che cosa è il peccato.
La sua vita si può paragonare molto bene a un Getzemani. E a un dato momento, sapete, che questa opprimente visione del male del mondo si animò e divenne l’apparizione dello spirito del male che lo tormentò, che lo derise, che lo confuse, che lo umiliò, che lo straziò e con cui combatté con l’umiltà, la preghiera, la penitenza e finalmente con la prova più grande che possa capitare a noi, a noi che abbiamo la fede, la speranza, la carità. La mia tentazione, diceva il Curato d’Ars, è la disperazione di perdere ciò che ho di più prezioso! L’afflizione più profonda e più acuta. Cupiebam anathema esse pro fratribus meis. Anche san Paolo ha rasentato e sperimentato questa sottile e penetrante e velenosa esperienza. Il perdere ogni bene, perfino quello della speranza. Non lo perdette, ma ne sentì l’atroce mancanza, ne sentì lo strappo, ne sentì il peso e morì così.
Ma fuori, il piccolo paese di Ars era diventato cristiano
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Publié dans:PAPA PAOLO VI, SANTI |on 4 août, 2011 |Pas de commentaires »

Papa Paolo VI: Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo [10 giugno 1971]

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1971/documents/hf_p-vi_hom_19710610_it.html

OMELIA DI PAOLO VI

Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo

Giovedì, 10 giugno 1971

Salute a voi tutti, Fratelli e Figli carissimi!

A Voi, sacerdoti, operatori e ministri dell’Eucaristia: oggi solennità del Corpo e del Sangue di Cristo, è festa grande per la vostra elezione, per la vostra mediazione, per la vostra duplice identificazione: con il Popolo di Dio, a cui voi appartenete, come fratelli e servitori nel ministero; con Cristo, di cui voi esercitate le prodigiose potestà che a Lui vi assimilano, come sacerdoti e come vittime nel sacrificio eucaristico! Meditate ed esultate in silenzio: è festa vostra!
A voi salute, Fedeli tutti, che qui per Noi rappresentate Roma cattolica, Urbe centrale di tutta la Chiesa, la sua storia, la sua fedeltà, la sua attuale vitalità; e volete essere con Noi per celebrare l’incontro sacramentale e perenne con Cristo vivo, nella fede, nella speranza, nell’amore!
A voi, specialmente, cari, carissimi Ammalati, che portate a questa celebrazione l’incenso bruciante e profumato del vostro dolore, e che date a Noi il gaudio paziente di incontrarvi, di esservi per un’ora vicini, di esprimervi la Nostra commossa affezione, di condividere le vostre pene e le vostre preghiere, salute! salute! Oh! come vorremmo che in questo augurio fosse la virtù, ch’esso significa ed auspica, quella salute che Gesù, Lui Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, elargiva agli infermi e ai sofferenti, incontrati durante il suo terreno soggiorno: Lui sì, tutti confortava e guariva: «Da Lui, scrive San Luca, l’evangelista medico, emanava una forza che guariva tutti» (Luc. 6, 9). A Noi non è stato trasmesso questo potere miracoloso, ma quello, non certo meno prezioso, di comunicare non la salute fisica, ma la salvezza spirituale; e questa ora Noi vorremmo farvi in qualche modo gustare celebrando insieme con voi e per voi questa festa misteriosa e grandiosa del Corpo e del Sangue di Cristo. Voi soffrite di due mali, uno fisico, al quale medici ed assistenti cercano, con tanta bravura e premura, di portare rimedio; l’altro spirituale, che non è meno grave, sentito e complicato: a questo almeno la presente celebrazione può recare conforto.

MISTERO DI PRESENZA
Come mai? Ascoltate un momento. Qual è il vero significato di questa cerimonia? che cosa accadrà durante questo rito, come sempre, quando una Messa è celebrata? Accadrà questo: che Gesù, proprio Lui, Gesù Cristo sarà presente, sarà qui, sarà fra noi, sarà per voi. Noi stiamo rievocando non solo la sua memoria, ma la sua presenza, la sua presenza reale, velata, nascosta, accessibile soltanto a chi crede nella sua divina parola, ripetuta, e potente, da chi possiede il suo prodigioso sacerdozio, ma vera presenza, viva, personale. Lui, Gesù benedetto, sarà presente. L’Eucaristia è innanzi tutto un mistero di presenza. Pensiamoci bene: Gesù mantiene in questa forma e in questa ora la sua profetica parola: «Io sarò con voi fino alla fine dei tempi» (Matth. 28, 28). «Io non vi lascerò orfani, verrò a voi» (Io. 14, 18). Così disse, e così fa: Egli sarà qui, per Noi, per voi, per ciascuno di voi. Ora dite, voi oppressi dalla sofferenza: non è la solitudine, il senso d’essere soli, e quasi separati da tutti, ciò che fa grave, e talora insopportabile e disperata la vostra sofferenza? Il dolore è, di per sé, isolante; e ciò fa paura, e accresce la pena fisica. Ebbene, per chi crede nell’Eucaristia, per chi ha la fortuna di riceverla, questa tremenda solitudine interiore non c’è più. Egli, Gesù, è con chi soffre. Egli conosce il dolore. Egli lo consola. Egli lo condivide. Egli è il medico interiore. Egli è l’amico del cuore. Egli ascolta i gemiti dell’anima. Egli parla in fondo allo spirito.

L’ESEMPIO DI GESÙ
Perciò ascoltate ancora questo linguaggio, proprio dell’Eucaristia. Vi dicevamo: Gesù sarà presente. Ma come sarà presente? Sarà presente, sia pure in modo incruento, come «l’uomo dei dolori» (Cfr. Is. 53, 3); come vittima, come «agnello di Dio» (Io. 1, 29); sarà presente come era nell’ora della sua passione, del suo sacrificio, come crocifisso. Questo significa la duplice specie del pane e del vino, figure del Corpo e del Sangue del medesimo Cristo. Gesù si offre per noi e a noi com’era sulla croce, immolato, straziato, consumato nel dolore portato al suo più alto grado di sensibilità fisica e di desolazione spirituale; ricordate i suoi spasimi umanissimi: «Ho sete!» (Io. 19, 28); e i suoi ineffabili tormenti: «Dio! Dio! perché mi hai abbandonato?» (Matth. 27, 46); ricordate? Chi ha sofferto quanto Gesù? La sofferenza è proporzionale a due misure: alla sensibilità (e quale più fine sensibilità di quella di Cristo, Uomo-Dio?), e all’amore: la capacità di amare è misurata dalla capacità di soffrire. Comprendete come Gesù è vostro esempio, è vostro collega, uomini e donne, che qua portate le vostre vite doloranti? Comprendete perché proprio con voi abbiamo voluto celebrare la solennità del Corpo e del Sangue di Cristo?

OFFRIRE IL DOLORE PER LA CHIESA
E vi diremo di più: comprendete ora che cosa è la comunione, e ciò che l’assunzione dell’Eucaristia compie in voi? È la fusione della vostra sofferenza con quella di Cristo. Ciascuno di voi può ripetere, a maggiore ragione d’ogni altro fedele che si comunica, le parole di San Paolo: «. . . io mi rallegro nelle sofferenze . . . . e compio nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo» (Col. 1, 24). Soffrire con Gesù! quale sorte, quale mistero! Ecco, ecco una grandissima novità: il dolore non è più inutile! Se unito a quello di Cristo, il nostro dolore acquista qualche cosa della sua virtù espiatrice, redentrice, salvatrice! Capite ora perché la Chiesa onora ed ama tanto i suoi malati, i suoi figli infelici? Perché essi sono Cristo sofferente, il Quale, proprio in virtù della sua passione, ha salvato il mondo. Voi, carissimi ammalati, potete cooperare alla salvezza dell’umanità, se sapete unire i vostri dolori, le vostre prove a quelle di Gesù, che ora verrà a voi nella santa comunione.
E lasciate allora che Noi vi rivolgiamo una preghiera, suggerendo a voi di dare alle vostre sofferenze la medesima intenzione, che ispirava all’Apostolo, di cui vi abbiamo citato le famose parole, queste altre che integrano il suo pensiero: godo, egli diceva, di patire completando la passione del Signore «a favore del suo (mistico) corpo, che è la Chiesa» (Ibidem.): ebbene, questo Noi vi chiediamo, che abbiate a offrire (vedete: soffrire diventa offrire!) i vostri dolori per la Chiesa; sì, per la Chiesa intera, e per questa romana in particolare. Voi forse ne conoscete i bisogni.
Avrete voi, e avremo così insieme, degnamente celebrato la festa del Corpo e del Sangue di Cristo: festa di dolore, di amore, di consolazione, di speranza e di salvezza, per voi e per tutti!                                      

Pentecoste – Omelia di Papa Paolo VI (anno 1977)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/1977/documents/hf_p-vi_aud_19770601_it.html

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 1° giugno 1977

[la pentecoste nel 1977 cadeva domenica 29 maggio]

La Chiesa comunità vivente animata dallo Spirito di Cristo

Noi abbiamo celebrato la grande festa di Pentecoste. Perché grande? San Giovanni Crisostomo la definisce la «metropoli delle feste» (S. IOANNIS CHRYSOSTOMI: PG 50, 463). Grande perché inaugura la religione nuova, la religione dello Spirito, una nuova forma di rapporti fra la Divinità e l’umanità, e grande perché è questa missione dello Spirito Santo che dà vita alla Chiesa, al Corpo mistico di Cristo. È la nascita della Chiesa.
Questa parola «Chiesa», che storicamente, nell’antico testamento, ha un significato limitato e profano, e indica semplicemente un’assemblea, una riunione, una convocazione di gente, nel nuovo testamento essa ne ha assunto uno nuovo, preciso e qualificato, quello cioè della moltitudine riunita da un vincolo reale e spirituale, quello d’una società di fedeli, di credenti, governati da una chiamata divina e da un’autorità pastorale; esso ha per noi un complesso senso religioso, e caratterizza quel gruppo, anzi quella parte di umanità che ha raccolto una «vocazione» interiore e ha seguito una autorizzata guida esteriore, per incontrare il Padre, mediante Cristo nostro Salvatore, nella luce e nella forza dello Spirito Santo (Cfr. Io. 14, 23).
Noi ci limitiamo adesso ad accennare semplicemente alle più elementari nozioni che ci danno un concetto descrittivo di ciò che la Chiesa è. E anche questo non è facile. Il Concilio stesso, si direbbe, rinuncia a darci un elenco completo dei termini con i quali la Chiesa è designata nel comune linguaggio religioso. Le immagini si moltiplicano per provocare in noi un qualche concetto di quella immensa visione evangelica del Regno di Dio, nella quale è figurata, ma non solo essa, la Chiesa. Il Concilio accenna alla figura dell’ovile, di cui Cristo è pastore; accenna a quella di campo di Dio, a quella di edificio di Dio, a quella di famiglia di Dio, a quella di tempio di Dio e perfino a quella di Sposa di Cristo, e a quella finalmente di corpo mistico di Cristo (Lumen Gentium, 6 et 7). E qui viene propizio per la nostra mente il concetto essenzialmente complementare dell’animazione di questo corpo, concetto questo riferito alla Chiesa; essa è certamente un corpo sociale, umano, una comunità di uomini, ma non solo questo; essa è un corpo vivo, animato da una Presenza, da Un’Energia, da una Luce, da un’Attività, ch’è appunto lo Spirito di Cristo (Cfr. Rom. 8, 11; 2 Cor. 12, 9; da ricordare sempre per la nostra cultura religiosa: PII XII Mystici Corporis, 1943 e i documenti del Concilio. Così: H. DE LUBAC, Méditations sur l’Eglise, 1; J. HAMER, L’Eglise est une Communion).
Noi diciamo questo affinché si accenda, si perfezioni in noi questo vero concetto di Chiesa, il quale appena enunciato deve trasformare la nostra mentalità di credenti, di fedeli, che tanto laicismo, tanto materialismo dei nostri giorni minaccia di oscurare e di privare d’un suo elemento componente della massima importanza. E cioè: la conoscenza di noi stessi, l’eterno problema del pensiero umano: «conosci te stesso», si complica di una straordinaria novità, introdotta nel nostro essere, già per se stesso così misterioso, e la novità è appunto lo Spirito Santo, il Quale viene ad abitare in noi. «Non sapete – scrive San Paolo ai Corinti -, non sapete che voi siete tempio di Dio, e che lo Spirito di Dio abita dentro di voi?» (1 Cor. 3, 16). Ma osserviamo bene il risultato di questa ospitalità, che ci offre la fortuna di ospitare lo Spirito Santo dentro di noi: la fortuna è simile a quella di un lume acceso in una stanza oscura; nulla è alterato, né toccato, ma tutto acquista una figura, una posizione, una funzione, un nome; tutto diventa chiaro e letificante. È il mistero della grazia, è il mistero della Chiesa, ch’è sorgente di Luce; la Luce divina dello Spirito riverberante con sette raggi, i doni dello Spirito Santo, fasci di intelligenza, fasci di amore nell’umile cella dell’umana, sia pure infantile o primitiva, psicologia.
Non è facile a dirsi; forse è più facile ad averne qualche esperienza, anche nella vita modesta e comune del fedele cristiano. E tutti a questa privilegiata condizione di vita dobbiamo aspirare col proposito che ognuno deve fare per sé, quello di vivere sempre in grazia di Dio. Al quale un altro dovremo aggiungere: un culto superiore e ardente allo Spirito Santo, ch’Egli stesso, il Paraclito, alimenterà, se noi ricorderemo l’esortazione Paolina: «Non spegnete lo Spirito!» (1 Thess. 5, 15).

Con la nostra Apostolica Benedizione.

SANTA MESSA VESPERTINA IN «CENA DOMINI» – OMELIA DI PAOLO VI (1976)

dal sito: 

 http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1976/documents/hf_p-vi_hom_19760415_it.html
   
 SANTA MESSA VESPERTINA IN «CENA DOMINI»

OMELIA DI PAOLO VI

Giovedì Santo, 15 aprile 1976

Comunione è la parola che viene alle labbra, se esse devono rompere il silenzio dei cuori compresi dei misteri che stiamo celebrando. Ripensiamo, anzi riviviamo l’ora dell’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli; un’ora già grave per il suo significato commemorativo, tale da formare la coscienza religiosa e storica del Popolo ebraico, che rievocava, immolando l’agnello, l’esodo avventuroso dalla schiavitù verso una patria da riconquistare e da possedere nella fedeltà al proprio religioso destino, per secoli.
Comunione era l’atmosfera nuova nella quale quella cena pasquale era celebrata: un’atmosfera affettiva intensa e carica di quei sentimenti che superano lo stile della conversazione consueta, per quanto il linguaggio del Maestro mirasse sempre a condurre la comprensione dei suoi discepoli oltre i margini dell’esperienza sensibile e ad invitarla a respirare in una zona superiore di mistero e di trascendente scoperta di verità recondita e di divina realtà. Ma quella sera il livello sentimentale e spirituale è subito così alto da rendere più che mai difficile ai discepoli commensali interloquire a proposito. Ascoltiamo intanto gli accenti estremamente cordiali, che sono in chiave d’apertura dell’effusione discorsiva del Maestro. «Quando fu l’ora, scrive l’evangelista S. Luca, Egli prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio» (Luc. 22, 15). La cena assume un carattere testamentario: Gesti stesso la definisce l’epilogo della sua vita terrena; Egli dà al convito un carattere conclusivo. Scrive l’Evangelista Giovanni, il prediletto iniziato ai segreti del cuore del Signore: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo ch’era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo d’aver amato i suoi ch’erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Io. 13, 1). Commenta S. Agostino: «Fino alla morte lo portò l’amore» (S. AUGUSTINI In Io. tract. 55, 2: PL 35, 1786); e parimente l’esegesi moderna: «Gesù, che ha sempre amato i suoi, adesso dimostra il suo amore sino in fine, non solo cronologicamente sino alla fine della sua vita, ma molto più intensivamente sino al fine raggiungibile, sino all’estremo limite possibile dell’amore stesso» (G. RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, 541).
Il grado d’intensità affettiva prodotto dalle parole e dagli atti di Gesù in quel convito rituale, già di per sé atto a svegliare negli animi una forte e comunicativa emozione, cresce durante lo svolgimento della veglia conviviale in scala ascendente: dall’annuncio tanto temuto dai discepoli della prossima morte cruenta del Maestro (Cfr. Io. 11, 16; 12, 24; etc.), ora apertamente asserito, alla scena inattesa e imbarazzante della lavanda dei piedi, compiuta da Gesù dopo la prima parte della cena (Io. 13, 2-17), e poi all’accenno patetico e ormai aperto al tradimento imminente; e quindi, partito dalla mensa il traditore indiziato (Ibid. 13, 26 ss.), un momento di supremo congedo: «Figlioli (così chiama i discepoli! ), ancora per poco sono con voi . . . Io vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come (come: notate il paragone, notate la misura!), come Io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri» (Ibid. 13, 33-35). Anche qui un rapporto, una comunione rimane, nel costume informatore d’una società compaginata dall’amore. Noi giungiamo così al momento della suprema e misteriosa sorpresa. Riascoltiamo le rivelatrici parole: «Mentre essi cenavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro dicendo: bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati» (Matth. 26, 26-28).
Miracolo! Mistero di fede! Noi crediamo al prodigio compiuto! Noi crediamo, come dice il Concilio Tridentino, che Egli, Cristo, «celebrata la Pasqua antica . . . . istituì una nuova Pasqua, immolando se stesso, conferendone alla Chiesa il potere mediante i Sacerdoti, sotto segni visibili, in memoria del suo transito da questo mondo al Padre» (DENZ-SCHÖN., 1741).
Se così è, ed è così, il mistero si irradia davanti a noi, finché avremo capacità di contemplarlo, in un’epifania di comunione.
Comunione con Cristo, Sacerdote e vittima d’un Sacrificio consumato in modo cruento sulla croce, incruento nella Messa, vertice della nostra vita religiosa, dove Egli, mediante la sua parola sacramentale ridotti a semplici segni sensibili il pane ed il vino per convertirne la sostanza nella sua carne e nel suo sangue, offre se stesso, Agnello immolato in olocausto, ristabilendo una comunione di grazia fra gli uomini vivi e defunti, con Dio Padre onnipotente e misericordioso (Cfr. DENZ- SCHÖN., 1743; 3847). Comunione ontologica, teologica, vitale.
Comunione ancora con Cristo, personale, mistica, interiore; comunione bipolare della nostra umile e caduca vita umana e mortale con la Vita stessa di Cristo, ch’è Lui stesso Vita per definizione (Io. 14, 6), e che ha detto di Sé: «Io sono il Pane della Vita» (Ibid. 6, 35-49 et 51), così che risuonano nella nostra profonda coscienza le parole della comunione più intima, coesistenziale: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal. 2, 20). Chi può mai misurare la fecondità di questa comunione interiore, che ha Cristo maestro, lo ha via, verità e vita (Io. 14, 6), lo ha come linfa d’un albero ai suoi tralci fiorenti e fruttiferi? (Ibid. 15, 1 ss.)
Comunione inoltre d’ineffabile efficacia sociale, principio cioè valido per cementare nell’unità soprannaturale ma altresì ecclesiale e comunitaria del Corpo mistico di Cristo quanti del pane eucaristico si alimentano. Lo insegna ancora S. Paolo: «Il calice della benedizione che noi consacriamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo; tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor. 10, 16-17).
Comunione allora nello spazio della terra e nella dimensione dell’umanità credente e partecipante al divino banchetto, dovunque sia regolarmente celebrato: tutti vi sono invitati dal Signore stesso: compelle intrare, spingili ad entrare! c’insegna la parabola evangelica (Luc. 15, 23). Il fatto stesso che Cristo ha reso possibile, mediante il ministero dei sacerdoti, di moltiplicare questo benedetto pane eucaristico, ch’è Lui stesso, l’Emmanuele, il Dio con noi che accompagna gli uomini per tutti i loro sentieri, e tutti chiama con voce pentecostale alla sua unica Chiesa, non rende forse evidente alla più semplice osservazione la sua divina intenzione di comunione universale? Ut omnes unum sint, perché tutti siano una cosa sola! così pregò Cristo in quella notte profetica, dopo l’ultima cena.
E non si aggiunge forse a questa un’altra comunione, quella nel tempo, quella della permanenza di Gesù Cristo con noi, quella della tradizione vivente nei secoli, comunione coerente, fedele, vittoriosa del tempo che passa divorante, perché questo miracolo eucaristico è destinato, come scrive S. Paolo, a durare donec veniat, finché Egli, Cristo, ritorni (1 Cor. 11, 26), il giorno finale della parusia? E proprio così aveva dichiarato Cristo stesso, come ce lo dicono le ultime parole del suo Vangelo: «Ecco Io sono con voi ogni giorno fino alla fine del mondo» (Matth. 28, 20).
A questo punto la nostra meditazione, che indaga sulla comunione polivalente, risultante dal mistero eucaristico, diventa curiosa di calcoli e di statistiche. Se Cristo è il centro, nel sacramento del suo sacrificio, che attrae tutti a Sé (Cfr. Io. 12, 32), viene spontanea la domanda: sono davvero tutti affascinati ed attratti a questa comunione con Lui? Quanti siamo noi compaginati nell’unità di cui Egli ci lasciò la sua testamentaria aspirazione? (Ibid. 17) E siamo veramente in quell’unità di fede, di amore e di vita ch’è nel desiderio sovrano e misericordioso di Gesù, disposti a fare dell’unità interiore della Chiesa e nella Chiesa la nostra aspirazione costitutiva, il nostro programma di vita ecclesiale? è davvero e sempre soffio di Spirito Santo quello che spesso con spinta centrifuga e ambizione individualista rallenta e talora infrange i vincoli della nostra benedetta comunione nel corpo visibile e mistico di Cristo? Non è questo il giorno, il momento di lasciar cadere ogni egoistica riserva alla riconciliazione fraterna, al perdono reciproco, all’unità dell’umile amore? Possiamo noi far giungere ai figli lontani un affettuoso richiamo per il loro ritorno alla mensa spirituale comune? Quale fervore missionario nasce in noi dalla celebrazione di questo Giovedì santo! quale spirito fraterno, quale zelo pastorale, quale proposito d’apostolato! quale speranza di comunione cristiana!
E non avremo noi, in questa sera beata, un pensiero, un saluto, una preghiera ecumenica per tanti fratelli cristiani tuttora da noi separati?
E per tutti gli uomini sofferenti o affamati di verità, di giustizia e di pace, ma con gli occhi annebbiati nella loro insoddisfattta ricerca, non potremo noi ricordare, almeno nella preghiera interiore, l’invito sempre loro rivolto da Colui che solo li può esaudire: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò»? (Matth. 11, 28) La Chiesa è una comunione!

Così sia, così sia, con la nostra cordiale Benedizione.                        

Pasqua 1971 – Paolo VI (Messaggio Urbi et Orbi)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/messages/urbi_et_orbi/documents/hf_p-vi_mes_19710411_easter-urbi_it.html

MESSAGGIO URBI ET ORBI DI SUA SANTITÀ PAOLO VI

Domenica di Pasqua, 4 aprile 1971

Fratelli e Figli!

che attendete dalle nostre labbra il messaggio pasquale!

Ascoltate: quando Noi, docili al Nostro ministero apostolico, vi parliamo da questa tribuna e guardiamo il panorama del mondo, abbiamo l’impressione d’avere dinanzi la visione d’un mare agitato, e minaccioso di più gravi tempeste. Che cosa l’uomo prepara a se stesso e alla ventura generazione con la troppo frequente e flagrante infedeltà ai sommi principi di solidarietà, di giustizia e di pace, che, edotto dalle terribili esperienze sofferte, egli stesso ha proclamati per la presente e per la futura civiltà? Non vediamo noi nuove guerre e sintomi di altre più paurose, armamenti terrorizzanti, rivoluzioni ricorrenti, lotte sociali istituzionalizzate, contestazioni endemiche, progressiva decadenza morale, insufficiente ricorso professionale e burocratico ai surrogati dell’amore verace, oblio cieco e superbo della religione insopprimibile? La Chiesa stessa non è qua e là percorsa da correnti dottrinali e disciplinari perturbatrici, che indarno si vorrebbero attribuire al soffio autentico dello Spirito vivificante?
Nello stesso tempo noi avvertiamo nell’umanità un bisogno doloroso e, in un certo senso, profetico di speranza, come del respiro per la vita. Senza speranza non si vive. L’attività dell’uomo è maggiormente condizionata dall’attesa del futuro, che dal possesso del presente. L’uomo ha bisogno di finalismo, d’incoraggiamento, di pregustamento di gioia futura. L’entusiasmo, ch’è la molla dell’azione e del rischio, non può sorgere che da speranza forte e serena. Ha bisogno l’uomo d’ottimismo sincero, non illusorio.
Ebbene, uomini amici che ci ascoltate: noi siamo in grado oggi di rivolgere a voi un messaggio di speranza. La causa dell’uomo, non solo non è perduta, ma è in sicuro vantaggio. Le grandi idee, che formano i fari del mondo moderno, non si spegneranno. L’unità del mondo si farà. La dignità della persona umana sarà, non soltanto formalmente, ma realmente riconosciuta. L’intangibilità della vita, dal seno materno all’ultima vecchiaia, avrà comune ed effettivo suffragio. Le indebite disuguaglianze sociali saranno colmate. I rapporti fra i Popoli saranno pacifici, ragionevoli e fraterni. Non l’egoismo, non la prepotenza, non l’indigenza, non la licenza dei costumi, non la ignoranza, non le tante deficienze che ancora caratterizzano e affliggono la società contemporanea, impediranno d’instaurare un vero ordine umano, un bene comune, una civiltà nuova. Non potrà certamente essere abolita la debolezza umana, non l’usura delle mete raggiunte, non il dolore, non il sacrificio, non la morte temporale; ma ogni umana miseria potrà avere assistenza e conforto; anzi conoscerà quel supervalore che il nostro segreto può conferire ad ogni umana decadenza. La speranza non si spegnerà; appunto per la virtù di questo segreto, che oggi per nessuno che ci ascolta è tale. Voi lo intendete: è il segreto, anzi è l’annuncio pasquale.
Ogni speranza si fonda sopra una certezza, sopra una verità, che nel dramma umano non può essere soltanto sperimentale e scientifica. Si fonda la vera speranza, che deve sorreggere l’intrepido cammino dell’uomo, sopra la fede. La quale appunto, nel linguaggio biblico, «è fondamento delle cose sperate» (Hebr. 11, 1); e nella realtà storica è l’avvenimento, è Colui, che oggi noi celebriamo: Gesù risorto!
Non è sogno, non è utopia, non è mito; è realismo evangelico.
E su questo realismo noi credenti fondiamo la nostra concezione della vita, della storia, della civiltà stessa terrena, che la nostra speranza trascende, ma nello stesso tempo spinge alle sue ardite e fidenti conquiste.
Non è questo il momento, nel quale Noi vi dobbiamo spiegare le valide ragioni di questo paradosso, come cioè noi, uomini della speranza trascendente ed eterna, possiamo anche sostenere, e con quale vigore!, le speranze dell’orizzonte temporale e presente: ne ha sapientemente e distesamente parlato il Concilio (Cfr. Gaudium et Spes). Ma è questo il momento in cui la nostra voce si fa eco di quella del vincitore, Cristo Signore: «Abbiate fiducia, Io ho vinto il mondo» (Io. 16, 33), e di quella dell’interprete evangelista: «Questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede» (Io. 5, 4); intendendo qui per mondo tutto ciò che di caduco e di perverso ha la scena naturale dell’umana esistenza.
Noi guardiamo ancora da questo podio, vogliamo dire dall’altezza apostolica del nostro umile ministero, il panorama che si apre al nostro sguardo, e vediamo voi, uomini che lavorate e soffrite, voi che tendete ogni sforzo per guidare la società verso la giustizia e la pace, voi giovani avidi di autenticità e di dedizione, voi innumerevoli schiere di gente buona ed onesta, che dà senso, in silenzio, con la preghiera e con l’opera, con la fedeltà e con il sacrificio alla propria giornata nel tempo, voi sofferenti e disillusi d’un benessere ormai tramontato, e soprattutto voi, credenti con noi nel Cristo risorto e a Lui consacrati; e allora il nostro animo si riempie di gaudio e di speranza, e a tutti annuncia: «Siate felici nel Signore, sempre; ancora vi ripeto, siate felici!» (Phil. 4, 4). Cristo è risorto! Alleluia!

19 marzo 1969 – Solennità di San Giuseppe: Omelia di Papa Paolo VI

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1969/documents/hf_p-vi_hom_19690319_it.html

SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE

OMELIA DI PAOLO VI

Mercoledì, 19 marzo 1969

Fratelli e Figli carissimi!

La festa di oggi ci invita alla meditazione su S. Giuseppe, il padre legale e putativo di Gesù, nostro Signore, e dichiarato, per tale funzione ch’egli esercitò verso Cristo, durante l’infanzia e la giovinezza, protettore della Chiesa, che di Cristo continua nel tempo e riflette nella storia l’immagine e la missione.
È una meditazione che sembra, a tutta prima, mancare di materia : che cosa di lui, San Giuseppe, sappiamo noi, oltre il nome ed alcune poche vicende del periodo dell’infanzia del Signore? Nessuna parola di lui è registrata nel Vangelo; il suo linguaggio è il silenzio, è l’ascoltazione di voci angeliche che gli parlano nel sonno, è l’obbedienza pronta e generosa a lui domandata, è il lavoro manuale espresso nelle forme più modeste e più faticose, quelle che valsero a Gesù Ia qualifica di «figlio del falegname» (Matth. 13, 55); e null’altro: si direbbe la sua una vita oscura, quella d’un semplice artigiano, priva di qualsiasi accenno di personale grandezza.
Eppure questa umile figura, tanto vicina a Gesù ed a Maria, la Vergine Madre di Cristo, figura così inserita nella loro vita, così collegata con Ia genealogia messianica da rappresentare la discendenza fatidica e terminale della progenie di David (Matth. 1, 20), se osservata con attenzione, si rileva così ricca di aspetti e di significati, quali la Chiesa nel culto tributato a S. Giuseppe, e quali la devozione dei fedeli a lui riconoscono, che una serie di invocazioni varie saranno a lui rivolte in forma di litania. Un celebre e moderno Santuario, eretto in suo onore, per iniziativa d’un semplice religioso laico, Fratel André della Congregazione della Santa Croce, quello appunto di Montréal, nel Canada, porrà in evidenza con diverse cappelle, dietro l’altare maggiore, dedicate tutte a S. Giuseppe, i molti titoli che Io rendono protettore dell’infanzia, protettore degli sposi, protettore della famiglia, protettore dei lavoratori, protettore delle vergini, protettore dei profughi, protettore dei morenti . . .
Se osservate con attenzione questa vita tanto modesta, ci apparirà più grande e più avventurata ed avventurosa di quanto il tenue profilo della sua figura evangelica non offra alla nostra frettolosa visione. S. Giuseppe, il Vangelo lo definisce giusto (Matth. 1, 19); e lode più densa di virtù e più alta di merito non potrebbe essere attribuita ad un uomo di umile condizione sociale ed evidentemente alieno dal compiere grandi gesti. Un uomo povero, onesto, laborioso, timido forse, ma che ha una sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta, per offrire così, con sacrificio totale, l’intera esistenza alle imponderabili esigenze della sorprendente venuta del Messia, a cui egli porrà il nome per sempre beatissimo di Gesù (Matth. 1, 21), e che egli riconoscerà frutto dello Spirito Santo, e solo agli effetti giuridici e domestici suo figlio. Un uomo perciò, S. Giuseppe, «impegnato», come ora si dice, per Maria, l’eletta fra tutte le donne della terra e della storia, sempre sua vergine sposa, non già fisicamente sua moglie, e per Gesù, in virtù di discendenza legale, non naturale, sua prole. A lui i pesi, le responsabilità, i rischi, gli affanni della piccola e singolare sacra famiglia. A lui il servizio, a lui il lavoro, a lui il sacrificio, nella penombra del quadro evangelico, nel quale ci piace contemplarlo, e certo, non a torto, ora che noi tutto conosciamo, chiamarlo felice, beato.
È Vangelo questo. In esso i valori dell’umana esistenza assumono diversa misura da quella con cui siamo soliti apprezzarli: qui ciò ch’è piccolo diventa grande (ricordiamo l’effusione di Gesù, al capo undecimo di San Matteo: «Io Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose – le cose del regno messianico! – ai sapienti ed ai dotti, che hai rivelate ai piccoli»); qui ciò ch’è misero diventa degno della condizione sociale del Figlio di Dio fattosi Figlio dell’uomo; qui ciò ch’è elementare risultato d’un faticoso e rudimentale lavoro artigiano serve ad addestrare all’opera umana l’operatore del cosmo e del mondo (cfr. Io. 1, 3 ; 5, 17), e a dare umile pane alla mensa di Colui che definirà Se stesso «il Pane della vita» (Io. 6, 48). Qui ciò ch’è perduto per amore di Cristo, è ritrovato (cfr. Matth. 10, 39), e chi sacrifica per lui la propria vita di questo mondo, la conserva per la vita eterna (cfr. Io. 12, 25). San Giuseppe è il tipo del Vangelo, che Gesù, lasciata la piccola officina di Nazareth, e iniziata la sua missione di profeta e di maestro, annuncerà come programma per la redenzione dell’umanità; S. Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; S. Giuseppe è la prova che per essere buoni e autentici seguaci di Cristo non occorrono «grandi cose», ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche.
E qui la meditazione sposta lo sguardo, dall’umile Santo al quadro delle nostre condizioni personali, come avviene di solito nella disciplina dell’orazione mentale; e stabilisce un accostamento, un confronto tra lui e noi; un confronto dal quale non abbiamo da gloriarci, certamente; ma dal quale possiamo trarre qualche buono incitamento; all’imitazione, come nelle nostre rispettive circostanze è possibile; alla sequela, nello spirito e nella pratica concreta di quelle virtù che nel Santo troviamo così rigorosamente delineate. Di una specialmente, della quale oggi tanto si parla, della povertà. E non ci lasceremo turbare per le difficoltà, che essa oggi, in un mondo tutto rivolto alla conquista della ricchezza economica, a noi presenta, quasi fosse contraddittoria alla linea di progresso ch’è obbligo perseguire, e paradossale e irreale in una società del benessere e del consumo. Noi ripenseremo, con S. Giuseppe povero e laborioso, e lui stesso tutto impegnato a guadagnar qualche cosa per vivere, come i beni economici siano pur degni del nostro interesse cristiano, a condizione che non siano fini a se stessi, ma mezzi per sostentare la vita rivolta ad altri beni superiori; a condizione che i beni economici non siano oggetto di avaro egoismo, bensì mezzo e fonte di provvida carità; a condizione, ancora, che essi non siano usati per esonerarci dal peso d’un personale lavoro e per autorizzarci a facile e molle godimento dei così detti piaceri della vita, ma siano invece impiegati per l’onesto e largo interesse del bene comune. La povertà laboriosa e dignitosa di questo Santo evangelico ci può essere ancora oggi ottima guida per rintracciare nel nostro mondo moderno il sentiero dei passi di Cristo, ed insieme eloquente maestra di positivo e onesto benessere, per non smarrire quel sentiero nel complicato e vertiginoso mondo economico, senza deviare, da un lato, nella conquista ambiziosa e tentatrice della ricchezza temporale, e nemmeno, dall’altro, nell’impiego ideologico e strumentale della povertà come forza d’odio sociale e di sistematica sovversione.
Esempio dunque per noi, San Giuseppe. Cercheremo d’imitarlo; e quale protettore lo invocheremo, come la Chiesa, in questi ultimi tempi, è solita a fare, per sé, innanzi tutto, con una spontanea riflessione teologica sul connubio dell’azione divina con l’azione umana nella grande economia della Redenzione, nel quale la prima, quella divina, è tutta a sé sufficiente, ma la seconda, quella umana, la nostra, sebbene di nulla capace (cfr. Io. 15, 5), non è mai dispensata da un’umile, ma condizionale e nobilitante collaborazione. Inoltre protettore la Chiesa lo invoca per un profondo e attualsimo desiderio di rinverdire la sua secolare esistenza di veraci virtù evangeliche, quali in S. Giuseppe rifulgono; ed infine protettore lo vuole la Chiesa per l’incrollabile fiducia che colui, al quale Cristo volle affidata la protezione della sua fragile infanzia umana, vorrà continuare dal Cielo la sua missione tutelare a guida e difesa del Corpo mistico di Cristo medesimo, sempre debole, sempre insidiato, sempre drammaticamente pericolante.
E poi per il mondo invocheremo S. Giuseppe, sicuri che nel, cuore, ora beato d’incommensurabile sapienza e potestà, dell’umile operaio di Nazareth si alberghi ancora e sempre una singolare e preziosa simpatia e benevolenza per l’intera umanità. Così sia.                                      

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