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PAPA FRANCESCO – LA FAMIGLIA – 22. FESTA

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PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 12 agosto 2015

LA FAMIGLIA – 22. FESTA

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi apriamo un piccolo percorso di riflessione su tre dimensioni che scandiscono, per così dire, il ritmo della vita famigliare: la festa, il lavoro, la preghiera.
Incominciamo dalla festa. Oggi parleremo della festa. E diciamo subito che la festa è un’invenzione di Dio. Ricordiamo la conclusione del racconto della creazione, nel Libro della Genesi che abbiamo ascoltato: «Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando» (2,2-3). Dio stesso ci insegna l’importanza di dedicare un tempo a contemplare e a godere di ciò che nel lavoro è stato ben fatto. Parlo di lavoro, naturalmente, non solo nel senso del mestiere e della professione, ma nel senso più ampio: ogni azione con cui noi uomini e donne possiamo collaborare all’opera creatrice di Dio.
Dunque la festa non è la pigrizia di starsene in poltrona, o l’ebbrezza di una sciocca evasione, no la festa è anzitutto uno sguardo amorevole e grato sul lavoro ben fatto; festeggiamo un lavoro. Anche voi, novelli sposi, state festeggiando il lavoro di un bel tempo di fidanzamento: e questo è bello! E’ il tempo per guardare i figli, o i nipoti, che stanno crescendo, e pensare: che bello! E’ il tempo per guardare la nostra casa, gli amici che ospitiamo, la comunità che ci circonda, e pensare: che cosa buona! Dio ha fatto così quando ha creato il mondo. E continuamente fa così, perché Dio crea sempre, anche in questo momento!
Può capitare che una festa arrivi in circostanze difficili o dolorose, e si celebra magari “con il groppo in gola”. Eppure, anche in questi casi, chiediamo a Dio la forza di non svuotarla completamente. Voi mamme e papà sapete bene questo: quante volte, per amore dei figli, siete capaci di mandare giù i dispiaceri per lasciare che loro vivano bene la festa, gustino il senso buono della vita! C’è tanto amore in questo!
Anche nell’ambiente di lavoro, a volte – senza venire meno ai doveri! – noi sappiamo “infiltrare” qualche sprazzo di festa: un compleanno, un matrimonio, una nuova nascita, come anche un congedo o un nuovo arrivo…, è importante. È importante fare festa. Sono momenti di famigliarità nell’ingranaggio della macchina produttiva: ci fa bene!
Ma il vero tempo della festa sospende il lavoro professionale, ed è sacro, perché ricorda all’uomo e alla donna che sono fatti ad immagine di Dio, il quale non è schiavo del lavoro, ma Signore, e dunque anche noi non dobbiamo mai essere schiavi del lavoro, ma “signori”. C’è un comandamento per questo, un comandamento che riguarda tutti, nessuno escluso! E invece sappiamo che ci sono milioni di uomini e donne e addirittura bambini schiavi del lavoro! In questo tempo ci sono schiavi, sono sfruttati, schiavi del lavoro e questo è contro Dio e contro la dignità della persona umana! L’ossessione del profitto economico e l’efficientismo della tecnica mettono a rischio i ritmi umani della vita, perché la vita ha i suoi ritmi umani. Il tempo del riposo, soprattutto quello domenicale, è destinato a noi perché possiamo godere di ciò che non si produce e non si consuma, non si compra e non si vende. E invece vediamo che l’ideologia del profitto e del consumo vuole mangiarsi anche la festa: anch’essa a volte viene ridotta a un “affare”, a un modo per fare soldi e per spenderli. Ma è per questo che lavoriamo? L’ingordigia del consumare, che comporta lo spreco, è un brutto virus che, tra l’altro, ci fa ritrovare alla fine più stanchi di prima. Nuoce al lavoro vero, consuma la vita. I ritmi sregolati della festa fanno vittime, spesso giovani.
Infine, il tempo della festa è sacro perché Dio lo abita in un modo speciale. L’Eucaristia domenicale porta alla festa tutta la grazia di Gesù Cristo: la sua presenza, il suo amore, il suo sacrificio, il suo farci comunità, il suo stare con noi… E così ogni realtà riceve il suo senso pieno: il lavoro, la famiglia, le gioie e le fatiche di ogni giorno, anche la sofferenza e la morte; tutto viene trasfigurato dalla grazia di Cristo.
La famiglia è dotata di una competenza straordinaria per capire, indirizzare e sostenere l’autentico valore del tempo della festa. Ma che belle sono le feste in famiglia, sono bellissime! E in particolare della domenica. Non è certo un caso se le feste in cui c’è posto per tutta la famiglia sono quelle che riescono meglio!
La stessa vita famigliare, guardata con gli occhi della fede, ci appare migliore delle fatiche che ci costa. Ci appare come un capolavoro di semplicità, bello proprio perché non artificiale, non finto, ma capace di incorporare in sé tutti gli aspetti della vita vera. Ci appare come una cosa “molto buona”, come Dio disse al termine della creazione dell’uomo e della donna (cfr Gen 1,31). Dunque, la festa è un prezioso regalo di Dio; un prezioso regalo che Dio ha fatto alla famiglia umana: non roviniamolo!

 

PAPA FRANCESCO – (ALLORA BISOGNA FARE COME SAN PAOLO…) 15 giugno 2013

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PAPA FRANCESCO – (ALLORA BISOGNA FARE COME SAN PAOLO…)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

La fretta del cristiano

Sabato, 15 giugno 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 137, Dom.16/06/2013)

La vita cristiana deve essere sempre inquieta e mai tranquillizzante e certo non è «una terapia terminale per farci stare in pace fino al cielo». Allora bisogna fare come san Paolo e testimoniare «il messaggio della vera riconciliazione», senza preoccuparsi troppo delle statistiche o di fare proseliti: è «da pazzi ma è bello», perché «è lo scandalo della croce». Il Papa è tornato a parlare di riconciliazione e di ardore apostolico nell’omelia della messa celebrata questa mattina, sabato 15 giugno, nella cappella della Domus Sanctae Marthae.
Base della riflessione del Pontefice sono state, come di consueto, le letture del giorno, in particolare la seconda lettera di san Paolo ai Corinzi (5, 14-21), «brano — ha detto — un po’ speciale perché sembra che Paolo parta in quarta. È accelerato, va proprio con una certa velocità. L’amore di Cristo ci possiede, ci spinge, ci preme. È proprio questa la velocità che ha Paolo: quando vede l’amore di Cristo non può rimanere fermo». Così san Paolo è davvero un uomo che ha fretta, con «l’affanno per dirci qualcosa d’importante: parla del sì di Gesù, dell’opera di riconciliazione che ha fatto Gesù e anche dell’opera di riconciliazione» di Cristo e dell’apostolo.
Papa Francesco ha fatto anche notare come nella pagina paolina «per cinque volte si ripeta la parola riconciliazione. Cinque volte: è come un ritornello». Per dire con chiarezza che «Dio ci ha riconciliati con lui in Cristo». San Paolo «parla anche con forza e con tenerezza quando dice: io sono un ambasciatore in nome di Cristo». Poi Paolo, nel proseguire il suo scritto, sembra quasi inginocchiarsi per implorare: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» ed è come se dicesse «abbassate la guardia» per lasciarvi riconciliare con lui.
«La fretta, la premura di Paolo — ha affermato ancora il Pontefice — mi fa pensare a Maria quando, dopo aver ricevuto l’annuncio dell’angelo, parte in fretta per aiutare sua cugina. È la fretta del messaggio cristiano. E qui il messaggio è proprio quello della riconciliazione». Il senso della riconciliazione non sta semplicemente nel mettere insieme parti diverse e lontane tra loro. «La vera riconciliazione è che Dio in Cristo ha preso i nostri peccati e si è fatto peccato per noi. E quando noi andiamo a confessarci, per esempio, non è che diciamo il peccato e Dio ci perdona. Noi troviamo Gesù Cristo e gli diciamo: questo è tuo e io ti faccio peccato un’altra volta. E a lui piace, perché è stata la sua missione: farsi peccato per noi, per liberarci».
È questo «il mistero che faceva andare avanti Paolo con zelo apostolico, perché è una cosa tanto meravigliosa: l’amore di Dio che ha consegnato suo figlio alla morte per me. Quando Paolo si trova davanti a questa verità dice: ma lui mi ha amato, è andato alla morte per me. È questo il mistero della riconciliazione». La vita cristiana — ha spiegato ancora il Pontefice — «cresce su questo pilastro e noi un po’ la svalutiamo» quando la riduciamo al fatto che «il cristiano deve fare questo e poi deve credere in quello». Si tratta invece di arrivare «a questa verità che ci muove, a questo amore che è dentro la vita cristiana: l’amore del Padre che in Cristo riconcilia il mondo. È Dio infatti che riconcilia a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola di riconciliazione. Cristo ci ha riconciliato. E questo è l’atteggiamento del cristiano, questa è la pace del cristiano».
I filosofi «dicono che la pace è una certa tranquillità nell’ordine. Tutto ordinato, tranquillo. Quella non è la pace cristiana. La pace cristiana — ha insistito Papa Francesco — è una pace inquieta, non è una pace tranquilla. È una pace inquieta che va avanti per portare questo messaggio di riconciliazione. La pace cristiana ci spinge ad andare avanti e questo è l’inizio, la radice dello zelo apostolico».
E secondo Papa Francesco «lo zelo apostolico non è andare avanti per fare proseliti e fare statistiche: quest’anno sono cresciuti i cristiani in tal Paese, i movimenti. Le statistiche sono buone, aiutano, ma fare proseliti non è quello che Dio più vuole da noi. Quello che il Signore vuole da noi — ha precisato — è proprio l’annuncio della riconciliazione, che è il nucleo del suo messaggio: Cristo si è fatto peccato per me e i peccati sono là, nel suo corpo, nel suo animo. Questo è da pazzi, ma è bello: è la verità. Questo è lo scandalo della croce».
Il Papa ha concluso la sua omelia chiedendo la grazia che il «Signore ci dia questa premura per annunciare Gesù; ci dia la saggezza cristiana, che nacque proprio dal suo fianco trafitto per amore». E «ci convinca anche che la vita cristiana non è una terapia terminale per stare in pace fino al cielo. La vita cristiana è sulla strada, sulla vita, con questa premura di Paolo. L’amore di Cristo ci possiede, ci spinge, ci preme. Con questa emozione che si sente quando uno vede che Dio ci ama». 

PAPA FRANCESCO: FERMARSI E SCEGLIERE

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

FERMARSI E SCEGLIERE

Giovedì, 19 febbraio 2015

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.041, Ven. 20/02/2015)

Nella fretta della vita bisogna avere il coraggio di fermarsi e di scegliere. E il tempo quaresimale serve proprio a questo. Nella messa celebrata a stamattina, 19 febbraio, a Santa Marta, Papa Francesco ha posto l’accento sulla necessità di porsi quelle domande che sono importanti per la vita dei cristiani e di saper fare le scelte giuste. Commentando le letture del giovedì dopo le Ceneri (Deuteronomio 30, 15-20; Salmo 1, Luca 9, 22-25), il Pontefice ha spiegato che «all’inizio del cammino quaresimale, la Chiesa ci fa riflettere sulle parole di Mosè e di Gesù: “Tu devi scegliere”». Si tratta quindi di riflettere sulla necessità che tutti noi abbiamo di fare delle scelte nella vita. «E Mosè — ha sottolineato Francesco — è chiaro: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male: scegli”». Infatti «il Signore ci ha dato la libertà, una libertà per amare, per camminare sulle sue strade». E così noi siamo liberi e possiamo scegliere. Purtroppo però, ha avvertito il Papa, «non è facile scegliere». È più comodo «vivere lasciandosi portare dall’inerzia della vita, delle situazioni, delle abitudini». Per questo «oggi la Chiesa ci dice: “Tu sei responsabile; tu devi scegliere”». Ecco allora gli interrogativi sollevati dal Pontefice: «Tu hai scelto? Come vivi? Il tuo modo di vita, il tuo stile di vita, com’è? È dalla parte della vita o dalla parte della morte?».
Naturalmente la risposta dovrebbe essere quella di «scegliere il cammino del Signore. “Io ti comando di amare il Signore”. E così Mosè ci fa vedere la strada del Signore: “Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dei e a servirli, perirete”. Scegliere fra Dio e gli altri dei, quelli che non hanno il potere di darci niente, soltanto piccole cosine che passano». Ritornando sulla difficoltà di scegliere, Francesco si è detto consapevole che «noi abbiamo sempre questa abitudine di andare un po’ dove va la gente, un po’ come tutti». Ma, ha proseguito, «oggi la Chiesa ci dice: “Fermati e scegli”. È un buon consiglio. E oggi — ha suggerito il Papa — ci farà bene fermarci e durante la giornata pensare: com’è il mio stile di vita? Per quali strade cammino?».
Dal resto, nella quotidianità noi tendiamo all’atteggiamento opposto. «Tante volte — ha ricordato — viviamo di corsa, viviamo in fretta, senza accorgerci di come sia la strada; e ci lasciamo portare avanti dai bisogni, dalle necessità del giorno, ma senza pensare». Da qui l’invito a fermarsi: «Incomincia la Quaresima così con piccole domande che aiuteranno a pensare: “Come è la mia vita?”». Il primo interrogativo da porsi — ha spiegato il Papa — è: «Chi è Dio per me? Io scelgo il Signore? Com’è il rapporto con Gesù?». E il secondo: «Com’è il rapporto con i tuoi; con i tuoi genitori; con i tuoi fratelli; con la tua sposa; con tuo marito; con i tuoi figli?». Infatti, bastano «queste due domande, e sicuramente troveremo cose che dobbiamo correggere».
Successivamente il Pontefice si è anche chiesto «perché noi andiamo così di fretta nella vita senza sapere su quale strada camminiamo». E anche su questo Francesco è stato esplicito: «Perché vogliamo vincere, vogliamo guadagnare, vogliamo avere successo». Ma Gesù ci fa pensare: «Quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?». Infatti «una strada sbagliata — ha detto il Papa — è quella di cercare sempre il proprio successo, i propri beni, senza pensare al Signore, senza pensare alla famiglia». Tornano allora le due domande sul rapporto con Dio e con chi ci è caro, visto che «uno può guadagnare tutto, ma alla fine diventare un fallito. Ha fallito. Quella vita è un fallimento». Anche quelle che sembrano aver avuto successo, quelle di donne e di uomini cui «hanno fatto un monumento» o hanno dedicato «un quadro», ma non hanno «saputo scegliere bene fra la vita e la morte».
E per ribadire il concetto, Francesco ha spiegato che «ci farà bene fermarci un po’ — cinque, dieci minuti — e farci la domanda: com’è la velocità della mia vita? Io rifletto sulle cose che faccio? Com’è il mio rapporto con Dio e con la mia famiglia?». In questo «ci aiuterà anche quel consiglio tanto bello del Salmo: “Beato l’uomo che confida nel Signore”». E «quando il Signore ci dà questo consiglio — “Fermati! Scegli oggi, scegli” — non ci lascia soli; è con noi e vuole aiutarci». E noi, da parte nostra dobbiamo «soltanto confidare, avere fiducia in Lui».
Riproponendo le parole del Salmo «Beato l’uomo che confida nel Signore» il Papa ha quindi esortato a essere consapevoli che Dio non ci abbandona. «Oggi, nel momento in cui noi ci fermiamo per pensare a queste cose e prendere decisioni, scegliere qualcosa, sappiamo che il Signore è con noi, è accanto a noi, per aiutarci. Mai ci lascia andare da soli. È sempre con noi. Anche nel momento della scelta». Da qui la duplice consegna conclusiva: «abbiamo fiducia in questo Signore, che è con noi, e quando ci dice “scegli fra il bene e il male” ci aiuta a scegliere il bene». E soprattutto «chiediamogli la grazia di essere coraggiosi», perché «ci vuole un po’ di coraggio» per «fermarsi e chiedersi come sto davanti a Dio, come sono i rapporti con la mia famiglia, cosa devo cambiare, cosa devo scegliere. E Lui — ha assicurato Francesco — è con noi». 

PAPA FRANCESCO: CELEBRAZIONE DEI VESPRI NELLA SOLENNITÀ DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO (2014)

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CELEBRAZIONE DEI VESPRI NELLA SOLENNITÀ DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO (2014)

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di San Paolo fuori le Mura

Sabato, 25 gennaio 2014

«E’ forse diviso il Cristo?» (1 Cor 1,13). Il forte richiamo che san Paolo pone all’inizio della sua Prima Lettera ai Corinzi, e che è risuonato nella liturgia di questa sera, è stato scelto da un gruppo di fratelli cristiani del Canada come traccia per la nostra meditazione durante la Settimana di Preghiera di quest’anno.
L’Apostolo ha appreso con grande tristezza che i cristiani di Corinto sono divisi in diverse fazioni. C’è chi afferma: “Io sono di Paolo”; un altro dice: “Io invece sono di Apollo”; un altro: “Io invece di Cefa”; e infine c’è anche chi sostiene: “E io di Cristo” (cfr v. 12). Neppure coloro che intendono rifarsi a Cristo possono essere elogiati da Paolo, perché usano il nome dell’unico Salvatore per prendere le distanze da altri fratelli all’interno della comunità. In altre parole, l’esperienza particolare di ciascuno, il riferimento ad alcune persone significative della comunità, diventano il metro di giudizio della fede degli altri.
In questa situazione di divisione, Paolo esorta i cristiani di Corinto, «per il nome del Signore Nostro Gesù Cristo», ad essere tutti unanimi nel parlare, perché tra di loro non vi siano divisioni, bensì perfetta unione di pensiero e di sentire (cfr v. 10). La comunione che l’Apostolo invoca, però, non potrà essere frutto di strategie umane. La perfetta unione tra i fratelli, infatti, è possibile solo in riferimento al pensiero e ai sentimenti di Cristo (cfr Fil 2,5). Questa sera, mentre siamo qui riuniti in preghiera, avvertiamo che Cristo, che non può essere diviso, vuole attirarci a sé, verso i sentimenti del suo cuore, verso il suo totale e confidente abbandono nelle mani del Padre, verso il suo radicale svuotarsi per amore dell’umanità. Solo Lui può essere il principio, la causa, il motore della nostra unità.
Mentre ci troviamo alla sua presenza, diventiamo ancora più consapevoli che non possiamo considerare le divisioni nella Chiesa come un fenomeno in qualche modo naturale, inevitabile per ogni forma di vita associativa. Le nostre divisioni feriscono il suo corpo, feriscono la testimonianza che siamo chiamati a rendergli nel mondo. Il Decreto del Vaticano II sull’ecumenismo, richiamando il testo di san Paolo che abbiamo meditato, significativamente afferma: «Da Cristo Signore la Chiesa è stata fondata una e unica, eppure molte comunioni cristiane propongono se stesse agli uomini come la vera eredità di Gesù Cristo. Tutti invero asseriscono di essere discepoli del Signore, ma hanno opinioni diverse e camminano per vie diverse, come se Cristo stesso fosse diviso». E, quindi, aggiunge: «Tale divisione non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura» (Unitatis redintegratio, 1). Tutti noi siamo stati danneggiati dalle divisioni. Tutti noi non vogliamo diventare uno scandalo. E per questo tutti noi camminiamo insieme, fraternamente, sulla strada verso l’unità, facendo unità anche nel camminare, quell’unità che viene dallo Spirito Santo e che ci porta una singolarità speciale, che soltanto lo Spirito Santo può fare: la diversità riconciliata. Il Signore ci aspetta tutti, ci accompagna tutti, è con tutti noi in questo cammino dell’unità.
Cari amici, Cristo non può essere diviso! Questa certezza deve incoraggiarci e sostenerci a proseguire con umiltà e con fiducia nel cammino verso il ristabilimento della piena unità visibile tra tutti i credenti in Cristo. Mi piace pensare in questo momento all’opera del beato Giovanni XXIII e del beato Giovanni Paolo II. Entrambi maturarono lungo il proprio percorso di vita la consapevolezza di quanto fosse urgente la causa dell’unità e, una volta eletti Vescovi di Roma, hanno guidato con decisione l’intero gregge cattolico sulle strade del cammino ecumenico: Papa Giovanni aprendo vie nuove e prima quasi impensate, Papa Giovanni Paolo proponendo il dialogo ecumenico come dimensione ordinaria ed imprescindibile della vita di ogni Chiesa particolare. Ad essi associo anche Papa Paolo VI, altro grande protagonista del dialogo, di cui ricordiamo proprio in questi giorni il cinquantesimo anniversario dello storico abbraccio a Gerusalemme con il Patriarca di Costantinopoli Atenagora.
L’opera di questi Pontefici ha fatto sì che la dimensione del dialogo ecumenico sia diventata un aspetto essenziale del ministero del Vescovo di Roma, tanto che oggi non si comprenderebbe pienamente il servizio petrino senza includervi questa apertura al dialogo con tutti i credenti in Cristo. Possiamo dire anche che il cammino ecumenico ha permesso di approfondire la comprensione del ministero del Successore di Pietro e dobbiamo avere fiducia che continuerà ad agire in tal senso anche per il futuro. Mentre guardiamo con gratitudine ai passi che il Signore ci ha concesso di compiere, e senza nasconderci le difficoltà che oggi il dialogo ecumenico attraversa, chiediamo di poter essere tutti rivestiti dei sentimenti di Cristo, per poter camminare verso l’unità da lui voluta. E camminare insieme è già fare unità!
In questo clima di preghiera per il dono dell’unità, vorrei rivolgere i miei cordiali e fraterni saluti a Sua Eminenza il Metropolita Gennadios, rappresentante del Patriarcato ecumenico, a Sua Grazia David Moxon, rappresentante a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury, e a tutti i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, qui convenuti questa sera. Con questi due fratelli, in rappresentanza di tutti, abbiamo pregato nel Sepolcro di Paolo e abbiamo detto fra noi: “Preghiamo perché lui ci aiuti in questa strada, in questa strada dell’unità, dell’amore, facendo strada di unità”. L’unità non verrà come un miracolo alla fine: l’unità viene nel cammino, la fa lo Spirito Santo nel cammino. Se noi non camminiamo insieme, se noi non preghiamo gli uni per gli altri, se noi non collaboriamo in tante cose che possiamo fare in questo mondo per il Popolo di Dio, l’unità non verrà! Essa si fa in questo cammino, in ogni passo, e non la facciamo noi: la fa lo Spirito Santo, che vede la nostra buona volontà.
Cari fratelli e sorelle, preghiamo il Signore Gesù, che ci ha reso membra vive del suo Corpo, affinché ci mantenga profondamente uniti a Lui, ci aiuti a superare i nostri conflitti, le nostre divisioni, i nostri egoismi; e ricordiamo che l’unità è sempre superiore al conflitto! E ci aiuti ad essere uniti gli uni agli altri da un’unica forza, quella dell’amore, che lo Spirito Santo riversa nei nostri cuori (cfr Rm 5,5). Amen.

 

Publié dans:FESTE DI SAN PAOLO, PAPA FRANCESCO |on 17 février, 2015 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO : SANTA PAZIENZA

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

SANTA PAZIENZA

Lunedì, 17 febbraio 2014

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.039, Mart. 18/02/2014)

Ci sono persone che sanno soffrire con il sorriso e che conservano «la gioia della fede» nonostante prove e malattie. Sono queste persone a «portare avanti la Chiesa con la loro santità di ogni giorno», fino a divenire autentici punti di riferimento «nelle nostre parrocchie, nelle nostre istituzioni». Nella riflessione di Papa Francesco sulla «pazienza esemplare del popolo di Dio», proposta lunedì 17 febbraio durante la messa nella Cappella della Casa Santa Marta, ci sono dunque gli echi degli incontri di domenica pomeriggio con la comunità parrocchiale della periferia romana dell’Infernetto.
«Quando andiamo nelle parrocchie — ha detto infatti il vescovo di Roma — troviamo persone che soffrono, che hanno problemi, che hanno un figlio disabile o hanno una malattia, ma portano avanti con pazienza la vita». Sono persone che non chiedono «un miracolo» ma vivono con «la pazienza di Dio» leggendo «i segni dei tempi». E proprio di questo santo popolo di Dio «è indegno il mondo» ha affermato il Papa citando espressamente il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei e affermando che anche «di questa gente del nostro popolo — gente che soffre, che soffre tante, tante cose ma non perde il sorriso della fede, che hanno la gioia della fede — possiamo dire che di loro non è degno il mondo: è indegno! Lo spirito del mondo è indegno di questa gente!».
La riflessione del Pontefice sul valore della pazienza ha preso le mosse, come di consueto, dalla liturgia odierna: il passo della Lettera di Giacomo (1, 1-11) e il brano del Vangelo di Marco (8, 11-13).
«Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove»: commentando queste parole tratte dalla prima lettura, il Papa ha notato che «sembra un po’ strano quello che ci dice l’apostolo Giacomo». Pare quasi — ha osservato — «un invito a fare il fachiro». Infatti, si è chiesto, «subire una prova come ci può dare letizia?». Il Pontefice ha proseguito la lettura del passo di san Giacomo: «Sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla».
Il suggerimento, ha spiegato, è «portare la vita in questo ritmo di pazienza». Ma «la pazienza — ha avvertito — non è rassegnazione, è un’altra cosa». Pazienza vuol dire infatti «sopportare sulle spalle le cose della vita, le cose che non sono buone, le cose brutte, le cose che noi non vogliamo. E sarà proprio questa pazienza che farà matura la nostra vita». Chi invece non ha pazienza «vuole tutto subito, tutto di fretta». E «chi non conosce questa saggezza della pazienza è una persona capricciosa», che finisce per comportarsi proprio «come i bambini capricciosi», i quali dicono: «io voglio questo, voglio quello, questo non mi piace», e non si accontentano mai di niente.
«Perché questa generazione chiede un segno?» domanda il Signore nel brano evangelico di Marco rispondendo alla richiesta dei farisei. E così intendeva dire, ha affermato il Papa, che «questa generazione è come i bambini che se sentono musica di gioia non ballano e se sentono musica di lutto non piangono. Nessuna cosa va bene!». Infatti, ha proseguito il Papa, «la persona che non ha pazienza è una persona che non cresce, che rimane nei capricci dei bambini, che non sa prendere la vita come viene», e sa dire solo: «o questo o niente!».
Quando non c’è la pazienza, «questa è una delle tentazioni: diventare capricciosi» come bambini. E un’altra tentazione di coloro «che non hanno pazienza è l’onnipotenza», racchiusa nella pretesa: «Io voglio subito le cose!». Proprio a questo si riferisce il Signore quando i farisei gli chiedono «un segno dal cielo». In realtà, ha sottolineato il Pontefice, «cosa volevano? Volevano uno spettacolo, un miracolo». È in fin dei conti la stessa tentazione che il diavolo propone a Gesù nel deserto, domandandogli di fare qualcosa — così tutti crediamo e questa pietra diventa pane — o di buttarsi giù dal tempio per mostrare la sua potenza.
Nel chiedere a Gesù un segno, però, i farisei «confondono il modo di agire di Dio con il modo di agire di uno stregone». Ma, ha precisato il Santo Padre, «Dio non agisce come uno stregone. Dio ha il suo modo di andare avanti: la pazienza di Dio». E noi «ogni volta che andiamo al sacramento della riconciliazione cantiamo un inno alla pazienza di Dio. Il Signore come ci porta sulle sue spalle, con quanta pazienza!».
«La vita cristiana — è il suggerimento del Papa — deve svolgersi su questa musica della pazienza, perché è stata proprio la musica dei nostri padri: il popolo di Dio». La musica di «quelli che hanno creduto alla parola di Dio, che hanno seguito il comandamento che il Signore aveva dato al nostro padre Abramo: cammina davanti a me e sii irreprensibile!».
Il popolo di Dio, ha proseguito citando ancora il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei, «ha sofferto tanto: sono stati perseguitati, ammazzati, dovevano nascondersi nelle spelonche, nelle caverne. E hanno avuto la gioia, la letizia — come dice l’apostolo Giacomo — di salutare da lontano le promesse». È proprio questa «la pazienza che noi dobbiamo avere nelle prove». È «la pazienza di una persona adulta; la pazienza di Dio che ci porta, ci supporta sulle sue spalle; e la pazienza del nostro popolo» ha fatto notare il Pontefice esclamando: «Quanto è paziente il nostro popolo ancora adesso!».
Il vescovo di Roma ha quindi ricordato che sono tante le persone sofferenti capaci di portare «avanti con pazienza la vita. Non chiedono un segno», come i farisei, «ma sanno leggere i segni dei tempi». Così «sanno che quando germoglia il fico viene la primavera». Invece le persone «impazienti» presentate nel Vangelo «volevano un segno» ma «non sapevano leggere i segni dei tempi. Per questo non hanno riconosciuto Gesù».
La Lettera agli Ebrei, ha detto il Papa, dice chiaramente che «il mondo era indegno del popolo di Dio». Ma oggi «possiamo dire lo stesso di questa gente del nostro popolo: gente che soffre, che soffre tante, tante cose, ma non perde il sorriso della fede, che ha la gioia della fede». Sì, anche di tutti loro «non è degno il mondo!». È proprio «questa gente, il nostro popolo, nelle nostre parrocchie, nelle nostre istituzioni», che porta «avanti la Chiesa con la sua santità di tutti i giorni, di ogni giorno».
In conclusione il Papa ha riletto il passo di san Giacomo riproposto anche all’inizio dell’omelia. E ha chiesto al Signore di dare «a tutti noi la pazienza: la pazienza gioiosa, la pazienza del lavoro, della pace», donandoci «la pazienza di Dio» e «la pazienza del nostro popolo fedele che è tanto esemplare».

PAPA FRANCESCO – CHIESA, CORPO DI CRISTO (anche Paolo)

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PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 22 ottobre 2014

CHIESA, CORPO DI CRISTO (anche Paolo)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno.

Quando si vuole evidenziare come gli elementi che compongono una realtà siano strettamente uniti l’uno all’altro e formino insieme una cosa sola, si usa spesso l’immagine del corpo. A partire dall’apostolo Paolo, questa espressione è stata applicata alla Chiesa ed è stata riconosciuta come il suo tratto distintivo più profondo e più bello. Oggi, allora, vogliamo chiederci: in che senso la Chiesa forma un corpo? E perché viene definita «corpo di Cristo»?

Nel Libro di Ezechiele viene descritta una visione un po’ particolare, impressionante, ma capace di infondere fiducia e speranza nei nostri cuori. Dio mostra al profeta una distesa di ossa, distaccate l’una dall’altra e inaridite. Uno scenario desolante… Immaginatevi tutta una pianura piena di ossa. Dio gli chiede, allora, di invocare su di loro lo Spirito. A quel punto, le ossa si muovono, cominciano ad avvicinarsi e ad unirsi, su di loro crescono prima i nervi e poi la carne e si forma così un corpo, completo e pieno di vita (cfr Ez 37,1-14). Ecco, questa è la Chiesa! Mi raccomando oggi a casa prendete la Bibbia, al capitolo 37 del profeta Ezechiele, non dimenticate, e leggere questo, è bellissimo. Questa è la Chiesa, è un capolavoro, il capolavoro dello Spirito, il quale infonde in ciascuno la vita nuova del Risorto e ci pone l’uno accanto all’altro, l’uno a servizio e a sostegno dell’altro, facendo così di tutti noi un corpo solo, edificato nella comunione e nell’amore.
La Chiesa, però, non è solamente un corpo edificato nello Spirito: la Chiesa è il corpo di Cristo! E non si tratta semplicemente di un modo di dire: ma lo siamo davvero! È il grande dono che riceviamo il giorno del nostro Battesimo! Nel sacramento del Battesimo, infatti, Cristo ci fa suoi, accogliendoci nel cuore del mistero della croce, il mistero supremo del suo amore per noi, per farci poi risorgere con lui, come nuove creature. Ecco: così nasce la Chiesa, e così la Chiesa si riconosce corpo di Cristo! Il Battesimo costituisce una vera rinascita, che ci rigenera in Cristo, ci rende parte di lui, e ci unisce intimamente tra di noi, come membra dello stesso corpo, di cui lui è il capo (cfr Rm 12,5; 1 Cor 12,12-13).
Quella che ne scaturisce, allora, è una profonda comunione d’amore. In questo senso, è illuminante come Paolo, esortando i mariti ad «amare le mogli come il proprio corpo», affermi: «Come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo» (Ef 5,28-30). Che bello se ci ricordassimo più spesso di quello che siamo, di che cosa ha fatto di noi il Signore Gesù: siamo il suo corpo, quel corpo che niente e nessuno può più strappare da lui e che egli ricopre di tutta la sua passione e di tutto il suo amore, proprio come uno sposo con la sua sposa. Questo pensiero, però, deve fare sorgere in noi il desiderio di corrispondere al Signore Gesù e di condividere il suo amore tra di noi, come membra vive del suo stesso corpo. Al tempo di Paolo, la comunità di Corinto trovava molte difficoltà in tal senso, vivendo, come spesso anche noi, l’esperienza delle divisioni, delle invidie, delle incomprensioni e dell’emarginazione. Tutte queste cose non vanno bene, perché, invece che edificare e far crescere la Chiesa come corpo di Cristo, la frantumano in tante parti, la smembrano. E questo succede anche ai nostri giorni. Pensiamo nelle comunità cristiane, in alcune parrocchie, pensiamo nei nostri quartieri quante divisioni, quante invidie, come si sparla, quanta incomprensione ed emarginazione. E questo cosa comporta? Ci smembra fra di noi. E’ l’inizio della guerra. La guerra non incomincia nel campo di battaglia: la guerra, le guerre incominciano nel cuore, con incomprensioni, divisioni, invidie, con questa lotta con gli altri. La comunità di Corinto era così, erano campioni in questo! L’Apostolo Paolo ha dato ai Corinti alcuni consigli concreti che valgono anche per noi: non essere gelosi, ma apprezzare nelle nostre comunità i doni e le qualità dei nostri fratelli. Le gelosie: “Quello ha comprato una macchina”, e io sento qui una gelosia; “Questo ha vinto il lotto”, e un’altra gelosia; “E quest’altro sta andando bene bene in questo”, e un’altra gelosia. Tutto ciò smembra, fa male, non si deve fare! Perché così le gelosie crescono e riempiono il cuore. E un cuore geloso è un cuore acido, un cuore che invece del sangue sembra avere l’aceto; è un cuore che non è mai felice, è un cuore che smembra la comunità. Ma cosa devo fare allora? Apprezzare nelle nostre comunità i doni e le qualità degli altri, dei nostri fratelli. E quando mi viene la gelosia – perché viene a tutti, tutti siamo peccatori -, devo dire al Signore: “Grazie, Signore, perché hai dato questo a quella persona”. Apprezzare le qualità, farsi vicini e partecipare alla sofferenza degli ultimi e dei più bisognosi; esprimere la propria gratitudine a tutti. Il cuore che sa dire grazie è un cuore buono, è un cuore nobile, è un cuore che è contento. Vi domando: tutti noi sappiamo dire grazie, sempre? Non sempre perché l’invidia, la gelosia ci frena un po’. E, in ultimo, il consiglio che l’apostolo Paolo dà ai Corinzi e anche noi dobbiamo darci l’un l’altro: non reputare nessuno superiore agli altri. Quanta gente si sente superiore agli altri! Anche noi, tante volte diciamo come quel fariseo della parabola: “Ti ringrazio Signore perché non sono come quello, sono superiore”. Ma questo è brutto, non bisogna mai farlo! E quando stai per farlo, ricordati dei tuoi peccati, di quelli che nessuno conosce, vergognati davanti a Dio e dì: “Ma tu Signore, tu sai chi è superiore, io chiudo la bocca”. E questo fa bene. E sempre nella carità considerarsi membra gli uni degli altri, che vivono e si donano a beneficio di tutti (cfr 1Cor 12–14).
Cari fratelli e sorelle, come il profeta Ezechiele e come l’apostolo Paolo, invochiamo anche noi lo Spirito Santo, perché la sua grazia e l’abbondanza dei suoi doni ci aiutino a vivere davvero come corpo di Cristo, uniti, come famiglia, ma una famiglia che è il corpo di Cristo, e come segno visibile e bello dell’amore di Cristo.

 

VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN TURCHIA – DIVINA LITURGIA

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2014/documents/papa-francesco_20141130_divina-liturgia-turchia.html

VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN TURCHIA – DIVINA LITURGIA

(28-30 NOVEMBRE 2014)

PAROLE DEL SANTO PADRE

Chiesa Patriarcale di San Giorgio, Istanbul

Domenica, 30 novembre 2014

Santità, carissimo fratello Bartolomeo,

molte volte, come arcivescovo di Buenos Aires, ho partecipato alla Divina Liturgia delle comunità ortodosse presenti in quella città, ma trovarmi oggi in questa Chiesa Patriarcale di San Giorgio per la celebrazione del santo Apostolo Andrea, primo dei chiamati e fratello di san Pietro, patrono del Patriarcato Ecumenico, è davvero una grazia singolare che il Signore mi dona.
Incontrarci, guardare il volto l’uno dell’altro, scambiare l’abbraccio di pace, pregare l’uno per l’altro sono dimensioni essenziali di quel cammino verso il ristabilimento della piena comunione alla quale tendiamo. Tutto ciò precede e accompagna costantemente quell’altra dimensione essenziale di tale cammino che è il dialogo teologico. Un autentico dialogo è sempre un incontro tra persone con un nome, un volto, una storia, e non soltanto un confronto di idee.
Questo vale soprattutto per noi cristiani, perché per noi la verità è la persona di Gesù Cristo. L’esempio di sant’Andrea, il quale insieme con un altro discepolo accolse l’invito del Divino Maestro: «Venite e vedrete», e «quel giorno rimasero con lui» (Gv 1,39), ci mostra con chiarezza che la vita cristiana è un’esperienza personale, un incontro trasformante con Colui che ci ama e ci vuole salvare. Anche l’annuncio cristiano si diffonde grazie a persone che, innamorate di Cristo, non possono non trasmettere la gioia di essere amate e salvate. Ancora una volta l’esempio dell’apostolo Andrea è illuminante. Egli, dopo avere seguito Gesù là dove abitava ed essersi intrattenuto con Lui, «incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: “Abbiamo trovato il Messia” – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù» (Gv 1,40-42). È chiaro, pertanto, che neanche il dialogo tra cristiani può sottrarsi a questa logica dell’incontro personale.
Non è un caso, dunque, che il cammino di riconciliazione e di pace tra cattolici ed ortodossi sia stato, in qualche modo, inaugurato da un incontro, da un abbraccio tra i nostri venerati predecessori, il Patriarca Ecumenico Atenagora e Papa Paolo VI, cinquant’anni fa, a Gerusalemme, evento che Vostra Santità ed io abbiamo voluto recentemente commemorare incontrandoci di nuovo nella città dove il Signore Gesù Cristo è morto e risorto.
Per una felice coincidenza, questa mia visita avviene qualche giorno dopo la celebrazione del cinquantesimo anniversario della promulgazione del Decreto del Concilio Vaticano II sulla ricerca dell’unità di tutti i cristiani, Unitatis redintegratio. Si tratta di un documento fondamentale con il quale è stata aperta una nuova strada per l’incontro tra i cattolici e i fratelli di altre Chiese e Comunità ecclesiali.
In particolare, con quel Decreto la Chiesa cattolica riconosce che le Chiese ortodosse «hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il Sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli» (n. 15). Conseguentemente, si afferma che per custodire fedelmente la pienezza della tradizione cristiana e per condurre a termine la riconciliazione dei cristiani di oriente e occidente è di somma importanza conservare e sostenere il ricchissimo patrimonio delle Chiese d’Oriente, non solo per quello che riguarda le tradizioni liturgiche e spirituali, ma anche le discipline canoniche, sancite dai santi padri e dai concili, che regolano la vita di tali Chiese (cfr nn. 15-16).
Ritengo importante ribadire il rispetto di questo principio come condizione essenziale e reciproca per il ristabilimento della piena comunione, che non significa né sottomissione l’uno dell’altro, né assorbimento, ma piuttosto accoglienza di tutti i doni che Dio ha dato a ciascuno per manifestare al mondo intero il grande mistero della salvezza realizzato da Cristo Signore per mezzo dello Spirito Santo. Voglio assicurare a ciascuno di voi che, per giungere alla meta sospirata della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune, e che siamo pronti a cercare insieme, alla luce dell’insegnamento della Scrittura e della esperienza del primo millennio, le modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali circostanze: l’unica cosa che la Chiesa cattolica desidera e che io ricerco come Vescovo di Roma, “la Chiesa che presiede nella carità”, è la comunione con le Chiese ortodosse. Tale comunione sarà sempre frutto dell’amore «che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5), amore fraterno che dà espressione al legame spirituale e trascendente che ci unisce in quanto discepoli del Signore.
Nel mondo d‘oggi si levano con forza voci che non possiamo non sentire e che domandano alle nostre Chiese di vivere fino in fondo l’essere discepoli del Signore Gesù Cristo.
La prima di queste voci è quella dei poveri. Nel mondo, ci sono troppe donne e troppi uomini che soffrono per grave malnutrizione, per la crescente disoccupazione, per l’alta percentuale di giovani senza lavoro e per l’aumento dell’esclusione sociale, che può indurre ad attività criminali e perfino al reclutamento dei terroristi. Non possiamo rimanere indifferenti di fronte alle voci di questi fratelli e sorelle. Essi ci chiedono non solo di dare loro un aiuto materiale, necessario in tante circostanze, ma soprattutto che li aiutiamo a difendere la loro dignità di persone umane, in modo che possano ritrovare le energie spirituali per risollevarsi e tornare ad essere protagonisti delle loro storie. Ci chiedono inoltre di lottare, alla luce del Vangelo, contro le cause strutturali della povertà: la disuguaglianza, la mancanza di un lavoro degno, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. Come cristiani siamo chiamati a sconfiggere insieme quella globalizzazione dell’indifferenza che oggi sembra avere la supremazia e a costruire una nuova civiltà dell’amore e della solidarietà.
Una seconda voce che grida forte è quella delle vittime dei conflitti in tante parti del mondo. Questa voce la sentiamo risuonare molto bene da qui, perché alcune nazioni vicine sono segnate da una guerra atroce e disumana. Penso con profondo dolore alle tante vittime del disumano e insensato attentato, che in questi giorni ha colpito i fedeli musulmani, che pregavano nella moschea di Kano, in Nigeria. Turbare la pace di un popolo, commettere o consentire ogni genere di violenza, specialmente su persone deboli e indifese, è un peccato gravissimo contro Dio, perché significa non rispettare l’immagine di Dio che è nell’uomo. La voce delle vittime dei conflitti ci spinge a procedere speditamente nel cammino di riconciliazione e di comunione tra i cattolici ed ortodossi. Del resto, come possiamo annunciare credibilmente il Vangelo di pace che viene dal Cristo, se tra noi continuano ad esistere rivalità e contese? (cfr Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 77).
Una terza voce che ci interpella è quella dei giovani. Oggi purtroppo sono tanti i giovani che vivono senza speranza, vinti dalla sfiducia e dalla rassegnazione. Molti giovani, poi, influenzati dalla cultura dominante, cercano la gioia soltanto nel possedere beni materiali e nel soddisfare le emozioni del momento. Le nuove generazioni non potranno mai acquisire la vera saggezza e mantenere viva la speranza se noi non saremo capaci di valorizzare e trasmettere l’autentico umanesimo, che sgorga dal Vangelo e dall’esperienza millenaria della Chiesa. Sono proprio i giovani – penso ad esempio alle moltitudini di giovani ortodossi, cattolici e protestanti che si incontrano nei raduni internazionali organizzati dalla comunità di Taizé – sono loro che oggi ci sollecitano a fare passi in avanti verso la piena comunione. E ciò non perché essi ignorino il significato delle differenze che ancora ci separano, ma perché sanno vedere oltre – sanno vedere oltre – sono capaci di cogliere l’essenziale che già ci unisce, che è tanto Santità.
Caro fratello, carissimo fratello, siamo già in cammino, in cammino verso la piena comunione e già possiamo vivere segni eloquenti di un’unità reale, anche se ancora parziale. Questo ci conforta e ci sostiene nel proseguire questo cammino. Siamo sicuri che lungo questa strada siamo sorretti dall’intercessione dell’Apostolo Andrea e di suo fratello Pietro, considerati dalla tradizione i fondatori delle Chiese di Costantinopoli e di Roma. Invochiamo da Dio il grande dono della piena unità e la capacità di accoglierlo nelle nostre vite. E non dimentichiamoci mai di pregare gli uni per gli altri.

 

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