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PAPA FRANCESCO – MEDITAZIONE 16.5.13 – I GUAI DI SAN PAOLO

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

I GUAI DI SAN PAOLO

Giovedì, 16 maggio 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 112, Ven. 17/05/2013)

Con la sua testimonianza di verità il cristiano deve «dar fastidio» alle «nostre strutture comode», anche a costo di finire «nei guai», perché animato da una «sana pazzia spirituale» per tutte «le periferie esistenziali». Sull’esempio di san Paolo, che passava «da una battaglia campale a un’altra», i credenti non devono rifugiarsi «in una vita tranquilla» o nei compromessi: oggi nella Chiesa ci sono troppo «cristiani da salotto, quelli educati», «tiepidi», per i quali va sempre «tutto bene», ma che non hanno dentro l’ardore apostolico. È un forte appello alla missione — non solo nelle terre lontane ma anche nelle città — quello che Papa Francesco ha lanciato stamani, giovedì 16 maggio, nella messa celebrata nella cappella della Domus Sanctae Marthae. Punto di partenza della sua riflessione il passo degli Atti degli apostoli (22, 30; 23, 6-11) che vede protagonista appunto san Paolo nel pieno di una delle sue «battaglie campali». Ma stavolta, ha detto il Papa, è una battaglia «anche un po’ iniziata da lui, con la sua furbizia. Quando si è accorto della divisione fra quelli che lo accusavano», tra sadducei e farisei, ha fatto in modo che andassero «uno contro l’altro. Ma tutta la vita di Paolo era di battaglia campale in battaglia campale, di persecuzione in persecuzione. Una vita con tante prove, perché anche il Signore aveva detto che questo sarebbe stato il suo destino»; un destino «con tante croci, ma lui va avanti; lui guarda il Signore e va avanti».

E «Paolo dà fastidio: è un uomo — ha spiegato il Pontefice — che con la sua predica, con il suo lavoro, con il suo atteggiamento dà fastidio perché proprio annuncia Gesù Cristo. E l’annuncio di Gesù Cristo alle nostre comodità, tante volte alle nostre strutture comode, anche cristiane, dà fastidio. Il Signore sempre vuole che noi andiamo più avanti, più avanti, più avanti». Vuole «che noi non ci rifugiamo in una vita tranquilla o nelle strutture caduche. E Paolo, predicando il Signore, dava fastidio. Ma lui andava avanti, perché aveva in sé quell’atteggiamento tanto cristiano che è lo zelo apostolico. Aveva proprio il fervore apostolico. Non era un uomo di compromesso. No! La verità: avanti! L’annuncio di Gesù Cristo: avanti! Ma questo non era soltanto per il suo temperamento: era un uomo focoso».

Tornando al racconto degli Atti, il Papa ha rilevato come «anche il Signore s’immischia» nella vicenda, «perché proprio dopo questa battaglia campale, la notte seguente, dice a Paolo: coraggio! Va’ avanti, ancora di più! È proprio il Signore che lo spinge ad andare avanti: “Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma”». E, ha aggiunto il Papa, «fra parentesi, a me piace che il Signore si preoccupi di questa diocesi fin da quel tempo: siamo privilegiati!».

«Lo zelo apostolico — ha quindi precisato — non è un entusiasmo per avere il potere, per avere qualcosa. È qualcosa che viene da dentro e che lo stesso Signore vuole da noi: cristiano con zelo apostolico. E da dove viene questo zelo apostolico? Viene dalla conoscenza di Gesù Cristo. Paolo ha trovato Gesù Cristo, ha incontrato Gesù Cristo, ma non con una conoscenza intellettuale, scientifica — è importante perché ci aiuta — ma con quella conoscenza prima, quella del cuore, dell’incontro personale. La conoscenza di Gesù che mi ha salvato e che è morto per me: quello proprio è il punto della conoscenza più profonda di Paolo. E quello lo spinge a andare avanti, annunciare Gesù».

Ecco allora che per Paolo «non ne finisce una che ne incomincia un’altra. È sempre nei guai, ma nei guai non per i guai, ma per Gesù: annunciando Gesù, le conseguenze sono queste! La conoscenza di Gesù Cristo fa che lui sia un uomo con questo fervore apostolico. È in questa Chiesa e pensa a quella, va in quella e poi torna a questa e va all’altra. E questa è una grazia. È un atteggiamento cristiano il fervore apostolico, lo zelo apostolico».

Papa Francesco ha poi fatto riferimento agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola, suggerendo la domanda: «Ma se Cristo ha fatto questo per me, cosa devo fare io per Cristo?». E ha risposto: «Il fervore apostolico, lo zelo apostolico si capisce soltanto in un’atmosfera di amore: senza l’amore non si capisce perché lo zelo apostolico ha qualcosa di pazzia, ma di pazzia spirituale, di sana pazzia. E Paolo aveva questa sana pazzia».

«Chi custodisce proprio lo zelo apostolico — ha proseguito il Pontefice — è lo Spirito Santo; chi fa crescere lo zelo apostolico è lo Spirito Santo: ci dà quel fuoco dentro per andare avanti nell’annuncio di Gesù Cristo. Dobbiamo chiedere a lui la grazia dello zelo apostolico». E questo vale «non soltanto per i missionari, che sono tanto bravi. In questi giorni ho trovato alcuni: “Ah padre, è da sessant’anni che sono missionario nell’Amazzonia”. Sessant’anni e avanti, avanti! Nella Chiesa adesso ce ne sono tanti e zelanti: uomini e donne che vanno avanti, che hanno questo fervore. Ma nella Chiesa ci sono anche cristiani tiepidi, con un certo tepore, che non sentono di andare avanti, sono buoni. Ci sono anche i cristiani da salotto. Quelli educati, tutto bene, ma non sanno fare figli alla Chiesa con l’annuncio e il fervore apostolico». Il Papa ha invocato quindi lo Spirito Santo perché «ci dia questo fervore apostolico a tutti noi; ci dia anche la grazia di dar fastidio alle cose che sono troppo tranquille nella Chiesa; la grazia di andare avanti verso le periferie esistenziali. La Chiesa ha tanto bisogno di questo! Non soltanto in terra lontana, nelle Chiese giovani, nei popoli che ancora non conoscono Gesù Cristo. Ma qui in città, in città proprio, hanno bisogno di questo annuncio di Gesù Cristo. Dunque chiediamo allo Spirito Santo questa grazia dello zelo apostolico: cristiani con zelo apostolico. E se diamo fastidio, benedetto sia il Signore. Avanti, come dice il Signore a Paolo: “Coraggio!”». Hanno concelebrato, tra gli altri, il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson e il vescovo Mario Toso, rispettivamente presidente e segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, monsignor Luigi Mistò, segretario dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), e il gesuita Hugo Guillermo Ortiz, responsabile dei programmi di lingua spagnola di Radio Vaticana. Tra i presenti, personale del dicastero Iustitia et Pax e un gruppo di dipendenti dell’emittente vaticana.  

SOLENNITÀ DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO – OMELIA PAPA FRANCESC (2015)

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CELEBRAZIONE DEI VESPRI NELLA SOLENNITÀ DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di San Paolo fuori le Mura

Domenica, 25 gennaio 2015

In viaggio dalla Giudea verso la Galilea, Gesù passa attraverso la Samaria. Egli non ha difficoltà ad incontrare i samaritani giudicati eretici, scismatici, separati dai giudei. Il suo atteggiamento ci fa capire che il confronto con chi è differente da noi può farci crescere. Gesù, stanco per il viaggio, non esita a chiedere da bere alla donna samaritana. La sua sete, lo sappiamo, va ben oltre quella fisica: essa è anche sete di incontro, desiderio di aprire un dialogo con quella donna, offrendole così la possibilità di un cammino di conversione interiore. Gesù è paziente, rispetta la persona che gli sta davanti, si rivela a lei progressivamente. Il suo esempio incoraggia a cercare un confronto sereno con l’altro. Per capirsi e crescere nella carità e nella verità, occorre fermarsi, accogliersi e ascoltarsi. In tal modo, si comincia già a sperimentare l’unità. L’unità si fa nel cammino, non è mai ferma. L’unità si fa camminando. La donna di Sicar interroga Gesù sul vero luogo dell’adorazione di Dio. Gesù non si schiera a favore del monte o del tempio, ma va oltre, va all’essenziale abbattendo ogni muro di separazione. Egli rimanda alla verità dell’adorazione: «Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (Gv 4,24). Tante controversie tra cristiani, ereditate dal passato, si possono superare mettendo da parte ogni atteggiamento polemico o apologetico e cercando insieme di cogliere in profondità ciò che ci unisce, e cioè la chiamata a partecipare al mistero di amore del Padre rivelato a noi dal Figlio per mezzo dello Spirito Santo. L’unità dei cristiani – ne siamo convinti – non sarà il frutto di raffinate discussioni teoriche nelle quali ciascuno tenterà di convincere l’altro della fondatezza delle proprie opinioni. Verrà il Figlio dell’uomo e ci troverà ancora nelle discussioni. Dobbiamo riconoscere che per giungere alla profondità del mistero di Dio abbiamo bisogno gli uni degli altri, di incontrarci e di confrontarci sotto la guida dello Spirito Santo, che armonizza le diversità e supera i conflitti, riconcilia le diversità. Gradualmente, la donna samaritana comprende che Colui che le ha chiesto da bere è in grado di dissetarla. Gesù si presenta a lei come la sorgente da cui scaturisce l’acqua viva che estingue per sempre la sua sete (cfr Gv 4,13-14). L’esistenza umana rivela aspirazioni sconfinate: ricerca di verità, sete di amore, di giustizia e di libertà. Sono desideri appagati solo in parte, perché dal profondo del suo essere l’uomo si muove verso un “di più”, un assoluto capace di soddisfare la sua sete in modo definitivo. La risposta a queste aspirazioni viene data da Dio in Gesù Cristo, nel suo mistero pasquale. Dal costato squarciato di Gesù sono sgorgati sangue ed acqua (cfr Gv 19,34): Egli è la sorgente da cui scaturisce l’acqua dello Spirito Santo, cioè «l’amore di Dio riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5) nel giorno del Battesimo. Per opera dello Spirito siamo diventati una sola cosa con Cristo, figli nel Figlio, veri adoratori del Padre. Questo mistero d’amore è la ragione più profonda dell’unità che lega tutti i cristiani e che è molto più grande delle divisioni avvenute nel corso della storia. Per questo motivo, nella misura in cui ci avviciniamo con umiltà al Signore Gesù Cristo, ci avviciniamo anche tra di noi. L’incontro con Gesù trasforma la Samaritana in una missionaria. Avendo ricevuto un dono più grande e più importante dell’acqua del pozzo, la donna lascia lì la sua brocca (cfr Gv 4,28) e corre a raccontare ai suoi concittadini che ha incontrato il Cristo (cfr Gv 4,29). L’incontro con Lui le ha restituito il senso e la gioia di vivere, e lei sente il desiderio di comunicarlo. Oggi esiste una moltitudine di uomini e donne stanchi e assetati, che chiedono a noi cristiani di dare loro da bere. È una richiesta alla quale non ci si può sottrarre. Nella chiamata ad essere evangelizzatori, tutte le Chiese e Comunità ecclesiali trovano un ambito essenziale per una più stretta collaborazione. Per poter svolgere efficacemente tale compito, occorre evitare di chiudersi nei propri particolarismi ed esclusivismi, come pure di imporre uniformità secondo piani meramente umani (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 131). Il comune impegno ad annunciare il Vangelo permette di superare ogni forma di proselitismo e la tentazione di competizione. Siamo tutti al servizio dell’unico e medesimo Vangelo! E in questo momento di preghiera per l’unità, vorrei ricordare i nostri martiri di oggi. Essi danno testimonianza di Gesù Cristo e vengono perseguitati e uccisi perché cristiani, senza fare distinzione, da parte dei persecutori, tra le confessioni a cui appartengono. Sono cristiani e per questo perseguitati. Questo è, fratelli e sorelle, l’ecumenismo del sangue. Ricordando questa testimonianza dei nostri martiri di oggi, e con questa gioiosa certezza, rivolgo i miei cordiali e fraterni saluti a Sua Eminenza il Metropolita Gennadios, rappresentante del Patriarcato ecumenico, a Sua Grazia David Moxon, rappresentante personale a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury, e a tutti i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali qui convenuti nella Festa della Conversione di San Paolo. Inoltre, mi è gradito salutare i membri della Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, ai quali auguro un fruttuoso lavoro per la sessione plenaria che si svolgerà nei prossimi giorni a Roma. Saluto anche gli studenti dell’Ecumenical Institute of Bossey e i giovani che beneficiano di borse di studio offerte dal Comitato di Collaborazione Culturale con le Chiese ortodosse, operante presso il Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Sono presenti oggi anche religiosi e religiose appartenenti a diverse Chiese e Comunità ecclesiali che hanno partecipato in questi giorni ad un Convegno ecumenico, organizzato dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, in occasione dell’Anno della vita consacrata. La vita religiosa come profezia del mondo futuro è chiamata ad offrire nel nostro tempo testimonianza di quella comunione in Cristo che va oltre ogni differenza, e che è fatta di scelte concrete di accoglienza e dialogo. Di conseguenza, la ricerca dell’unità dei cristiani non può essere appannaggio solo di qualche singolo o comunità religiosa particolarmente sensibile a tale problematica. La reciproca conoscenza delle diverse tradizioni di vita consacrata ed un fecondo scambio di esperienze può essere utile per la vitalità di ogni forma di vita religiosa nelle diverse Chiese e Comunità ecclesiali. Cari fratelli e sorelle, oggi noi, che siamo assetati di pace e di fraternità, invochiamo con cuore fiducioso dal Padre celeste, mediante Gesù Cristo unico Sacerdote e mediatore e per intercessione della Vergine Maria, dell’Apostolo Paolo e di tutti i santi, il dono della piena comunione di tutti i cristiani, affinché possa risplendere «il sacro mistero dell’unità della Chiesa» (Conc. Ecum. Vat. II, Decreto sull’Ecumenismo Unitatis redintegratio, 2), quale segno e strumento di riconciliazione per il mondo intero. Così sia.

Publié dans:FESTE DI SAN PAOLO, PAPA FRANCESCO |on 13 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – LA FAMIGLIA – 33. LA PORTA DELL’ACCOGLIENZA (per il Giubileo)

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PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 18 novembre 2015

LA FAMIGLIA – 33. LA PORTA DELL’ACCOGLIENZA

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Con questa riflessione siamo arrivati alle soglie del Giubileo, è vicino. Davanti a noi sta la  porta, ma non solo la porta santa, l’altra: la grande porta della Misericordia di Dio – e quella è una porta bella! -, che accoglie il nostro pentimento offrendo la grazia del suo perdono. La porta è generosamente aperta, ci vuole un po’ di coraggio da parte nostra per varcare la soglia. Ognuno di noi ha dentro di sé cose che pesano. Tutti siamo peccatori! Approfittiamo di questo momento che viene e varchiamo la soglia di questa misericordia di Dio che mai si stanca di perdonare, mai si stanca di aspettarci! Ci guarda, è sempre accanto a noi. Coraggio! Entriamo per questa porta! Dal Sinodo dei Vescovi, che abbiamo celebrato nello scorso mese di ottobre, tutte le famiglie, e la Chiesa intera, hanno ricevuto un grande incoraggiamento a incontrarsi sulla soglia di questa porta aperta. La Chiesa è stata incoraggiata ad aprire le sue porte, per uscire con il Signore incontro ai figli e alle figlie in cammino, a volte incerti, a volte smarriti, in questi tempi difficili. Le famiglie cristiane, in particolare, sono state incoraggiate ad aprire la porta al Signore che attende di entrare, portando la sua benedizione e la sua amicizia. E se la porta della misericordia di Dio è sempre aperta, anche le porte delle nostre chiese, delle nostre comunità, delle nostre parrocchie, delle nostre istituzioni, delle nostre diocesi, devono essere aperte, perché così tutti possiamo uscire a portare questa misericordia di Dio. Il Giubileo significa la grande porta della misericordia di Dio ma anche le piccole porte delle nostre chiese aperte per lasciare entrare il Signore – o tante volte uscire il Signore – prigioniero delle nostre strutture, del nostro egoismo e di tante cose. Il Signore non forza mai la porta: anche Lui chiede il permesso di entrare. Il Libro dell’Apocalisse dice: «Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Ma immaginiamoci il Signore che bussa alla porta del nostro cuore! E nell’ultima grande visione di questo Libro dell’Apocalisse, così si profetizza della Città di Dio: «Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno», il che significa per sempre, perché «non vi sarà più notte» (21,25). Ci sono posti nel mondo in cui non si chiudono le porte a chiave, ancora ci sono. Ma ce ne sono tanti dove le porte blindate sono diventate normali. Non dobbiamo arrenderci all’idea di dover applicare questo sistema a tutta la nostra vita, alla vita della famiglia, della città, della società. E tanto meno alla vita della Chiesa. Sarebbe terribile! Una Chiesa inospitale, così come una famiglia rinchiusa su sé stessa, mortifica il Vangelo e inaridisce il mondo. Niente porte blindate nella Chiesa, niente! Tutto aperto! La gestione simbolica delle “porte” – delle soglie, dei passaggi, delle frontiere – è diventata cruciale. La porta deve custodire, certo, ma non respingere. La porta non dev’essere forzata, al contrario, si chiede permesso, perché l’ospitalità risplende nella libertà dell’accoglienza, e si oscura nella prepotenza dell’invasione. La porta si apre frequentemente, per vedere se fuori c’è qualcuno che aspetta, e magari non ha il coraggio, forse neppure la forza di bussare. Quanta gente ha perso la fiducia, non ha il coraggio di bussare alla porta del nostro cuore cristiano, alle porte delle nostre chiese… E sono lì, non hanno il coraggio, gli abbiamo tolto la fiducia: per favore, che questo non accada mai. La porta dice molte cose della casa, e anche della Chiesa. La gestione della porta richiede attento discernimento e, al tempo stesso, deve ispirare grande fiducia. Vorrei spendere una parola di gratitudine per tutti i custodi delle porte: dei nostri condomini, delle istituzioni civiche, delle stesse chiese. Spesso l’accortezza e la gentilezza della portineria sono capaci di offrire un’immagine di umanità e di accoglienza all’intera casa, già dall’ingresso. C’è da imparare da questi uomini e donne, che sono custodi dei luoghi di incontro e di accoglienza della città dell’uomo! A tutti voi custodi di tante porte, siano porte di abitazioni, siano porte delle chiese, grazie tante! Ma sempre con un sorriso, sempre mostrando l’accoglienza di quella casa, di quella chiesa, così la gente si sente felice e accolta in quel posto. In verità, sappiamo bene che noi stessi siamo i custodi e i servi della Porta di Dio, e la porta di Dio come si chiama? Gesù! Egli ci illumina su tutte le porte della vita, comprese quelle della nostra nascita e della nostra morte. Egli stesso l’ha affermato: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9). Gesù è la porta che ci fa entrare e uscire. Perché l’ovile di Dio è un riparo, non è una prigione! La casa di Dio è un riparo, non è una prigione, e la porta si chiama Gesù! E se la porta è chiusa, diciamo: “Signore, apri la porta!”. Gesù è la porta e ci fa entrare e uscire. Sono i ladri, quelli che cercano di evitare la porta: è curioso, i ladri cercano sempre di entrare da un’altra parte, dalla finestra, dal tetto ma evitano la porta, perché hanno intenzioni cattive, e si intrufolano nell’ovile per ingannare le pecore e approfittare di loro. Noi dobbiamo passare per la porta e ascoltare la voce di Gesù: se sentiamo il suo tono di voce, siamo sicuri, siamo salvi. Possiamo entrare senza timore e uscire senza pericolo. In questo bellissimo discorso di Gesù, si parla anche del guardiano, che ha il compito di aprire al buon Pastore (cfr Gv 10,2). Se il guardiano ascolta la voce del Pastore, allora apre, e fa entrare tutte le pecore che il Pastore porta, tutte, comprese quelle sperdute nei boschi, che il buon Pastore si è andato a riprendere. Le pecore non le sceglie il guardiano, non le sceglie il segretario parrocchiale o la segretaria della parrocchia; le pecore sono tutte invitate, sono scelte dal buon Pastore. Il guardiano – anche lui – obbedisce alla voce del Pastore. Ecco, potremmo ben dire che noi dobbiamo essere come quel guardiano. La Chiesa è la portinaia della casa del Signore, non è la padrona della casa del Signore. La Santa Famiglia di Nazareth sa bene che cosa significa una porta aperta o chiusa, per chi aspetta un figlio, per chi non ha riparo, per chi deve scampare al pericolo. Le famiglie cristiane facciano della loro soglia di casa un piccolo grande segno della Porta della misericordia e dell’accoglienza di Dio. E’ proprio così che la Chiesa dovrà essere riconosciuta, in ogni angolo della terra: come la custode di un Dio che bussa, come l’accoglienza di un Dio che non ti chiude la porta in faccia, con la scusa che non sei di casa. Con questo spirito ci avviciniamo al Giubileo: ci sarà la porta santa, ma c’è la porta della grande misericordia di Dio! Ci sia anche la porta del nostro cuore per ricevere tutti il perdono di Dio e dare a nostra volta il nostro perdono, accogliendo tutti quelli che bussano alla nostra porta.

 

PAPA FRANCESCO – MAI ESCLUDERE (anche Paolo) – CAPPELLA SANCTAE MARTHAE

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PAPA FRANCESCO – MAI ESCLUDERE (anche Paolo)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Giovedì, 5 novembre 2015

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.254, 6/11/2015)

È coi fatti che Gesù ci chiede di includere tutti, perché come cristiani «non abbiamo diritto» di escludere gli altri, di giudicarli e chiudere loro le porte. Anche perché «l’atteggiamento dell’esclusione» è alla radice di tutte le guerre, grandi e piccole. Lo ha affermato Francesco nella messa celebrata giovedì mattina, 5 novembre, nella cappella della Casa Santa Marta. «San Paolo — ha fatto notare il Papa riferendosi al passo liturgico tratto dalla lettera ai Romani (14, 7-12) — non si stanca di ricordare il dono di Dio, quel regalo che Dio ci ha fatto di ricrearci, di rigenerarci». E «dice questa parola tanto forte: “Nessuno di noi vive per sé stesso, nessuno muore per sé stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo sia che moriamo siamo del Signore. E per questo Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore di tutti, morti e vivi”». Dunque, ha rilanciato Francesco, «Cristo che unisce, che fa l’unità; Cristo che, con il suo sacrificio nel Calvario, ha fatto l’inclusione di tutti gli uomini nella salvezza». «L’atteggiamento che Paolo vuole sottolineare è proprio l’atteggiamento dell’inclusione» ha spiegato il Papa. Infatti l’apostolo «vuole che loro siano inclusivi, includano tutti, come ha fatto il Signore. E li ammonisce: “E tu, con questo che ha fatto il Signore, perché giudichi il tuo fratello? E tu, perché disprezzi il tuo fratello?”». Insomma l’apostolo «fa sentire loro che hanno un atteggiamento che non è quello del Signore». Perché «il Signore include; anche Paolo diceva in un altro passaggio: “Di due popoli ne ha fatto uno”». Invece «questi escludono». «Quando noi giudichiamo una persona — ha proseguito Francesco — facciamo l’esclusione», magari dicendo: «Con questo no, con questa no, con questo no…». Così facendo «rimaniamo col nostro gruppetto, siamo selettivi e questo non è cristiano». E diciamo: «No, ché questo è un peccatore, questo ha fatto quello…». La questione, ha insistito il Papa, è che «noi giudichiamo gli altri». Ma «lo stesso è accaduto a Gesù». E lo si legge nel passo evangelico di Luca (15, 1-10) proposto dalla liturgia: «In quel tempo, si avvicinarono a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori — cioè gli esclusi, tutti quelli che erano fuori — per ascoltarlo. E i farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”». Anche «l’atteggiamento dei romani era di escludere». Ecco perché Paolo li «ammonisce di non giudicare». Si tratta proprio dello «stesso atteggiamento degli scribi, dei farisei, che dicono: “Noi siamo i perfetti, noi seguiamo la legge: questi sono peccatori, sono pubblicani”». Ma «l’atteggiamento di Gesù è includere». Ecco che, ha spiegato il Papa, «ci sono due strade possibili: la strada dell’esclusione delle persone dalla nostra comunità e la strada dell’inclusione». E «la prima, anche se a livello limitato, è la radice di tutte le guerre: tutte le calamità, tutti i conflitti incominciano con un’esclusione». Così «si esclude dalla comunità internazionale, ma anche dalle famiglie: fra amici, quante liti!». Invece «la strada che ci fa vedere Gesù, e ci insegna Gesù, è tutt’altra, è contraria all’altra: includere». Nel Vangelo «due parabole — ha spiegato il Pontefice — ci fanno capire che non è facile includere la gente perché c’è resistenza, c’è quell’atteggiamento selettivo: non è facile». La prima parla di «quel pastore che torna a casa con le pecore e si accorge che da cento ne manca una». Certo, avrebbe potuto dire: «Domani la troverò…». Invece «lascia tutto — era affamato, aveva lavorato tutta la giornata — e va, in tarda serata, forse al buio, per trovarla». Lo stesso «fa Gesù con questi peccatori, pubblicani: va a mangiare da loro, per trovarli». L’altra parabola a cui il Papa ha fatto riferimento è «quella della donna che perde la moneta: è la stessa cosa, accende la lampada, spazza la casa e cerca accuratamente finché la trova». E «forse ci mette tutta la giornata ma la trova». «Cosa succede in ambo i casi?» si è chiesto a questo punto Francesco. Succede che il pastore e la donna «sono pieni di gioia, perché hanno trovato quello che era perso. E vanno dai vicini, dagli amici perché sono tanto felici: “Ho trovato, ho incluso!”». Proprio «questo è l’includere di Dio — ha rimarcato il Papa — contro l’esclusione di quello che giudica, che caccia via la gente, le persone», dicendo «No, questo no, questo no, questo no…» e creandosi «un piccolo circolo di amici, che è il suo ambiente». Questa, ha aggiunto il Pontefice, «è la dialettica fra esclusione e inclusione: Dio ci ha inclusi tutti nella salvezza, tutti!». E «questo è l’inizio: noi, con le nostre debolezze, con i nostri peccati, con le nostre invidie, gelosie, abbiamo sempre quest’atteggiamento di escludere che, come ho detto prima, può finire nelle guerre». Gesù fa proprio come il Padre, «quando lo ha inviato a salvarci: ci cerca per includerci, per entrare in comunità, per essere una famiglia». E «la gioia di Paolo è la salvezza grande che ha ricevuto dal Signore». Così, ha ribadito il Papa ritornando alle due parabole evangeliche, anche la gioia del pastore e della donna sta proprio nell’«aver trovato quello che credevano» di aver «perso per sempre». Invitando alla riflessione, Francesco ha suggerito di non giudicare mai, «almeno un po’», nel «nostro piccolo». Perché «Dio sa: è la sua vita. Ma non lo escludo dal mio cuore, dalla mia preghiera, dal mio sorriso e, se viene l’occasione, gli dico una bella parola». Insomma, «mai escludere, non abbiamo diritto» di farlo. Paolo scrive nella lettera ai Romani: «Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio. Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio». Dunque, «se io escludo sarò un giorno davanti al tribunale di Dio e dovrò rendere conto di me stesso». Il Papa ha concluso chiedendo «la grazia di essere uomini e donne che includono sempre — sempre! — nella misura della sana prudenza, ma sempre». Non bisogna mai «chiudere le porte a nessuno» ma essere «sempre col cuore aperto». E dire «mi piace, non mi piace» ma tenendo comunque «il cuore aperto».

SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI – OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO (2013)

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SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Cimitero del Verano

Venerdì, 1° novembre 2013

A quest’ora, prima del tramonto, in questo cimitero ci raccogliamo e pensiamo al nostro futuro, pensiamo a tutti quelli che se ne sono andati, che ci hanno preceduto nella vita e sono nel Signore. E’ tanto bella quella visione del Cielo che abbiamo sentito nella prima Lettura: il Signore Dio, la bellezza, la bontà, la verità, la tenerezza, l’amore pieno. Ci aspetta tutto questo. Quelli che ci hanno preceduto e sono morti nel Signore sono là. Essi proclamano che sono stati salvati non per le loro opere – hanno fatto anche opere buone – ma sono stati salvati dal Signore: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello» (Ap 7, 10). È Lui che ci salva, è Lui che alla fine della nostra vita ci porta per mano come un papà, proprio in quel Cielo dove sono i nostri antenati. Uno degli anziani fa una domanda: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?» (v.13). Chi sono questi giusti, questi santi che sono in Cielo? La risposta: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v.14). Possiamo entrare nel Cielo soltanto grazie al sangue dell’Agnello, grazie al sangue di Cristo. È proprio il sangue di Cristo che ci ha giustificati, che ci ha aperto le porte del Cielo. E se oggi ricordiamo questi nostri fratelli e sorelle che ci hanno preceduto nella vita e sono in Cielo, è perché essi sono stati lavati dal sangue di Cristo. Questa è la nostra speranza: la speranza del sangue di Cristo! Una speranza che non delude. Se camminiamo nella vita con il Signore, Lui non delude mai! Abbiamo sentito nella seconda Lettura quello che l’Apostolo Giovanni diceva ai suoi discepoli: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce. … Siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è» (1 Gv 3,1-2). Vedere Dio, essere simili a Dio: questa è la nostra speranza. E oggi, proprio nel giorno dei Santi e prima del giorno dei Morti, è necessario pensare un po’ alla speranza: questa speranza che ci accompagna nella vita. I primi cristiani dipingevano la speranza con un’ancora, come se la vita fosse l’ancora gettata nella riva del Cielo e tutti noi incamminati verso quella riva, aggrappati alla corda dell’ancora. Questa è  una bella immagine della speranza: avere il cuore ancorato là dove sono i nostri antenati, dove sono i Santi, dove è Gesù, dove è Dio. Questa è la speranza che non delude; oggi e domani sono giorni di speranza. La speranza è un po’ come il lievito, che ti fa allargare l’anima; ci sono momenti difficili nella vita, ma con la speranza l’anima va avanti e guarda a ciò che ci aspetta. Oggi è un giorno di speranza. I nostri fratelli e sorelle sono alla presenza di Dio e anche noi saremo lì, per pura grazia del Signore, se cammineremo sulla strada di Gesù. Conclude l’Apostolo Giovanni: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso» (v.3). Anche la speranza ci purifica, ci alleggerisce; questa purificazione nella speranza in Gesù Cristo ci fa andare in fretta, prontamente. In questo pre-tramonto d’oggi, ognuno di noi può pensare al tramonto della sua vita: “Come sarà il mio tramonto?”. Tutti noi avremo un tramonto, tutti! Lo guardo con speranza? Lo guardo con quella gioia di essere accolto dal Signore? Questo è un pensiero cristiano, che ci da pace. Oggi è un giorno di gioia, ma di una gioia serena, tranquilla, della gioia della pace. Pensiamo al tramonto di tanti fratelli e sorelle che ci hanno preceduto, pensiamo al nostro tramonto, quando verrà. E pensiamo al nostro cuore e domandiamoci: “Dove è ancorato il mio cuore?”. Se non fosse ancorato bene, ancoriamolo là, in quella riva, sapendo che la speranza non delude perché il Signore Gesù non delude.  

PAPA FRANCESCO – LA FAMIGLIA – 5. I FRATELLI

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150218_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 18 febbraio 2015

LA FAMIGLIA – 5. I FRATELLI

Cari fratelli e sorelle, buongiorno.

Nel nostro cammino di catechesi sulla famiglia, dopo aver considerato il ruolo della madre, del padre, dei figli, oggi è la volta dei fratelli. “Fratello” e “sorella” sono parole che il cristianesimo ama molto. E, grazie all’esperienza familiare, sono parole che tutte le culture e tutte le epoche comprendono.
Il legame fraterno ha un posto speciale nella storia del popolo di Dio, che riceve la sua rivelazione nel vivo dell’esperienza umana. Il salmista canta la bellezza del legame fraterno: «Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!» (Sal 132,1). E questo è vero, la fratellanza è bella! Gesù Cristo ha portato alla sua pienezza anche questa esperienza umana dell’essere fratelli e sorelle, assumendola nell’amore trinitario e potenziandola così che vada ben oltre i legami di parentela e possa superare ogni muro di estraneità.
Sappiamo che quando il rapporto fraterno si rovina, quando si rovina il rapporto tra fratelli, si apre la strada ad esperienze dolorose di conflitto, di tradimento, di odio. Il racconto biblico di Caino e Abele costituisce l’esempio di questo esito negativo. Dopo l’uccisione di Abele, Dio domanda a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9a). E’ una domanda che il Signore continua a ripetere in ogni generazione. E purtroppo, in ogni generazione, non cessa di ripetersi anche la drammatica risposta di Caino: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9b). La rottura del legame tra fratelli è una cosa brutta e cattiva per l’umanità. Anche in famiglia, quanti fratelli litigano per piccole cose, o per un’eredità, e poi non si parlano più, non si salutano più. Questo è brutto! La fratellanza è una cosa grande, quando si pensa che tutti i fratelli hanno abitato il grembo della stessa mamma durante nove mesi, vengono dalla carne della mamma! E non si può rompere la fratellanza. Pensiamo un po’: tutti conosciamo famiglie che hanno i fratelli divisi, che hanno litigato; chiediamo al Signore per queste famiglie – forse nella nostra famiglia ci sono alcuni casi – che le aiuti a riunire i fratelli, a ricostituire la famiglia. La fratellanza non si deve rompere e quando si rompe succede quanto è accaduto con Caino e Abele. Quando il Signore domanda a Caino dov’era suo fratello, egli risponde: “Ma, io non so, a me non importa di mio fratello”. Questo è brutto, è una cosa molto, molto dolorosa da sentire. Nelle nostre preghiere sempre preghiamo per i fratelli che si sono divisi.
Il legame di fraternità che si forma in famiglia tra i figli, se avviene in un clima di educazione all’apertura agli altri, è la grande scuola di libertà e di pace. In famiglia, tra fratelli si impara la convivenza umana, come si deve convivere in società. Forse non sempre ne siamo consapevoli, ma è proprio la famiglia che introduce la fraternità nel mondo! A partire da questa prima esperienza di fraternità, nutrita dagli affetti e dall’educazione familiare, lo stile della fraternità si irradia come una promessa sull’intera società e sui rapporti tra i popoli.
La benedizione che Dio, in Gesù Cristo, riversa su questo legame di fraternità lo dilata in un modo inimmaginabile, rendendolo capace di oltrepassare ogni differenza di nazione, di lingua, di cultura e persino di religione.
Pensate che cosa diventa il legame fra gli uomini, anche diversissimi fra loro, quando possono dire di un altro: “Questo è proprio come un fratello, questa è proprio come una sorella per me”! E’ bello questo! La storia ha mostrato a sufficienza, del resto, che anche la libertà e l’uguaglianza, senza la fraternità, possono riempirsi di individualismo e di conformismo, anche di interesse personale.
La fraternità in famiglia risplende in modo speciale quando vediamo la premura, la pazienza, l’affetto di cui vengono circondati il fratellino o la sorellina più deboli, malati, o portatori di handicap. I fratelli e le sorelle che fanno questo sono moltissimi, in tutto il mondo, e forse non apprezziamo abbastanza la loro generosità. E quando i fratelli sono tanti in famiglia – oggi, ho salutato una famiglia, che ha nove figli?: il più grande, o la più grande, aiuta il papà, la mamma, a curare i più piccoli. Ed è bello questo lavoro di aiuto tra i fratelli.
Avere un fratello, una sorella che ti vuole bene è un’esperienza forte, impagabile, insostituibile. Nello stesso modo accade per la fraternità cristiana. I più piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno “diritto” di prenderci l’anima e il cuore. Sì, essi sono nostri fratelli e come tali dobbiamo amarli e trattarli. Quando questo accade, quando i poveri sono come di casa, la nostra stessa fraternità cristiana riprende vita. I cristiani, infatti, vanno incontro ai poveri e deboli non per obbedire ad un programma ideologico, ma perché la parola e l’esempio del Signore ci dicono che tutti siamo fratelli. Questo è il principio dell’amore di Dio e di ogni giustizia fra gli uomini. Vi suggerisco una cosa: prima di finire, mi mancano poche righe, in silenzio ognuno di noi, pensiamo ai nostri fratelli, alle nostre sorelle, e in silenzio dal cuore preghiamo per loro. Un istante di silenzio.
Ecco, con questa preghiera li abbiamo portati tutti, fratelli e sorelle, con il pensiero, con il cuore, qui in piazza per ricevere la benedizione.
Oggi più che mai è necessario riportare la fraternità al centro della nostra società tecnocratica e burocratica: allora anche la libertà e l’uguaglianza prenderanno la loro giusta intonazione. Perciò, non priviamo a cuor leggero le nostre famiglie, per soggezione o per paura, della bellezza di un’ampia esperienza fraterna di figli e figlie. E non perdiamo la nostra fiducia nell’ampiezza di orizzonte che la fede è capace di trarre da questa esperienza, illuminata dalla benedizione di Dio.

 

PAPA FRANCESCO – COME BIMBI DAVANTI A UN REGALO

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2014/documents/papa-francesco-cotidie_20140520_come-bimbi-davanti-a-un-regalo.html

(dedicato al bambino morto su di una spiaggia in Turchia, non ho il coraggio di mettere la foto)

PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

COME BIMBI DAVANTI A UN REGALO

Martedì, 20 maggio 2014

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.114, Merc. 21/05/2014)

La vera pace è una persona: lo Spirito Santo. Ed «è un dono di Dio» da accogliere e custodire, proprio come fa «un bambino quando riceve un regalo». Attenzione, però, alle varie «paci» che offre il mondo, proponendo le false sicurezze dei soldi, del potere e della vanità: queste sono «paci» solo apparenti e non sicure. È proprio per vivere la pace vera che Papa Francesco ha suggerito alcuni consigli pratici nella messa celebrata martedì 20 maggio, nella cappella della Casa Santa Marta.
Punto di partenza della sua meditazione sono state le parole del discorso di congedo di Gesù ai suoi discepoli, così come riportate da Giovanni nel Vangelo (14, 27-31): «Vi lascio la pace, vi do la mia pace». Proprio la pace «è il dono che lui dà prima di andarsene», spiegando: «Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore».
Dunque, ha affermato il Pontefice, «il Signore ci dà la pace: è un regalo prima di andare verso la passione». Ma, ha avvertito Gesù, «è chiaro che la mia pace non è quella che dà il mondo». È infatti «un’altra pace». E allora — si è chiesto il vescovo di Roma — com’è «la pace che ci dà il mondo?».
A questo interrogativo il Papa ha risposto con un ragionamento articolato indicando, in particolare, tre aspetti. La pace del mondo, ha detto anzitutto, «è un po’ superficiale», è «una pace che non arriva fino al fondo dell’anima». Perciò «è una pace» che procura una «certa tranquillità e anche una certa gioia», però soltanto «fino a un certo livello».
Un tipo di pace che offre il mondo, per esempio, è «la pace delle ricchezze», che porta a pensare: «Ma io sono in pace perché ho tutto sistemato, ho per vivere per tutta la mia vita, non devo preoccuparmi!». Questa idea di pace parte da una convinzione: «Non preoccuparti, non avrai problemi perché tu hai tanto denaro!». Ma è Gesù stesso a ricordarci «di non avere fiducia in questa pace, perché, con grande realismo, ci dice: guardate che ci sono i ladri, eh! E i ladri possono rubare le tue ricchezze!». Ecco perché «non è una pace definitiva quella che ti danno i soldi».
Del resto, ha aggiunto il Papa, non dimentichiamo «che il metallo si arrugginisce». E basta «un crollo della borsa e tutti i tuoi soldi se ne andranno» ha detto ancora per rimarcare come quella dei soldi «non è una pace sicura» ma solo «una pace superficiale e temporale». Per farlo comprendere meglio, Gesù stesso racconta la pace effimera di quell’uomo «che aveva tutti i suoi granai pieni di grano» e intanto già pensava di metterne su altri all’indomani per poi riposarsi «in pace, tranquillo». Ma il Signore gli ha detto: «Stolto, questa notte morirai!». Ecco allora che la pace della ricchezza «non serve» anche se «aiuta».
Un’altra pace che dà il mondo, ha proseguito il Papa, «è quella del potere». E così si arriva a pensare: «Io ho potere, sono sicuro, comando questo, comando quello, sono rispettato: sono in pace». In questa situazione si trovava il re Erode; ma «quando sono arrivati i magi e gli hanno detto che era nato il re d’Israele», in quello stesso momento «la sua pace se n’è andata via subito». A conferma che «la pace del potere non funziona: un colpo di Stato te la toglie subito!».
Un terzo tipo di pace «che dà il mondo» è quella della «vanità», che fa dire a noi stessi: «Io sono una persona stimata, ho tanti valori, sono una persona che tutto il mondo rispetta e quando vado nei ricevimenti mi salutano tutti». Però anche questa «non è una pace definitiva, perché — ha ammonito Papa Francesco — oggi sei stimato e domani sarai insultato!». Il Pontefice ha invitato a pensare a «cosa è successo a Gesù: la stessa gente che la domenica delle palme diceva una cosa», accogliendolo a Gerusalemme, «il venerdì ne diceva un’altra». Dunque anche «la pace della vanità non funziona», così come le altre «paci» che offre il mondo, perché sono «temporali, superficiali e non sicure».
Per comprendere invece quale sia la pace autentica bisogna tornare alle parole di Gesù: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi». Com’è allora la pace che dà Gesù? «È una persona, è lo Spirito Santo» ha spiegato il Papa. «Lo stesso giorno della risurrezione», nel cenacolo, il saluto di Gesù ai discepoli è: «La pace sia con voi, ricevete lo Spirito Santo». Dunque la pace di Gesù «è una persona, un regalo grande». Perché «quando lo Spirito Santo è nel nostro cuore, nessuno può togliere la pace. Nessuno! È una pace definitiva!».
Davanti a questo grande dono, qual è «il nostro lavoro»?. Dobbiamo «custodire questa pace», ha raccomandato il Pontefice. Si tratta infatti di «una pace grande, una pace che non è mia: è di un’altra persona che me la regala, un’altra persona che è dentro il mio cuore, che mi accompagna tutta la vita e che il Signore mi ha dato».
E «come si riceve questa pace dello Spirito Santo?» si è chiesto ancora il Papa. Due le risposte: anzitutto «si riceve nel battesimo, perché viene lo Spirito Santo, e anche nella cresima, perché viene lo Spirito Santo». E poi «si riceve come un bambino riceve un regalo». Lo stesso «Gesù aveva detto: se voi non ricevete il regno di Dio come un bambino, non entrerete nel regno dei cieli». Così, «senza condizioni, a cuore aperto, si riceve la pace di Gesù: come un grande regalo».
E «questa — ha ribadito il vescovo di Roma — è la pace dello Spirito Santo». Sta a noi «custodirlo, non ingabbiarlo, sentirlo, chiedere aiuto: lui è dentro di noi». Alla possibile obiezione che «ci sono tanti problemi» il Pontefice ha risposto con le stesse parole di Gesù: «Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore». È, infatti, proprio il Signore a confortarci: «Se voi avete questa pace dello Spirito, se voi avete lo Spirito dentro di voi e siete consci di questo, non sia turbato il vostro cuore, siete sicuri!».
Anche san Paolo, ha spiegato, «ci diceva che per entrare nel regno dei cieli è necessario passare per tante tribolazioni». L’esperienza, poi, ci conferma che di tribolazioni «tutti noi ne abbiamo tante, più piccole e più grandi. Tutti!». Ma la pace di Gesù ci rassicura: «Non sia turbato il vostro cuore». Infatti «la presenza dello Spirito fa sì che il nostro cuore sia in pace, conscio ma non anestetizzato, con quella pace che soltanto la presenza di Dio ci dà».
Per verificare quale pace viviamo, ha suggerito il Pontefice, «possiamo farci alcune domande: Io ci credo che lo Spirito Santo è dentro di me? Io ci credo che il Signore me l’ha regalato? Io lo ricevo come un regalo, come un bambino riceve un regalo, con cuore aperto? Io custodisco lo Spirito Santo che è in me per non rattristarlo?». C’è però, ha notato il Papa, anche una domanda di segno opposto: «Preferisco la pace che mi dà il mondo, quella del denaro, quella del potere, quella della vanità?». Ma «queste — ha ribadito — sono “paci” con la paura, sempre»: il timore che finiscano. Invece «la pace di Gesù è definitiva: soltanto è necessario riceverla come bambini e custodirla». Il Signore, è stata la preghiera conclusiva di Francesco, «ci aiuti a capire queste cose».

Publié dans:BAMBINI, PAPA FRANCESCO |on 3 septembre, 2015 |Pas de commentaires »
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