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l PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 2 DICEMBRE 2020 – CATECHESI SULLA PREGHIERA – 17. LA BENEDIZIONE

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 2 DICEMBRE 2020 – CATECHESI SULLA PREGHIERA – 17. LA BENEDIZIONE

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi ci soffermiamo su una dimensione essenziale della preghiera: la benedizione. Continuiamo le riflessioni sulla preghiera. Nei racconti della creazione (cfr Gen 1-2) Dio continuamente benedice la vita, sempre. Benedice gli animali (1,22), benedice l’uomo e la donna (1,28), infine benedice il sabato, giorno del riposo e del godimento di tutta la creazione (2,3). È Dio che benedice. Nelle prime pagine della Bibbia è un continuo ripetersi di benedizioni. Dio benedice, ma anche gli uomini benedicono, e presto si scopre che la benedizione possiede una forza speciale, che accompagna per tutta la vita chi la riceve, e dispone il cuore dell’uomo a lasciarsi cambiare da Dio (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Sacrosanctum Concilium, 61).
All’inizio del mondo c’è dunque Dio che “dice-bene”, bene-dice, dice-bene. Egli vede che ogni opera delle sue mani è buona e bella, e quando arriva all’uomo, e la creazione si compie, riconosce che è «molto buona» (Gen 1,31). Da lì a poco quella bellezza che Dio ha impresso nella sua opera si altererà, e l’essere umano diventerà una creatura degenere, capace di diffondere nel mondo il male e la morte; ma nulla potrà mai cancellare la prima impronta di Dio, un’impronta di bontà che Dio ha posto nel mondo, nella natura umana, in tutti noi: la capacità di benedire e il fatto di essere benedetti. Dio non ha sbagliato con la creazione e neppure con la creazione dell’uomo. La speranza del mondo risiede completamente nella benedizione di Dio: Lui continua a volerci-bene, Lui per primo, come dice il poeta Péguy,[1] continua a sperare il nostro bene.
La grande benedizione di Dio è Gesù Cristo, è il gran dono di Dio, il suo Figlio. È una benedizione per tutta l’umanità, è una benedizione che ci ha salvato tutti. Lui è la Parola eterna con la quale il Padre ci ha benedetto «mentre eravamo ancora peccatori» (Rm 5,8) dice san Paolo: Parola fatta carne e offerta per noi sulla croce.
San Paolo proclama con commozione il disegno d’amore di Dio e dice così: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato» (Ef 1,3-6). Non c’è peccato che possa cancellare completamente l’immagine del Cristo presente in ciascuno di noi. Nessun peccato può cancellare quell’immagine che Dio ha dato a noi. L’immagine di Cristo. La può deturpare, ma non sottrarla alla misericordia di Dio. Un peccatore può rimanere nei suoi errori per tanto tempo, ma Dio pazienta fino all’ultimo, sperando che alla fine quel cuore si apra e cambi. Dio è come un buon padre e come una buona madre, anche Lui è una buona madre: non smettono mai di amare il loro figlio, per quanto possa sbagliare, sempre. Mi viene in mente quelle tante volte che ho visto la gente fare la fila per entrare in carcere. Tante mamme in fila per entrare e vedere il loro figlio carcerato: non smettono di amare il figlio e loro sanno che la gente che passa nel bus pensa “Ah, questa è la mamma del carcerato”. Eppure non hanno vergogna di questo, o meglio, hanno vergogna ma vanno avanti, perché è più importante il figlio della vergogna. Così noi per Dio siamo più importanti di tutti i peccati che noi possiamo fare, perché Lui è padre, è madre, è amore puro, Lui ci ha benedetto per sempre. E non smetterà mai di benedirci.
Un’esperienza forte è quella di leggere questi testi biblici di benedizione in un carcere, o in una comunità di recupero. Far sentire a quelle persone che rimangono benedette nonostante i loro gravi errori, che il Padre celeste continua a volere il loro bene e a sperare che si aprano finalmente al bene. Se perfino i loro parenti più stretti li hanno abbandonati perché ormai li giudicano irrecuperabili, per Dio sono sempre figli. Dio non può cancellare in noi l’immagine di figlio, ognuno di noi è figlio, è figlia. A volte si vedono accadere dei miracoli: uomini e donne che rinascono. Perché trovano questa benedizione che li ha unti come figli. Perché la grazia di Dio cambia la vita: ci prende come siamo, ma non ci lascia mai come siamo.
Pensiamo a ciò che ha fatto Gesù con Zaccheo (cfr Lc 19,1-10) per esempio. Tutti vedevano in lui il male; Gesù invece vi scorge uno spiraglio di bene, e da lì, dalla sua curiosità di vedere Gesù, fa passare la misericordia che salva. Così è cambiato dapprima il cuore e poi la vita di Zaccheo. Nelle persone reiette e rifiutate, Gesù vedeva l’indelebile benedizione del Padre. Zaccheo è un peccatore pubblico, ha fatto tante cose brutte, ma Gesù vedeva quel segno indelebile della benedizione del Padre e da lì la sua compassione. Quella frase che si ripete tanto nel Vangelo, “ne ebbe compassione”, e quella compassione lo porta ad aiutarlo e a cambiargli il cuore. Di più, è arrivato a identificare sé stesso con ogni persona bisognosa (cfr Mt 25,31-46). Nel brano del “protocollo” finale sul quale tutti noi saremo giudicati, Matteo 25, Gesù dice: “Io ero affamato, io ero nudo, io ero in carcere, io ero in ospedale, io ero lì…”.
A Dio che benedice, anche noi rispondiamo benedicendo – Dio ci ha insegnato a benedire e noi dobbiamo benedire -: è la preghiera di lode, di adorazione, di ringraziamento. Il Catechismo scrive: «La preghiera di benedizione è la risposta dell’uomo ai doni di Dio: poiché Dio benedice, il cuore dell’uomo può rispondere benedicendo Colui che è la sorgente di ogni benedizione» (n. 2626). La preghiera è gioia e riconoscenza. Dio non ha aspettato che ci convertissimo per cominciare ad amarci, ma lo ha fatto molto prima, quando eravamo ancora nel peccato.
Non possiamo solo benedire questo Dio che ci benedice, dobbiamo benedire tutto in Lui, tutta la gente, benedire Dio e benedire i fratelli, benedire il mondo: questa è la radice della mitezza cristiana, la capacità di sentirsi benedetti e la capacità di benedire. Se tutti noi facessimo così, sicuramente non esisterebbero le guerre. Questo mondo ha bisogno di benedizione e noi possiamo dare la benedizione e ricevere la benedizione. Il Padre ci ama. E a noi resta solo la gioia di benedirlo e la gioia di ringraziarlo, e di imparare da Lui a non maledire, ma benedire. E qui soltanto una parola per la gente che è abituata a maledire, la gente che sempre ha in bocca, anche in cuore, una parola brutta, una maledizione. Ognuno di noi può pensare: io ho questa abitudine di maledire così? E chiedere al Signore la grazia di cambiare questa abitudine perché noi abbiamo un cuore benedetto e da un cuore benedetto non può uscire la maledizione. Che il Signore ci insegni a mai maledire ma a benedire.

[1] Le porche du mystère de la deuxième vertu, prima ed. 1911. Ed. it. Il portico del mistero della seconda virtù, Jaka Book, Milano 1997.

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 25 novembre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 16. La preghiera della Chiesa nascente

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 25 novembre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 16. La preghiera della Chiesa nascente

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

I primi passi della Chiesa nel mondo sono stati scanditi dalla preghiera. Gli scritti apostolici e la grande narrazione degli Atti degli Apostoli ci restituiscono l’immagine di una Chiesa in cammino, una Chiesa operosa, che però trova nelle riunioni di preghiera la base e l’impulso per l’azione missionaria. L’immagine della primitiva Comunità di Gerusalemme è punto di riferimento per ogni altra esperienza cristiana. Scrive Luca nel Libro degli Atti: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (2,42). La comunità persevera nella preghiera.
Troviamo qui quattro caratteristiche essenziali della vita ecclesiale: l’ascolto dell’insegnamento degli apostoli, primo; secondo, la custodia della comunione reciproca; terzo, la frazione del pane e, quarto, la preghiera. Esse ci ricordano che l’esistenza della Chiesa ha senso se resta saldamente unita a Cristo, cioè nella comunità, nella sua Parola, nell’Eucaristia e nella preghiera. È il modo di unirci, noi, a Cristo. La predicazione e la catechesi testimoniano le parole e i gesti del Maestro; la ricerca costante della comunione fraterna preserva da egoismi e particolarismi; la frazione del pane realizza il sacramento della presenza di Gesù in mezzo a noi: Lui non sarà mai assente, nell’Eucaristia è proprio Lui. Lui vive e cammina con noi. E infine la preghiera, che è lo spazio del dialogo con il Padre, mediante Cristo nello Spirito Santo.
Tutto ciò che nella Chiesa cresce fuori da queste “coordinate”, è privo di fondamenta. Per discernere una situazione dobbiamo chiederci come, in questa situazione, ci sono queste quattro coordinate: la predicazione, la ricerca costante della comunione fraterna – la carità –, la frazione del pane – cioè la vita eucaristica – e la preghiera. Qualsiasi situazione dev’essere valutata alla luce di queste quattro coordinate. Quello che non entra in queste coordinate è privo di ecclesialità, non è ecclesiale. È Dio che fa la Chiesa, non il clamore delle opere. La Chiesa non è un mercato; la Chiesa non è un gruppo di imprenditori che vanno avanti con questa impresa nuova. La Chiesa è opera dello Spirito Santo, che Gesù ci ha inviato per radunarci. La Chiesa è proprio il lavoro dello Spirito nella comunità cristiana, nella vita comunitaria, nell’Eucaristia, nella preghiera, sempre. E tutto quello che cresce fuori da queste coordinate è privo di fondamento, è come una casa costruita sulla sabbia (cfr Mt 7,24-27). È Dio che fa la Chiesa, non il clamore delle opere. È la parola di Gesù che riempie di senso i nostri sforzi. È nell’umiltà che si costruisce il futuro del mondo.
A volte, sento una grande tristezza quando vedo qualche comunità che, con buona volontà, sbaglia la strada perché pensa di fare la Chiesa in raduni, come se fosse un partito politico: la maggioranza, la minoranza, cosa pensa questo, quello, l’altro… “Questo è come un Sinodo, una strada sinodale che noi dobbiamo fare”. Io mi domando: dov’è lo Spirito Santo, lì? Dov’è la preghiera? Dov’è l’amore comunitario? Dov’è l’Eucaristia? Senza queste quattro coordinate, la Chiesa diventa una società umana, un partito politico – maggioranza, minoranza – i cambiamenti si fanno come se fosse una ditta, per maggioranza o minoranza… Ma non c’è lo Spirito Santo. E la presenza dello Spirito Santo è proprio garantita da queste quattro coordinate. Per valutare una situazione, se è ecclesiale o non è ecclesiale, domandiamoci se ci sono queste quattro coordinate: la vita comunitaria, la preghiera, l’Eucaristia…[la predicazione], come si sviluppa la vita in queste quattro coordinate. Se manca questo, manca lo Spirito, e se manca lo Spirito noi saremo una bella associazione umanitaria, di beneficienza, bene, bene, anche un partito, diciamo così, ecclesiale, ma non c’è la Chiesa. E per questo la Chiesa non può crescere per queste cose: cresce non per proselitismo, come qualsiasi ditta, cresce per attrazione. E chi muove l’attrazione? Lo Spirito Santo. Non dimentichiamo mai questa parola di Benedetto XVI: “La Chiesa non cresce per proselitismo, cresce per attrazione”. Se manca lo Spirito Santo, che è quello che attrae a Gesù, lì non c’è la Chiesa. C’è un bel club di amici, bene, con buone intenzioni, ma non c’è la Chiesa, non c’è sinodalità.
Leggendo gli Atti degli Apostoli scopriamo allora come il potente motore dell’evangelizzazione siano le riunioni di preghiera, dove chi partecipa sperimenta dal vivo la presenza di Gesù ed è toccato dallo Spirito. I membri della prima comunità – ma questo vale sempre, anche per noi oggi – percepiscono che la storia dell’incontro con Gesù non si è fermata al momento dell’Ascensione, ma continua nella loro vita. Raccontando ciò che ha detto e fatto il Signore – l’ascolto della Parola – pregando per entrare in comunione con Lui, tutto diventa vivo. La preghiera infonde luce e calore: il dono dello Spirito fa nascere in loro il fervore.
A questo proposito, il Catechismo ha un’espressione molto densa. Dice così: «Lo Spirito Santo […] ricorda Cristo alla sua Chiesa orante, la conduce anche alla Verità tutta intera e suscita nuove formulazioni, le quali esprimeranno l’insondabile Mistero di Cristo, che opera nella vita, nei sacramenti e nella missione della sua Chiesa» (n. 2625). Ecco l’opera dello Spirito nella Chiesa: ricordare Gesù. Gesù stesso lo ha detto: Lui vi insegnerà e vi ricorderà. La missione è ricordare Gesù, ma non come un esercizio mnemonico. I cristiani, camminando sui sentieri della missione, ricordano Gesù mentre lo rendono nuovamente presente; e da Lui, dal suo Spirito, ricevono la “spinta” per andare, per annunciare, per servire. Nella preghiera il cristiano si immerge nel mistero di Dio, che ama ogni uomo, quel Dio che desidera che il Vangelo sia predicato a tutti. Dio è Dio per tutti, e in Gesù ogni muro di separazione è definitivamente crollato: come dice san Paolo, Lui è la nostra pace, cioè «colui che di due ha fatto una cosa sola» (Ef 2,14). Gesù ha fatto l’unità.
Così la vita della Chiesa primitiva è ritmata da un continuo susseguirsi di celebrazioni, convocazioni, tempi di preghiera sia comunitaria sia personale. Ed è lo Spirito che concede forza ai predicatori che si mettono in viaggio, e che per amore di Gesù solcano mari, affrontano pericoli, si sottomettono a umiliazioni.
Dio dona amore, Dio chiede amore. È questa la radice mistica di tutta la vita credente. I primi cristiani in preghiera, ma anche noi che veniamo parecchi secoli dopo, viviamo tutti la medesima esperienza. Lo Spirito anima ogni cosa. E ogni cristiano che non ha paura di dedicare tempo alla preghiera può fare proprie le parole dell’apostolo Paolo: «Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). La preghiera ti fa conscio di questo. Solo nel silenzio dell’adorazione si sperimenta tutta la verità di queste parole. Dobbiamo riprendere il senso dell’adorazione. Adorare, adorare Dio, adorare Gesù, adorare lo Spirito. Il Padre, il Figlio e lo Spirito: adorare. In silenzio. La preghiera dell’adorazione è la preghiera che ci fa riconoscere Dio come inizio e fine di tutta la storia. E questa preghiera è il fuoco vivo dello Spirito che dà forza alla testimonianza e alla missione. Grazie.

 

Publié dans:PAPA FRANCESCO UDIENZE |on 2 décembre, 2020 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 18 novembre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 15. La Vergine Maria donna orante

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 18 novembre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 15. La Vergine Maria donna orante

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel nostro cammino di catechesi sulla preghiera, oggi incontriamo la Vergine Maria, come donna orante. La Madonna pregava. Quando ancora il mondo la ignora, quando è una semplice ragazza promessa sposa di un uomo della casa di Davide, Maria prega. Possiamo immaginare la giovane di Nazareth raccolta nel silenzio, in continuo dialogo con Dio, che presto le avrebbe affidato la sua missione. Lei è già piena di grazia e immacolata fin dalla concezione, ma ancora non sa nulla della sua sorprendente e straordinaria vocazione e del mare tempestoso che dovrà solcare. Una cosa è certa: Maria appartiene alla grande schiera di quegli umili di cuore che gli storici ufficiali non inseriscono nei loro libri, ma con i quali Dio ha preparato la venuta del suo Figlio.
Maria non dirige autonomamente la sua vita: aspetta che Dio prenda le redini del suo cammino e la guidi dove Egli vuole. È docile, e con questa sua disponibilità predispone i grandi avvenimenti che coinvolgono Dio nel mondo. Il Catechismo ci ricorda la sua presenza costante e premurosa nel disegno benevolo del Padre e lungo il corso della vita di Gesù (cfr CCC, 2617-2618).
Maria è in preghiera, quando l’arcangelo Gabriele viene a portarle l’annuncio a Nazareth. Il suo “Eccomi”, piccolo e immenso, che in quel momento fa sobbalzare di gioia l’intera creazione, era stato preceduto nella storia della salvezza da tanti altri “eccomi”, da tante obbedienze fiduciose, da tante disponibilità alla volontà di Dio. Non c’è modo migliore di pregare che mettersi come Maria in un atteggiamento di apertura, di cuore aperto a Dio: “Signore, quello che Tu vuoi, quando Tu vuoi e come Tu vuoi”. Cioè, il cuore aperto alla volontà di Dio. E Dio sempre risponde. Quanti credenti vivono così la loro preghiera! Quelli che sono più umili di cuore, pregano così: con l’umiltà essenziale, diciamo così; con umiltà semplice: “Signore, quello che Tu vuoi, quando Tu vuoi e come Tu vuoi”. E questi pregano così, non arrabbiandosi perché le giornate sono piene di problemi, ma andando incontro alla realtà e sapendo che nell’amore umile, nell’amore offerto in ogni situazione, noi diventiamo strumenti della grazia di Dio. Signore, quello che Tu vuoi, quando Tu vuoi e come Tu vuoi. Una preghiera semplice, ma è mettere la nostra vita nelle mani del Signore: che sia Lui a guidarci. Tutti possiamo pregare così, quasi senza parole.
La preghiera sa ammansire l’inquietudine: ma, noi siamo inquieti, sempre vogliamo le cose prima di chiederle e le vogliamo subito. Questa inquietudine ci fa male, e la preghiera sa ammansire l’inquietudine, sa trasformarla in disponibilità. Quando sono inquieto, prego e la preghiera mi apre il cuore e mi fa disponibile alla volontà di Dio. La Vergine Maria, in quei pochi istanti dell’Annunciazione, ha saputo respingere la paura, pur presagendo che il suo “sì” le avrebbe procurato delle prove molto dure. Se nella preghiera comprendiamo che ogni giorno donato da Dio è una chiamata, allora allarghiamo il cuore e accogliamo tutto. Si impara a dire: “Quello che Tu vuoi, Signore. Promettimi solo che sarai presente ad ogni passo del mio cammino”. Questo è l’importante: chiedere al Signore la sua presenza a ogni passo del nostro cammino: che non ci lasci soli, che non ci abbandoni nella tentazione, che non ci abbandoni nei momenti brutti. Quel finale del Padre Nostro è così: la grazia che Gesù stesso ci ha insegnato di chiedere al Signore.
Maria accompagna in preghiera tutta la vita di Gesù, fino alla morte e alla risurrezione; e alla fine continua, e accompagna i primi passi della Chiesa nascente (cfr At 1,14). Maria prega con i discepoli che hanno attraversato lo scandalo della croce. Prega con Pietro, che ha ceduto alla paura e ha pianto per il rimorso. Maria è lì, con i discepoli, in mezzo agli uomini e alle donne che suo Figlio ha chiamato a formare la sua Comunità. Maria non fa il sacerdote tra loro, no! È la Madre di Gesù che prega con loro, in comunità, come una della comunità. Prega con loro e prega per loro. E, nuovamente, la sua preghiera precede il futuro che sta per compiersi: per opera dello Spirito Santo è diventata Madre di Dio, e per opera dello Spirito Santo, diventa Madre della Chiesa. Pregando con la Chiesa nascente diventa Madre della Chiesa, accompagna i discepoli nei primi passi della Chiesa nella preghiera, aspettando lo Spirito Santo. In silenzio, sempre in silenzio. La preghiera di Maria è silenziosa. Il Vangelo ci racconta soltanto una preghiera di Maria: a Cana, quando chiede a suo Figlio, per quella povera gente, che sta per fare una figuraccia nella festa. Ma, immaginiamo: fare una festa di nozze e finirla con del latte perché non c’era il vino! Ma che figuraccia! E Lei, prega e chiede al Figlio di risolvere quel problema. La presenza di Maria è per se stessa preghiera, e la sua presenza tra i discepoli nel Cenacolo, aspettando lo Spirito Santo, è in preghiera. Così Maria partorisce la Chiesa, è Madre della Chiesa. Il Catechismo spiega: «Nella fede della sua umile serva il Dono di Dio – cioè lo Spirito Santo – trova l’accoglienza che fin dall’inizio dei tempi aspettava» (CCC, 2617).
Nella Vergine Maria, la naturale intuizione femminile viene esaltata dalla sua singolarissima unione con Dio nella preghiera. Per questo, leggendo il Vangelo, notiamo che ella sembra qualche volta scomparire, per poi riaffiorare nei momenti cruciali: Maria è aperta alla voce di Dio che guida il suo cuore, che guida i suoi passi là dove c’è bisogno della sua presenza. Presenza silenziosa di madre e di discepola. Maria è presente perché è Madre, ma è anche presente perché è la prima discepola, quella che ha imparato meglio le cose di Gesù. Maria non dice mai: “Venite, io risolverò le cose”. Ma dice: “Fate quello che Lui vi dirà”, sempre indicando con il dito Gesù. Questo atteggiamento è tipico del discepolo, e lei è la prima discepola: prega come Madre e prega come discepola.
«Maria custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Così l’evangelista Luca ritrae la Madre del Signore nel Vangelo dell’infanzia. Tutto ciò che le capita intorno finisce con l’avere un riflesso nel profondo del suo cuore: i giorni pieni di gioia, come i momenti più bui, quando anche lei fatica a comprendere per quali strade debba passare la Redenzione. Tutto finisce nel suo cuore, perché venga passato al vaglio della preghiera e da essa trasfigurato. Che si tratti dei doni dei Magi, oppure della fuga in Egitto, fino a quel tremendo venerdì di passione: tutto la Madre custodisce e porta nel suo dialogo con Dio. Qualcuno ha paragonato il cuore di Maria a una perla di incomparabile splendore, formata e levigata dalla paziente accoglienza della volontà di Dio attraverso i misteri di Gesù meditati in preghiera. Che bello se anche noi potremo assomigliare un po’ alla nostra Madre! Con il cuore aperto alla Parola di Dio, con il cuore silenzioso, con il cuore obbediente, con il cuore che sa ricevere la Parola di Dio e la lascia crescere come un seme del bene della Chiesa.

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 11 novembre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 14. La preghiera perseverante

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 11 novembre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 14. La preghiera perseverante

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Continuiamo le catechesi sulla preghiera. Qualcuno mi ha detto: “Lei parla troppo sulla preghiera. Non è necessario”. Sì, è necessario. Perché se noi non preghiamo, non avremo la forza per andare avanti nella vita. La preghiera è come l’ossigeno della vita. La preghiera è attirare su di noi la presenza dello Spirito Santo che ci porta sempre avanti. Per questo, io parlo tanto sulla preghiera.
Gesù ha dato esempio di una preghiera continua, praticata con perseveranza. Il dialogo costante con il Padre, nel silenzio e nel raccoglimento, è il fulcro di tutta la sua missione. I Vangeli ci riportano anche le sue esortazioni ai discepoli, perché preghino con insistenza, senza stancarsi. Il Catechismo ricorda le tre parabole contenute nel Vangelo di Luca che sottolineano questa caratteristica dell’orazione (cfr CCC, 2613) di Gesù.
La preghiera dev’essere anzitutto tenace: come il personaggio della parabola che, dovendo accogliere un ospite arrivato all’improvviso, in piena notte va a bussare da un amico e gli chiede del pane. L’amico risponde “no!”, perché è già a letto, ma lui insiste e insiste finché non lo costringe ad alzarsi e a dargli il pane (cfr Lc 11,5-8). Una richiesta tenace. Ma Dio è più paziente di noi, e chi bussa con fede e perseveranza alla porta del suo cuore non rimane deluso. Dio sempre risponde. Sempre. Il nostro Padre sa bene di cosa abbiamo bisogno; l’insistenza non serve a informarlo o a convincerlo, ma serve ad alimentare in noi il desiderio e l’attesa.
La seconda parabola è quella della vedova che si rivolge al giudice perché l’aiuti a ottenere giustizia. Questo giudice è corrotto, è un uomo senza scrupoli, ma alla fine, esasperato dall’insistenza della vedova, si decide ad accontentarla (cfr Lc 18,1-8). E pensa: “Ma, è meglio che le risolva il problema e me la tolgo di dosso, e non che continuamente venga a lamentarsi davanti a me”. Questa parabola ci fa capire che la fede non è lo slancio di un momento, ma una disposizione coraggiosa a invocare Dio, anche a “discutere” con Lui, senza rassegnarsi davanti al male e all’ingiustizia.
La terza parabola presenta un fariseo e un pubblicano che vanno al Tempio a pregare. Il primo si rivolge a Dio vantandosi dei suoi meriti; l’altro si sente indegno anche solo di entrare nel santuario. Dio però non ascolta la preghiera del primo, cioè dei superbi, mentre esaudisce quella degli umili (cfr Lc 18,9-14). Non c’è vera preghiera senza spirito di umiltà. È proprio l’umiltà che ci porta a chiedere nella preghiera.
L’insegnamento del Vangelo è chiaro: si deve pregare sempre, anche quando tutto sembra vano, quando Dio ci appare sordo e muto e ci pare di perdere tempo. Anche se il cielo si offusca, il cristiano non smette di pregare. La sua orazione va di pari passo con la fede. E la fede, in tanti giorni della nostra vita, può sembrare un’illusione, una fatica sterile. Ci sono dei momenti bui, nella nostra vita e in quei momenti la fede sembra un’illusione. Ma praticare la preghiera significa anche accettare questa fatica. “Padre, io vado a pregare e non sento nulla … mi sento così, con il cuore asciutto, con il cuore arido”. Ma dobbiamo andare avanti, con questa fatica dei momenti brutti, dei momenti che non sentiamo nulla. Tanti santi e sante hanno sperimentato la notte della fede e il silenzio di Dio – quando noi bussiamo e Dio non risponde – e questi santi sono stati perseveranti.
In queste notti della fede, chi prega non è mai solo. Gesù infatti non è solo testimone e maestro di preghiera, è di più. Egli ci accoglie nella sua preghiera, perché noi possiamo pregare in Lui e attraverso di Lui. E questo è opera dello Spirito Santo. È per questa ragione che il Vangelo ci invita a pregare il Padre nel nome di Gesù. San Giovanni riporta queste parole del Signore: «Qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio» (14,13). E il Catechismo spiega che «la certezza di essere esauditi nelle nostre suppliche è fondata sulla preghiera di Gesù» (n. 2614). Essa dona le ali che la preghiera dell’uomo ha sempre desiderato di possedere.
Come non ricordare qui le parole del salmo 91, cariche di fiducia, sgorgate da un cuore che spera tutto da Dio: «Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno» (vv. 4-6). È in Cristo che si compie questa stupenda preghiera, è in Lui che essa trova la sua piena verità. Senza Gesù, le nostre preghiere rischierebbero di ridursi a degli sforzi umani, destinati il più delle volte al fallimento. Ma Lui ha preso su di sé ogni grido, ogni gemito, ogni giubilo, ogni supplica… ogni preghiera umana. E non dimentichiamo lo Spirito Santo che prega in noi; è Colui che ci porta a pregare, ci porta da Gesù. È il dono che il Padre e il Figlio ci hanno dato per procedere all’incontro di Dio. E lo Spirito Santo, quando noi preghiamo, è lo Spirito Santo che prega nei nostri cuori.
Cristo è tutto per noi, anche nella nostra vita di preghiera. Lo diceva Sant’Agostino con un’espressione illuminante, che troviamo anche nel Catechismo: Gesù «prega per noi come nostro sacerdote; prega in noi come nostro capo; è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo, dunque, in Lui la nostra voce, e in noi la sua voce» (n. 2616). Ed è per questo che il cristiano che prega non teme nulla, si affida allo Spirito Santo, che è stato dato a noi come dono e che prega in noi, suscitando la preghiera. Che sia lo stesso Spirito Santo, Maestro di orazione, a insegnarci la strada della preghiera.

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 4 novembre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 13. Gesù maestro di preghiera

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 4 novembre 2020 – Catechesi sulla preghiera – 13. Gesù maestro di preghiera

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Purtroppo siamo dovuti tornare a questa udienza in Biblioteca e questo per difenderci dai contagi del Covid. Questo ci insegna pure che dobbiamo essere molto attenti alle prescrizioni delle Autorità, siano le Autorità politiche che le autorità Sanitarie per difenderci da questa pandemia. Offriamo al Signore questa distanza tra noi, per il bene di tutti e pensiamo, pensiamo tanto agli ammalati, a coloro che entrano negli ospedali già come scarti, pensiamo ai medici, agli infermieri, le infermiere, ai volontari, a tanta gente che lavora con gli ammalati in questo momento: essi rischiano la vita ma lo fanno per amore del prossimo, come una vocazione. Preghiamo per loro.
Durante la sua vita pubblica, Gesù fa costantemente ricorso alla forza della preghiera. I Vangeli ce lo mostrano quando si ritira in luoghi appartati a pregare. Si tratta di osservazioni sobrie e discrete, che lasciano solo immaginare quei dialoghi oranti. Esse testimoniano però chiaramente che, anche nei momenti di maggiore dedizione ai poveri e ai malati, Gesù non tralasciava mai il suo dialogo intimo con il Padre. Quanto più era immerso nei bisogni della gente, tanto più sentiva la necessità di riposare nella Comunione trinitaria, di tornare con il Padre e lo Spirito.
Nella vita di Gesù c’è dunque un segreto, nascosto agli occhi umani, che rappresenta il fulcro di tutto. La preghiera di Gesù è una realtà misteriosa, di cui intuiamo solo qualcosa, ma che permette di leggere nella giusta prospettiva l’intera sua missione. In quelle ore solitarie – prima dell’alba o nella notte – Gesù si immerge nella sua intimità con il Padre, vale a dire nell’Amore di cui ogni anima ha sete. È quello che emerge fin dai primi giorni del suo ministero pubblico.
Un sabato, ad esempio, la cittadina di Cafarnao si trasforma in un “ospedale da campo”: dopo il tramonto del sole portano a Gesù tutti i malati, e Lui li guarisce. Però, prima dell’alba, Gesù scompare: si ritira in un luogo solitario e prega. Simone e gli altri lo cercano e quando lo trovano gli dicono: “Tutti ti cercano!”. Cosa risponde Gesù?: “Devo andare a predicare negli altri villaggi; per questo sono venuto” (cfr Mc 1,35-38). Sempre Gesù è un po’ oltre, oltre nella preghiera con il Padre e oltre, in altri villaggi, altri orizzonti per andare a predicare, altri popoli.
È la preghiera il timone che guida la rotta di Gesù. A dettare le tappe della sua missione non sono i successi, non è il consenso, non è quella frase seducente “tutti ti cercano”. A tracciare il cammino di Gesù è la via meno comoda, che però obbedisce all’ispirazione del Padre, che Gesù ascolta e accoglie nella sua preghiera solitaria.
Il Catechismo afferma: «Quando Gesù prega, già ci insegna a pregare» (n. 2607). Perciò, dall’esempio di Gesù possiamo ricavare alcune caratteristiche della preghiera cristiana.
Anzitutto essa possiede un primato: è il primo desiderio della giornata, qualcosa che si pratica all’alba, prima che il mondo si risvegli. Essa restituisce un’anima a ciò che altrimenti resterebbe senza respiro. Un giorno vissuto senza preghiera rischia di trasformarsi in un’esperienza fastidiosa, o noiosa: tutto quello che ci capita potrebbe per noi volgersi in un mal sopportato e cieco destino. Gesù invece educa all’obbedienza alla realtà e dunque all’ascolto. La preghiera è anzitutto ascolto e incontro con Dio. I problemi di tutti i giorni, allora, non diventano ostacoli, ma appelli di Dio stesso ad ascoltare e incontrare chi ci sta di fronte. Le prove della vita si mutano così in occasioni per crescere nella fede e nella carità. Il cammino quotidiano, comprese le fatiche, acquista la prospettiva di una “vocazione”. La preghiera ha il potere di trasformare in bene ciò che nella vita sarebbe altrimenti una condanna; la preghiera ha il potere di aprire un orizzonte grande alla mente e di allargare il cuore.
In secondo luogo, la preghiera è un’arte da praticare con insistenza. Gesù stesso ci dice: bussate, bussate, bussate. Tutti siamo capaci di preghiere episodiche, che nascono dall’emozione di un momento; ma Gesù ci educa a un altro tipo di preghiera: quella che conosce una disciplina, un esercizio, e viene assunta entro una regola di vita. Una preghiera perseverante produce una trasformazione progressiva, rende forti nei periodi di tribolazione, dona la grazia di essere sostenuti da Colui che ci ama e ci protegge sempre.
Un’altra caratteristica della preghiera di Gesù è la solitudine. Chi prega non evade dal mondo, ma predilige i luoghi deserti. Là, nel silenzio, possono emergere tante voci che nascondiamo nell’intimo: i desideri più rimossi, le verità che ci ostiniamo a soffocare e così via. E, soprattutto, nel silenzio parla Dio. Ogni persona ha bisogno di uno spazio per sé stessa, dove coltivare la propria vita interiore, dove le azioni ritrovano un senso. Senza vita interiore diventiamo superficiali, agitati, ansiosi – l’ansia come ci fa male! Per questo dobbiamo andare alla preghiera; senza vita interiore sfuggiamo dalla realtà, e anche sfuggiamo da noi stessi, siamo uomini e donne sempre in fuga.
Infine, la preghiera di Gesù è il luogo dove si percepisce che tutto viene da Dio e a Lui ritorna. A volte noi esseri umani ci crediamo padroni di tutto, oppure al contrario perdiamo ogni stima di noi stessi, andiamo da una parte all’altra. La preghiera ci aiuta a ritrovare la giusta dimensione, nella relazione con Dio, nostro Padre, e con tutto il creato. E la preghiera di Gesù infine è abbandonarsi nelle mani del Padre, come Gesù nell’orto degli ulivi, in quell’angoscia: “Padre se è possibile …, ma si faccia la tua volontà”. L’abbandono nelle mani del Padre. È bello quando noi stiamo agitati, un po’ preoccupati e lo Spirito Santo ci trasforma da dentro e ci porta a questo abbandono nelle mani del Padre: “Padre, si faccia la tua volontà”.
Cari fratelli e sorelle, riscopriamo, nel Vangelo, Gesù Cristo come maestro di preghiera, e mettiamoci alla sua scuola. Vi assicuro che troveremo la gioia e la pace.

 

Publié dans:PAPA FRANCESCO UDIENZE |on 11 novembre, 2020 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 9 settembre 2020 – Catechesi – “Guarire il mondo”: 6. Amore e bene comune

http://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2020/documents/papa-francesco_20200909_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 9 settembre 2020 – Catechesi – “Guarire il mondo”: 6. Amore e bene comune

Cortile San Damaso

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La crisi che stiamo vivendo a causa della pandemia colpisce tutti; possiamo uscirne migliori se cerchiamo tutti insieme il bene comune; al contrario, usciremo peggiori. Purtroppo, assistiamo all’emergere di interessi di parte. Per esempio, c’è chi vorrebbe appropriarsi di possibili soluzioni, come nel caso dei vaccini e poi venderli agli altri. Alcuni approfittano della situazione per fomentare divisioni: per cercare vantaggi economici o politici, generando o aumentando conflitti. Altri semplicemente non si interessano della sofferenza altrui, passano oltre e vanno per la loro strada (cfr Lc 10,30-32). Sono i devoti di Ponzio Pilato, se ne lavano le mani.
La risposta cristiana alla pandemia e alle conseguenti crisi socio-economiche si basa sull’amore, anzitutto l’amore di Dio che sempre ci precede (cfr 1 Gv 4,19). Lui ci ama per primo, Lui sempre ci precede nell’amore e nelle soluzioni. Lui ci ama incondizionatamente, e quando accogliamo questo amore divino, allora possiamo rispondere in maniera simile. Amo non solo chi mi ama: la mia famiglia, i miei amici, il mio gruppo, ma anche quelli che non mi amano, amo anche quelli che non mi conoscono, amo anche quelli che sono stranieri, e anche quelli che mi fanno soffrire o che considero nemici (cfr Mt 5,44). Questa è la saggezza cristiana, questo è l’atteggiamento di Gesù. E il punto più alto della santità, diciamo così, è amare i nemici, e non è facile. Certo, amare tutti, compresi i nemici, è difficile – direi che è un’arte! Però un’arte che si può imparare e migliorare. L’amore vero, che ci rende fecondi e liberi, è sempre espansivo e inclusivo. Questo amore cura, guarisce e fa bene. Tante volte fa più bene una carezza che tanti argomenti, una carezza di perdono e non tanti argomenti per difendersi. È l’amore inclusivo che guarisce.
Dunque, l’amore non si limita alle relazioni fra due o tre persone, o agli amici, o alla famiglia, va oltre. Comprende i rapporti civici e politici (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica [CCC], 1907-1912), incluso il rapporto con la natura (Enc. Laudato si’ [LS], 231). Poiché siamo esseri sociali e politici, una delle più alte espressioni di amore è proprio quella sociale e politica, decisiva per lo sviluppo umano e per affrontare ogni tipo di crisi (ibid., 231). Sappiamo che l’amore feconda le famiglie e le amicizie; ma è bene ricordare che feconda anche le relazioni sociali, culturali, economiche e politiche, permettendoci di costruire una “civiltà dell’amore”, come amava dire San Paolo VI [1] e, sulla scia, San Giovanni Paolo II. Senza questa ispirazione, prevale la cultura dell’egoismo, dell’indifferenza, dello scarto, cioè scartare quello a cui io non voglio bene, quello che io non posso amare o coloro che a me sembra sono inutili nella società. Oggi all’entrata una coppia mi ha detto: “Preghi per noi perché abbiamo un figlio disabile”. Io ho domandato: “Quanti anni ha? – Tanti – E cosa fate? – Noi lo accompagniamo, lo aiutiamo”. Tutta una vita dei genitori per quel figlio disabile. Questo è amore. E i nemici, gli avversari politici, secondo la nostra opinione, sembrano essere disabili politici e sociali, ma sembrano. Solo Dio sa se lo sono o no. Ma noi dobbiamo amarli, dobbiamo dialogare, dobbiamo costruire questa civiltà dell’amore, questa civiltà politica, sociale, dell’unità di tutta l’umanità. Tutto ciò è l’opposto di guerre, divisioni, invidie, anche delle guerre in famiglia. L’amore inclusivo è sociale, è familiare, è politico: l’amore pervade tutto!
Il coronavirus ci mostra che il vero bene per ciascuno è un bene comune non solo individuale e, viceversa, il bene comune è un vero bene per la persona (cfr CCC, 1905-1906). Se una persona cerca soltanto il proprio bene è un egoista. Invece la persona è più persona, quando il proprio bene lo apre a tutti, lo condivide. La salute, oltre che individuale, è anche un bene pubblico. Una società sana è quella che si prende cura della salute di tutti.
Un virus che non conosce barriere, frontiere o distinzioni culturali e politiche deve essere affrontato con un amore senza barriere, frontiere o distinzioni. Questo amore può generare strutture sociali che ci incoraggiano a condividere piuttosto che a competere, che ci permettono di includere i più vulnerabili e non di scartarli, e che ci aiutano ad esprimere il meglio della nostra natura umana e non il peggio. Il vero amore non conosce la cultura dello scarto, non sa cosa sia. Infatti, quando amiamo e generiamo creatività, quando generiamo fiducia e solidarietà, è lì che emergono iniziative concrete per il bene comune.[2] E questo vale sia a livello delle piccole e grandi comunità, sia a livello internazionale. Quello che si fa in famiglia, quello che si fa nel quartiere, quello che si fa nel villaggio, quello che si fa nella grande città e internazionalmente è lo stesso: è lo stesso seme che cresce e dà frutto. Se tu in famiglia, nel quartiere cominci con l’invidia, con la lotta, alla fine ci sarà la “guerra”. Invece, se tu incominci con l’amore, a condividere l’amore, il perdono, allora ci sarà l’amore e il perdono per tutti.
Al contrario, se le soluzioni alla pandemia portano l’impronta dell’egoismo, sia esso di persone, imprese o nazioni, forse possiamo uscire dal coronavirus, ma certamente non dalla crisi umana e sociale che il virus ha evidenziato e accentuato. Quindi, state attenti a non costruire sulla sabbia (cfr Mt 7,21-27)! Per costruire una società sana, inclusiva, giusta e pacifica, dobbiamo farlo sopra la roccia del bene comune.[3]Il bene comune è una roccia. E questo è compito di tutti noi, non solo di qualche specialista. San Tommaso d’Aquino diceva che la promozione del bene comune è un dovere di giustizia che ricade su ogni cittadino. Ogni cittadino è responsabile del bene comune. E per i cristiani è anche una missione. Come insegna Sant’Ignazio di Loyola, orientare i nostri sforzi quotidiani verso il bene comune è un modo di ricevere e diffondere la gloria di Dio.
Purtroppo, la politica spesso non gode di buona fama, e sappiamo il perché. Questo non vuol dire che i politici siano tutti cattivi, no, non voglio dire questo. Soltanto dico che purtroppo la politica spesso non gode di buona fama. Ma non bisogna rassegnarsi a questa visione negativa, bensì reagire dimostrando con i fatti che è possibile, anzi, doverosa una buona politica,[4] quella che mette al centro la persona umana e il bene comune. Se voi leggete la storia dell’umanità troverete tanti politici santi che sono andati per questa strada. È possibile nella misura in cui ogni cittadino e, in modo particolare, chi assume impegni e incarichi sociali e politici, radica il proprio agire nei principi etici e lo anima con l’amore sociale e politico. I cristiani, in modo particolare i fedeli laici, sono chiamati a dare buona testimonianza di questo e possono farlo grazie alla virtù della carità, coltivandone l’intrinseca dimensione sociale.
È dunque tempo di accrescere il nostro amore sociale – voglio sottolineare questo: il nostro amore sociale – contribuendo tutti, a partire dalla nostra piccolezza. Il bene comune richiede la partecipazione di tutti. Se ognuno ci mette del suo, e se nessuno viene lasciato fuori, potremo rigenerare relazioni buone a livello comunitario, nazionale, internazionale e anche in armonia con l’ambiente (cfr LS, 236). Così nei nostri gesti, anche quelli più umili, si renderà visibile qualcosa dell’immagine di Dio che portiamo in noi, perché Dio è Trinità, Dio è amore. Questa è la più bella definizione di Dio della Bibbia. Ce la dà l’apostolo Giovanni, che tanto amava Gesù: Dio è amore. Con il suo aiuto, possiamo guarire il mondo lavorando tutti insieme per il bene comune, non solo per il proprio bene, ma per il bene comune, di tutti.

[1] Messaggio per la X Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 1977: AAS 68 (1976), 709.
[2] Cfr S. Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 38.
[3] Ibid., 10.
[4] Cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2019 (8 dicembre 2018).

Publié dans:PAPA FRANCESCO UDIENZE |on 30 septembre, 2020 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE 26 agosto 2020 – Catechesi – “Guarire il mondo”: 4. La destinazione universale dei beni e la virtù della speranza

http://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2020/documents/papa-francesco_20200826_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE 26 agosto 2020 – Catechesi – “Guarire il mondo”: 4. La destinazione universale dei beni e la virtù della speranza

Biblioteca del Palazzo Apostolico

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Davanti alla pandemia e alle sue conseguenze sociali, molti rischiano di perdere la speranza. In questo tempo di incertezza e di angoscia, invito tutti ad accogliere il dono della speranza che viene da Cristo. È Lui che ci aiuta a navigare nelle acque tumultuose della malattia, della morte e dell’ingiustizia, che non hanno l’ultima parola sulla nostra destinazione finale.
La pandemia ha messo in rilievo e aggravato i problemi sociali, soprattutto la disuguaglianza. Alcuni possono lavorare da casa, mentre per molti altri questo è impossibile. Certi bambini, nonostante le difficoltà, possono continuare a ricevere un’educazione scolastica, mentre per tantissimi altri questa si è interrotta bruscamente. Alcune nazioni potenti possono emettere moneta per affrontare l’emergenza, mentre per altre questo significherebbe ipotecare il futuro.
Questi sintomi di disuguaglianza rivelano una malattia sociale; è un virus che viene da un’economia malata. Dobbiamo dirlo semplicemente: l’economia è malata. Si è ammalata. È il frutto di una crescita economica iniqua – questa è la malattia: il frutto di una crescita economica iniqua – che prescinde dai valori umani fondamentali. Nel mondo di oggi, pochi ricchissimi possiedono più di tutto il resto dell’umanità. Ripeto questo perché ci farà pensare: pochi ricchissimi, un gruppetto, possiedono più di tutto il resto dell’umanità. Questa è statistica pura. È un’ingiustizia che grida al cielo! Nello stesso tempo, questo modello economico è indifferente ai danni inflitti alla casa comune. Non si prende cura della casa comune. Siamo vicini a superare molti dei limiti del nostro meraviglioso pianeta, con conseguenze gravi e irreversibili: dalla perdita di biodiversità e dal cambiamento climatico fino all’aumento del livello dei mari e alla distruzione delle foreste tropicali. La disuguaglianza sociale e il degrado ambientale vanno di pari passo e hanno la stessa radice (cfr Enc. Laudato si’, 101): quella del peccato di voler possedere, di voler dominare i fratelli e le sorelle, di voler possedere e dominare la natura e lo stesso Dio. Ma questo non è il disegno della creazione.
«All’inizio, Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell’umanità, affinché se ne prendesse cura» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2402). Dio ci ha chiesto di dominare la terra in suo nome (cfr Gen 1,28), coltivandola e curandola come un giardino, il giardino di tutti (cfr Gen 2,15). «Mentre “coltivare” significa arare o lavorare [...], “custodire” vuol dire proteggere [e] preservare» (LS, 67).Ma attenzione a non interpretare questo come carta bianca per fare della terra ciò che si vuole. No. Esiste «una relazione di reciprocità responsabile» (ibid.) tra noi e la natura. Una relazione di reciprocità responsabile fra noi e la natura. Riceviamo dal creato e diamo a nostra volta. «Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla» (ibid.). Ambedue le parti.
Difatti, la terra «ci precede e ci è stata data» (ibid.), è stata data da Dio «a tutto il genere umano» (CCC, 2402). E quindi è nostro dovere far sì che i suoi frutti arrivino a tutti, non solo ad alcuni. E questo è un elemento-chiave della nostra relazione con i beni terreni. Come ricordavano i padri del Concilio Vaticano II, «l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri» (Cost. past. Gaudium et spes, 69). Infatti, «la proprietà di un bene fa di colui che lo possiede un amministratore della Provvidenza, per farlo fruttificare e spartirne i frutti con gli altri» (CCC, 2404). Noi siamo amministratori dei beni, non padroni. Amministratori. “Sì, ma il bene è mio”. È vero, è tuo, ma per amministrarlo, non per averlo egoisticamente per te.
Per assicurare che ciò che possediamo porti valore alla comunità, «l’autorità politica ha il diritto e il dovere di regolare il legittimo esercizio del diritto di proprietà in funzione del bene comune» (ibid., 2406).[1] La «subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni [...] è una “regola d’oro” del comportamento sociale, e il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale» (LS, 93).[2]
Le proprietà, il denaro sono strumenti che possono servire alla missione. Però li trasformiamo facilmente in fini, individuali o collettivi. E quando questo succede, vengono intaccati i valori umani essenziali. L’homo sapiens si deforma e diventa una specie di homo œconomicus – in senso deteriore – individualista, calcolatore e dominatore. Ci dimentichiamo che, essendo creati a immagine e somiglianza di Dio, siamo esseri sociali, creativi e solidali, con un’immensa capacità di amare. Ci dimentichiamo spesso di questo. Di fatto, siamo gli esseri più cooperativi tra tutte le specie, e fioriamo in comunità, come si vede bene nell’esperienza dei santi.[3] C’è un detto spagnolo che mi ha ispirato questa frase, e dice così: florecemos en racimo como los santos. Fioriamo in comunità come si vede nell’esperienza dei santi.
Quando l’ossessione di possedere e dominare esclude milioni di persone dai beni primari; quando la disuguaglianza economica e tecnologica è tale da lacerare il tessuto sociale; e quando la dipendenza da un progresso materiale illimitato minaccia la casa comune, allora non possiamo stare a guardare. No, questo è desolante. Non possiamo stare a guardare! Con lo sguardo fisso su Gesù (cfr Eb 12,2) e con la certezza che il suo amore opera mediante la comunità dei suoi discepoli, dobbiamo agire tutti insieme, nella speranza di generare qualcosa di diverso e di meglio. La speranza cristiana, radicata in Dio, è la nostra àncora. Essa sostiene la volontà di condividere, rafforzando la nostra missione come discepoli di Cristo, il quale ha condiviso tutto con noi.
E questo lo capirono le prime comunità cristiane, che come noi vissero tempi difficili. Consapevoli di formare un solo cuore e una sola anima, mettevano tutti i loro beni in comune, testimoniando la grazia abbondante di Cristo su di loro (cfr At 4,32-35). Noi stiamo vivendo una crisi. La pandemia ci ha messo tutti in crisi. Ma ricordatevi: da una crisi non si può uscire uguali, o usciamo migliori, o usciamo peggiori. Questa è la nostra opzione. Dopo la crisi, continueremo con questo sistema economico di ingiustizia sociale e di disprezzo per la cura dell’ambiente, del creato, della casa comune? Pensiamoci. Possano le comunità cristiane del ventunesimo secolo recuperare questa realtà – la cura del creato e la giustizia sociale: vanno insieme -, dando così testimonianza della Risurrezione del Signore. Se ci prendiamo cura dei beni che il Creatore ci dona, se mettiamo in comune ciò che possediamo in modo che a nessuno manchi, allora davvero potremo ispirare speranza per rigenerare un mondo più sano e più equo.
E per finire, pensiamo ai bambini. Leggete le statistiche: quanti bambini, oggi, muoiono di fame per una non buona distribuzione delle ricchezze, per un sistema economico come ho detto prima; e quanti bambini, oggi, non hanno diritto alla scuola, per lo stesso motivo. Che sia questa immagine, dei bambini bisognosi per fame e per mancanza di educazione, che ci aiuti a capire che dopo questa crisi dobbiamo uscire migliori. Grazie.

[1] Cfr GS, 71; S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 42; Lett. enc. Centesimus annus, 40.48).

[2] Cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 19.

[3] “Florecemos en racimo, como los santos”: espressione comune in lingua spagnola.

[2] Cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 19.

[3] “Florecemos en racimo, como los santos”: espressione comune in lingua spagnola.

Publié dans:PAPA FRANCESCO UDIENZE |on 3 septembre, 2020 |Pas de commentaires »
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