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PAPA BENEDETTO, INCONTRO CON I SEMINARISTI DI FREIBURG, SU UNO SCRITTO DI SAN BONAVENTURA

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« SAN BONAVENTURA DISSE UNA VOLTA CHE GLI ANGELI, OVUNQUE VADANO, PER QUANTO LONTANO, SI MUOVONO SEMPRE ALL’INTERNO DI DIO ».  L’INCONTRO DI BENEDETTO XVI CON I SEMINARISTI DEL SEMINARIO DI FREIBURG IM BREISGAU

Riprendiamo sul nostro sito il discorso di Benedetto XVI nell’incontro con i seminaristi nella Cappella di San Carlo Borromeo del Seminario di Freiburg im Breisgau, del 24 settembre 2011. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. 

Il Centro culturale Gli scritti (26/9/2011)

Cari seminaristi, cari fratelli e sorelle!
È per me una grande gioia poter incontrarmi qui con giovani, che si incamminano per servire il Signore; che ascoltano la sua chiamata e vogliono seguirlo. Vorrei ringraziare in modo particolarmente caloroso per la bella lettera, che il Rettore del seminario e i seminaristi mi hanno scritto. Mi ha veramente toccato il cuore vedere come avete riflettuto sulla mia lettera e su di essa avete sviluppato le vostre domande e risposte; con quale serietà accogliete ciò che ho tentato di proporre e, in base a questo, sviluppate la vostra propria via.
Certamente la cosa più bella sarebbe se potessimo avere un dialogo insieme, ma l’orario del viaggio, al quale sono obbligato e devo obbedire, purtroppo, non permette cose del genere. Posso quindi soltanto cercare di sottolineare ancora una volta alcuni pensieri alla luce di ciò che avete scritto e di ciò che io avevo scritto.
Nel contesto della domanda: “Di che cosa fa parte il seminario; che cosa significa questo periodo?” in fondo, mi colpisce sempre più di tutto il modo in cui san Marco, nel terzo capitolo del suo Vangelo, descrive la costituzione della comunità degli Apostoli: “Il Signore fece i Dodici”. Egli crea qualcosa, Egli fa qualcosa, si tratta di un atto creativo.
Ed Egli li fece, “perché stessero con Lui e per mandarli” (cfr Mc 3,14): questa è una duplice volontà che, sotto certi aspetti, sembra contraddittoria. “Perché stessero con Lui”: devono stare con Lui, per arrivare a conoscerlo, per ascoltarlo, per lasciarsi plasmare da Lui; devono andare con Lui, essere con Lui in cammino, intorno a Lui e dietro di Lui. Ma allo stesso tempo devono essere degli inviati che partono, che portano fuori ciò che hanno imparato, lo portano agli altri uomini in cammino – verso la periferia, nel vasto ambiente, anche verso ciò che è molto lontano da Lui.
E tuttavia, questi aspetti paradossali vanno insieme: se essi sono veramente con Lui, allora sono sempre anche in cammino verso gli altri, allora sono in ricerca della pecorella smarrita, allora vanno lì, devono trasmettere ciò che hanno trovato, allora devono farLo conoscere, diventare inviati. E viceversa: se vogliono essere veri inviati, devono stare sempre con Lui. San Bonaventura disse una volta che gli Angeli, ovunque vadano, per quanto lontano, si muovono sempre all’interno di Dio.
Così è anche qui: come sacerdoti dobbiamo uscire fuori nelle molteplici strade in cui si trovano gli uomini, per invitarli al suo banchetto nuziale. Ma lo possiamo fare solo rimanendo sempre presso di Lui. Ed imparare ciò, questo insieme di uscire fuori, di essere mandati, e di essere con Lui, di rimanere presso di Lui, è – credo – proprio ciò che dobbiamo imparare nel seminario. Il modo giusto del rimanere con Lui, il venire profondamente radicati in Lui – essere sempre di più con Lui, conoscerLo sempre di più, sempre di più non separarsi da Lui – e al contempo uscire sempre di più, portare il messaggio, trasmetterlo, non tenerlo per sé, ma portare la Parola a coloro che sono lontani e che, tuttavia, in quanto creature di Dio e amati da Cristo, portano nel cuore il desiderio di Lui.
Il seminario è dunque un tempo dell’esercitarsi; certamente anche del discernere e dell’imparare: Egli mi vuole per questo? La vocazione deve essere verificata, e di questo fa poi parte la vita comunitaria e fa parte naturalmente il dialogo con le guide spirituali che avete, per imparare a discernere ciò che è la sua volontà. E poi apprendere la fiducia: se Egli lo vuole veramente, allora posso affidarmi a Lui. Nel mondo di oggi, che si trasforma in modo incredibile e in cui tutto cambia continuamente, in cui i legami umani si scindono perché avvengono nuovi incontri, diventa sempre più difficile credere: io resisterò per tutta la vita. Già per noi, ai nostri tempi, non era tanto facile immaginare quanti decenni Dio avrebbe forse inteso darmi, quanto sarebbe cambiato il mondo.
Persevererò con Lui così come Gliel’ho promesso?… È una domanda che, appunto, esige la verifica della vocazione, ma poi – più riconosco: sì, Egli mi vuole – anche la fiducia: se mi vuole, allora anche mi sorreggerà; nell’ora della tentazione, nell’ora del pericolo sarà presente e mi darà persone, mi mostrerà vie, mi sosterrà. E la fedeltà è possibile, perché Egli è sempre presente, e perché Egli esiste ieri, oggi e domani; perché Egli non appartiene soltanto a questo tempo, ma è futuro e può sorreggerci in ogni momento.
Un tempo di discernimento, di apprendimento, di chiamata… E poi, naturalmente, in quanto tempo dell’essere con Lui, tempo di preghiera, di ascolto di Lui. Ascoltare, imparare ad ascoltarlo veramente – nella Parola della Sacra Scrittura, nella fede della Chiesa, nella liturgia della Chiesa – ed apprendere l’oggi nella sua Parola. Nell’esegesi impariamo tante cose sull’ieri: tutto ciò che c’era allora, quali fonti vi sono, quali comunità esistevano e così via. Anche questo è importante. Ma più importante è che in questo ieri noi apprendiamo l’oggi; che Egli con queste parole parla adesso e che esse portano tutte in sé il loro oggi, e che, al di là del loro inizio storico, recano in sé una pienezza che parla a tutti i tempi.
Ed è importante imparare questa attualità del suo parlare – imparare ad ascoltare – e così poterne parlare agli altri uomini. Certo, quando si prepara l’omelia per la Domenica, questo parlare… , o Dio, è spesso così lontano! Se io, però, vivo con la Parola, allora vedo che non è affatto lontana, è attualissima, è presente adesso, riguarda me e riguarda gli altri. E allora imparo anche a spiegarla. Ma per questo occorre un cammino costante con la Parola di Dio.
Lo stare personalmente con Cristo, con il Dio vivente, è una cosa; l’altra cosa è che sempre soltanto nel “noi” possiamo credere. A volte dico: san Paolo ha scritto: “La fede viene dall’ascolto” – non dal leggere. Ha bisogno anche del leggere, ma viene dall’ascolto, cioè dalla parola vivente, dalle parole che gli altri rivolgono a me e che posso sentire; dalle parole della Chiesa attraverso tutti i tempi, dalla parola attuale che essa mi rivolge mediante i sacerdoti, i Vescovi e i fratelli e le sorelle.
Fa parte della fede il “tu” del prossimo, e fa parte della fede il “noi”. E proprio l’esercitarsi nella sopportazione vicendevole è qualcosa di molto importante; imparare ad accogliere l’altro come altro nella sua differenza, ed imparare che egli deve sopportare me nella mia differenza, per diventare un “noi”, affinché un giorno anche nella parrocchia possiamo formare una comunità, chiamare le persone ad entrare nella comunanza della Parola ed essere insieme in cammino verso il Dio vivente.
Fa parte di ciò il “noi” molto concreto, come lo è il seminario, come lo sarà la parrocchia, ma poi sempre anche il guardare oltre il “noi” concreto e limitato al grande “noi” della Chiesa di ogni luogo e di ogni tempo, per non fare di noi stessi il criterio assoluto. Quando diciamo: “Noi siamo Chiesa” – sì, è vero: siamo noi, non qualunque persona. Ma il “noi” è più ampio del gruppo che lo sta dicendo. Il “noi” è l’intera comunità dei fedeli, di oggi e di tutti i luoghi e tutti i tempi.
E dico poi sempre: nella comunità dei fedeli, sì, lì esiste, per così dire, il giudizio della maggioranza di fatto, ma non può mai esserci una maggioranza contro gli Apostoli e contro i Santi: ciò sarebbe una falsa maggioranza. Noi siamo Chiesa: Siamolo! Siamolo proprio nell’aprirci e nell’andare al di là di noi stessi e nell’esserlo insieme con gli altri!
Credo che, in base all’orario, dovrei forse concludere. Vorrei soltanto dirvi ancora una cosa. La preparazione al sacerdozio, il cammino verso di esso, richiede anzitutto anche lo studio. Non si tratta di una casualità accademica che si è formata nella Chiesa occidentale, ma è qualcosa di essenziale. Sappiamo tutti che san Pietro ha detto: “Siate sempre pronti ad offrire a chiunque vi domandi, come risposta, la ragione, il logos della vostra fede” (cfr 1Pt 3,15).
Il nostro mondo oggi è un mondo razionalistico e condizionato dalla scientificità, anche se molto spesso si tratta di una scientificità solo apparente. Ma lo spirito della scientificità, del comprendere, dello spiegare, del poter sapere, del rifiuto di tutto ciò che non è razionale, è dominante nel nostro tempo. C’è in questo pure qualcosa di grande, anche se spesso dietro si nasconde molta presunzione ed insensatezza. La fede non è un mondo parallelo del sentimento, che poi ci permettiamo come un di più, ma è ciò che abbraccia il tutto, gli dà senso, lo interpreta e gli dà anche le direttive etiche interiori, affinché sia compreso e vissuto in vista di Dio e a partire da Dio.
Per questo è importante essere informati, comprendere, avere la mente aperta, imparare. Naturalmente, fra vent’anni saranno di moda teorie filosofiche totalmente diverse da quelle di oggi: se penso a ciò che tra noi era la più alta e la più moderna moda filosofica e vedo come tutto ciò ormai sia dimenticato… Ciononostante non è inutile imparare queste cose, perché in esse ci sono anche elementi durevoli. E soprattutto con ciò impariamo a giudicare, a seguire mentalmente un pensiero – e a farlo in modo critico – ed impariamo a far sì che, nel pensare, la luce di Dio ci illumini e non si spenga.
Studiare è essenziale: soltanto così possiamo far fronte al nostro tempo ed annunciare ad esso il logos della nostra fede. Studiare anche in modo critico – nella consapevolezza, appunto, che domani qualcun altro dirà qualcosa di diverso – ma essere studenti attenti ed aperti ed umili, per studiare sempre con il Signore, dinanzi al Signore e per Lui.
Sì, potrei dire ancora tante cose, e dovrei forse farlo… Ma ringrazio per l’ascolto. E nella preghiera tutti i seminaristi del mondo sono presenti nel mio cuore – non così bene, con i singoli nomi, come li ho ricevuti qui, ma tuttavia in un cammino interiore verso il Signore: che Egli benedica tutti, a tutti dia luce ed indichi loro la strada giusta, e ci doni molti buoni sacerdoti. Grazie di cuore.

UN INEDITO DI RATZINGER TEOLOGO – È LA SUA TESI DI DOTTORATO SU SAN BONAVENTURA – DI SANDRO MAGISTER

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1340075

UN INEDITO DI RATZINGER TEOLOGO. DI 54 ANNI FA, MA SEMPRE ATTUALE

È LA SUA TESI DI DOTTORATO SU SAN BONAVENTURA E LA TEOLOGIA DELLA STORIA. CON SULLO SFONDO LA VISIONE DI GIOACCHINO DA FIORE E DI UNA NUOVA CHIESA TUTTA « SPIRITUALE ». IL TESTO INTEGRALE DELLA PREFAZIONE SCRITTA OGGI DAL PAPA

DI SANDRO MAGISTER

ROMA, 18 settembre 2009 – La pubblicazione in tedesco delle « opera omnia » di Joseph Ratzinger prosegue a ritmo accelerato. Dei sedici tomi previsti, il primo è uscito meno di un anno fa. Il secondo è stato presentato al suo autore domenica 13 settembre a Castel Gandolfo (vedi foto). Un terzo uscirà a novembre.
L’interesse del primo volume – propriamente l’undicesimo tomo del disegno generale  – era accresciuto dal desiderio dell’autore di ripubblicare per primi i suoi scritti riguardanti la liturgia, da lui definita nella prefazione « attività centrale della mia vita ».
L’interesse di questo secondo volume sta invece nel fatto che dà finalmente alle stampe un testo di Ratzinger che era rimasto fin qui inedito nella sua integralità: la tesi da lui presentata nel 1955 per l’abilitazione alla libera docenza di teologia nelle università tedesche.
Dopo i primi studi su sant’Agostino, al giovane teologo Ratzinger fu proposto di indagare sul più agostiniano dei teologi medievali, il francescano san Bonaventura da Bagnoregio, e in particolare sulle sue tesi riguardanti la divina rivelazione e la teologia della storia.
Ratzinger si impegnò a fondo nella ricerca. E scoprì che in Bonaventura c’era un forte legame con la visione di Gioacchino da Fiore, il francescano che aveva profetizzato l’avvento imminente di una terza età dopo quelle del Padre e del Figlio, una età dello Spirito, con una Chiesa rinnovata e tutta « spirituale », povera, riconciliata con greci ed ebrei, in un mondo restituito alla pace.
La tesi non piacque a uno degli esaminatori, il professor Michael Schmaus. Ma Ratzinger si salvò dalla bocciatura ripresentando la sola seconda parte del suo scritto, che non aveva raccolto obiezioni. Negli anni successivi si ripromise di curare una nuova pubblicazione aggiornata del tutto, ma non vi riuscì. Da cardinale si ripromise di occuparsene quando sarebbe andato in pensione. Ma fu eletto papa e il proposito inesorabilmente sfumò.
Ripubblicata ora nella sua stesura originale e integrale, la tesi appare qua e là superata dagli studi successivi. Ratzinger lo riconosce. Ma ritiene che « la questione dell’essenza della Rivelazione, che è il tema del libro, ha ancora oggi una urgenza, forse anche maggiore che in passato ».
A leggere la sua prefazione a questo secondo volume delle « opera omnia » – riprodotta più sotto –  si ricava che Benedetto XVI giudica tuttora attuale la sfida che Bonaventura dovette affrontare come superiore generale dell’ordine francescano: la « tensione drammatica fra i ‘realisti’ che volevano utilizzare l’eredità di san Francesco secondo le possibilità concrete della vita dell’ordine quale era stata tramandata, e gli ‘spirituali’ che invece puntavano alla novità radicale di un periodo storico nuovo ».
Henri De Lubac, uno dei più grandi teologi cattolici del Novecento, dedicò un imponente saggio in due volumi a quella che chiamò « la posterità intellettuale di Gioacchino da Fiore ».
A giudizio di De Lubac, la visione di Gioacchino – il frate « di spirito profetico donato » che Dante collocò nel Paradiso – ha traversato i secoli e continua a influenzare larga parte della cultura d’oggi, anche cattolica: una cultura che sogna « una nuova Chiesa in cui l’amore deve prendere il posto della legge ».
Tutto l’opposto di quella « Caritas in veritate » che intitola l’ultima enciclica di Benedetto XVI e che innerva l’intero suo magistero.
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PREFAZIONE AL SECONDO VOLUME DEI MIEI SCRITTI

DI JOSEPH RATZINGER

Dopo la pubblicazione dei miei scritti sulla liturgia segue ora nell’edizione generale delle mie opere un libro con studi sulla teologia del grande francescano e dottore della Chiesa Bonaventura Fidanza. Fin dall’inizio è stato evidente che quest’opera avrebbe contenuto anche i miei studi sul concetto di Rivelazione in san Bonaventura, condotti assieme all’interpretazione della sua teologia della storia, negli anni 1953-1955, ma finora inediti.
Per completare tutto questo lavoro il manoscritto avrebbe dovuto essere rivisto e corretto secondo le moderne modalità editoriali, cosa che io non mi sono sentito in grado di fare. La professoressa Marianne Schlosser di Vienna, profonda conoscitrice della teologia medievale e in particolare delle opere di san Bonaventura, si è degnamente offerta di svolgere tale lavoro necessario e di certo non facile. Per questo non posso che ringraziarla di tutto cuore. Discutendo del progetto ci siamo subito trovati d’accordo che non si sarebbe tentato di rielaborare il libro dal punto di vista contenutistico e di portare la ricerca allo stato attuale. Più di mezzo secolo dopo la stesura del testo, questo avrebbe significato in pratica scrivere un nuovo libro. Inoltre desideravo fosse un’edizione « storica », che offrisse così com’era un testo concepito in un lontano passato, lasciando alla ricerca la possibilità di trarne utilità anche oggi. Della cura editoriale svolta tratta l’introduzione della professoressa Schlosser, che con i suoi collaboratori ha investito molto tempo e molto impegno dedicato all’allestimento di un’edizione storica del testo, confidando nel fatto che teologicamente e storicamente valesse la pena renderlo accessibile a tutti nella sua interezza.
Nella seconda parte del libro viene nuovamente presentata « La teologia della storia di san Bonaventura » come fu pubblicata nel 1959. I saggi che seguono sono tratti, con poche eccezioni, dallo studio sull’interpretazione della Rivelazione e della teologia della storia. In alcuni casi sono stati adattati per poter costituire un testo in sé completo, modificandoli leggermente secondo il contesto.
L’idea di aggiornare il manoscritto e presentarlo come libro al pubblico dovetti abbandonarla temporaneamente assieme al progetto di uno studio commentato dell’ »Hexameron », perché l’attività di esperto conciliare e le esigenze della mia docenza accademica erano così impegnative  da  rendere  impensabile la ricerca medievalistica. Nel periodo postconciliare la situazione teologica mutata e la nuova situazione nell’università tedesca mi assorbirono così tanto che rimandai il lavoro su Bonaventura al periodo successivo al pensionamento. Nel frattempo il Signore mi ha condotto lungo altre vie e così il libro viene pubblicato ora nella sua forma presente. Auspico che altri possano svolgere il compito di commentare l’ »Hexameron ».
In un primo momento l’esposizione del tema dell’opera potrebbe apparire sorprendente e di fatto lo è. Dopo la mia tesi sul concetto di Chiesa di sant’Agostino, il mio maestro Gottlieb Söhngen mi propose di dedicarmi al medioevo e in particolare alla figura di san Bonaventura, che fu il più significativo rappresentante della corrente agostiniana nella teologia medievale.
Per quanto riguarda il contenuto, ho dovuto affrontare la seconda importante questione di cui si occupa la teologia fondamentale, ovvero il tema della Rivelazione. A quel tempo, in particolare a motivo della celebre opera di Oscar Cullmann « Christus und die Zeit [Cristo e il tempo] » (Zürich, 1946), il tema della storia della salvezza, specialmente il suo rapporto con la metafisica, era diventato il punto focale dell’interesse teologico. Se la Rivelazione nella teologia neoscolastica era stata intesa essenzialmente come trasmissione divina di misteri, che restano inaccessibili all’intelletto umano, oggi la Rivelazione viene considerata una manifestazione di sé da parte di Dio in un’azione storica e la storia della salvezza viene vista come elemento centrale della Rivelazione. Mio compito era quello di cercare di scoprire come Bonaventura avesse inteso la Rivelazione e se per lui esistesse qualcosa di simile a un’idea di « storia della salvezza ».
È stato un compito difficile. La teologia medievale non possiede alcun trattato « de Revelatione », sulla Rivelazione, come invece accade nella teologia moderna. Inoltre, dimostrai subito che la teologia medievale non conosce neanche un termine per esprimere da un punto di vista contenutistico il nostro moderno concetto di Rivelazione. La parola « revelatio », che è comune alla neoscolastica e alla teologia medievale, non significa, come si è andato evidenziando, la stessa cosa nella teologia medievale e in quella moderna. Per questo ho dovuto cercare le risposte alla mia impostazione del problema in altre forme linguistiche e di pensiero e addirittura modificarla rispetto a quando mi ero avvicinato all’opera di Bonaventura. Innanzitutto bisognava condurre difficili ricerche sul suo linguaggio. Ho dovuto accantonare i nostri concetti per capire cosa Bonaventura intendesse per Rivelazione. In ogni caso si è dimostrato che il contenuto concettuale di Rivelazione si adattava a un gran numero di concetti:  « revelatio », « manifestatio », « doctrina », « fides », e così via. Soltanto una visione d’insieme di questi concetti e delle loro asserzioni fa comprendere l’idea di Rivelazione in Bonaventura.
Il fatto che nella dottrina medievale non esistesse alcun concetto di « storia della salvezza » nel senso attuale del termine, è stato chiaro fin dall’inizio. Tuttavia due indizi dimostrano che in Bonaventura era presente il problema della rivelazione come cammino storico.
Innanzitutto si è presentata la doppia figura della Rivelazione come Antico e Nuovo Testamento, che ha posto la questione della sintonia fra l’unità della verità e la diversità della mediazione storica posta sin dall’età patristica e poi affrontata anche dai teologi medievali.
A questa forma classica della presenza del problema del rapporto tra storia e verità, che Bonaventura condivide con la teologia del suo tempo e che tratta a suo modo, si aggiunge in lui anche la novità del suo punto di vista storico, nel quale la storia, che è proseguimento dell’opera divina, diviene una sfida drammatica.
Gioacchino da Fiore (morto nel 1202) aveva insegnato un ritmo trinitario della storia. All’età del Padre (Antico Testamento) e all’età del Figlio (Nuovo Testamento, Chiesa) doveva seguire un’età dello Spirito Santo, nella quale con l’osservanza del Discorso della Montagna si sarebbero manifestati spirito di povertà, riconciliazione fra greci e latini, riconciliazione fra cristiani ed ebrei, e sarebbe giunto un tempo di pace. Grazie a una combinazione di cifre simboliche l’erudito abate aveva predetto l’inizio di una nuova età nel 1260. Intorno al 1240 il movimento francescano si imbatté in questi scritti che su molti ebbero un effetto elettrizzante: questa nuova età non era forse iniziata con san Francesco d’Assisi? Per questo motivo all’interno dell’Ordine si venne a creare una tensione drammatica fra « realisti », che volevano utilizzare l’eredità di san Francesco secondo le possibilità concrete della vita dell’Ordine quale era stata tramandata, e « spirituali », che invece puntavano alla novità radicale di un periodo storico nuovo.
Come ministro generale dell’Ordine, Bonaventura dovette affrontare l’enorme sfida di questa tensione, che per lui non era una questione accademica, ma un problema concreto del suo incarico di settimo successore di san Francesco. In questo senso la storia fu improvvisamente tangibile come realtà e come tale dovette essere affrontata con l’azione reale e con la riflessione teologica. Nel mio studio ho cercato di spiegare in che modo Bonaventura affrontò questa sfida e mise in rapporto la storia della salvezza con la Rivelazione.
Dal 1962 non avevo più ripreso in mano lo scritto. Quindi per me è stato entusiasmante rileggerlo dopo così tanto tempo. È chiaro che l’impostazione del problema così come il linguaggio del libro sono influenzati dalla realtà degli anni Cinquanta. Oltre tutto per le ricerche linguistiche non esistevano i mezzi tecnici che abbiamo ora. Per questo motivo l’opera ha i suoi limiti ed è evidentemente influenzata dal periodo storico in cui è stata concepita. Tuttavia, rileggendola ho ricavato l’impressione che le sue risposte siano fondate, sebbene superate in molti dettagli, e che ancora oggi abbiano qualcosa da dire. Soprattutto mi sono reso conto che la questione dell’essenza della Rivelazione e il fatto di riproporla, che è il tema del libro, hanno ancora oggi una loro urgenza, forse anche maggiore che in passato.
Al termine di questa prefazione desidero aggiungere al ringraziamento alla professoressa Schlosser anche quello al vescovo di Ratisbona Gerhard Ludwig Müller, che attraverso la fondazione dell’Institut Papst Benedikt XVI. ha reso possibile la pubblicazione di quest’opera e ha seguito, con attiva partecipazione, il processo editoriale dei miei scritti. Ringrazio inoltre i collaboratori dell’Istituto, il professor Rudolf Voderholzer, il dottor Christian Schaller, i signori Franz-Xaver Heibl e Gabriel Weiten. Non da ultimo ringrazio l’editrice Herder, che si è occupata della pubblicazione di questo libro con l’accuratezza che la caratterizza.

Dedico l’opera a mio fratello Georg per il suo ottantacinquesimo compleanno, grato per la comunione di pensiero e di cammino di tutta una vita.

Roma, solennità dell’Ascensione di Cristo 2009.

BENEDETTO XVI E LA MUSICA

http://www.korazym.org/index.php/musica/25-ascolti/3066-benedetto-xvi-e-la-musica.html

BENEDETTO XVI E LA MUSICA   

SCRITTO DA LUCIO COCO *   

DOMENICA 30 SETTEMBRE 2012

E’ a tutti nota la passione di papa Benedetto XVI per la musica. Il pianoforte lo accompagna nelle ore di relax e nel tempo libero. Ed egli stesso non ha mancato di fare accenni autobiografici che testimoniano e confermano questo suo interesse fin dalla giovinezza quando, insieme al fratello Georg, che in seguito lo avrebbe diretto per trent’anni, ha potuto partecipare all’attività del coro di chiesa più antico del mondo, quello dei “Passeri del Duomo di Ratisbona” (i «Regensburger Domspatzen»). Sempre indulgendo ai ricordi, egli può riandare a un lontano 1941 allorché, ancora con il fratello, poté assistere ad alcuni concerti del Festival di Salisburgo e ascoltare, nella Basilica abbaziale di San Pietro, una indimenticabile esecuzione della Messa in do minore di Mozart (cfr Discorso, 17.1.09). Un autore questo che lo fa andare con la memoria a tempi più remoti quando, da ragazzo, nella sua chiesa parrocchiale, ascoltando una sua Messa, poteva fare un’esperienza sublime della musica che gli faceva sentire che «un raggio della bellezza del Cielo lo aveva raggiunto» (Discorso, 7.9.10).
Il discorso sulla musica di papa Benedetto è sempre attraversato da una lettura spirituale di essa per cui, attraverso i suoni dell’orchestra, il canto del coro o anche l’esecuzione di un solista, noi possiamo arrivare ad avere uno sguardo più puro sulla nostra realtà interiore per scrutare in essa, nel riflesso della trama musicale, le passioni che la agitano e la scuotono oppure le gioie e le speranze che la animano e la destano (cfr Discorso, 18.11.06). Accanto a questo sguardo introspettivo, che armonizza il nostro intimo, la musica suscita risonanze che rimandano continuamente al di là di se stessa, «al Creatore di ogni armonia» (Discorso, 4.9.07). Proprio “giocando” su questa differenza, su questo scarto (non a caso in tedesco “suonare” è “spielen”, in inglese è “play” e in francese è “jouer”), essa ha il potere di «aprire le menti e i cuori alla dimensione dello spirito e condurre le persone ad alzare lo sguardo verso l’Alto, ad aprirsi al Bene e al Bello assoluti, che hanno la sorgente ultima in Dio» (Discorso, 29.4.10).
Attraverso la musica, forse in una maniera privilegiata rispetto ad altre arti, si può arrivare, mediante l’esperienza del vero, del buono e del bello che essa sollecita, a un contatto più diretto con Dio. In questo senso la musica può condurci alla preghiera: «Non è un caso – dice il papa – che spesso la musica accompagni la nostra preghiera. Essa fa risuonare i nostri sensi e il nostro animo quando, nella preghiera, incontriamo Dio» (Discorso, 11.8.12). Tuttavia come alla preghiera non può mai corrispondere un sentimento narcisistico e appagante, ma dal rinnovato e ritrovato contatto con Dio dobbiamo attingere nuove energie spirituali per incidere positivamente sulla realtà, così anche la musica può diventare preghiera se «possiamo insieme costruire un mondo nel quale risuoni la melodia consolante di una trascendente sinfonia d’amore» (Discorso, 18.11.06).
La musica ci rivela che c’è una parte indistrutta del mondo, capace di resistere alla “hýbris” e alla superbia di Babele, dove la bontà e la bellezza della creazione non sono rovinate e ci ricorda che non siamo continuamente richiamati a mantenere e ripristinare, in una parola, «a lavorare per il bene e per il bello» (Discorso, 2.8.09). Non è questo l’unico messaggio della musica. Esso è certamente il più alto, per l’armonia e la sintonia che scopre con la Trascendenza, alla quale ci impone di adeguarci, aderendo alla bontà, alla bellezza e alla verità, per non rendere le nostre esistenze “stonate” e prive di significato. Tuttavia papa Benedetto si serve anche di altre immagini per spiegare, attraverso la musica, quelli che sono i nostri compiti. Egli immagina infatti la storia «come una meravigliosa sinfonia che Dio ha composto e la cui esecuzione Egli stesso, da saggio maestro d’orchestra, dirige» (Discorso, 18.11.06).
E’ vero, in certi momenti non è sempre facile leggerla e il suo disegno ci sembra discutibile oppure incomprensibile: la realtà del male e la sua azione nella storia degli uomini, lasciano talvolta pensare che «la Sua bontà non arriva giù fino a noi» (Discorso, 1.6.12). Nondimeno, continua il Santo Padre, sviluppando la similitudine dell’orchestra, non tocca a noi salire sul podio del direttore per dirigere e tanto meno possiamo cambiare la melodia che non ci piace, piuttosto «siamo chiamati, ciascuno di noi al suo posto e con le proprie capacità, a collaborare con il grande Maestro nell’eseguire il suo stupendo capolavoro. Nel corso dell’esecuzione ci sarà poi anche dato di comprendere man mano il grandioso disegno della partitura divina» (Discorso, 18.11.06).
Da questa osservazione, di natura prettamente teologica, ne discendono altre, di carattere più pratico, che possono fornire importanti istruzioni sulle regole vita della Chiesa in generale. Infatti l’esperienza del suonare insieme dell’orchestra, il rito stesso dell’accordatura e la pazienza delle prove, che impegnano i musicisti a «non suonare « da soli », ma di far sì che i diversi « colori orchestrali » – pur mantenendo le proprie caratteristiche – si fondano insieme» (Discorso, 29.4.10), ci forniscono un’immagine appropriata per le relazioni che si costruiscono in ambito ecclesiale ed invitano a rinunciare a ogni forma di protagonismo al fine di diventare « »strumenti » per comunicare agli uomini il pensiero del grande « Compositore », la cui opera è l’armonia dell’universo» (Discorso, 18.11.06).
Negli interventi che il Santo Padre dedica alla musica un posto importante è quello accordato alla musica sacra. Anche in tal caso Benedetto XVI vuole sgombrare il campo da alcuni equivoci che hanno fatto considerare il patrimonio della musica sacra o la tradizione del canto gregoriano come l’espressione «di una concezione rispondente ad un passato da superare e da trascurare, perché limitativo della libertà e della creatività del singolo e delle comunità» (Discorso, 13.5.11). Come risposta a queste posizioni il papa ribadisce la centralità di una Liturgia in cui il vero soggetto è la Chiesa: «Non è il singolo o il gruppo che celebra la Liturgia, ma essa è primariamente azione di Dio attraverso la Chiesa, che ha la sua storia, la sua ricca tradizione e la sua creatività» (ib.). Occorre perciò – afferma il Santo Padre – tener presente il patrimonio storico-liturgico per mantenere «un corretto e costante rapporto tra “sana traditio e legitima progressio”» (Discorso, 6.5.11) nel quale, come reso esplicito dalla Sacrosanctum Concilium (n.23), questi due aspetti si integrano dal momento che «la tradizione è una realtà viva e include perciò in se stessa il principio dello sviluppo e del progresso» (Discorso, 6.5.11).
Dal discorso che Benedetto XVI tesse sulla musica, anche attraverso i giudizi che di volta in volta formula sui diversi compositori (Vivaldi, Händel, Bach, Mozart, Beethoven, Rossini, Schubert, Mendelssohn, Liszt, Verdi, Bruckner), emergono non solo una grande competenza ma anche una notevole finezza interpretativa, segno di una particolare sensibilità per questa universale forma di espressione artistica e per gli ideali di verità, bontà e bellezza che la musica comunica e modula. Perciò è ancora il papa a sottolineare il suo debito di gratitudine verso quest’arte e verso tutti coloro che ad essa, fin da bambino, lo hanno accostato: «Nel guardare indietro alla mia vita, – egli ha modo di dire con parole davvero toccanti – ringrazio Iddio per avermi posto accanto la musica quasi come una compagna di viaggio, che sempre mi ha offerto conforto e gioia. Ringrazio anche le persone che, fin dai primi anni della mia infanzia, mi hanno avvicinato a questa fonte di ispirazione e di serenità» (Discorso, 16.4.07).
E l’augurio che egli esprime, a conclusione di un concerto, fa capire molto bene l’alto valore e il posto davvero centrale che egli assegna alla musica non solo nella sua vita ma in quella di tutti: «Ecco il mio auspicio: che la grandezza e la bellezza della musica possano donare anche a voi, cari amici, nuova e continua ispirazione per costruire un mondo di amore, di solidarietà e di pace» (ib.).

*Lucio Coco, studioso di letteratura classica antica è curatore dei volumi della collana Pensieri di Papa Benedetto XVI, editi dalla Libreria Editrice Vaticana

Joseph Ratzinger: due meditazioni sul venedì santo

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/rahner_ratzinger_s_santa3.htm

JOSEPH RATZINGER

VENERDÌ SANTO

1. Prima meditazione

«Essi guarderanno colui che hanno trafitto». Con queste parole l’evangelista Giovanni chiude la sua narrazione della passione di Gesù; cori tali parole introduce la visione di Cristo nello ultimo libro del Nuovo Testamento che noi chiamiamo ‘Apocalisse’. Tra queste due ci!azioni della parola profetica dell’ Antico Testamento è tesa tutta la storia: tra la crocifissione e il ritorno del Signore; in questa citazione si parla sia dell’abbassamento di colui che morì come un assassino sul patibolo, che della potenza di colui che verrà per giudicare il mondo, per essere quindi anche il nostro giudice.
«Essi guarderanno colui che hanno trafitto». Tutto il vangelo di Giovanni non è che la verifica di questa frase, il tentativo di concentrare il nostro sguardo e il nostro cuore nella contemplazione di lui. E tutta la liturgia della Chiesa non è altro che la contemplazione del trafitto, il cui volto nascosto viene scoperto dal sacerdote davanti agli occhi della Chiesa e del mondo, durante la celebrazione cultuale del Venerd1 santo che costituisce il punto più alto dell’anno liturgico.
«Ecco l’albero della croce al quale è stata appesa la salvezza del mondo». «Essi guarderanno colui che hanno trafitto». O Signore concedici in quest’ora di poter guardar a te, nell’ora della tua oscurità e del tuo abbassamento ad opera di un mondo che vuole dimenticare la croce come si fa con un incidente spiacevole, che si sottrae al tuo sguardo, considerandolo un inutile sciupio di tempo e non si rende conto che è proprio qui che ci si fa incontro la tua ora decisiva, nella quale nessuno potrà sottrarsi al tuo sguardo.
Sul fatto della trafittura del crocifisso, Giovanni parla con una solennità stranamente circostanziata, che nello stesso tempo lascia riconoscere il peso che l’evangelista attribuisce a questo evento. Nella narrazione, che si chiude con una formula di testimonianza quasi scongiuratrice, vengono elaborati due testi del Vecchio Testamento, mediante i quali viene nello stesso tempo a risultare evidente il significato di questo avvenimento. «Nessun osso gli deve essere spezzato», dice Giovanni e adduce così un testo del rituale pasquale giudaico che contiene una prescrizione sull’agnello pasquale. Egli ci fa cosi comprendere che Gesù, il cui fianco veniva trafitto nello stesso momento in cui nel tempio avveniva lo sgozzamento rituale dell’agnello pasquale, è il vero agnello senza difetto nel quale si compie definitivamente il significato di qualsiasi culto e di qualsiasi rituale, nel quale soltanto anzi diventa manifesto cosa significa in realtà il culto. Ogni culto precristiano si basa in ultima analisi sull’idea della sostituzione: l’uomo è consapevole che fondamentalmente deve dare se stesso se vuole onorare Dio in maniera adeguata, ma sperimenta nello stesso tempo l’impossibilità di darsi e sorge quindi la sostituzione: ecatombi di olocausti divampano sugli altari degli antichi, viene sviluppato un sistema rituale possente, ma su tutto questo pesa il dramma di una inutilità impressionante, giacché non esiste nulla con cui l’uomo possa sostituire se stesso: qualsiasi cosa possa offrire, rimane sempre troppo poco.
La critica profetica al culto aveva sempre opposto all’autosufficienza dei ritualisti che Dio, a cui appartiene il mondo tutto, non aveva bisogno dei loro capri e dei loro tori; la facciata sfarzosa del rito nasconde soltanto la fuga da ciò che è autentico, dalla chiamata di Dio che vuole noi stessi e che può essere veracemente adorato solo nel gesto dell’amore senza riserva. Mentre nel tempio sanguinavano gli agnelli pasquali, fuori della città muore un uomo, il Figlio di Dio, ucciso proprio da coloro che credono di onorare Dio nel tempio. Dio muore come uomo – egli dà tutto se stesso agli uomini che non sono in grado di darsi a- lui e pone quindi al posto dell’inutile sostituzione cultuale, la realtà del suo amore onnisufficiente. La lettera agli Ebrei ha sviluppato ulteriormente il piccolo accenno del vangelo di Giovanni interpretando la liturgia giudaica del giorno della riconciliazione come preludio figurato della liturgia reale della vita e della morte del Cristo Gesù. Ciò che agli occhi del mondo appariva come fatto assolutamente profano, come esecuzione di un uomo condannato a morte come agitatore politico, era in realtà l’unica vera liturgia della storia del mondo – liturgia cosmica attraverso la quale Gesù, non già nella sfera delimitata e cultuale del tempio, ma fuori ‘davanti al mondo tutto, penetrò attraverso la parete della morte nel tempio vero: alla presenza del Padre.
Ed egli non portò il sangue di animali in sostituzione, ma se stesso, com’è conforme allo amore autentico che non può donare che se stesso. La realtà dell’amore che dà se stesso ha eliminato il gioco della sostituzione, che ormai resta per sempre fuori causa. n. velo del tempio è lacerato, ormai non c’è più culto se non nella partecipazione all’amore di Gesù Cristo che costituisce il perpetuo giorno di riconciliazione cosmica. E tuttavia l’idea della sostituzione ha ricevuto in Cristo un senso nuovo ed inaudito. Dio stesso in Gesù Cristo si è messo al nostro posto e noi tutti viviamo solo a partire dal mistero di questa sostituzione.
n secondo testo del Vecchio Testamento che viene inserito nella narrazione della trafittura rende ancora più evidente quanto abbiamo detto, per quanto permangano oscurità sui dettagli. Giovanni dice che un soldato aprì il fianco di Gesù con la lancia. Egli adopera la stessa parola che nel Vecchio Testamento viene usata per la descrizione della creazione di Eva dal fianco di Adamo dormiente. Qualsiasi cosa voglia indicare più da vicino questo accenno, in ogni caso è sufficientemente chiaro che nel vicendevole rapporto tra Cristo e l’umanità credente si ripete il mistero della creazione dell’origine e della donazione vicendevole dell’uomo e della donna. La chiesa ha origine dal fianco aperto del Cristo morente o, se vogliamo esprimerci in termini diversi ed un po’ metaforici: proprio la morte del Signore, la radicalità dell’amore ché perviene all’autodonazione, ha causato questa fecondità. Poiché egli non- si è rinchiuso nell’egoismo di colui che vive solo per se stesso e mette la propria autoconservazione al di sopra di tutto, ma si è lasciato aprire per uscire fuori da se stesso ed esistere per gli altri, proprio per questo egli raggiunge ormai tutti i tempi, al di là di se stesso. n fianco aperto è quindi il simbolo di ‘una nuova immagine dell’uomo, di un nuovo Adamo; esso sta a contrassegnare Cristo come l’uomo che esiste-per-glialtri. E f-orse a partire da. qui soltanto possono essere intese le profondissime affermazioni della fede su Gesù Cristo, così come nello stesso tempo è a partire da qui che si fa manifesto il compito immediato affida,o dal crocifisso alla nostra vita. La fede dice di Gesù Cristo che egli è una sola persona in due nature; nel testo greco originale si dice in maniera più esatta e appropriata che egli è una sola ‘ipostasi’, un unico essere autonomo.
Nel corso della storia ciò è stato sempre nuovamente equivocato come se a Gesù mancasse qualcosa della sua umanità, come se per essere Dio dovesse in qualche modo essere meno uomo. È vero proprio il contrario: Gesù è l’uomo vero, dal quale è misurato ogni altro uomo, al quale deve andare ogni essere umano per pervenire alla propria autenticità. Ed egli è uomo perfetto proprio in quanto in questo non è ‘ipostasi’, essere che sta presso se stesso. Infatti più elevato ancora che il poter essere presso se stessi è il non-poter-stare-presso-se-stessi e il non volerlo, l’andare agli altri partendo dal Padre. Gesù è per così dire nient’altro che il movimento da sé al Padre e agli uomini. E proprio perciò, perché in lui è stato radicalmente spezzato l’anello del roteare attorno a se stessi, egli è nello stesso tempo figlio di Dio e figlio dell’uomo. Proprio perché egli esiste per gli altri totalmente, egli è totalmente se stesso – immagine finale della vera umanità. Diventar cristiani significa diventare uomini, pervenire alla umanità vera, all’essere-pergli-altri e all’essere-da-Dio. Il fianco aperto del crocifisso, la ferita mortale del nuovo Adamo, è il punto di partenza del vero essere umano dell’uomo: essi guarderanno a colui che hanno trafitto.

 Seconda meditazione
Volgiamo ancora una volta il nostro sguardo al lato aperto del Cristo crocifisso, giacché questo sguardo costituisce il senso intimo del Venerdì santo che vuole riportare i nostri occhi via da tutte le attrazioni del mondo, dalla fata Morgana delle sue promesse in vetrina, al vero punto direzionale che unico ci può garantire il cammino in mezzo al groviglio di viuzze che girano sempre attorno allo stesso posto.
Giovanni ha espresso in maniera ancora diversa, rispetto a quella precedentemente considerata, il pensiero che la chiesa deve la sua origine più profonda al fianco trafitto di Cristo. Egli accenna al fatto che dalla ferita del fianco sono usciti sangue ed acqua. Sangue ed acqua stanno ad indicare per lui i due sacramenti fondamentali, battesimo ed eucaristia, che a loro volta costituiscono il contenuto autentico dell’esser-chiesa della chiesa. Battesimo ed eucaristia sono i due modi in cui gli uomini possono essere inseriti nello spazio vitale di Gesù Cristo. Il battesimo sta a significare infatti che un uomo diventa cristiano e si pone sotto il nome di Gesù Cristo. E questo stare sotto un nome significa molto di più che un puro gioco di parole; ciò che sta a significare può essere visto un po’ attraverso l’evento del matrimonio e la comunità di nome che si istituisce tra due persone come espressione dell’unione vicendevole del loro essere, che avviene appunto nel matrimonio. Il battesimo che, come attuazione sacramentale del divenire cristiani, ci unisce al nome di Cristo, sta a significare esattamente un evento simile al matrimonio: compenetrazione della nostra esistenza con la sua, inserimento della nostra vita nella sua, che diventa cosi criterio e spazio del mio essere umano. L’eucaristia è a sua volta comunione di mensa con il Signore che ci vuole trasformare in lui per condurci cosi l’uno verso l’altro, giacché tutti mangiamo lo stesso pane. Non siamo infatti noi ad assumere il corpo del Signore, ma è lui che ci cava, per così dire, fuori da noi stessi e ci inserisce in lui per farci chiesa.
Giovanni riconduce i due sacramenti alla croce; egli li vede defluire dal fianco aperto del Signore e considera quindi compiuta la parola del discorso di congedo: io vado e torno a voi. Proprio mentre me ne vado vengo a voi; anzi la mia dipartita – la morte sulla croce – è essa stessa il mio ritorno. Fin quando vivremo il nostro corpo non è soltanto il ponte che ci unisce vicendevolmente, ma anche la barriera che ci separa, ci rinchiude nell’inaccostabilità del nostro io, dentro alla nostra forma spazio-temporale. Il fianco aperto diventa nuovamente il simbolo della nuova apertura che il Signore viene a costituire mediante la sua morte: ormai la barriera del corpo non lo lega più, sangue ed acqua scorrono attraverso la storia. In quanto risorto egli è lo spazio aperto che ci chiama tutti. Il suo ritorno non è soltanto un avvenimento lontano, alla fine dei tempi, ma è iniziato già nell’ora della sua morte, a partire dalla quale egli viene sempre nuovamente in mezzo a noi. Nella morte del Signore si è compiuto quindi il destino del seme di grano: nel pane di grano dell’eucaristia noi riceviamo l’inesauribile moltiplicazione di pane dell’amore di Gesù Cristo, sufficiente a saziare la fame di tutti i tempi e che proprio in questa maniera vuole assumere anche noi al servizio di questa moltiplicazione di pani. I due pani di orzo della nostra vita potranno apparire inutili, ma il Signore ha bisogno di essi e li esige.
I sacramenti della chiesa sono, come questa, frutto del seme di grano morente. Riceverli significa per noi donarci a quel movimento da cui essi provengono. Si esige cioè da noi di penetra;; re in quel perdersi, senza del quale non ci possiamo ritrovare: «Chi vuole- conservare la sua vita la deve perdere; ma chi la perderà per il mio nome e per il vangelo, la conserverà»; questa parola del Signore è la formula fondamentale della vita cristiana. La fede in ultima analisi non è niente altro che il dire di si a questa santa avventura del perdersi, e proprio qui, a partire dal suo nucleo profondo non è altro che amore autentico. La fede cristiana riceve quindi la sua forma determinante dalla croce di Gesù Cristo e l’apertura del cristiano al mondo, della quale oggi si sente tanto parlare, non può reperire il proprio modello altrove che nel fianco aperto del Signore, espressione di quell’amore radicale che solo può redimere. Dal corpo trafitto del crocifisso sono usciti sangue ed acqua. Ciò che in primo luogo è segno della sua morte, espressione del sul fallimento nell’abisso della morte, è nello stesso tempo un nuovo inizio: il crocifisso risorgerà e non morrà più… Dalla profondità della morte si innalza la promessa della vita eterna. Sulla croce di. Gesù Cristo brilla già sempre lo splendore vittorioso del mattino di Pasqua. Vive. re con lui a partire dalla croce significa quindi sempre vivere anche sotto la promessa della gioia pasquale.

Preghiera
Signore Gesù Cristo concedici in questo Venerdì santo di guardare a te, al tuo cuore. trafitto. Concedici che i nostri occhi e il nostro spirito, che ogni giorno si bagnano nella vanità e nella banalità, possano una volta, al di, là di tutti gli schermi di questo mondo, contemplare il vero Salvatore: te, seme di grano morto, dal quale è

germogliato il frutto centuplo dell’amore di cui tutti viviamo. O Signore, noi esitiamo a venire a te, opponiamo resistenza quando ci vuoi prendere come semi di grano, quando vuoi tirarci fuori dalla meschina difesa del nostro spirito di autoconservazione nel quale ci siamo rincantucciati mascherando la nostra pusillanimità con parole grosse. Ah, tu conosci la nostra debolezza, la nostra incapacità a far fronte alla minima oscurità, l’angoscia nella quale rimaniamo prigionieri di noi stessi. Facci liberi; portaci per mano fuori di noi stessi, oltre la soglia della nostra paura, e ciò di cui non siamo capaci possa essere il dono della ricchezza invitta del tuo cuore aperto. Amen.

Preghiera comune di intercessione

Preghiamo per la santa chiesa di Dio. Perché tu o Signore voglia guidarla in questo tempo di confusione, ricerca e domanda. Perché tu voglia inviarle uomini santi che vivano in mezzo al nostro tempo con la pienezza della loro fede. Perché tu ci voglia donare la concordia, la pazienza vicendevole, la forza portante dell’amore ed il coraggio per la santa stoltezza della fede…

Signore pietà!

Preghiamo per tutti coloro che sono alla ricerca, per tutti coloro che sono tentati o che sbagliano. Che in mezzo alla fuga seduttrice verso le parole fatte, in mezzo alla dittatura della via più facile, tu o Dio possa essere di aiuto a coloro che cercano, forza a coloro che sono tentati, sostegno nell’inutilità spaventosa che minaccia di opprimere coloro che si trovano consegnati fuori da se stessi; che tu possa essere luce nel dubbio che ci fa vacillare; che tu ti voglia mostrare agli erranti, ai persecutori che forse cercano ancora te in qualche maniera…

Signore pietà!

Preghiamo per la pace del mondo, per gli affamati, i perseguitati e gli ammalati. Considera o Signore la miseria orribile e molteplice che tiene prigionieri gli uomini; essi sono tuoi figli, non dimenticarli. Concedi la pace là dove essa manca, perché tu solo la puoi dare in mezzo all’indurimento spaventoso degli uomini. Dai il cibo agli affamati, copri gli ignudi, consola .gli afflitti, tu Dio di ogni consolazione.

Signore pietà!

Papa Benedetto in volo da Roma a Castelgandolfo (l’elicottero è passato sopra casa mia, ma non l’ho potuto vedere)

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dal quotidiano « La Repubblica »

UNA NOTIZIA INEDITA SU BENEDETTO XVI E SANTA CHIARA

http://www.zenit.org/it/articles/una-notizia-inedita-su-benedetto-xvi-e-santa-chiara

UNA NOTIZIA INEDITA SU BENEDETTO XVI E SANTA CHIARA

AL TERMINE DELL’UDIENZA GENERALE OGGI LA CONSEGNA AL SANTO PADRE DI COPIA DELLE FONTI CLARIANE

CITTA’ DEL VATICANO, 27 FEBBRAIO 2013 (ZENIT.ORG) PADRE PIETRO MESSA

La consueta udienza generale del mercoledì il 27 febbraio ha assunto un significato che a ragione si può dire storico: infatti è l’ultimo appuntamento pubblico in Piazza San Pietro di Benedetto XVI come Vescovo di Roma, Successore di san Pietro, ossia Papa.
Per una felice coincidenza in tale occasione – in seguito ad una richiesta accolta dalla Prefettura della Casa Pontificia prima ancora dell’annuncio delle sue dimissioni – è stata programmata al termine dell’udienza la consegna personale a Benedetto XVI di copia delle Fonti Clariane pubblicate a cura del frate minore padre Giovanni Boccali presso le Edizioni Porziuncola di Assisi. Comprensibilmente, a motivo dell’eccezionale affluenza, il dono è stato portato direttamente al Palazzo Apostolico.
Certamente papa Benedetto XVI apprezza tale dono e si può essere certi che sarà tra i libri che porterà con sé nei prossimi anni, anche a motivo della sua affezione a santa Chiara. Ad Assisi ancora ricordano quando nella Domenica delle Palme del 2003 – aprendo il 750° Centenario della morte dell’Assisiate (1253-2003) – parlando a braccio citò in modo preciso e appropriato brani degli scritti e delle agiografie di Chiara d’Assisi, mostrando una conoscenza personale di tali fonti.
L’affezione alla Santa d’Assisi l’ha mostrata anche durante il suo pontificato, come provano gli interventi a lei dedicati. Papa Benedetto XVI ha mostrato nelle sue catechesi come, contrariamente a quanto spesso si afferma, nella storia della Chiesa vi sono numerose donne che hanno avuto un ruolo di primaria importanza. Tra queste certamente figura santa Chiara d’Assisi: infatti, come si può vedere nelle Fonti Clariane appena edite, la sua corrispondenza con Agnese di Praga è uno dei casi più unici che rari di corrispondenza femminile medievale a noi giunto. Inoltre la sua Regola confermata da papa Innocenzo IV è il primo caso di una regola per donne, per di più opera di una donna. Anche una delle sue biografie è scritta da una donna, suor Battista Alfani, una clarissa del secolo XV che ha anche tradotto in italiano con estremo rigore filologico il Processo di canonizzazione di Chiara d’Assisi.
Proprio i rapporti con il papato sono un tratto caratterizzante la vita di santa Chiara d’Assisi, tanto che avendo ricevuto la visita di Innocenzo IV due giorni prima di morire, con le lacrime agli occhi invita le sorelle a lodare il Signore perché le aveva concesso non solo di riceverlo nell’Eucaristia, ma anche di “vedere il suo vicario”.
Veramente un segno provvidenziale che proprio al termine del suo pontificato vengano donate a Benedetto XVI copia delle Fonti Clariane, espressione di gratitudine per il suo apporto alla conoscenza della Santa d’Assisi, ma anche augurio che Chiara lo accompagni nel suo cammino e segno dell’affetto e della preghiera con cui il mondo francescano e clariano vuole accompagnarlo.

SAN PIETRO « IN FIAMME » PER LA GIOIA DEI FEDELI

http://www.zenit.org/article-33155?l=italian

SAN PIETRO « IN FIAMME » PER LA GIOIA DEI FEDELI

Come 50 anni fa per l’apertura del Concilio, ieri 40.000 fedeli hanno affollato la piazza della Basilica vaticana per celebrare l’avvio dell’Anno della Fede con una grande fiaccolata organizzata dall’Azione Cattolica Italiana

di Salvatore Cernuzio

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 12 ottobre 2012 (ZENIT.org) – Come in un film dove la scena in bianco e nero diventa a colori, così, ieri sera, San Pietro è tornata indietro nel tempo rivivendo la suggestiva fiaccolata che l’11 ottobre 1962 illuminava tutta la sua piazza.
Cinquanta anni fa, l’Azione Cattolica italiana organizzava, infatti, una grande processione per solennizzare, insieme a papa Giovanni XXIII, l’apertura del Concilio Vaticano II. Oggi, sempre l’Azione Cattolica ha riproposto lo stesso evento per far sentire a Benedetto XVI l’affetto del popolo di Dio e l’incoraggiamento per questo Anno della Fede appena inaugurato.
40.000 fedeli ieri, partendo nel tardo pomeriggio da Castel Sant’Angelo, hanno “infiammato” piazza San Pietro e via della Conciliazione, tenendo accese non solo le fiammelle, ma anche la loro gioia e la loro speranza. Giovani provenienti dalle ACR di tutta Italia, laici, consacrati, associazioni, movimenti, uomini e donne della politica, hanno marciato verso la finestra del Pontefice, al seguito dei vescovi partecipanti al Sinodo per la Nuova Evangelizzazione in corso, intonando canti e leggendo passi della Scrittura o delle encicliche conciliari.
“Credo sia molto significativo che tante persone siano qui a ricordare l’evento più importante degli ultimi 50 anni, non solo per la Chiesa ma per il mondo”, ha dichiarato a Zenit l’on. Rosy Bindi, presidente del Partito Democratico e vicepresidente della Camera dei Deputati, presente alla manifestazione.
“Il Vaticano II è stato per la mia generazione il progetto di formazione delle coscienze e di impegno nel mondo – ha detto -. Per questo mi auguro che lo spirito del Concilio sia rinnovato nella Chiesa di oggi e che possa rappresentare una straordinaria occasione per tornare a parlare di Dio e toccare l’intelligenza dell’uomo contemporaneo, in modo da trasformare il mondo come sempre accade quando la parola entra nella storia”.
Ad accogliere la folla nella piazza della Basilica vaticana, il cardinale Agostino Vallini, vicario di Sua Santità per la diocesi di Roma, che ha ricordato l’emozione della memorabile serata di mezzo secolo fa, dove “la luna brillava nel cielo e invitava a guardare in alto per attendere una nuova aurora che il Concilio faceva sperare per la Chiesa e per il mondo”.
È seguito l’intervento di Franco Miano, presidente dell’ACI, e la visione dello storico filmato su quello che si può considerare il momento cruciale della sera dell’ottobre 1962: papa Roncalli che, sorpreso dallo scenario sotto la finestra del suo studio, si affacciò emozionato improvvisando il celebre discorso rimasto alla storia come “il discorso alla luna”.
Tra gli applausi generali, proprio mentre il Coro della Diocesi di Roma intonava l’Inno dell’Anno della Fede, alle 21.00 la finestra del Palazzo Apostolico si è spalancata. Richiamato dalle urla gioiose “w il Papa” e “ti vogliamo bene”, il Santo Padre è apparso alla finestra del suo studio, per pronunciare un discorso breve, carico di emozione, ma anche di espressioni e di memorie particolarmente forti.
“Anch’io ero in piazza l’11 ottobre del ’62”, ha esordito il Pontefice, ricordando la gioia personale e collettiva dell’inizio del Concilio “in cui eravamo sicuri che si apriva una nuova primavera per la Chiesa. Una nuova Pentecoste, con una presenza forte della grazia liberatrice del Vangelo”.
In questi 50 anni – ha raccontato – accanto ad “una gioia più sobria, una gioia umile”, si è accompagnata la coscienza “che il peccato originale esiste e si traduce sempre di nuovo in peccati personali, che possono anche divenire strutture di peccato”.
“Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania – è la dura constatazione del Pontefice -. Abbiamo visto che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa”. “Qualche volta abbiamo pensato: il Signore dorme e ci ha dimenticato” ha confidato con grande umanità il Papa.
Tuttavia “la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave”. Accanto alla tribolazione, però, c’è sempre la consolazione.
La fede in Dio va oltre le debolezze umane, ha affermato il Papa, spiegando che negli anni dal Concilio fino ad oggi: “Abbiamo avuto anche una nuova esperienza della presenza del Signore, della Sua bontà, della Sua forza. Abbiamo visto che il Signore non ci dimentica, anche oggi, a Suo modo, umile. Il Signore è presente e dà calore ai cuori”.
In conclusione, un richiamo alle “indimenticabili” parole di Giovanni XXIII: “Andate a casa, date un bacio ai vostri bambini e dite che è del Papa”. Parole “piene di poesia, di bontà, parole del cuore” secondo Benedetto XVI, che per questo ha “osato” fare sue, inviando un bacio a tutti i presenti.
“Il saluto con il bacio finale mostrava davvero un’emozione particolare da parte del Papa – ha commentato a Zenit l’assessore alle politiche familiari del Comune di Roma, Gianluigi De Palo -. Conoscendo la riservatezza del Santo Padre, è evidente che abbia avvertito un grande affetto nei suoi confronti. E ha voluto ricambiarlo! Credo che sia un segnale davvero importante”.
D’accordo anche mons. Domenico Sigalini, assistente ecclesiale dell’Azione Cattolica Italiana, che ha dichiarato alla nostra agenzia: “Io penso che Benedetto XVI abbia sentito veramente del calore intorno a lui. Un calore che non veniva solo dalle fiaccole ma dal cuore dei giovani e della gente semplice riunita qui. Il Santo Padre è un professore, una persona di studio molto dignitosa, ma non ha resistito a questo affetto”.

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