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PAPA BENEDETTO: « DIO NON SI È CHIUSO NEL SUO CIELO » (omelia agli studenti)

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« DIO NON SI È CHIUSO NEL SUO CIELO »

Omelia tenuta ieri dal Papa durante i primi Vespri con gli studenti degli atenei romani

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 2 dicembre 2012 (ZENIT.org).– Riprendiamo di seguito l’omelia tenuta ieri sera nella basilica vaticana da papa Benedetto XVI durante i primi Vespri della prima domenica di Avvento con gli Universitari degli Atenei Romani e delle Università Pontificie in Roma, per l’inizio dell’Anno Accademico.
***
«Colui che vi chiama è fedele» (1 Ts 5,24).
Cari amici universitari,
le parole dell’Apostolo Paolo ci guidano a cogliere il vero significato dell’Anno liturgico, che questa sera iniziamo insieme con la recita dei Primi Vespri di Avvento. L’intero cammino dell’anno della Chiesa è orientato a scoprire e a vivere la fedeltà del Dio di Gesù Cristo che nella grotta di Betlemme si presenterà a noi, ancora una volta, nel volto di un bambino. Tutta la storia della salvezza è un percorso di amore, di misericordia e di benevolenza: dalla creazione alla liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto, dal dono della Legge sul Sinai al ritorno in patria dalla schiavitù babilonese. Il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe è stato sempre il Dio vicino, che non ha mai abbandonato il suo popolo. Più volte ne ha subito con tristezza l’infedeltà e atteso con pazienza il ritorno, sempre nella libertà di un amore che precede e sostiene l’amato, attento alla sua dignità e alle sue attese più profonde.
Dio non si è chiuso nel suo Cielo, ma si è chinato sulle vicende dell’uomo: un mistero grande che giunge a superare ogni possibile attesa. Dio entra nel tempo dell’uomo nel modo più impensato: facendosi bambino e percorrendo le tappe della vita umana, affinché tutta la nostra esistenza, spirito, anima e corpo – come ci ha ricordato san Paolo – possa conservarsi irreprensibile ed essere elevata alle altezze di Dio. E tutto questo lo fa per il suo amore fedele verso l’umanità. L’amore quando è vero tende per sua natura al bene dell’altro, al maggior bene possibile, e non si limita a rispettare semplicemente gli impegni di amicizia assunti, ma va oltre, senza calcolo, né misura. E’ proprio ciò che ha compiuto il Dio vivo e vero, il cui mistero profondo ci viene rivelato nelle parole di san Giovanni: «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16). Questo Dio in Gesù di Nazaret assume in sé l’intera umanità, l’intera storia dell’umanità, e le dà una svolta nuova, decisiva, verso un nuovo essere persona umana, caratterizzato dall’essere generato da Dio e dal tendere verso di Lui (cfr L’Infanzia di Gesù, Rizzoli-LEV 2012, p. 19).
Cari giovani, illustri Rettori e Professori, è per me motivo di grande gioia condividere queste riflessioni con voi che qui rappresentate il mondo universitario romano, nel quale confluiscono, pur nelle loro specifiche identità, le Università statali e private di Roma e le Istituzioni pontificie, che da tanti anni camminano insieme dando viva testimonianza di un fecondo dialogo e di collaborazione tra i diversi saperi e la teologia. Saluto e ringrazio il Cardinale Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, il Rettore dell’Università di Roma « Foro Italico » e la vostra rappresentante, per le parole che mi hanno rivolto a nome di tutti. Saluto con viva cordialità il Cardinale Vicario e il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, come pure le diverse autorità accademiche presenti.
Con speciale affetto saluto voi, cari giovani universitari degli Atenei romani, che avete rinnovato la vostra professione di fede sulla Tomba dell’apostolo Pietro. Voi state vivendo il tempo della preparazione alle grandi scelte della vostra vita e al servizio nella Chiesa e nella società. Questa sera potete sperimentare che non siete soli: sono con voi i docenti, i cappellani universitari, gli animatori dei collegi. E’ con voi il Papa! E, soprattutto, siete inseriti nella grande comunità accademica romana, in cui è possibile camminare nella preghiera, nella ricerca, nel confronto, nella testimonianza per il Vangelo. E’ un dono prezioso per la vostra vita; sappiatelo vedere come un segno della fedeltà di Dio, che vi offre occasioni per conformare la vostra esistenza a quella di Cristo, per lasciarvi santificare da Lui fino alla perfezione (cfr 1 Ts 5,23). L’anno liturgico che iniziamo con questi Vespri sarà anche per voi il cammino in cui ancora una volta rivivere il mistero di questa fedeltà di Dio, sulla quale siete chiamati a fondare, come su una roccia sicura, la vostra vita. Celebrando e vivendo con tutta la Chiesa questo itinerario di fede, sperimenterete che Gesù Cristo è l’unico Signore del cosmo e della storia, senza il quale ogni costruzione umana rischia di vanificarsi nel nulla. La liturgia, vissuta nel suo vero spirito, è sempre la scuola fondamentale per vivere la fede cristiana, una fede «teologale», che vi coinvolge in tutto il vostro essere – spirito, anima e corpo – per farvi diventare pietre vive nella costruzione della Chiesa e collaboratori della nuova evangelizzazione. In modo particolare, nell’Eucaristia, il Dio vivente si rende così vicino, da farsi cibo che sostiene il cammino, presenza che trasforma col fuoco del suo amore.
Cari amici, viviamo in un contesto in cui spesso incontriamo l’indifferenza verso Dio. Ma penso che nel profondo di quanti – anche tra i vostri coetanei – vivono la lontananza da Dio, ci sia una interiore nostalgia di infinito, di trascendenza. A voi il compito di testimoniare nelle aule universitarie il Dio vicino, che si manifesta anche nella ricerca della verità, anima di ogni impegno intellettuale. A tale proposito esprimo il mio compiacimento e il mio incoraggiamento per il programma di pastorale universitaria dal titolo: «Il Padre lo vide da lontano. L’oggi dell’uomo, l’oggi di Dio», proposto dall’Ufficio di pastorale universitaria del Vicariato di Roma. La fede è la porta che Dio apre nella nostra vita per condurci all’incontro con Cristo, nel quale l’oggi dell’uomo si incontra con l’oggi di Dio. La fede cristiana non è adesione ad un dio generico o indefinito, ma al Dio vivo che in Gesù Cristo, Verbo fatto carne, è entrato nella nostra storia e si è rivelato come il Redentore dell’uomo. Credere significa affidare la propria vita a Colui che solo può darle pienezza nel tempo e aprirla ad una speranza oltre il tempo.
Riflettere sulla fede, in quest’Anno della fede, è l’invito che desidero rivolgere a tutta la comunità accademica di Roma. Il continuo dialogo tra le Università statali o private e quelle pontificie lascia sperare in una presenza sempre più significativa della Chiesa nell’ambito della cultura non solo romana, ma italiana ed internazionale. Le Settimane culturali e il Simposio internazionale dei docenti che si svolgerà a giugno prossimo, saranno un esempio di questa esperienza, che spero possa realizzarsi in tutte le città universitarie dove sono presenti atenei statali, privati e pontifici.
Cari amici, «colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo» (1 Ts 5,24); farà di voi annunciatori della sua presenza. Nella preghiera di questa sera incamminiamoci idealmente verso la grotta di Betlemme per gustare la vera gioia del Natale: la gioia di accogliere al centro della nostra vita, sull’esempio della Vergine Maria e di san Giuseppe, quel Bambino che ci ricorda che gli occhi di Dio sono aperti sul mondo e su ogni uomo (cfr Zc 12,4). Gli occhi di Dio sono aperti su di noi perché Lui è fedele al suo amore! Solo questa certezza può condurre l’umanità verso traguardi di pace e di prosperità, in questo momento storico delicato e complesso. Anche la prossima Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro sarà per voi giovani universitari una grande occasione per manifestare la fecondità storica della fedeltà di Dio, offrendo la vostra testimonianza e il vostro impegno per il rinnovamento morale e sociale del mondo. La consegna dell’Icona di Maria Sedes Sapientiae alla delegazione universitaria brasiliana da parte della Cappellania universitaria di Roma Tre, che quest’anno celebra il suo ventennale, è un segno di questo comune impegno di voi giovani universitari di Roma.
A Maria, Sede della Sapienza, affido tutti voi e i vostri cari; lo studio, l’insegnamento, la vita degli Atenei; specialmente l’itinerario di formazione e di testimonianza in questo Anno della fede. Le lampade che porterete nelle vostre cappellanie siano sempre alimentate dalla vostra fede umile ma piena di adorazione, perché ciascuno di voi sia una luce di speranza e di pace nell’ambiente universitario.
Amen.

Publié dans:PAPA BENEDETTO: OMELIE |on 3 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

10 novembre: San Leone Magno – di Papa Benedetto XVI

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080305_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 5 marzo 2008

San Leone Magno

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo il nostro cammino tra i Padri della Chiesa, veri astri che brillano da lontano, nel nostro incontro di oggi ci accostiamo alla figura di un Papa, che nel 1754 fu proclamato da Benedetto XIV Dottore della Chiesa: si tratta di san Leone Magno. Come indica l’appellativo presto attribuitogli dalla tradizione, egli fu davvero uno dei più grandi Pontefici che abbiano onorato la Sede romana, contribuendo moltissimo a rafforzarne l’autorità e il prestigio. Primo Vescovo di Roma a portare il nome di Leone, adottato in seguito da altri dodici Sommi Pontefici, è anche il primo Papa di cui ci sia giunta la predicazione, da lui rivolta al popolo che gli si stringeva attorno durante le celebrazioni. E’ spontaneo pensare a lui anche nel contesto delle attuali udienze generali del mercoledì, appuntamenti che negli ultimi decenni sono divenuti per il Vescovo di Roma una forma consueta di incontro con i fedeli e con tanti visitatori provenienti da ogni parte del mondo.
Leone era originario della Tuscia. Divenne diacono della Chiesa di Roma intorno all’anno 430, e col tempo acquistò in essa una posizione di grande rilievo. Questo ruolo di spicco indusse nel 440 Galla Placidia, che in quel momento reggeva l’Impero d’Occidente, a inviarlo in Gallia per sanare una difficile situazione. Ma nell’estate di quell’anno il Papa Sisto III – il cui nome è legato ai magnifici mosaici di Santa Maria Maggiore – morì, e a succedergli fu eletto proprio Leone, che ne ricevette la notizia mentre stava appunto svolgendo la sua missione di pace in Gallia. Rientrato a Roma, il nuovo Papa fu consacrato il 29 settembre del 440. Iniziava così il suo pontificato, che durò oltre ventun anni, e che è stato senza dubbio uno dei più importanti nella storia della Chiesa. Alla sua morte, il 10 novembre del 461, il Papa fu sepolto presso la tomba di san Pietro. Le sue reliquie sono custodite anche oggi in uno degli altari della Basilica vaticana.
Quelli in cui visse Papa Leone erano tempi molto difficili: il ripetersi delle invasioni barbariche, il progressivo indebolirsi in Occidente dell’autorità imperiale e una lunga crisi sociale avevano imposto al Vescovo di Roma – come sarebbe accaduto con evidenza ancora maggiore un secolo e mezzo più tardi, durante il pontificato di Gregorio Magno – di assumere un ruolo rilevante anche nelle vicende civili e politiche. Ciò non mancò, ovviamente, di accrescere l’importanza e il prestigio della Sede romana. Celebre è rimasto soprattutto un episodio della vita di Leone. Esso risale al 452, quando il Papa a Mantova, insieme a una delegazione romana, incontrò Attila, capo degli Unni, e lo dissuase dal proseguire la guerra d’invasione con la quale già aveva devastato le regioni nordorientali dell’Italia. E così salvò il resto della Penisola. Questo importante avvenimento divenne presto memorabile, e rimane come un segno emblematico dell’azione di pace svolta dal Pontefice. Non altrettanto positivo fu purtroppo, tre anni dopo, l’esito di un’altra iniziativa papale, segno comunque di un coraggio che ancora ci stupisce: nella primavera del 455 Leone non riuscì infatti a impedire che i Vandali di Genserico, giunti alle porte di Roma, invadessero la città indifesa, che fu saccheggiata per due settimane. Tuttavia il gesto del Papa – che, inerme e circondato dal suo clero, andò incontro all’invasore per scongiurarlo di fermarsi – impedì almeno che Roma fosse incendiata e ottenne che dal terribile sacco fossero risparmiate le Basiliche di San Pietro, di San Paolo e di San Giovanni, nelle quali si rifugiò parte della popolazione terrorizzata.
Conosciamo bene l’azione di Papa Leone, grazie ai suoi bellissimi sermoni – ne sono conservati quasi cento in uno splendido e chiaro latino – e grazie alle sue lettere, circa centocinquanta. In questi testi il Pontefice appare in tutta la sua grandezza, rivolto al servizio della verità nella carità, attraverso un esercizio assiduo della parola, che lo mostra nello stesso tempo teologo e pastore. Leone Magno, costantemente sollecito dei suoi fedeli e del popolo di Roma, ma anche della comunione tra le diverse Chiese e delle loro necessità, fu sostenitore e promotore instancabile del primato romano, proponendosi come autentico erede dell’apostolo Pietro: di questo si mostrarono ben consapevoli i numerosi Vescovi, in gran parte orientali, riuniti nel Concilio di Calcedonia.
Tenutosi nell’anno 451, con i trecentocinquanta  Vescovi che vi parteciparono, questo Concilio fu la più importante assemblea fino ad allora celebrata nella storia della Chiesa. Calcedonia rappresenta il traguardo sicuro della cristologia dei tre Concili ecumenici precedenti: quello di Nicea del 325, quello di Costantinopoli del 381 e quello di Efeso del 431. Già nel VI secolo questi quattro Concili, che riassumono la fede della Chiesa antica, vennero infatti paragonati ai quattro Vangeli: è quanto afferma Gregorio Magno in una famosa lettera (I,24), in cui dichiara “di accogliere e venerare, come i quattro libri del santo Vangelo, i quattro Concili”, perché su di essi – spiega ancora Gregorio – “come su una pietra quadrata si leva la struttura della santa fede”. Il Concilio di Calcedonia – nel respingere l’eresia di Eutiche, che negava la vera natura umana del Figlio di Dio – affermò l’unione nella sua unica Persona, senza confusione e senza separazione, delle due nature umana e divina.
Questa fede in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo veniva affermata dal Papa in un importante testo dottrinale indirizzato al Vescovo di Costantinopoli, il cosiddetto Tomo a Flaviano, che, letto a Calcedonia, fu accolto dai Vescovi presenti con un’eloquente acclamazione, della quale è conservata notizia negli atti del Concilio: “Pietro ha parlato per bocca di Leone”, proruppero a una voce sola i Padri conciliari. Soprattutto da questo intervento, e da altri compiuti durante la controversia cristologica di quegli anni, risulta con evidenza come il Papa avvertisse con particolare urgenza le responsabilità del Successore di Pietro, il cui ruolo è unico nella Chiesa, perché “a un solo apostolo è affidato ciò che a tutti gli apostoli è comunicato”, come afferma Leone in uno dei suoi sermoni per la festa dei santi Pietro e Paolo (83,2). E queste responsabilità il Pontefice seppe esercitare, in Occidente come in Oriente, intervenendo in diverse circostanze con prudenza, fermezza e lucidità attraverso i suoi scritti e mediante i suoi legati. Mostrava in questo modo come l’esercizio del primato romano fosse necessario allora, come lo è oggi, per servire efficacemente la comunione, caratteristica dell’unica Chiesa di Cristo.
Consapevole del momento storico in cui viveva e del passaggio che stava avvenendo – in un periodo di profonda crisi – dalla Roma pagana a quella cristiana, Leone Magno seppe essere vicino al popolo e ai fedeli con l’azione pastorale e la predicazione. Animò la carità in una Roma provata dalle carestie, dall’afflusso dei profughi, dalle ingiustizie e dalla povertà. Contrastò le superstizioni pagane e l’azione dei gruppi manichei. Legò la liturgia alla vita quotidiana dei cristiani: per esempio, unendo la pratica del digiuno alla carità e all’elemosina soprattutto in occasione delle Quattro tempora, che segnano nel corso dell’anno il cambiamento delle stagioni. In particolare Leone Magno insegnò ai suoi fedeli – e ancora oggi le sue parole valgono per noi – che la liturgia cristiana non è il ricordo di avvenimenti passati, ma l’attualizzazione di realtà invisibili che agiscono nella vita di ognuno. E’ quanto egli sottolinea in un sermone (64,1-2) a proposito della Pasqua, da celebrare in ogni tempo dell’anno “non tanto come qualcosa di passato, quanto piuttosto come un evento del presente”. Tutto questo rientra in un progetto preciso, insiste il santo Pontefice: come infatti il Creatore ha animato con il soffio della vita razionale l’uomo plasmato dal fango della terra, così, dopo il peccato d’origine, ha inviato il suo Figlio nel mondo per restituire all’uomo la dignità perduta e distruggere il dominio del diavolo mediante la vita nuova della grazia.
È questo il mistero cristologico al quale san Leone Magno, con la sua lettera al Concilio di Calcedonia, ha dato un contributo efficace ed essenziale, confermando per tutti i tempi — tramite tale Concilio — quanto disse san Pietro a Cesarea di Filippo. Con Pietro e come Pietro confessò: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E perciò Dio e Uomo insieme, “non estraneo al genere umano, ma alieno dal peccato” (cfr Serm. 64). Nella forza di questa fede cristologica egli fu un grande portatore di pace e di amore. Ci mostra così la via: nella fede impariamo la carità. Impariamo quindi con san Leone Magno a credere in Cristo, vero Dio e  vero Uomo, e a realizzare questa fede ogni giorno nell’azione per la pace e nell’amore per il prossimo.

BENEDETTO XVI (2011): SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL’ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2011/documents/hf_ben-xvi_hom_20110815_assunzione_it.html

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL’ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Parrocchia di San Tommaso da Villanova, Castel Gandolfo

15 agosto 2011

Cari fratelli e sorelle,

ci ritroviamo riuniti, ancora una volta, a celebrare una delle più antiche e amate feste dedicate a Maria Santissima: la festa della sua assunzione alla gloria del Cielo in anima e corpo, cioè in tutto il suo essere umano, nell’integrità della sua persona. Ci è data così la grazia di rinnovare il nostro amore a Maria, di ammirarla e di lodarla per le “grandi cose” che l’Onnipotente ha fatto per Lei e che ha operato in Lei.
Nel contemplare la Vergine Maria ci è data un’altra grazia: quella di poter vedere in profondità anche la nostra vita. Sì, perché anche la nostra esistenza quotidiana, con i suoi problemi e le sue speranze, riceve luce dalla Madre di Dio, dal suo percorso spirituale, dal suo destino di gloria: un cammino e una meta che possono e devono diventare, in qualche modo, il nostro stesso cammino e la nostra stessa meta. Ci lasciamo guidare dai brani della Sacra Scrittura che la liturgia oggi ci propone. Vorrei soffermarmi, in particolare, su un’immagine che troviamo nella prima lettura, tratta dall’Apocalisse, e alla quale fa eco il vangelo di Luca: cioè, quella dell’arca.
Nella prima lettura, abbiamo ascoltato: “Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza” (Ap 11,19). Qual è il significato dell’arca? Che cosa appare? Per l’Antico Testamento, essa è il simbolo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Ma ormai il simbolo ha ceduto il posto alla realtà. Così il Nuovo Testamento ci dice che la vera arca dell’alleanza è una persona viva e concreta: è la Vergine Maria. Dio non abita in un mobile, Dio abita in una persona, in un cuore: Maria, Colei che ha portato nel suo grembo il Figlio eterno di Dio fatto uomo, Gesù nostro Signore e Salvatore. Nell’arca – come sappiamo – erano conservate le due tavole della legge di Mosè, che manifestavano la volontà di Dio di mantenere l’alleanza con il suo popolo, indicandone le condizioni per essere fedeli al patto di Dio, per conformarsi alla volontà di Dio e così anche alla nostra verità profonda. Maria è l’arca dell’alleanza, perché ha accolto in sé Gesù; ha accolto in sé la Parola vivente, tutto il contenuto della volontà di Dio, della verità di Dio; ha accolto in sé Colui che è la nuova ed eterna alleanza, culminata con l’offerta del suo corpo e del suo sangue: corpo e sangue ricevuti da Maria. A ragione, dunque, la pietà cristiana, nelle litanie in onore della Madonna, si rivolge a Lei invocandola come Foederis Arca, ossia “arca dell’alleanza”, arca della presenza di Dio, arca dell’alleanza d’amore che Dio ha voluto stringere in modo definitivo con tutta l’umanità in Cristo.
Il brano dell’Apocalisse vuole indicare un altro aspetto importante della realtà di Maria. Ella, arca vivente dell’alleanza, ha un destino di gloria straordinaria, perché è così strettamente unita al Figlio che ha accolto nella fede e generato nella carne, da condividerne pienamente la gloria del cielo. E’ quanto ci suggeriscono le parole ascoltate: “Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta… Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni…” (12,1-2; 5). La grandezza di Maria, Madre di Dio, piena di grazia, pienamente docile all’azione dello Spirito Santo, vive già nel Cielo di Dio con tutta se stessa, anima e corpo. San Giovanni Damasceno riferendosi a questo mistero in una famosa Omelia afferma: “Oggi la santa e unica Vergine è condotta al tempio celeste … Oggi l’arca sacra e animata del Dio Vivente, [l’arca] che ha portato in grembo il proprio Artefice, si riposa nel tempio del Signore, non costruito da mano d’uomo” (Omelia II sulla Dormizione, 2, PG 96, 723) e continua: “Bisognava che colei che aveva ospitato nel suo grembo il Logos divino, si trasferisse nei tabernacoli del Figlio suo … Bisognava che la Sposa che il Padre si era scelta, abitasse nella stanza nuziale del Cielo” (ibid., 14, PG 96, 742). Oggi la Chiesa canta l’amore immenso di Dio per questa sua creatura: l’ha scelta come vera “arca dell’alleanza”, come Colei che continua a generare e a donare Cristo Salvatore all’umanità, come Colei che in cielo condivide la pienezza della gloria e gode della felicità stessa di Dio e, nello stesso tempo, invita anche noi a divenire, nel nostro modo modesto, “arca” nella quale è presente la Parola di Dio, che è trasformata e vivificata dalla sua presenza, luogo della presenza di Dio, affinché gli uomini possano incontrare nell’altro uomo la vicinanza di Dio e così vivere in comunione con Dio e conoscere la realtà del Cielo.
Il vangelo di Luca appena ascoltato (cfr Lc 1,39-56), ci mostra quest’arca vivente, che è Maria, in movimento: lasciata la sua casa di Nazaret, Maria si mette in viaggio verso la montagna per raggiungere in fretta una città di Giuda e recarsi nella casa di Zaccaria e di Elisabetta. Mi sembra importante sottolineare l’espressione “in fretta”: le cose di Dio meritano fretta, anzi le uniche cose del mondo che meritano fretta sono proprio quelle di Dio, che hanno la vera urgenza per la nostra vita. Allora Maria entra in questa casa di Zaccaria e di Elisabetta, ma non entra sola. Vi entra portando in grembo il figlio, che è Dio stesso fatto uomo. Certamente c’era attesa di lei e del suo aiuto in quella casa, ma l’evangelista ci guida a comprendere che questa attesa rimanda ad un’altra, più profonda. Zaccaria, Elisabetta e il piccolo Giovanni Battista sono, infatti, il simbolo di tutti i giusti di Israele, il cui cuore, ricco di speranza, attende la venuta del Messia salvatore. Ed è lo Spirito Santo ad aprire gli occhi di Elisabetta e a farle riconoscere in Maria la vera arca dell’alleanza, la Madre di Dio, che viene a visitarla. E così l’anziana parente l’accoglie dicendole “a gran voce”: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?” (Lc 1,42-43). Ed è lo stesso Spirito Santo che davanti a Colei che porta il Dio fattosi uomo, apre il cuore di Giovanni Battista nel grembo di Elisabetta. Elisabetta, esclama: “Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo” (v. 44). Qui l’evangelista Luca usa il termine “skirtan”, cioè “saltellare”, lo stesso termine che troviamo in una delle antiche traduzioni greche dell’Antico Testamento per descrivere la danza del Re Davide davanti all’arca santa che è tornata finalmente in patria (2Sam 6,16). Giovanni Battista nel grembo della madre danza davanti all’arca dell’Alleanza, come Davide; e riconosce così: Maria è la nuova arca dell’alleanza, davanti alla quale il cuore esulta di gioia, la Madre di Dio presente nel mondo, che non tiene per sé questa divina presenza, ma la offre condividendo la grazia di Dio. E così – come dice la preghiera – Maria realmente è “causa nostrae laetitiae”, l’”arca” nella quale realmente il Salvatore è presente tra di noi.
Cari fratelli! Stiamo parlando di Maria, ma, in un certo senso, stiamo parlando anche di noi, di ciascuno di noi: anche noi siamo destinatari di quell’amore immenso che Dio ha riservato – certo, in una maniera assolutamente unica e irripetibile – a Maria. In questa Solennità dell’Assunzione guardiamo a Maria: Ella ci apre alla speranza, ad un futuro pieno di gioia e ci insegna la via per raggiungerlo: accogliere nella fede, il suo Figlio; non perdere mai l’amicizia con Lui, ma lasciarci illuminare e guidare dalla sua parola; seguirlo ogni giorno, anche nei momenti in cui sentiamo che le nostre croci si fanno pesanti. Maria, l’arca dell’alleanza che sta nel santuario del Cielo, ci indica con luminosa chiarezza che siamo in cammino verso la nostra vera Casa, la comunione di gioia e di pace con Dio. Amen!

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