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PAPA BENEDETTO XVI/JOSEPH RATZINGER: 2. Alleanza ed alleanze nell’Apostolo Paolo

PAPA BENEDETTO XVI/JOSEPH RATZINGER

stralcio dal libro: La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, (MI) 2000;

stralcio dal capitolo II: La Nuova Alleanza; Sulla teologia dell’alleanza nel Nuovo Testamento;

pagg. 31-34;

(metto solo le note che sono esplicative del testo, le altre, spesso in tedesco, mi sembrano un sovrappiù per un testo su un Blog)

2. Alleanza ed alleanze nell’Apostolo Paolo

In Paolo risalta anzitutto la decisa sottolineatura dell’alleanza instaurata da Cristo rispetto all’alleanza mosaica. Ed è questa sottolineatura che caratterizza generalmente la differenza tra “antica” e “nuova” alleanza. La contrapposizione più netta tra i due Testamenti si trova in 2Cor 3, 4-18 e in Gal 4, 21-31. Mentre l’espressione “nuova alleanza” deriva dalle promesse profetiche (Ger 31,31) e lega pertanto tra loro le due parti della Bibbia, l’espressione “antica alleanza” si trova solo in 2Cor 3,14; la lettera agli Ebrei parla invece di “prima alleanza” (9,15) e chiama la nuova alleanza – oltre che con questa definizione classica – anche alleanza “eonica”, cioè “eterna” (13,20), con una terminologia che è ripresa dal canone romano nel racconto dell’istituzione, laddove si parla di “nuova ed eterna alleanza”.

Alleanza di Cristo e alleanza mosaica

Nella seconda lettera ai Corinzi Paolo pone in netta antitesi l’alleanza instaurata da Cristo e quella di Mosè, definendo quest’ultima transitoria e la prima permanente. Caratteristica dell’alleanza mosaica appare quindi la sua transitorietà, che Paolo vede rappresentata nelle tavole di pietra. La pietra è l’espressione della morte e che resta chiuso nell’ambito della legge di pietra, resta nell’ambito della morte.

Con ciò Paolo pensava certo alla profezia di Geremia, secondo cui nella nuova alleanza la legge sarà scritta nel cuore come pure alle parole di Ezechiele, secondo cui il cuore di Pietra sarà sostituito da un cuore di carne.

Se nel testo si mette anzitutto in evidenza la transitorietà dell’alleanza mosaica, la sua caducità, si finisce per trovarsi di fronte a una prospettiva nuova e diversa. A chi volge il proprio sguardo al Signore è tolto il velo dal cuore e può quindi vedere lo splendore interiore, la luce pneumatica nella Legge e interpretarla quindi nella maniera giusta.

Qui e diverse altre volte in Paolo il cambiamento di immagini che possiamo constatare non rende molto chiaro il senso delle sue affermazioni, ma nell’immagine del velo tolto l’idea della provvisorietà della Legge appare comunque modificata: dove il velo cade dal cuore, viene alla luce ciò che della Legge è più autentico e definitivo; essa ste4ssa diviene Spirito e finisce per identificarsi con il nuovo ordine di vita che nasce dallo Spirito.

Alleanza con Noè, con Abramo, con Giacobbe-Israele

La rigida antitesi tra le due alleanze, l’antica e la nuova, sviluppata da Paolo nel terzo capitolo della seconda lettera ai Corinzi ha da allora segnato profondamente il pensiero cristiano, e in ciò si è prestata scarsa attenzione al sottile rapporto di lettera e Spirito che si annuncia nell’immagine del velo. Soprattutto, però, si è dimenticato che in altri passi paolini il dramma della storia di Dio con gli uomini è presentato in modo molto più articolato.

Nell’elogio di Israele fatto da Paolo nel nono capitolo della Lettera ai Romani, tra i doni che Dio ha elargito al suo popolo figura anche questo: sue sono le “alleanze”, i patti che Dio ha concluso con lui. Il termine “alleanza” appare qui al plurale, conformemente alla tradizione sapienziale (Rm 9,4). E in effetti l’Antico Testamento conosce tre alleanze: il sabato, l’arcobaleno, la circoncisione; esse corrispondono ai tre gradi dell’alleanza o alle tre Alleanze. L’Antico Testamento consoce l’alleanza con Noè, quella con Abramo, quella con Giacobbe-Israele; quella stabilita sul Sinai, quella di Dio con Davide.

Tutte queste alleanze hanno una loro caratteristica specifica, su cui occorrerà ritornare. Paolo sa quindi che la parola alleanza, a partire dalla storia della salvezza prima di Cristo, deve essere pensata e detta al plurale; delle diverse alleanze ne pone in evidenza due in maniera particolare, mettendole a confronto e riferendole, ciascuna a suo modo, all’alleanza stabilita da Cristo: l’Alleanza la vede come l’alleanza vera e propria, fondamentale e permanente, mentre quella con Mosè è “sopraggiunta in seguito” (Rm 5,20), 430 anni dopo quella con Abramo (Gal 3,17), che non ha affatto privato quest’ultima del suo valore, rappresentando piuttosto uno stadio intermedio nel piano di Dio.

Diritto e promessa

È una forma della pedagogia di Dio con gli uomini; le singole componenti vengono meno quando il fine dell’educazione è raggiunto. Si abbandonano le vie percorse, resta il senso. L’alleanza mosaica si inserisce in quella stabilita con Abramo, la Legge diventa uno strumento della promessa. Così Paolo ha operato una netta distinzione tra le due modalità dell’alleanza che, di fatto, si incontrano nelle stesso Antico Testamento: l’alleanza che è una proclamazione del diritto e quella che è sostanzialmente promessa, dono di un’amicizia che viene offerta senza condizioni.

In effetti nel Pentateuco la parola berit (alleanza) è spesso usata come sinonimo di legge e comandamento. Una berit è oggetto di un comando; in Es 24 l’alleanza sinaitica appare sostanzialmente come un’ “imposizione di leggi e di obblighi per il popolo” . Una simile alleanza può anche essere spezzata; del resto nell’Antico testamento la stessa storia di Israele appare continuamente come storia dell’alleanza spezzata.

Un’unità carica di tensione: l’unica alleanza nelle alleanze

D’altra parte l’alleanza con i patriarchi è considerata eternamente valida. Mentre l’alleanza come obbligo legale riproduce il patto vassallatico, l’alleanza della promessa ha come modello la donazione regale. In questo senso Paolo, con la sua distinzione tra alleanza abramitica e alleanza mosaica, ha interpretato in maniera del tutto corretta il testo della Bibbia. Nello stesso tempo, con questa distinzione viene meno la rigida contrapposizione tra antica e nuova alleanza e si esplicita l’unità carica di tensione della storia della salvezza in cui nelle diverse alleanze si realizza l’unica alleanza.

Se le cose stanno così, non si possono assolutamente contrapporre L’Antico e il Nuovo Testamento come se si trattasse di due diverse religioni; c’è una sola volontà di Dio nei riguardi degli uomini, un solo agire storico di Dio con gli uomini, che si compie nei suoi interventi, certamente diversi e in parte anche contrapposti, ma in verità sempre intimamente legati l’uno all’altro.

di Joseph Ratzinger/ Papa Benedetto XVI: « Il legame tra eucaristia e fede in Paolo »

di Joseph Ratzinger/ Papa Benedetto XVI:

« IL LEGAME TRA EUCARISTIA E FEDE IN PAOLO »

(pongo questa lettura anche sotto la categoria: teologia-cristologia ed ecclesiologia)

stralcio dal libro: La Comunione nella Chiesa, Edizioni San Paolo 2004, Cinisello Balsamo (MI) 2004, dal: Cap. V Eucaristia e Missione, parte prima: « La teologia della croce come presupposto e fondamento della teologia eucaristica », 1. « La teologia della croce come presupposto e fondamento della teologia eucaristica », pag 97-101:

« …Se…cerchiamo di cogliere il legame fra eucarestia e fede secondo Paolo, emerge allora come prima cosa che esistono tre strati molti diversi nella presentazione del tema, che certamente sono strettamente legati tra loro nelle loro radici e nelle loro intenzioni. Vi è anzitutto l’interpretazione della morte in croce di Cristo con categorie culturali, che costituisce il presupposto interiore di ogni teologia eucaristica. oggi noi percepiamo a stento la grandezza di questa intuizione. Un evento in sé profano, l’esecuzione di un uomo nel più crudele dei modi possibili, viene descritto come liturgia cosmica, come apertura del cielo serrato, come l’avvenimento nel quale ciò che in tutti i culti è ultimamente inteso e invano cercato finalmente diventa realtà. Paolo, utilizzando antiche formule prepaoline, ha elaborato il testo fondamentale per questa interpretazione in Rm 3,24-26. Ciò però fu possibile solo perché Gesù stesso nell’ultima Cena aveva anticipatamente assunto e vissuto la sua morte, trasformandola dall’interno in un evento di dono e di amore. A partire di qui Paolo poteva designare Cristo come , termine che indicava nel linguaggio cultuale dell’Antico Testamento il punto centrale del Tempio, il coperchio che stava sopra l’arca dell’alleanza. Esso era chiamato , che in greco fu tradotto in ed era considerato come il luogo sopra il quale Dio si manifestava in una nuvola. Questo era asperso con il sangue dell’espiazione, che in questo modo doveva avvicinarsi il più possibile a Dio stesso. Quando Paolo dice: Cristo è questo centro del Tempio andato perduto con l’esilio, il vero luogo dell’espiazione, il vero , l’esegesi moderna ha interpretato ciò come trasformazione spiritualizzante dell’antico culto e così di fatto come eliminazione del culto, come la sua sostituzione con la vita spirituale e morale. Ma è vero proprio il contrario: per Paolo non è il tempio la vera realtà del culto e l’altro una specie di allegoria, ma le cose sono all’inverso. I culti umani, incluso quello dell’Antico Testamento, sono solo ombre del vero culto di Dio, che non si realizza nei sacrifici di animali. Quando nel libro dell’Esodo descrivendo la tenda dell’Alleanza, che era il modello del tempio, vien detto che Mosè ha costruito tutto secondo l’immagine che egli aveva visto presso Dio, i Padri hanno trovato qui espresso il carattere soltanto prefigurativo del culto del tempio. E in realtà i sacrifici di animali e di cose inanimate solo sempre solo tentativi parziali di sostituzione dell’essere umano, che dovrebbe donare se stesso, non nella forma crudele del sacrificio umano, ma nella totalità del suo esser. Ma proprio questo egli non era e non è in grado di fare. Così per Paolo come per tutta la tradizione cristiana è chiaro che il donarsi volontario di Gesù non è una dissoluzione allegorica del concetto di culto, ma che qui finalmente le intenzioni della festa dell’Espiazione divenivano realtà, così come la lettera agli Ebrei ha poi ampiamente illustrato. Non gli uccisori di Cristo offrono un sacrificio: pensare questo sarebbe una perversione. Cristo dà gloria a Dio, in quanto egli dona se stesso e introduce l’essere umano nell’essere stesso di Dio. H Gese ha interpretato così il significato di Rm 3,25:

Ma qui nasce la domanda: come si è potuto giungere a spiegare la croce di Gesù in tale modo, vederla come la realizzazione di ciò che nei culti delle varie religioni e soprattutto dell’Antico Testamento era inteso, spesso orrendamente distorto e mai veramente raggiunto? Che cosa ha reso possibile un simile ripensamento così grandioso di questo evento, il trasferimento di tutta la teologia cultuale dell’Antico Testamento su di un avvenimento in apparenza così profano? La risposta l’ho già enunciata prima: Gesù stesso aveva preannunciato la sua morte ai discepoli e l’aveva interpretata con categorie profetiche, che gli erano state offerte soprattutto nei canti del Servo di Dio del Deutero Isaia. In questi testi aveva già fatto la sua apparizione il motivo dell’espiazione e della sostituzione, che appartiene al grande ambito del pensiero cultuale. Nel cenacolo egli approfondisce questo fondendo la teologia del Sinai e quella profetica, fusione da cui ora emerge la realtà del sacramento nel quale egli assume la sua morte, l’anticipa e nello stesso tempo la rende capace di esser presente come culto sacro per tutti i tempi. Senza una tale essenziale interpretazione di fondo nella vita e nell’agire di Gesù stesso, la nuova comprensione della croce è impensabile, nessuno avrebbe potuto per così dire imporla alla croce retrospettivamente. Così la croce diventa anche la sintesi delle feste dell’Antica Alleanza, del giorno dell’espiazione e della Pasqua allo stesso tempo, apertura a una nuova Alleanza.

Possiamo quindi dire che la teologia della croce è teologia eucaristica e viceversa. … »

 

interrompo il discorso qui, con dispiacere naturalmente, perché il discorso continua riprendendo il tema della teologia della croce nel quale è inserito questa lettura di San Paolo.

JOSEPH RATZINGER/PAPA BENEDETTO: « …A LODE DELLA SUA GLORIA » (EF 1,3-4)

JOSEPH RATZINGER/PAPA BENEDETTO

« …A LODE DELLA SUA GLORIA »

RIFLESSIONE SU EFESINI 1,3-4

(luglio – Quindicesima domenica durante l’anno –B)

dal libro: Ratzinger J., Cerco il tuo volto, Edizioni Figlie di San Paolo, Milano 1985

pagg. 38-40;

(dalla Prefazione al libro: « I brevi testi, che sono stati raccolti in questo libro, furono dapprima pubblicati come meditazioni mensili in una rivista tedesca per sacerdoti. Essi seguono i testi delle letture liturgiche degli anni B e C;)

L’introduzione della lettera agli Efesini ci fa percepire l’entusiasmo dei neoconvertiti, per i quali l’essere cristiani è un dono, una benedizione, una ricchezza inattesa di Dio. Prendere coscienza di questo è cosa salutare per noi, che viviamo il nostro cristianesimo quasi con la fronte corrugata, con fatica, con difficoltà, tanto da avere una cattiva coscienza qualora ne proviamo un po’ di gioia, timorosi come siamo che questo possa essere trionfalismo. In ultima analisi la gioia di questa lettura dipende dal fatto che l’Apostolo ha il coraggio di puntare semplicemente lo sguardo sul centro della realtà cristiana: sul Dio trinitario e sulla sua vita eterna. Chi rumina solo e sempre le domande iniziali del cristianesimo e non guarda tranquillo e sereno al suo centro, finisce per essere assorbito sempre di più dalla lacerazione della riflessione. Dobbiamo di nuovo imparare a parlare della realtà più autentica della fede, anche se rimangono sul tappeto tante altre domande preliminari ad essa; in fondo solo la logica e la bellezza intrinseca del tutto, irradianti dal suo centro, possono superare anche le difficoltà iniziali.

Sotto il profilo contenutistico il testo cerca in primo luogo di farci conoscere il fondamento ed il fine del nostro essere cristiani. Il fondamento non è costituito dalle nostre prestazioni, ma dall’amore di Dio, che ci ha cercati dall’eternità. Il giudaismo conosceva l’idea della preesistenza del Messia, della legge, del popolo di Dio. Qui l’Apostolo ci dice: tutto ciò è vero in un senso profondissimo. Nei pensieri di Dio noi esistiamo eternamente da sempre, perché apparteniamo al suo Figlio. Perciò partecipiamo alla sua eternità, alla sua priorità su tutte le cose del mondo. In lui esistiamo come da giorni immemorabili. Dio ci vede in lui, ci vede coi suoi occhi, Che cosa questa certezza significhi lo possiamo comprendere in modo nuovo in un tempo di nausea per l’uomo, in un tempo in cui l’uomo viene presentato come una scimmia nuda, come topo particolarmente ingegnoso, e viene dichiarato l’autentico perturbatore della natura, cosicché crescono la paura di fronte all’essere umano e l’odio dell’uomo contro l’uomo.

Chi sa di essere guardato dagli occhi del Figlio, prova una sensazione che è più forte di una simile paura. La sua origine è già una risposta alla domanda impellente della sua meta e del suo fine. la lettera agli Efesini descrive tutto ciò con una serie di quattro concetti strettamente correlativi l’uno all’altro. Essa parla di redenzione. Parla di eredità, cioè del fatto che tutto apparterrà a tutti, che il mondo ci appartiene. Parla della ricapitolazione dell’universo, del cielo e della terra, quindi della eliminazione dei contrasti e delle inimicizie, dell’unità indivisa, in cui tutti e tutto concorderanno: questa è la redenzione. Ma come si verificherà tutto ciò? La lettera dice – e lo dice tre volte a mo’ d’un ritornello che da il tono al tutto – che noi esistiamo : questa è la via. Ove l’uomo ha il coraggio di dimenticarsi e di orientare il suo volto al Creatore, lì segue il resto: l’eredità, l’unità, la redenzione. Francesco d’Assisi non è forse l’esempio luminoso delle verità di questa affermazione apparentemente fin troppo semplice? Ove Dio non viene più lodato, tutto il resto va in rovina. Solo se ricominciamo a volgere di nuovo il nostro sguardo a lui, a liberarci dall’incapsulamento in noi stessi, la nostra paralisi ha fine e può irrompere in noi la redenzione.

J. Ratzinger/Papa Benedetto: La Conversione dell’Apostolo Paolo

LA CONVERSIONE DELL’APOSTOLO PAOLO

da Ratzinger J./ Papa Benedetto XVI, Immagini di Speranza, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999, pagg. 20-25;

« Il combattente ed il sofferente

All’ingresso della Basilica di San Pietro, nel secolo scorso papa Pio IX ha voluto che fossero poste due possenti figure degli apostoli Pietro e Paolo, ambedue facilmente riconoscibili dai loro attributi: le chiavi nella mano di Pietro, la spada nelle mani di Paolo. Chi guardasse la possente figura dell’apostolo delle genti senza conoscere la storia del cristianesimo, potrebbe arrivare a ritenere che si tratti di un grande condottiero, di un guerriero, che ha fatto la storia con la spada e in tal modo ha assoggettato i popoli. Sarebbe allora uno dei tanti che si sono procurati gloria e ricchezza a prezzo del sangue degli altri. Il cristiano sa che la spada nelle mani di quest’uomo significa esattamente il contrario: essa fu lo strumento con cui egli venne messo a morte. In quanto cittadino romano egli non poteva essere crocifisso come Pietro; morì dunque di spada. Ma anche se questa era considerata una forma nobile di esecuzione, nella storia dell’umanità egli rientra tra le vittime, non tra gli oppressori.

Chi si addentra nelle lettere di Paolo per cercare in esse qualcosa che assomigli ad un autobiografia nascosta dell’Apostolo, riconoscerà subito che l’attributo della spada non si riferisce solo allo strumento del suo martirio, che dice qualcosa degli ultimi istanti della sua vita; la spada può essere intesa, a ragione, come attributo della sua vita: , dice al suo amato discepolo Timoteo volgendo lo sguardo al cammino della sua vita, quando sente che la sua morte è oramai prossima (2Tm 4,7). Proprio in forza di parole come queste, Paolo è stato volentieri descritto come un combattente, come un uomo di azione, anzi come un uomo dalla natura forte e violenta. Uno sguardo superficiale alla sua vita sembra dar ragione a questa lettura: in quattro lunghi viaggi ha percorso una parte considerevole del mondo allora conosciuto ed è divenuto davvero l’apostolo delle genti, che porta il vangelo di Gesù Cristo >fino agli estremi confini della terra>. on le sue lettere ha tenuto unite le comunità, ha stimolato la loro crescita e rafforzato la loro costanza. Con tutta la forza del suo vivo temperamento egli si confronta con i suoi avversari, che non scarseggiano mai. usa tutti i mezzi a sua disposizione per corrispondere il più efficacemente possibile al di annunciare, che egli sente gravare su di sé (1Cor 9,16). È così che egli continua a essere presentato come il grande attivista, il patrono di coloro che vanno alla ricerca di nuove strategie pastorali e missionarie.

Tutto questo non è falso, ma non è tutto Paolo; anzi, chi lo vede solo così, non coglie ciò che più specificatamente caratterizza la sua figura. Anzitutto si deve osservare che la battaglia di San Paolo non fu quella di un carrierista, di un uomo di potere, men che meno quella di un conquistatore e di e di un dominatore, La sua fu una battaglia nel senso che a questa parola attribuisce Teresa d’Avila. L’affermazione che >Dio ama le anime intrepide>, ella la spiega così: . A questo proposito mi viene in mente un osservazione di Theodor Haecker, certo piuttosto unilaterale e anche un po’ ingiusta, da lui annotata nei suoi diari durante la guerra; essa può comunque aiutarci a capire di che cosa stiamo parlando. La frase a cui mi riferisco suona così: . La battaglia di San Paolo fu la battaglia di un martire, fin dall’inizio. Detto con più precisione: all’inizio del suo cammino era stato un persecutore e aveva usato violenza contro i cristiani. Dal momento della sua conversione era passato dalla parte del Cristo crocifisso e aveva scelto lui stesso la via di Gesù cristo. Non era un diplomatico; do faceva dei tentativi diplomatici gli era riservato poco successo. Era un uomo che non aveva altra arma che il messaggio di Cristo e l’impegno della sua stessa vita per questo messaggio. Già nella lettera ai filippesi egli dice che la sua vita sarà versata in libagione come sacrificio (2,7); alla sera della sua vita, nelle ultime parole indirizzate a Timoteo (2Tm 4, 6) questa stessa espressione torna ancora una volta. Paolo era un uomo disposto a lasciarsi ferire e proprio questa era la sua vera forza. Non ha protetto se stesso, non ha tentato di tenersi fuori dalle contrarietà e dalle circostanze spiecevoli, men che meno ha cercato di assicurarsi una vita tranquilla.

Anzi, ha fatto proprio il contrario. Ma precisamente il fatto che egli si sia esposto in prima persona, che non si sia tutelato, che abbia posto se stesso in balia delle contrarietà e si sia lasciato consumare per il vangelo, lo ha reso credibile e ha edificato la Chiesa: >Desidero più di tutto consumermi e mi consumerò per le vostre anime>. Queste parole tratte dalla seconda lettera ai Corinti (12,15), mettono in evidenza l’anima più profonda di quest’uomo. Paolo non pensava affatto che il compito prioritario della pastorale fosse evitare le difficoltà e non riteneva che un apostolo dovesse anzitutto preoccuparsi di avere l’opinione pubblica dalla sua parte. No, egli voleva scuotere, rompere il sonno delle coscienze, anche a costo della vita. Dalle sue lettere sappiamo che egli fu tutt’altro che un abile parlatore. Condivideva la mancanza di talento oratorio con Mosè e con Geremia, i quali affermavano davanti a Dio di essere del tutto inadatti alla missione a cui egli li chiamava e adducevano ambedue come scusa il fatto di non essere abili parlatori. (2Cor 10,10), dicevano di lui i suoi avversari. Sull’inizio della sua missione in Galazia lui stesso racconta: (Gal 4,13). Paolo non ha operato grazie ad una brillante retorica e per mezzo di raffinate strategie, ma impegnando se stesso in prima persona ed esponendosi per l’annuncio che portava. Anche oggi la Chiesa potrà convincere delle persone solo nella misura in cui coloro che annunciano il suo nome sono disposti a lasciarsi ferire. Dove manca la disponibilità a soffrire in prima persona, manca l’argomento decisivo della verità, da cui la Chiesa stessa dipende. La sua battaglia sarà sempre e solamente la battaglia di coloro che accettano di sacrificare se stessi: la battaglia dei martiri.

Alla spada nelle mani di San Paolo possiamo attribuire anche un altro significato, oltre a quello di strumento del suo martirio: nella Scrittura la spada è anche simbolo della parola di Dio, che (Eb 4,12). Questa spada ha condotto Paolo: con essa egli ha conquistato le persone. , in fondo, qui è semplicemente un’immagine della potenza della verità, che è di natura tutta propria. La verità può far male, può ferire – per questo è stata fatta la spada. È proprio perché la vita nella menzogna o anche solo nella scelta di ignorare la verità appare spesso più comoda rispetto all’esigenza del vero, che gli uomini si scandalizzano della verità, vogliono liquidarla, rimuoverla, spazzarla via dal loro cammino. Chi di noi potrebbe negare che talvolta la verità gli ha recato disturbo: la verità su se stessi, la verità su ciò che dobbiamo fare o non fare? Chi di noi può affermare di non aver mai tentato di metter se stesso prima della verità o, quanto meno, di accomodare quest’ultima, almeno per renderla meno dolorosa? Paolo era inquieto perché era un uomo della verità; chi si dedica alla verità, fino in fondo, e non vuole utilizzare nessun’altra arma, né prefiggersi alcun altro compito, non necessariamente sarà ucciso, ma giungerà comunque vicino al martirio; diventerà un sofferente. Annunciare la verità, senza diventare un fanatico o un calcolatore: questo è un grande compito: Può darsi che la polemica abbia talvolta inasprito Paolo, fino al punto da farlo sembrare vicino al fanatismo, ma egli non è mai stato un fanatico, in nessun modo. Testi colmi di benevolenza, come li leggiamo nelle sue lettere, sono il vero tratto distintivo del suo carattere. Poté conservarsi libero dal fanatismo perché non parlava a se stesso, ma portava agli uomini il dono di un altro: la verità di Cristo, che è morto per questo e che è rimasto un uomo che ama fin dentro la morte. Anche su questo punto dobbiamo correggere un poco la nostra immagine di Paolo. Abbiamo anche troppo in mente i testi più battaglieri di Paolo. Ma qui vale qualcosa di simile a quello che si dice di Mosè: vediamo Mosè come colui che facilmente si adira, come una personalità dura e inflessibile. M il libro dei Numeri dice di lui: Mosè era il più mite di tutti gli uomini (12,3; LXX). Chi legge Paolo, scoprirà la mitezza di Paolo. Lo abbiamo già detto: il suo successo dipende dalla sua disponibilità a soffrire in prima persona. Ora dobbiamo aggiungere: la sofferenza e la verità vanno sempre insieme. Paolo fu combattuto perché era un uomo della verità. Ma il fatto che ciò che resta delle sue parole e della sua vita sia cresciuto, dipende dal fatto che egli ha servito la verità e ha sofferto per essa. La sofferenza è necessaria per accreditare la verità, ma solo la verità dà alla sofferenza un significato.

All’ingresso della basilica di San Pietro stanno le figure dei due apostoli Pietro e Paolo. Anche sul portale maggiore della basilica di San Paolo fuori le Mura essi sono raffigurati insieme, scene della vita e del martirio di ambedue. Fin dall’inizio la tradizione cristiana ha considerato Pietro e Paolo inseparabili l’uno dall’altro: insieme, essi rappresentano tutto il vangelo. A Roma il legame tra di loro come fratelli nella fede ha assunto anche un altro significato, molto specifico. Dai cristiani di Roma essi furono visti come il contraltare della mitica coppia di fratelli a cui si faceva risalire la fondazione di Roma: Romolo e Remo. Si può inoltre stabilire uno strano parallelismo tra questi due uomini e la prima coppia di fratelli nella storia biblica: Caino ed Abele; il primo diventa l’assassino del secondo. La parola , considerata solo nel suo versante umano, acquista così un sapore amaro.

Come essa venga intesa tra gli uomini, lo si vede proprio nel fatto che in tutte le religioni viene rappresentata da simili coppie fraterne. Pietro e Paolo, per quanto umanamente così diversi l’uno dall’altro e benché il rapporto tra di loro non sia stato esente da conflitti, appaiono come i fondatori di una nuova città, come la concretizzazione di un nuovo modo e autentico di essere fratelli, reso possibile dal vangelo di Gesù Cristo. Non è la spada del conquistatore a salvare il mondo, ma solo la spada del sofferente. Solo la sequela di Cristo porta alla nuova fraternità, alla nuova città: ce lo dice la coppia di fratelli, che ci parla dalla grandi basiliche di Roma. »

JOSEPH RATZINGER/PAPA BENEDETTO XVI – RISORTO AL TERZO GIORNO (1Cor 15,3-8 – il « credo »)

JOSEPH RATZINGER/PAPA BENEDETTO XVI – RISORTO AL TERZO GIORNO (1Cor 15,3-8 – il « credo ») 

stralcio dal libro: Il cammino pasquale, Ancora Editrice, Milano 2000 

 pag. 110-115: 

Questa sezione del libro dal titolo « Risorto il terzo giorno » si trova nel capitolo 4 della seconda parte del libro che riguarda il nel capitolo 4 il , quindi, il discorso è già cominciato, prima si era parlato – nello stesso capitolo – successivamente: del Giovedì Santo, della Lavanda dei Piedi, della connessione tra Ultima Cena, la Croce e la Resurrezione, immaginatevi che il testo è tutto veramente, oltre che bello, edificante; 

« La controversia sulla Risurrezione di Gesù dai morti è divampata con rinnovata intensità e si è oramai estesa fin dentro alla Chiesa » 

 

pag 110: 

i testi biblici – scrive – devono essere tradotti, non solo linguisticamente, ma anche concettualmente, Ratzinger/Papa Benedetto non vuole discutere sulle varie teorie sull’argomento, ma  cerca di mettere in evidenza in modo positivo la testimonianza biblica;  nel Nuovo Testamento si rilevano due tipi assai differenti di tradizione della Resurrezione: quello che può chiamarsi – lui gli da questa definizione – tradizione confessionale e quella che può chiamarsi tradizione narrativa, per esempio la prima si trova in San Paolo nella Prima Lettera ai Corinti 15,3-8, il secondo tipo nei racconti dei quattro vangeli; 

si può trovare un inizio della tradizione confessionale nella tradizione narrativa, per esempio nel racconto dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), i discepoli dopo aver incontrato Gesù, tornano a casa e agli undici annunciano: (Lc 24,34). questo passo è forse il più antico testo sulla Risurrezione che possediamo; si svilupparono poi formule di professione di fede, ora scrivo dal testo :

pag 111: 

« La confessione cristiana è nata. In questo processo di tradizione è cresciuta molto presto, nell’ambito palestinese probabilmente già negli anni trenta, quella confessione che Paolo ci ha conservato nella prima lettera ai Corinzi (15,3-8) come una tradizione che ha ricevuto egli stesso dalla Chiesa e che fedelmente trasmette.  In questi testi di confessione, che sono i più antichi, si tratta solo in modo secondario di tramandare i singoli ricordi di testimoni. La vera intenzione, come Paolo sottolinea con enfasi, è di mantenere il nucleo cristiano, senza il quale il messaggio e la fede non sarebbero nulla. «  

qui riprende a riflettere sulla tradizione narrativa e quella confessionale; la tradizione narrativa cresce perché si vuole sapere come siano andate le cose, il desiderio di conoscere i particolari aumenta, insieme comincia  l’esigenza di difendere la fede cristiana dai vari attacchi contro di essa, contro i sospetti, contro interpretazioni diverse quali si sono insinuate a Corinto; 

pag 111-112 

« …È sulla base di tali esigenze che si è formata una tradizione più approfondita dei Vangeli. Ciascuna delle due tradizioni ha quindi la sua importanza insostituibile, ma nello stesso tempo diviene evidente che esiste una gerarchia: la tradizione confessionale è al di sopra della tradizione narrativa. È la fides quae, il metro su cui si misura ogni interpretazione. 

Cerchiamo dunque di comprendere più esattamente quel Credo fondamentale che Paolo ha conservato; qualsiasi tentativo di arrivare a decisioni nella polemica tra le opinioni deve cominciare da qui. Paolo, o piuttosto il suo Credo, comincia con la morte di Gesù. È sorprendente che questo testo così scarno, che non contiene una parola di troppo, ponga due aggiunte alla notizia . Una delle aggiunte è questa: , l’altra: . Che cosa significano? L’espressione secondo le Scritture inserisce l’evento nella relazione con la storia dell’alleanza veterotestamentaria di Dio con il suo popolo: di questa storia di Dio, riceve da essa la sua logica e il suo significato. È un evento in cui si adempiono parole delle Scritture, ossia un avvenimento, che porta in sé un logos, una logica: che viene dalla parola e penetra nella parola, la copre e l’adempie. Questa morte risulta dal fatto che la parola di Dio è stata portata tra gli uomini. Come si debba interpretare questa immersione della morte nelle parole di Dio ce lo indica la seconda aggiunta: morì . Il nostro Credo riprende con questa formula una parola profetica (Is 53,12; cfr. anche 53,7-11) Il suo rinvio alla Scrittura non si proietta nell’indefinito; riecheggia una melodia dell’Antico Testamento, che sin dalle prime assemblee di testimoni era ben conosciuta. In concreto la morte di Gesù viene così tolta dalla linea di quella morte gravata da maledizione che deriva dall’albero della conoscenza del bene e del male, dalla presunzione dell’uguaglianza con Dio che finisce con il giudizio divino… Questa morte è di altro genere. Non è compimento della giustizia, che rigetta l’uomo nella terra, ma compimento di un amore che non vuole lasciare l’altro senza parola, senza senso, senza eternità. Non è radicata nella sentenza dell’uscita dal paradiso, ma nei canti del Servo di Dio, morte che scaturisce da questa parola, e dunque morte che diventa luce per le genti; 

… 

il nostro Credo aggiunge una breve espressione apre la via dalla Croce alla Resurrezione; quello che è detto qui () è più di una interpretazione: fa parte integrante dell’avvenimento stesso. 

Ora segue nel testo della Scrittura, senza commenti, la parola : ma si può capirla, solo se si vede nel contesto di ciò che precede e di ciò che segue. Afferma prima di tutto che Gesù sperimentò realmente la morte nella sua totalità. » 

il testo prosegue sulla realtà della Risurrezione, Gesù non è un morto ritornato in vita come, per esempio, il giovane di Naim e Lazzaro richiamati alla vita terrena che poi dovrà, comunque, terminare, con la morte definitiva, non è superamento di una morte clinica ;

pag 114: 

« Che le cose non stiano così lo spiegano non solo gli Evangelisti, ma lo stesso Credo di Paolo (1Cor 15, 3-11) in quanto descrive l’apparizione del risorto successivamente con la parola greca óphthe, che traduciamo di solito con ; forse dovremmo dire più correttamente: : questa formula rende manifesto che si tratta qui di qualche  cosa di diverso, che Gesù dopo la Risurrezione appartiene ad una sfera della realtà che normalmente si sottrae ai nostri sensi…Non appartiene più al mondo percepibile con i sensi, ma al mondo di Dio » 

qui si sofferma a considerare la possibilità per noi di Dio, sulla schiettezza dell’uomo, che è possibile sempre da dentro se stessi; il brano della 1Cor 15, che tratta della risurrezione dai morti dice ciò molto chiaramente quando riporta le due frasi separatamente l’una dopo l’altra, prima e poi

termino questa lettura dal libro con il passo successivo: 

« Le apparizioni non sono la Risurrezione, ma solo il suo riflesso. Prima di tutto essa è un avvenimento di Gesù stesso, tra il Padre e lui in virtù della potenza dello Spirito Santo; poi questo avvenimento occorso a Gesù stesso diventa accessibile agli uomini perché è lui a renderlo accessibile. » 

mi rendo conto che questa breve presentazione è molto limitata, ma tutto quello che riguarda il Signore Gesù Cristo e San Paolo e la fede è comunque al di sopra di una nostra capacità di comprensione profonda, ed anche al di sopra della possibilità di trovare le parole adatte ad esprimerla, certo l’allora Cardinale Ratzinger/ Papa Benedetto, ha le parole che io trovo tra le più belle ed adatte per trasmettere – oltre che spiegare – la fede. 

DI JOSEPH RATZINGER/PAPA BENEDETTO XVI – sulla lettera agli efesini

DI JOSEPH RATZINGER/PAPA BENEDETTO XVI 

dal libro: Cerco il tuo volto Dio, Figlie di San Paolo, Milano 1985; (testo originale: Gottes Angesicht suchen, Kyrios Verlag GmbH Meitingen-Frising 1978) 

Meditazioni nel corso dell’anno liturgico 

Luglio – sulla lettera agli Efesini,

vedi testo della lettera: 

http://www.bibbiaedu.it/pls/bibbiaol/GestBibbia.Ricerca?Libro=Efesini&Capitolo=1 

« L’inizio della lettera agli Efesini lascia trasparire l’entusiasmo dei neoconvertiti , per i quali l’essere cristiani è un dono inaspettato, benedizione e ricchezza elargita da Dio. 

Percepire questo è salutare anche per noi, che viviamo il nostro essere cristiani quasi con la fronte corrucciata e con una coscienza problematica e affaticata al tempo stesso, tanto da provare quasi rimorso quando ci accade di provare letizia per il fatto di essere cristiani: potrebbe essere trionfalismo! 

In ultima analisi la gioia di questa lettura dipende dal fatto che l’Apostolo ha il coraggio di puntare semplicemente lo sguardo sul centro della realtà cristiana: sul Dio trinitario e sulla sua vita eterna. Chi rumina solo e sempre le domande iniziali del cristianesimo e non guarda tranquillo e sereno al suo centro, finisce per essere assorbito sempre più dalla lacerazione della riflessione. Dobbiamo di nuovo imparare a parlare della realtà più autentica della fede, anche se rimangono sul tappeto tante altre domande preliminari ad essa; in fondo solo la logica e la bellezza intrinseca del tutto, irradianti dal suo centro, possono superare anche le difficoltà iniziali.  Sotto il profilo contenutistico il testo cerca in primo luogo di farci conoscere il fondamento e il fine del nostro essere cristiani. Il fondamento non è costituito dalle nostre prestazioni, ma dall’amore di Dio, che ci ha cercati dall’eternità. Il giudaismo conosceva l’idea della preesistenza del Messia, della Legge, del popolo di Dio. Qui l’Apostolo ci dice: tutto ciò è vero in un senso profondissimo. Nei pensieri di Dio noi esistiamo eternamente da sempre, perché apparteniamo al suo Figlio. Perciò partecipiamo alla sua eternità, alla sua priorità su tute le cose del mondo. In lui esistiamo come da giorni immemorabili. Dio ci vede in lui, ci vede con i suoi occhi. Che cosa questa certezza significhi lo possiamo comprendere n modo nuovo in un tempo di nausea per l’uomo, in un tempo in cui l’uomo viene presentato come una scimmia nuda, come un topo particolarmente ingegnoso, e cosicché crescono la paura di fronte all’essere umano e l’odio dell’uomo contro l’uomo. 

Chi sa di essere guardato con gli occhi del Figlio, prova la sensazione che è più forte d’una simile paura. La sua origine è già una risposta alla domanda impellente della sua meta e del suo fine. La Lettera agli Efesini descrive tutto ciò con una serie di quattro concetti strettamente correlativi l’uno all’altro. Essa parla di redenzione. Parla di eredità, cioè del fatto che tutto apparterrà a tutti, che il mondo ci appartiene. Parla della ricapitolazione dell’universo, del cielo e della terra, quindi della eliminazione dei contrasti e delle inimicizie, dell’unità indivisa, in cui tutti e tutto concorderanno: questa è la redenzione. Ma come si verificherà tutto ciò? La lettera dice – e lo dice tre volte a mo’ d’un ritornello che dà il tono a  tutto –  che noi esistiamo : questa è la via. Ove l’uomo ha il coraggio di dimenticarsi e di orientare il suo volto al Creatore, lì segue il resto: L’eredità, l’unità, la redenzione. Francesco d’Assisi non è forse l’esempio luminoso della verità di questa affermazione apparentemente fin troppo semplice? Ove Dio non viene più lodato, tutto il resto va in rovina. Solo se ricominciamo a volgere di nuovo il nostro sguardo a lui, a liberarci dall’incapsulamento in noi stessi, la nostra paralisi ha fine e può irrompere in noi la redenzione. 

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