Archive pour la catégorie 'Paolo – approfondimenti sulla sua persona'

IL « VANGELO » DI SAN PAOLO – DI BRUNO FORTE

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124802

IL « VANGELO » DI SAN PAOLO

DI BRUNO FORTE

Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo…

 1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!
2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco…
3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.
4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.
5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?
6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della  fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?
7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?
8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore  e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen.

(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: mons. Bruno Forte

Catechesi su S. Paolo di Padre Roberto Zambolin

http://www.sacrafamiglia.diocesipa.it/testo%20catechesi%20paolina%20padre%20roberto%20zambolin.htm

(ancora qualcosa su Paolo, aiuta a comprendere…)

Catechesi su S. Paolo di Padre Roberto Zambolin

La personalità dell’Apostolo Paolo è una personalità poliedrica e complessa che tuttavia noi possiamo leggere per un dato importante perché Paolo ha posto come obiettivo nella sua vita,  quello che la propria vita avesse un senso cioè tutta la sua vita è stata centrata , tutta la  sua vita le sue passioni le sue esperienze sono state centrate attorno ad un obiettivo che per lui è diventato il senso della sua vita e questo obiettivo è Gesu’ Cristo; questo già secondo  me è un dato molto importante, a volte noi, ecco, nella nostra vita siamo molto divisi, la mente và per conto suo, il cuore và per conto suo, gli istinti vanno per conto loro; facciamo fatica ad essere delle personalità unificate, a ritrovare un senso di ciò che facciamo, facciamo fatica a dare un orientamento preciso alla nostra vita, per questo a volte siamo un po’ smarriti, scissi, anche noi stessi divisi, noi possiamo comprendere qualcosa della personalità di Paolo perché Paolo ha trovato un centro unificatore nella sua vita che è Gesu’ Cristo; questo è un dato importante anche nella psicologia cioè ché se noi vogliamo essere persone autentiche, ognuno di noi deve avere un centro attorno al quale unifica e da senso a tutto ciò che fa ed è  bellissimo pensare che Cristo sia stato il senso del suo essere uomo e del suo essere credente ed evangelizzatore.
Credo che il primo dato che appare sia proprio questo : Paolo che era un uomo passionale è diventato Paolo e non ha cambiato temperamento o carattere ma con l’aiuto della grazia di Dio Paolo ha saputo orientare le sue passioni , le sue energie fisiche e spirituali verso una nuova meta quella  di conquistare Cristo dopo essere stato conquistato da Lui ( Fil. 3,8 ) ed io credo che qui sta tutto il segreto della felicità per ogni essere umano, quello di cercare e trovare un centro unificato attorno al quale fare girare tutta la propria vita; allora tutto diventa più chiaro, tutto finisce col piacere e anche riusciamo a superare le prove più terribili che immancabilmente la vita ci riserva se abbiamo davanti a noi un obiettivo ben preciso.
Quali sono i tratti della personalità di Paolo mi sembra di poterli riassumere così, di individuarne sostanzialmente quattro: innanzitutto è una persona estremamente volitiva, solo una persona come lui poteva reggere per esempio all’urto subìto a Damasco dove la sua umanità è stata messa a dura prova, c’è stato uno sconvolgimento pieno della sua umanità, un cambiamento totale della sua vita, lì ha fatto un’esperienza che ha trasformato completamente lui come uomo; pensate per esempio questa sua aggressività, il suo andare contro i cristiani, questo suo mettersi d’impegno per dire:io devo andare a cercare i seguaci di Cristo.Dunque Paolo era uno, in un certo senso,che metteva come centro anche se stesso;l’esperienza di Damasco l’ha reso umile,docile e gli ha fatto capire che anche lui ha bisogno di essere condotto dagli altri;gli ha fatto capire che il suo passato forse aveva bisogno di essere illuminato da un’ altra luce, allora si è fatto condurre da Anania, si è fatto condurre anche lui per mano per strada; Paolo che mentre prima aveva fatto di se stesso il centro della sua vita, ora lui non era più il centro  di se stesso, lui si è messo alla periferia di se stesso e ha messo Cristo come centro di se stesso; dunque per un cambiamento del genere è possibile se davvero una persona cerca, trova e rimane fedele a ciò che ha trovato. Quì però dobbiamo dire che Paolo è estremamente onesto, Paolo è sì un passionale però attenzione, a volte capita che quando noi siamo passionali ed emotivi noi stravolgiamo la verità. A Paolo premeva  mettersi a servizio della verità e una volta scoperta si sente anche in dovere di cambiare strada nella propria vita; l’onestà di Paolo la potremmo chiamare un onestà a prova di bomba, per esempio questa forza di volontà, questa onestà di Paolo la esprime quando entra in polemica con i suoi avversari, non certo per odio contro di loro ma piuttosto per un amore incondizionato alla verità.Di questo amore alla verità Paolo è un testimone credibile, per esempio nella lettera agli Efesini 4,14-15, quando Paolo vuole esortare i cristiani di Efeso a costruire la chiesa dell’unità, scrive così:questo affinchè non siamo più come fanciulli, sballottati dalle onde e portati qua  e là da qualsiasi vento di dottrina secondo l’inganno degli uomini, con quell’astuzia che tende a trarre nell’errore, al contrario vivendo e servendo la verità nella carità.Cerchiamo di crescere in ogni caso verso di Lui che è il capo ,Cristo. Ecco, fare la verità nella carità ,una passione quella di Paolo,al servizio della verità; il testo greco dovrebbe essere tradotto “più che fare la  carità nella verità” potremmo tradurlo in “verare la verità”, cioè non può esistere una carità se non c’è una verità, la prima forma di carità è il servizio alla verità.Quella di Paolo era una passione al servizio della verità e quindi viveva nell’amore autentico nel senso che Paolo non ha mai disgiunto la verità dalla carità. Attenzione alla falsa forma di carità io li distinguo anche nell’evangelizzazione, cioè un conto è l’attenzione, la conoscenza della persona umana nei suoi tempi, nei suoi ritmi, ma per questo noi non possiamo stravolgere la verità; va offerta secondo la comprensione, secondo la possibilità di ognuno ma non possiamo passare una fede facile.Così per essere accettati, per essere accolti, per sentirsi moderni, a volte questo purtroppo succede e noi pensiamo di vivere la carità e non curando la verità e così non facciamo un servizio né alla carità ne alla verità. Quindi Paolo estremamente volitivo, ma anche estremamente angusto, estremamente sincero, un ricercatore della verità, sincero al punto tale che di fronte alla verità cambia completamente centro della sua vita, non è più se stesso ma è di Cristo. Ancora un altro elemento della personalità di Paolo l’abbiamo già accennato, un temperamento passionale nel bene e nel male, sentite cosa dice Paolo nella 1° lettera a Timoteo 1,13:io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento, bene questo, la violenza di un tempo Paolo l’ha messa a servizio del Vangelo, sapendo sopportare anche le prove più tremende.E’ molto bello quello che dice Paolo quando parla anche delle sue esperienze, delle prove che lui ha sopportato e che ha sopportato per amore di Cristo ed è proprio per questo suo temperamento passionale che l’ apostolo delle genti ha speso il resto dei suoi anni in una serie interminabile di viaggi missionari che caratterizzano il suo servizio apostolico,perché poi la verità unita alla volontà,unita alla passione per ciò che si fa ti spinge ad uscire fuori,ti spinge a donare,ti spinge a  camminare;una persona che ha la passione alla verità, altamente sentirà il desiderio di poterla dire, di poterla evangelizzare,di poterla comunicare. Il guaio a volte di molti credenti è che credono senza passione,,è che credono in modo scontato, è che credono senza contemplazione, senza godere in ciò in cui credono.Attenzione che, un conto è la passione, un conto  è l’emozione;avete presente quando si va ai pranzi di nozze.si beve un po’  di vino e ci si sente un pochino tutti allegri;il mondo sembra tutto allegro ,poi passa  l’effetto del vino e si torna come prima.L’emozione è questa, è quella fascia delle sensazioni che dura finchè  dura l’emozione e poi tutto finisce.La passione è invece  un motore che spinge la macchina, è una specie di forza che ti porta avanti nella vita e tu vivi  proprio con gioia, con bellezza, gustando quella verità che tu hai e cerchi di coinvolgere il più possibile nella conoscenza, nella testimonianza di questa verità.Questo è temperamento passionale, un altro elemento che noi troviamo in Paolo, che emerge dai suoi scritti è una persona di un’intelligenza eccezionale, non solo da un punto di vista logico, ma anche da un punto di vista relazionale, cioè Paolo sa entrare in contatto con tutti, all’occorrenza sa anche entrare in polemica con gli avversari che negano la verità, come sa  discorrere serenamente con chi è disposto al dialogo per amore della verità, Paolo sa interpretare correttamente la profezia dell’Antico Testamento, mostrando che Cristo ha attualizzato quella profezia; come sa dimostrare la ragionevolezza nell’ andare in Cristo e la libertà nell’ atto di fede; sa confutare chi pretende di dire la verità mentre sta seminando menzogna e zizzania, come per esempio, Paolo, sa esortare con la parola, ma soprattutto con l’esempio di una vita totalmente dedita al Vangelo. Paolo sa scrivere pagine di arte di ispirazione poetica,pensate agli Inni Paolini, sublimi e profondi, come l’addentrarsi in discussioni teologiche più specialistiche, quindi è un’intelligenza molto acuta quella di Paolo. Possiamo dire che Dio lo ha dotato di doni di natura e di doni di grazia,uomo difficilmente uguagliabile, ma tutto viene messo al servizio della carità e della verità . Mi pare che Paolo possa dirsi anche un amico fedele,ci sono delle cose molto belle anche di questa affettività di Paolo,intanto fedele nei confronti della verità che non è una verità teorica, quella di San Paolo, la verità ha un nome che si chiama Gesù Cristo che è una persona; non avrebbe senso rimanere fedeli ad una verità per la verità, ma quando quella verità è divenuta una persona, allora solo un rapporto culturale (dobbiamo stare attenti perché alle volte un rapporto relazionale con Cristo rischia di trasformare il Vangelo in cultura) non è sempre detto che un teologo sia per forza un credente, per essere credente si deve stabilire una relazione con Gesù Cristo, non solamente una deduzione intellettuale razionale, ecco perché l’importante è che accanto alla profondità teologica ci sia questa dimensione relazionale, affettuosa con Cristo.Una volta che Paolo ha conosciuto Cristo Signore attraverso una relazione che Cristo ha avuto con lui perché sapete che nella fede il primo passo lo fa sempre il Signore.é stato proprio Dio che ha incontrato Paolo, una volta che Paolo si è lasciato incontrare da Dio, Paolo non ha mai cessato di coltivare questa amicizia straordinaria e di onorarla anche a costo di pagare di persona.Paolo lo ha dimostrato in diverse circostanze ,anche con il martirio e a  questo proposito è bene che ascoltiamo proprio lui  nella 2° lettera di Timoteo 4,6-8 “Quanto a me, dice Paolo,il mio sangue sta per essere sparso in libagione, ed è giunto il momento di sciogliere le vele, ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede; mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto Giudice, mi consegnerà in quel giorno.” Vedete che sono parole estremamente chiare che indicano il percorso di vita di Paolo, e soprattutto sarà una profezia di quello che capiterà, non molti anni dopo, a Roma quando sarà decapitato intorno all’anno 64 d.C.; ebbene, con queste pennellate essenziali io penso un pochino di avere colto qualche cosa della psicologia di Paolo.
Paolo uomo estremamente volitivo, passionale, di un’intelligenza eccezionale, uomo di relazione, uomo fedele. Mi vorrei fermare un pochino di più sull’incontro di Paolo a Damasco perché lì c’è proprio di mezzo la sua vita, il coinvolgimento della sua vita, potremmo dire lo sconvolgimento della sua vita. Che cosa rivela quell’incontro di Paolo a Damasco? Rivela delle qualità eccezionali per un’uomo che non è facile riscontrare; rivela innanzitutto una capacità di rimettersi in discussione, di non vivere una vita scontata, di aprirsi alla novità, di tendere sempre al futuro, di cercare una qualità migliore della sua vita; cioè direi veramente che Paolo voleva vivere una vita in pienezza per un uomo che amava la vita,voleva gustare la vita in pienezza e tutto questo lo ha portato a rendersi disponibile a qualche cosa di nuovo, a qualche cosa di profondo, di misterioso, a qualche cosa che lo superava che era la rivelazione di DIO; un confronto che lo ha cambiato spiritualmente; è diventato un uomo nuovo difatti Paolo, una nuova creatura, amico di Gesù, missionario del Vangelo, fratello universale; ma se Paolo fosse stato una persona introversa, una persona chiusa nelle sue certezze, chiusa nella sua sicurezza, una persona non disposta all’ascolto, al dialogo, all’accoglienza della novità, soprattutto chiusa nel mistero, Paolo probabilmente non si sarebbe lasciato inondare dalla luce di Cristo. Uno studioso morale contemporaneo ha scritto che per comprendere la teologia di Paolo non è sufficiente partire da Tarso, città nella quale Paolo è nato ed ha ricevuto la sua prima formazione, non basta nemmeno partire da Gerusalemme, città nella quale Paolo è stato educato ed ha potuto confrontarsi con gli apostoli, in modo particolare con Pietro; non è sufficiente neanche partire da Antiochia che è stato il punto di riferimento di tutti i suoi viaggi missionari; certo queste città hanno avuto importanza nella formazione di Paolo, hanno contribuito alla sua crescita morale  e spirituale, ma per entrare nel pensiero di Paolo dobbiamo capire l’approccio che lui ha avuto con Cristo perché il rapporto con Cristo ha sconvolto la sua vita ed è stato al centro della sua evangelizzazione; che cosa è capitato in quell’avvenimento? – qui ci sono delle cose formidabili: Innanzitutto a Damasco Paolo ha capito che tra Gesù e i cristiani vi è una identità spirituale nella quale stà il segreto, il fondamento del nostro essere Chiesa, del nostro essere comunità, del nostro essere fraternità, del nostro amore alla Chiesa; Che cosa ha sperimentato in quell’avvenimento, che cosa dice l’esperienza che ha vissuto, ha sentito quelle parole “ Io sono quel Gesù che tu perseguiti “ , oggi molti dicono “ Cristo sì la Chiesa no”; Io sono quel Gesù che perseguiti ,dunque, nella persona dei suoi discepoli è il Signore ad essere perseguitato e allora voi capite che un elemento importante nella personalità di Paolo era quello che noi potremmo chiamare l’empatìa non la simpatia; cioè Paolo era uno che sapeva farsi carico della comunità, della fraternità, sapeva farsi carico degli altri; probabilmente se non avesse avuto questa empatia non avrebbe colto nei cristiani che lui perseguitava la presenza stessa di Gesù Cristo; dunque tra Gesù e i Cristiani c’è un’identità spirituale ; nella persona dei credenti Gesù stesso è perseguitato, quindi la Chiesa è il prolungamento della sua Umanità, la Chiesa è la sposa amata da Cristo e non si può separare la Chiesa da Cristo come non si può separare una persona dal suo corpo, come non si può dividere la sposa dallo sposo; sarebbe questa una violenza assurda; come si può separare la persona dalla unicità di se stessa? Paolo era una persona che aveva molto forte il senso dell’unità dell’uomo, io quando parlo di persona umana faccio un riferimento molto banale, ma se volete molto efficace: – a casa nostra abbiamo tutti delle credenze, dei comò e sono quasi tutti a cassetti; io tiro un cassetto, mi apro solo quel cassetto gli altri rimangono chiusi; la persona umana non è fatta a cassetti; la persona umana è fatta di un’unità, di una totalità! Se io sono stressato, se io ho un problema , se ho mal di testa, l’aspetto fisico, l’aspetto psichico, l’aspetto spirituale della persona umana funzionano insieme, non si può scindere e oggi il concetto di salute che non è più la salute fisica ma è la salute psicofisica; se io ho mal di dente, il dente è un elemento piccolissimo della persona, eppure se uno ha mal di dente, non ha voglia di fare niente, non ha voglia di pregare, non ha voglia di abbandonarsi a Dio, per dire come anche la nostra esperienza di fede deve essere così: si prega con tutto noi stessi anche la propria corporeità; voi pensate quanto danno abbiamo fatto anche nella nostra vita spirituale escludendo il corpo a volte dalla preghiera, escludendo la bellezza del corpo anche dalla nostra vita spirituale
perché il corpo veniva visto come fonte di passioni e mai invece come possibilità di espressione, come linguaggio, come ricchezza di linguaggio.         
Paolo ad un certo punto era una persona che ha colto l’unità della persona umana; la testa senza il corpo non ha senso, il corpo senza la testa non  è una cosa unita, perciò lui ha colto questa identità spirituale tra Gesù e i cristiani; non si può separare la Chiesa da Cristo, non si può separare la persona dal corpo, non si può separare la sposa dallo sposo, sarebbe una violenza assurda ed è per questo che lui ha compreso, che Gesù di Nazaret è il vero Messia, destinato a diventare il Salvatore di tutti gli uomini, di tutta l’umanità, di tutti i peccatori. Ecco, care sorelle, cari fratelli, io penso che forse Paolo qui ci insegna un grande principio fondamentale della psiche umana, cioè quello di imparare una unificazione nella nostra vita, oggi noi invece notiamo proprio questa continua separazione tra le persone; si pensa una cosa se ne dice un’altra e se ne fa un’altra ancora; a volte scherzando dico che se ci guardassimo allo specchio veramente, la nostra vita diventa un carnevale perché utilizziamo una maschera quando siamo soli, ne utilizziamo un’altra quando siamo in famiglia, ne utilizziamo un’altra quando siamo in parrocchia, ne utilizziamo un’altra quando siamo con altre persone, cioè noi procediamo nella vita per diversità, per distinzioni, invece Paolo era se stesso ovunque, sia quando era persecutore, sia quando ha fatto la scelta di Cristo; essere nella totalità del proprio essere, vivere nella totalità del proprio essere, e Paolo una volta fatta la scelta di Cristo a questa scelta è rimasto fedele ; soprattutto Paolo ha fatto una scelta importante, la scelta del dono della vita per i fratelli, dell’uscire da sé per andare verso gli altri, a Damasco Paolo ha avuto il dono di comprendere che della vita quello che vale di più non è l’affermazione di sé stessi a scapito degli altri ma il dono di sé stessi  a colui per il quale possiamo ritrovare la nostra vita e amare il nostro prossimo. L’amore per  il prossimo per Paolo è diventato inseparabile dall’amore di Gesù perché l’amore unifica, la centralità di sé divide; quante volte ci siamo trovati di fronte a persone che hanno voluto affermare la centralità di sé stessi e hanno diviso le comunità, hanno diviso le famiglie; l’amore invece unifica; invece vi capita che l’amore non è il piacere delle sensazioni, ad amare si impara, si impara accogliendo anche la diversità, accogliendo anche ciò che magari noi non abbiamo, noi non possediamo; ecco, su questo tema Paolo ha composto un bell’inno, pensate questo Paolo passionale, questo Paolo che ad un certo punto diventa anche molto polemico, molto forte, questo Paolo razionale. Andatevi a leggere questo inno alla carità: ritrovate questo Paolo calmo, sereno, semplice, profondo nello stesso tempo, la carità è paziente; secondo me l’inno alla carità è frutto di un percorso umano; andate a vedere tutti quegli elementi che Paolo ci
trasmette: ci sono elementi estremamente umani; se noi volessimo proporre alle persone un cammino di formazione anche umano, di equilibrio umano, basterebbe solo che gli proponessimo di vivere l’inno alla carità. La carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità; tutto copre, tutto crede, tutto sposa, tutto sopporta; A volte io questo testo lo propongo come esame di coscienza; se non dobbiamo esaminarci sulla carità, su cosa ci dobbiamo esaminare? Ecco, sull’amore e conclude poi Paolo “ la carità non avrà mai fine”; Paolo ha capito che c’è qualcuno al di sopra di tutti che merita di essere servito e amato sopra ogni altra cosa o persona: Gesù di Nazaret. Solo se noi impariamo a decentrarci possiamo fare la scoperta di qualcuno da amare profondamente; in fondo la persona autocentrata è una persona che ama solo sé stessa; la persona capace di decentrarsi è la persona che sa scoprire la bellezza di un amore che la può rendere più felice.
Paolo doveva poi far conoscere a tutti questa scoperta perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, in terra e sottoterra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore e gloria di Dio Padre.
Dunque a Damasco Paolo si è visto costretto a cambiare l’orientamento della sua vita e lo ha fatto in modo così netto e forte da lasciare  intravedere che in quel preciso momento in lui ha trionfato la Grazia di Dio; ma Paolo si è aperto alla Grazia di Dio, Paolo ha lasciato che la Grazia di Dio lo lavorasse, lo plasmasse; Paolo si è posto come creta di fronte alla grazia di Dio tanto è vero che lui dice, pensate anche l’autocoscienza che poi ha avuto di se stesso, tanto è vero che dice: “voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo, nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la chiesa di Dio e la devastassi”,ma quando Colui che mi scelse sin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua Grazia si compiaque di rivelare in me suo Figlio perché lo annunziassi ai pagani, non fù più così.Paolo ha saputo fare una attenta riflessione del suo passato alla luce della novità di Cristo. Ognuno di noi può fare i progetti che vuole, può anche illudersi di potere fare tutto da solo, ma quando Dio decide di entrare nella sua vita tutto cambia e cambia in meglio; a volte, diceva un grande filosofo spagnolo “ la mia fede è lottare con Dio”; a volte la fede è anche lotta, però dobbiamo lasciare che sia Dio a vincere perché se Dio vince, veramente la nostra vita può cambiare; dopo una lotta invece, di fronte a dei cristiani a delle persone che dopo una lotta buttano le armi, pensate oggi quanto sia difficile per esempio parlo anche per noi sacerdoti; costruire una relazione, una relazione se gratifica si porta avanti, ma appena quella relazione diventa un po’ conflittuale e difficile subito si molla, subito si chiude, subito si lascia perdere, e così che cosa troviamo noi,  noi troviamo delle persone che da un punto di vista affettivo io li chiamo i  vagabondi dell’affetto, vagabondaggio affettivo, si gira per trovare un affetto che gratifica ma non si costruiscono relazioni, semplicemente si consumano emozioni; non si può costruire  un rapporto su delle emozioni che consumano, ma il rapporto si costruisce sulla roccia e dunque la lotta, il confronto, le difficoltà, i problemi sono molto importanti da questo punto di vista; dunque Paolo lo ha imparato questo, che ad un certo punto anche gli sconvolgimenti della vita possono portare ad una vita migliore. Dovremmo di Paolo capire un’altra cosa: quando qualcosa nella nostra vita si chiude vuol dire che Dio vuole aprire qualche altra cosa, perché qualche cosa di nuovo nasca, questa è la legge della vita , qualche cosa deve morire, quindi se non accettiamo di morire non accettiamo di crescere, di guardare avanti ; Paolo ha accettato di morire a se stesso per potere ritrovare se stesso nell’amore di Dio, questo è anche un’indicazione umana molto importante, io vi consiglio se volete un bel libro sull’Apostolo Paolo, un testo di Albert Wanhoye “ Pietro e Paolo” ; ci sono due capitoli , uno sul carattere di Paolo e uno sulla vita affettiva di  Paolo; sono due capitoli della personalità di Paolo, vi leggo semplicemente un passaggio che riguarda la sua vita affettiva : è molto importante questo, dice l’autore, nei suoi rapporti con gli altri Paolo sfruttò veramente tutte le doti della sua affettività a cominciare dai suoi collaboratori. Come Timoteo che egli chiama figlio e a cui scrive: “sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia e anche tante altre persone, uomini e donne suoi collaboratori e collaboratrici a cui mostra molto affetto, alle sue comunità Paolo manifesta un’affetto paterno, un’affetto materno, un’affetto anche sponsale e ai cristiani della Galazia dice persino i miei bambini che partorisco di nuovo nel dolore , egli parla di un amore geloso per le sue comunità, quindi San Paolo ci insegna ad investire pienamente tutte le nostre capacità di azione, di affetto nel nostro amore per Cristo e nell’amore per le persone che Cristo ci affida, Paolo dice infatti : Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza ma di coraggio, di amore e di saggezza ; quindi in Paolo noi troviamo quelli che sono gli elementi che fanno l’umanità vera, l’azione, la passione, l’affetto, la razionalità che sono poi le sfere che costituiscono la struttura della persona umana, le troviamo veramente unificate; se noi le scindiamo noi avremo l’uomo tutta ragione, tutto testa o avremo l’uomo tutto cuore o avremo l’uomo tutto azione, proprio sempre un uomo bilaterale per potere avere una personalità piena questi elementi devono essere unificati insieme e io credo che Cristo possa essere davvero il collante di tutto questo per cui davvero quello che dice anche Giovanni Paolo II nella sua 1° enciclica REDENTIO HOMINI “ chi si avvicina a Cristo diventa anch’egli più uomo; e Paolo è anch’egli una testimonianza di questa bella affermazione.

La conversione di San Paolo? Ad opera di un brigante.

http://win.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=1095

La conversione di San Paolo? Ad opera di un brigante.

Di don Massimo Vacchetti – (2009)

Nell’anno giubilare dei duemilanni della nascita di San Paolo, la giornata di oggi assume un valore singolare. La Liturgia della Chiesa contempla due circostanze in cui ricorda l’apostolo delle genti: il 29 giugno il suo martirio assieme a quello di Pietro, il 25 gennaio quando ricorda la sua conversione. E’ un fatto unico che la liturgia più che fare memoria di un santo (nel giorno del suo dies natalis) celebra un fatto, un avvenimento. La storia di Paolo è una vicenda che riguarda un uomo. E’ lui che è ha visto la luce, ne è rimasto accecato, si è, convertendosi a Gesù, battezzato e ha annunciato il Vangelo in tutto il mondo allora conosciuto. Ma allo stesso tempo, sentiamo che questo fatto riguarda anche me perché quel suo annuncio, l’annuncio di Gesù morto e risorto, è arrivato come un lunghissimo eco anche a me. La vicenda di un uomo, nato a Tarso una città della Cilicia nell’attuale Turchia che s’intreccia con la mia. Per dirmi che la vita mia s’intreccia – che io ne sia consapevole o no – con il mondo intero. La vocazione di Paolo è quella di un uomo che se fosse stato possibile avrebbe infiammato tutti i paesi non solo nell’estensione dello spazio, ma nell’estensione del tempo. E in qualche modo c’è riuscito. Il suo nome vero è Saulo. E’ un giudeo, nato fuori dalla Palestina. Pare che i suoi genitori fossero scappati dalla Galilea quando i romani conquistarono la terra promessa. Tarso è una città importante. Saulo conosce bene l’ebraico in quanto figlio di una famiglia ebrea, il greco lingua madre degli abitanti i Tarso. Consce presumibilmente anche il latino godendo Tarso di una prerogativa privilegiata che è quello di conferire la cittadinanza romana, un privilegio singolare che l’apostolo farà valere così da giungere, scortato in catene, nella città imperiale. E’ un giovane colto e pieno di entusiasmo. Siccome è un ragazzo in gamba, viene mandato a Gerusalemme in Giudea per imparare bene le Sacre Scritture. Suo maestro è Gamaliele, uno che gode di una notevole fama al riguardo. La sua fede s’irrobustisce fino a detestare tutte le forme di eresia tra cui – così la riteneva – quella cristiana. Così partecipa alla morte di Stefano, un giovane della comunità cristiana che si prestava ad aiutare le vedove prive di sostentamento e in varie forme perseguita i discepoli di quel Gesù che per lui altro non è che un brigante e un bestemmiatore. Una volta racconta così il suo accanimento contro i cristiani: “Anch`io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch`io ho votato contro di loro. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all`eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere”. Una di queste città straniere è Damasco dove l’attendono un gruppetto di cristiani intimoriti forse dalle voci riguardo quest’uomo così impetuoso e risoluto. Durante il viaggio – è lui stesso a raccontarlo – “verso mezzogiorno, all`improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Risposi: Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti. Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. Io dissi allora: Che devo fare, Signore? E il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia”. Questo è l’episodio che ricordiamo oggi. “Chi sei? Sono Gesù”. Come a dire: “tu mi ritieni morto. Sono vivo. Eccomi!” Saulo è raggiunto dalla luce di Cristo vivo. E’ questa la chiave di volta di tutta la vicenda personale di Paolo e del suo annuncio. Cristo è vivo ed è luce. Su quella strada che doveva portarlo a portare un altro corpo mortale a quella banda di menzogneri, Gesù gli ha atteso un agguato. Come un brigante, Gesù lo ha atteso al varco e lo ha assalito. Mi viene in mente la famosa parabola che racconta Gesù. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono” (Lc 10,30) Come quell’uomo sulla strada tra Gerico e Gerusalemme, così Saulo sulla strada che da Gerusalemme portava a Damasco. Nella parabola di Gesù, il brigante lascia l’assalito alla pietà di un passante occasionale, buon samaritano. In questa circostanza, il brigante mentre disarciona, rialza; mentre ferisce, risana; mentre umilia, innalza; mentre arresta, manda; mentre acceca, rivela; mentre crocifigge, fa rinascere. Questa è la festa dell’ironia di Dio che rovescia le nostre logiche. Invece che prendere il più fedele e pio dei cristiani, ha scelto il peggiore dei persecutori capovolgendo il destino della sua vita e della nostra. Che Dio, nella sua ironia, ci tenda un agguato che ci cambi la vita.

Il Vangelo secondo Paolo: fede, speranza, carità (di Luigi Padovese)

http://letterepaoline.files.wordpress.com/2010/09/padovese-vangelo.pdf

Il Vangelo secondo Paolo: fede, speranza, carità

di Luigi Padovese

inPREMESSA

In alcuni studi sulla storia del pensiero cristiano antico è stato rilevato l’accresciuto interesse per Paolo e per il suo epistolario, che caratterizza le opere degli scrittori ecclesiastici del IV secolo. Sono ben 21 i commentari delle lettere paoline di questo tempo dei quali abbiamo notizia certa [1]. Circa le possibili motivazioni di questa concentrazione le risposte date sono diverse. In particolare il riferimento alla persona di Paolo è addotto come modello di conversione e di vita cristiana in un’epoca in cui la Chiesa va assumendo la fisionomia di una “potenza” terrena producendo la reazione di quanti vogliono vivere con rigore e radicalità l’ideale da essa proposto. Nel momento in cui l’appartenenza al cristianesimo incomincia a divenire pura formalità, senza scosse o rivolgimenti di coscienza, l’apostolo acquista un interesse sempre maggiore divenendo il principale referente del cristiano convertito. Il Paolo di Basilio, di Giovanni Crisostomo, d’Ilario, di Agostino, è anzitutto il modello da imitare in un cammino di fedeltà al messaggio evangelico rispecchiato nelle lettere dell’apostolo. Quando nelle Regole Morali, compendio dei doveri del cristiano, Basilio di Cesarea proporrà per 16 volte la questione identitaria e pratica di che cosa è proprio del cristiano (Ti idion Christianou?), sarà soprattutto negli scritti di Paolo che reperirà la maggior parte delle risposte [2]. Lo stesso avviene anche per altri teologi e pastori in momenti diversi della storia cristiana. Si consideri, ad esempio, l’influenza che l’epistolario paolino ha acquisito per gli umanisti ed i Riformatori del ’500 presso i quali il ritorno ad fontes è stato inteso come un ritorno a Paolo ed ai vangeli [3]. Eppure l’apostolo, mediante vita e lettere, oltre ad essere assurto a simbolo della non omologazione della Chiesa a questo mondo, ha alimentato anche i movimenti che al suo interno hanno tenuta viva la tensione tra carisma ed istituzione. La “sapienza” o “filosofia di Cristo” – formula d’impronta paolina cara ai Padri ed alla letteratura monastica medievale – è divenuta emblematica della radicalità nella sequela evangelica. Non meraviglia dunque che Paolo sia stato assunto anche a modello degli asceti cristiani. Basti accennare alla Vita Antonii, scritta da Atanasio (tra il 355 e il 361), vero e proprio manifesto -1www.letterepaoline.it – ideologico e pratico del monachesimo, in cui l’apostolo figura come il perfetto imitatore di Cristo che Antonio, e quindi ogni monaco, deve seguire [4]. Paolo, pertanto, con le sue lettere ha svolto all’interno della comunità cristiana una funzione di vigilanza e di correzione contro ogni forma di snaturamento del messaggio cristiano, ma è stato anche stimolo e richiamo ad una radicalità di fede espressa nell’imitatio Christi. Questi due aspetti, fedeltà del messaggio evangelico e imitazione di Cristo, sono compendiati nella trilogia di fede, speranza e carità che l’apostolo richiama tre volte e che gli servono per specificare e sintetizzare il fondamento e le modalità del vivere cristiano [5]. Legando inscindibilmente tra loro fede, speranza e carità egli raggiunge ogni singolo aspetto della vita credente: la fede quale definizione dell’essere cristiano e della sua identità personale, la speranza come l’attesa fiduciosa e sicura di quanto la fede proclama, “abbandono fiducioso in un Dio che salva”, la carità, infine, quale fede tradotta in azione ed avente come modello il Crocifisso. Non si tratta perciò di tre virtù giustapposte ma d’un’unica indivisibile realtà che solo per necessità didattica consideriamo partitamente. 

LA FEDE DI PAOLO
Tra gli autori del Nuovo Testamento l’apostolo è certamente quello che parla più spesso di “fede”. Tale vocabolo ricorre 142 volte rispetto alle 101 ricorrenti nel Nuovo Testamento. Ma in che consiste questa fede? La risposta è il vangelo, ossia la buona novella trasmessa oralmente circa la persona di Gesù, la sua passione, morte e resurrezione. Se nell’annuncio primitivo ad Israele o ai fedeli della diaspora, si tratta della proclamazione di fede in un Dio unico, il punto di partenza d’ogni confessione cristiana è la fede in Cristo [1]. Non mancano nelle lettere di Paolo formule di fede trinitaria, anch’esse però si appoggiano sulla realtà del Cristo risorto al quale appartiene il potere di fare delle opere che competono solo a Dio per mezzo dello Spirito Santo inviato ai credenti [2] La controprova circa il carattere cristologico delle prime professioni di fede è offerto dal fatto che in tutte le primitive formule è menzionato il Cristo, ma non in tutte compare il Padre [3]. E si tratta di brevi formule di acclamazione, facili da ricordare, indicanti un fatto: “Gesù è il Signore” (1Cor 12,3) [4], oppure un evento: “Gesù morì e risorse”(1Ts 4,14), “Dio ha risuscitato Gesù dai morti” (Rom 10,9). Talvolta, fatto ed evento sono associati (cf. Rom 1,3s.). Se da queste brevi e più antiche formule di fede cristologica si passa a ricercare gli elementi peculiari della predicazione missionaria primitiva, li si ritroverà nel kerygma annunciato da Paolo ai Corinzi (1Cor 15, 3-6) comprendente: 1) il richiamo alla morte ed alla resurrezione di Gesù; 2) la testimonianza scritturale dei due eventi; 3) il richiamo ai testimoni. È scomparso il tema del Regno, o meglio, l’annuncio del Regno è divenuto l’annuncio di Gesù: quello giunge mediante questo. All’apostolo non interessa l’uomo Gesù, che non vuole conoscere “secondo la carne” (2Cor 5,16). Focalizza piuttosto la sua attenzione su passione, morte e resurrezione di Gesù quali eventi che mostrano l’azione divina in Lui. Ma v’è di più: nell’annuncio paolino tali eventi sono ancorati alla vita di ciascuno mediante l’osservazione che essi avvennero “per le nostre colpe” (Rom 4,25), “per la nostra giustificazione”(Rom 4,25). “Mi ha amato ed ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). La vicenda di Cristo e la storia personale di ciascuno sono così inscindibilmente intrecciate. Se nella religiosità antica è l’uomo che ha bisogno e va in cerca di Dio, nell’annuncio cristiano si presenta l’inverso: Dio, l’Abbà, attraverso Cristo, cerca l’uomo per salvarlo. Questo è il nucleo del credo annunciato da Paolo ma anche la ragione dello scandalo cristiano che egli non passa sotto silenzio o addolcisce, anche se ciò potrebbe rendergli la vita meno difficile. Lo dichiara ai Galati 5,11: «Quanto a me, fratelli, se dicessi che la circoncisione è necessaria, gli ebrei non mi perseguiterebbero più, ma in questo caso la croce di Cristo non sarebbe più per loro motivo di scandalo». Paolo è ben cosciente che la fede in Cristo contrasta tanto con la concezione paganeggiante di Dio che si pensa sia appagato da un formale ossequio religioso, quanto con un’idea di Dio, provvidente e buono, che tuttavia non potrà mai abbassarsi al nostro livello fino al punto di nascere povero da una insignificante donna ebrea e di morire come un delinquente sul supplizio della croce, riservato agli schiavi (servile supplicium). L’apostolo è consapevole delle resistenze che il suo annuncio produce, quando dichiara che «la parola della croce è stoltezza per i perduti, per noi, i salvati, è potenza di Dio» (1Cor 1,18). La stoltezza risiede nella croce predicata come azione salvifica di Dio che confonde l’uomo il quale presume di procurarsi la salvezza da sé [5]. Eppure è proprio questa fede difficile che, secondo Paolo, dà la giustizia. Così infatti si esprime in Gal 3,11 e in Rom 1,17, dove dichiara che «il giusto per fede vivrà», cioè colui che è reso giusto a motivo della (sua) fede (in Cristo) vivrà [6]. La giustizia è data a chi accoglie questo difficile annuncio di Dio che ci salva attraverso la croce. Mai nessuna fede in Dio è in grado d’impegnare tanto concretamente quanto il fatto di credere nel Dio nato povero e morto crocifisso. La fede cristiana, insomma, non rimane nell’ambito della pura credenza, del solo pensiero, non è astrazione. Proprio perché si fonda sulla concretezza di Cristo che non era un fantasma e la cui croce non era un’illusione, impone di compromettersi con Colui al quale aderisce. È una fede che non accetta interpretazioni spiritualistiche poiché incarna una reale protesta contro tutte le ingiuste forme di selezione e di pressione naturale e sociale (ricchi e poveri, schiavi e liberi, uomini e donne). In essa, infatti, «colui che è senza potere viene proclamato signore del mondo, la vittima sacerdote, il condannato giudice, l’emarginato il centro della comunità» [7]. Può una tale fede rimanere senza incidenza nella vita dei cristiani? Se lo è, allora il problema è se uno è veramente cristiano. Dietro la convinzione che si è giustificati se si accoglie questo Gesù come Salvatore, si coglie l’esperienza personale di Paolo che sulla via di Damasco è chiamato da Cristo senza alcun merito. È l’esperienza della gratuità o della grazia – termine che nel linguaggio paolino ricorre 100 volte sulle 154 del NT – e che ha il senso fondamentale di “benevolenza” [8]. La cosiddetta “conversione” di questo orgoglioso fondamentalista ebraico che aveva identificato l’amore per la Legge con l’aggressione ai dissidenti cristiani [9], non significa passaggio da uno stato di dissipazione morale ad una vita austera, e neppure indica un cambio di religione, ma adesione «a una persona viva e liberante come Gesù Cristo, capace di orientare in una nuova direzione non solo le energie umane di cui si dispone, ma anche i propri valori religiosi di origine» [10]. Da questo punto di vista si capisce perché l’apostolo, in riferimento alla sua vicenda personale, non parli di un “convertirsi, ravvedersi”, “ricredersi”, “cambiare”. L’esperienza di Damasco è piuttosto “chiamata”, “elezione, “rivelazione” nella quale anche la fase precristiana trova senso; è servita, infatti, a trarre dall’ebreo fanatico l’apostolo delle genti e dallo scrupoloso ed intransigente legalista l’annunciatore della libertà cristiana. La conversione dell’apostolo – se si vuole usare ancora questo termine – è iniziativa assoluta di Dio, non dell’uomo, ed implica «riorganizzazione dei suoi migliori valori ideali attorno a Cristo, che fa irruzione nella sua vita» [11]. C’è così un rapporto di continuità/discontinuità rispetto al passato, ma anche la convinzione che tutto il cammino umano è risposta a Dio che si rivela e chiama. In questo senso si capisce meglio perché Paolo parli di vocazione che trascende la discontinuità [12]. Ai Galati trasmette proprio questa convinzione d’essere stato scelto da Dio fin dal seno di sua madre, chiamato con la sua grazia, e fatto oggetto della rivelazione del Figlio perché la annunci alle genti (cf. Gal 1,15). Se l’evento di Damasco ha significato per l’apostolo il passaggio dalla cecità alla luce, è anche vero che nella penetrazione del mistero di Cristo egli ha avuto bisogno dei suoi compagni di fede. È nel contatto e anche nel confronto con essi che egli è maturato. L’unità interiore presente nel suo pensiero non ha escluso un divenire, una crescita. Come è stato scritto, il fatto «che nell’annuncio del suo vangelo Paolo resti fedele a sé stesso non significa che egli permanga costantemente nelleoggettivazioni teologiche della sua riflessione… la fedeltà al suo compito lo obbliga a una sempre nuova riflessione, a un sempre nuovo inizio teologico. Il vangelo non può essere superato, ma lo stadio di una riflessione teologica lo può assai bene. E riflessione teologica vuol dire anche congedarsi dalle idee teologiche alle quali un tempo si era affezionati. Che la teologia si fa continuamente nel campo di tensione di continuità e discontinuità Paolo lo ha ben capito!» [13]. La maturazione della fede in Cristo per Paolo si è prodotta all’interno della comunità cristiana e non senza di essa. Egli ne era ben cosciente. È questa la ragione che per due volte lo spinge a confrontarsi con Pietro e Giacomo (cf. Gal 1,18) e quattordici anni più tardi con costoro, con Giovanni e con «le persone più autorevoli (della comunità di Gerusalemme) per non correre o aver corso invano» (Gal 2, 2). La Chiesa è per l’apostolo qualcosa di costitutivo per l’esistenza cristiana. Non è pensabile un cristianesimo “separato”, cioè una divisione in gruppi disparati che si tengono solo esteriormente legati mediante la comune confessione di Gesù Cristo. In realtà la comunità di Dio nel Nuovo Patto già dalla sua costituzione e concezione di base si edifica fin dall’inizio unitariamente sul “fondamento degli apostoli e dei profeti” e raccoglie tutti i membri e i gruppinell’edificio di cui la pietra angolare e chiave di volta è Cristo (cf. Ef 2,20). La fede cristiana, non può dunque prescindere dalla comunità. 

LA SPERANZA DI PAOLO
È nel III sec. a.C. che ad Alessandria è stato tradotta parte dell’Antico Testamento dall’ebraico al greco. Nella traduzione in greco del salterio i soli termini “speranza” e “sperare” sono stati utilizzati per tradurre 28 termini ebraici. Questo termine s’è così caricato di una ampia portata semantica perché mostra diverse sfaccettature. La speranza biblica raccolta nasce dalla convinzione che Dio è padrone della storia e del tempo della storia. Pertanto, il libro che narra le vicissitudini di Israele e la storia del suo rapporto con Dio è per Israele il libro della speranza che sorregge soprattutto nel momento della prova [1]. Poiché Dio è sempre fedele a sé stesso (cf. Eb 3,6), riesce possibile, anzi doveroso ricercare nella storia le ragioni della speranza. «Tutto quel che leggiamo nella Bibbia – dichiara Paolo – è stato scritto nel passato per istruirci e tener viva la nostra speranza, con la costanza e l’incoraggiamento che da essa ci vengono» (Rom 15,4). La speranza biblica si alimenta di memoria ed è ben diversa da quanto nel mondo greco s’intende per speranza, considerata piuttosto futurologia, ossia la tendenza di mettersi al riparo dal futuro considerandone tutti i possibili rischi. Sulla base del presente, insomma, ci si tutela per il domani. «La elpís (speranza) dell’uomo saggio… si fonda sulla physis (natura) esplorata scientificamente. La tendenza, prettamente greca, a garantirsi dal futuro inserendosi razionalmente e organicamente nell’ordine cosmico trova qui la sua espressione caratteristica» [2]. Per Paolo il fondamento e la ragione ultima della speranza è la fede in Gesù Cristo morto e risorto, che illumina il presente ed il futuro: «Egli è la nostra speranza» (Ef 1,12). Non sorprende che questo concetto, comprendente diversi aspetti, sia centrale negli scritti dell’apostolo (36 volte compare il termine “speranza” e 19 volte il verbo “sperare”) e neppure meraviglia che sia divenuto oggetto di continua riflessione da parte di filologi, biblisti e patrologi [3]. È particolarmente nella lettera ai Romani che Paolo presenta la speranza nei suoi elementi di attesa, fiducia, pazienza. Non è una trattazione astratta, dal momento che Paolo scrive tenendo presente le aspettative, le necessità, le prove concrete delle sue comunità a confronto con un mondo avverso al quale dare prova concreta che Cristo già regna e che le forze disumanizzanti del male saranno completamente vinte. Salvezza presente e futura sono congiunte insieme nella speranza che fa da ponte tra le due. È lo Spirito ad alimentarla e ad accrescerla in noi. «La speranza – scrive ai Romani – non porta alla delusione perché Dio ha messo il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci ha dato» (Rom 5,5). Non è attesa di un possibile bene futuro, bensì come aspettazione certa di un bene in atto: è un fermento che già opera nella pasta benché non si veda che dai suoi effetti e che attende anche il nostro contributo, come tutti i doni di Dio che non maturano senza la collaborazione umana. Deve, pertanto, divenire operativa (cf. Col 1,4-5) e non esiste se non congiunta alla fede ed alla carità (cf. 1Co 13,13). Non è aspettazione passiva, fatta di pigra inerte attesa, estraniante dall’impegno nel presente. A quei Tessalonicesi che la pensavano così, l’apostolo scrive: «Non dobbiamo dormire come gli altri, ma stare svegli e lucidi di mente… mettendoci la corazza della fede e dell’amore e l’elmo della speranza della salvezza» (1 Ts 5,5-6.8). Mentre ci apre al futuro, serve a vivere meglio il presente, anche se non può limitarsi ad esso, dal momento che, secondo Paolo, «se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini» (1Cor 15,19). A questo riguardo va osservato che mentre i non credenti nella sofferenza si scoraggiano e disperano, i cristiani, proprio attraverso di essa, maturano nella forza, «e questa forza – commenta Paolo – ci apre alla speranza» (cf. Rom 5,2-5). Umanamente questo comportamento può risultare incomprensibile: come può nascere o perdurare la speranza nelle contrarietà e nella sofferenza? Eppure è proprio questa che aiuta a vivere la sofferenza come un valore. La speranza colora la realtà, modifica il dolore da realtà puramente negativa in realtà positiva, perché dà ad esso un significato. Questa speranza che anima il cristiano può inoltre permettergli di parlare nel mondo con tutta franchezza: è la virtù dei martiri. Come dichiara Paolo: «poiché abbiamo questa speranza, possiamo parlare con grande franchezza» (2Cor 3,12). Il cristiano che ha posto tutta la sua fiducia nel Risorto, non ha nulla da perdere e da temere. La speranza escatologica si tramuta così in agire storico: diviene il fondamento della “parresia”, del parlar chiaro, della critica costruttiva; non estrania dal mondo ma neppure circoscrive in esso. È la fede che guarda in avanti e che mantiene viva nel cristiano la tensione verso quei beni che Dio ha preparato per coloro che lo amano. 

LA CARITÀ DI PAOLO
Come per la fede e la speranza, anche la carità trova il suo aggancio nella persona di Gesù al punto che nell’inno alla carità di 1Cor 13 ogni espressione riferita all’amore si può applicare alla sua vita, parole ed azioni. In accordo con il Sermone della montagna, l’amore precede tutti i carismi che non hanno valore se esso manca. Il quadro che Paolo fornisce dell’amore (cf. 1Cor 13,4-7) non è di una virtù cardinale cristiana, ma quello della piena partecipazione all’agape di Dio Padre che, attraverso Cristo, ama in modo del tutto gratuito (Rom 5,6) anche chi non lo merita (Rom 5,10), sino ad acconsentire alla morte del Figlio «affinché il mondo abbia la vita» (Rom 5,8). Gesù è perciò l’incarnazione dell’amore di Dio (Rom 8, 39). È sulla croce che questo amore, manifestato nell’obbedienza di Cristo al Padre, trova la sua massima espressione (Fil 2,8). Il comandamento cristiano dell’amore trova la sua motivazione cristologica in Colui che serve e si sacrifica per noi. «Su questo punto l’etica e la teologia della croce di Paolo stanno in intima dipendenza vicendevole» [1]. Da qui scaturisce per il cristiano l’impegno all’amore reciproco (1Cor 8,3; Rom 8,28) che non è possibile se non è lo Spirito a farcene dono (Rom 5,5). L’amore del prossimo, dunque, non è semplice filantropia ma nasce a contatto con la realtà dell’oblazione totale di Cristo. La fede in Lui diventa così efficace nell’amore (Gal 5,6). Con altre parole Paolo dichiara che nell’amore trova adempimento la legge che non è quella mosaica, bensì la legge di Cristo (Gal 6,2) [2]. Questa va che interpretata a partire dall’amore e non l’amore a partire dalla legge, come nel giudaismo [3]. L’amore cristiano si carica così di più contenuti sia rispetto all’amore com’è inteso nell’Antica Alleanza, ma anche rispetto al semplice amore umano, dal momento che esso è fondato sull’evento della morte e resurrezione di Cristo e sul dono dello Spirito. È superato il precetto dell’amore di se stessi come misura dell’amore del prossimo (“Ama il prossimo tuo come te stesso”). Paolo, in effetti, «non fa mai dell’amore di sé la norma dell’amore del prossimo» [4]. Come potrebbe dinanzi a quel Cristo che – come dichiara – «ha consegnato se stesso per me?» (Gal 2,20). Nemmeno considera l’amore come una virtù civica, frutto di un processo pedagogico o come “eros”, nel senso di amore di quanto è vero, bello, buono. E neppure considera l’amore come sentimento, come legame emozionale nel senso del soggettivismo moderno, bensì come solidarietà con tutti e come opposizione ad ogni forma di discriminazione. L’amore divino trasforma i cristiani in suoi interpreti ed agenti [5]. Scrivendo ai Tessalonicesi Paolo li esorta all’amore «degli uni verso gli altri e verso tutti» (1Ts 3,12) e nella lettera ai Galati invita «a fare del bene a tutti, specialmente ai fratelli di fede» (Gal 6,10). Le opere dell’amore, per l’apostolo, non costituiscono poi prestazioni eccezionali ma sono rivolte a tutti e non ad una élite, come emerge dalla lettera ai Corinzi in cui Paolo tratteggia il carattere dell’amore cristiano che è generoso, benevolo, non conosce invidia, superbia, scortesia, egoismo, irascibilità, astio, piacere dell’ingiustizia (cf. 1Cor 13,4-7). È l’incorporazione a Cristo manifestata nel comportarsi come lui – dottrina centrale del pensiero paolino – che mentre rende possibile una nuova relazione con Dio, fonda pure la relazione dei cristiani tra di loro, dando origine ad una comunità dove i singoli, pur mantenendo le particolarità individuali si trovano in una situazione di eguaglianza e in un rapporto dialogico e immediato. Questa diversità nell’unità è resa mediante l’immagine del corpo in cui ogni membro trova la sua collocazione e dove l’amore fa da collante (cf. 1Cor 12,12-27). La differenziazione non è però discordanza poiché ormai «non c’è più giudeo o greco, schiavo o libero, uomo o donna» (Gal 3,28). Paolo raccoglie nel termine di “fratelli”, tanto ricorrente nelle sue lettere, il nuovo tipo di rapporto all’interno della comunità. Nell’antichità, sia l’immagine del corpo che l’utilizzo dell’espressione di “fratello” non era ignota, eppure in Paolo assume una particolare intensità e viene presentata con estrema coerenza. Se infatti l’altro viene sperimentato come membro dell’unico corpo, lo si può amare come se stessi. Se lo si considera fratello, si possono trasferire su di lui quelle emozioni e attenzioni che di norma spettano a quanti sono geneticamente fratelli [6]. In tal caso la sua felicità ed il suo dolore vengono percepiti come parte della propria felicità e dolore. «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri» (Rom 12,15-16; cf. Gal 6,2: «Portate gli uni i pesi degli altri: così adempirete la legge di Cristo»). È sulla base di questa idea di fraternità che l’apostolo valuta i diversi comportamenti all’interno della Chiesa. La carità verso i poveri cristiani di Gerusalemme è presentata ai cristiani di Corinto come un fare uguaglianza. «Qui – scrive – non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza» (2Cor 8,13). La fratellanza spirituale che l’apostolo proclama, trova la sua realizzazione nella vita quotidiana. Per l’apostolo è vero che «l’amore sopporta tutto, ma anche per lui non sopporta differenza tra i cristiani» [7]. In una comunità di fratelli l’amore trova espressione nella reciprocità e nell’umiltà sull’esempio di Cristo che abbassò se stesso rinunciando al proprio stato. Lo afferma nella lettera ai Galati in cui dichiara: «Per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri» (5,13). L’umiltà che di norma è l’atteggiamento di chi è sottomesso, diviene per Paolo una virtù sociale mostrata nella kenosi di Gesù prodotta dall’amore. «Nella congiunzione tra i due valori dell’amore e dell’umiltà diventano visibili la struttura portante e la novità del nuovo ethos (dover essere) cristiano primitivo» [8]. Certo, l’apostolo nel presentare l’esempio di Cristo come modello di amore che si offre e si umilia è al corrente dei conflitti all’interno delle sue comunità, inaccettabili all’interno d’un gruppo che si ritiene costituito da uguali. La proposta che egli offre per risolvere tali difficoltà – caratteristica delle sue lettere – sarà quella del cosiddetto “patriarcalismo d’amore”, che «lascia sussistere le disuguaglianze sociali, ma le compenetra con uno spirito di rispetto, di considerazione e di premura personale. Il riguardo per la coscienza altrui, anche quando è “debole” e segue norme superate, rappresenta senza dubbio uno dei tratti più simpatici di questo patriarcalismo d’amore» [9]. Riassumendo quanto detto, è possibile affermare che Paolo ci indica un’etica cristo-noma e comunitaria, perché prodotta dall’evento salvifico di Cristo, ossia dalla fede in Lui che opera attraverso l’amore (Gal 5,6). Paolo indica altresì una spiritualità che non propugna una perfezione individuale (Dio-io), ma che esige anche una perfezione sociale (Dio-noi), costruita sulla idea che tutti facciamo parte di un unico e medesimo corpo (cf. Ef 2,21-22; 4,1-16), legati dalla stessa vocazione e dallo stesso destino (cf. 1Cor 12,25-26; 2Cor 1,5-6; Fil 2,17). 

CONCLUSIONI
Nell’introduzione al Commento alla lettera di Paolo ai Romani, Giovanni Crisostomo dichiarava: «Soffro e mi fa pena che non tutti conoscano quest’uomo come e quanto merita… Quel che io so – aggiungeva – devo attribuirlo al fatto di avere continuamente fra le mani i suoi scritti e di studiarli, come sono solito fare, con il più grande trasporto d’affetto. È proprio quanto suole avvenire a quelli che si amano, i quali appunto per questo, conoscono più e meglio degli altri le azioni delle persone amate». Queste considerazioni del Crisostomo, mentre esprimono il suo entusiasmo per Paolo, sono per noi un invito a meglio conoscerlo. Il richiamo ad alcuni aspetti della triade fede/speranza/carità, nella quale l’apostolo sintetizza elementi costitutivi dell’identità del cristiano, mostra la consequenzialità del suo pensiero che è anzitutto frutto di una esperienza. Non è senza ragione che egli insegna le sue “vie in Cristo” (1Cor 4,17) cioè quanto può aiutare le comunità a condurre una vita cristiana. Alcune direttive dell’apostolo non hanno più ragione d’essere, perché circoscritte nel tempo e nella cultura di allora (il problema delle carni sacrificate agli idoli, l’obbligo del velo per le donne, ecc.). Altre, invece, hanno una validità universale anche se l’ambito della loro concretizzazione può essere diverso. L’esempio ci è fornito proprio dalla triade fede/speranza/carità. Un confronto con la fede di Paolo può renderci più consapevoli che l’elemento specifico e differenziante del cristianesimo è dato dalla persona di Gesù. L’analisi degli altri contenuti della fede non deve mai farci dimenticare cos’è essenziale e quanto non lo è. Nella gerarchia delle verità cristiane la realtà del Cristo morto e risorto sta per noi al primo posto. Non c’è altra strada che porti a Dio se non questa umanità del Cristo nella quale è assunta l’umanità e la croce di ogni uomo: «Ciò che avete fatto a uno di questi piccoli, l’avete fatto a me». Non dobbiamo poi mai dimenticare che al centro dell’annuncio cristiano sta la croce di Cristo, «scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani (1Cor 1,23). Si illuderebbe chi pensasse che dopo 2000 anni di cristianesimo questo scandalo non esiste più. Esso rimane e deve servire a purificare la nostra fede, ma anche a contestare i falsi idoli di chi ignora la sofferenza degli innocenti e soffoca la libertà. Al tempo stesso la fede nella resurrezione ci ricorda che non siamo degliarrivati e che l’immortalità e la vita beata non si trova qui, in illusori paradisi artificiali, come vorrebbe farci credere la pubblicità invasiva del mercato con i suoi prodotti. Come scriveva Giovanni Paolo II, nella bolla del giubileo Incarnationis mysterium, «L’incarnazione del figlio di Dio e la salvezza che Egli ha operato con la sua morte e resurrezione sono il criterio per giudicare la realtà temporale e ogni progetto che mira a rendere la vita dell’uomo sempre più umana». Il linguaggio ecclesiale odierno è orientato ad accentuare le “ragioni della speranza” e trova proprio in Paolo un indispensabile supporto perché l’apostolo le ha comprese ed applicate alla vita concreta della sue comunità. Anche la prossima enciclica del Papa avrà per oggetto questa fondamentale virtù cristiana. La ragione è evidente: molti uomini dinanzi alle tragedie presenti, sono sempre meno abituati ad aspettarsi qualcosa da un futuro escatologico, vivono in una serena assenza di speranza e la vita attuale appare come l’unica e l’ultima occasione dove quel che conta è trarre da essa tutto il possibile, non perdere nulla, sperimentare tutto quello che si può. Sempre di più, sempre più in fretta, sempre più superficialmente. Questo atteggiamento porta in sé qualcosa di disperato, soprattutto quando l’appagamento non arriva subito o diventa impossibile. Si afferma così la tentazione dello scetticismo e della sfiducia e l’apertura al futuro, componente essenziale dell’uomo “essere di speranza”, quando non è del tutto rimossa [1], viene ristretta al particolare, all’oggi. Contro questa tentazione l’apostolo ci richiama alle due verità su cui si erge la speranza cristiana: nel sapersi scelti da Dio prima della creazione del mondo (Ef 1,4), nel sapersi destinati ad essere simili al Figlio suo per partecipare alla sua gloria (cf. Rom 8,30). La porta d’ingresso nel mondo è l’elezione; la porta d’uscita l’eredità promessa (Ef 1,14). Si entra in quanto scelti, si esce in quanto figli e, come tali, eredi con Cristo (cf. Rom 8,17). Eppure queste attestazioni, alle quali possiamo offrire pieno assenso intellettuale, ancora non bastano: occorre che la nostra speranza vada nutrita e cresca nel confronto con la speranza degli altri. Da questo punto di vista potremmo parlare della “ecclesialità della speranza”: una virtù, insomma, che si con-divide, si com-partecipa. Quell’articolo del Credo che predica la “comunione dei santi” va perciò letto anche come una comunicazione di speranza: apprendiamo a sperare da quanti hanno imparato a farlo prima di noi e, a questo proposito, proprio Paolo ci è maestro. In relazione alla carità l’apostolo ci rimanda alla rivoluzione più considerevole prodottasi nell’umanità: la convinzione introdotta da Gesù che Dio ama singolarmente ciascuno: non soltanto in quanto parte di un gruppo, di un popolo, di un tutto. Il mondo pagano crede agli dèi, ma a nessuno è venuta in mente l’idea che si possa essere amati personalmente da Dio. Tutto cambia se si pensa che si è al centro del suo interesse. Tutto cambia: il senso della vita, il significato della sofferenza, della malattia, della morte. Chi – come l’apostolo – sperimenta questo amore, non può che annunciarlo. E oggi questo comporta inserire nella società dinamiche di gratuità, di accoglienza, di misericordia e di perdono: dare quello che abbiamo ricevuto e continuamente riceviamo. Il Padre che ha offerto il proprio Figlio e l’ha consegnato alla morte c’insegna una morale della solidarietà, dove il rapporto io-altro (“Non fare all’altro quello che non vuoi sia fatto a te) è rovesciato nel rapporto altro-io e dove il rapporto io-per-te non implica un tu-per-me. È gratuità che non si aspetta riconoscimenti o un contraccambio. È, insomma, l’atteggiamento del Padre che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e che Gesù c’invita ad imitare («Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste»: Mt 5,48). Paolo l’ha ben capito ed è per questo che senza vanto, ma con piena consapevolezza che nessuno poteva smentire, non cessa di rivolgere ad ogni cristiano l’invito fatto ai Corinzi: «Diventate miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1; cf. pure 1Cor 4,16). 

Nota a Premessa
1] Cf . M.G. Mara, Agostino interprete di Paolo, Milano 1993, p. 13. 
[2] Cf. M. Girardi, Tormento ed estasi; sedici domande di Basilio di Cesarea sull’identità cristiana (Reg. Mor. 80,22), in “Annali di Storia dell’Esegesi” 23/1 (2006), pp.118-119.127. 
[3] Cf G. Pani, Le modificazioni dell’identità cristiana tra Medioevo ed Età moderna in rapporto all’epistolario paolino, in “Annali di Storia dell’Esegesi” 23/1 (2006), pp. 266-268. [4] Sul tema cf. M.G. Mara, Il ruolo di Paolo nella proposta monastica della Vita Antonii, in L. Padovese (cur.), Atti del I Simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 1993, pp. 129-138. Si veda pure P. Siniscalco, Parola di Dio e spiritualità monastica nella Vita Antonii di Atanasio, Salonicco 1995, pp. 177-185. Analizzando il testo della Vita Antonii, Siniscalco osserva come l’impegno del lavoro manuale, il tema del combattimento contro il demonio, il senso della provvisorietà delle cose terrene e la tensione verso il futuro definitivo trovano un supporto nelle lettere di Paolo. [5] I testi in cui la triade compare esplicitamente in Paolo sono 1Ts 1,3; 5,8; 1Cor 13,13. Sul tema l’utile presentazione di R. Fisichella, La triade Fede, Speranza e Carità in Paolo – Una riflessone teologica, in L. Padovese (cur.), Atti del III Simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 1995, pp. 74-86. 
Note su Fede
[1] La conferma ci è offerta anche dal fatto che il battesimo, stando a Gal 3,27 e Rom 6,3, veniva effettuato “in Cristo” o “nel nome di Gesù” (1Cor 1,13b-15). In At 2,38 Pietro dichiara: “Pentitevi e ciascuno si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo” (cf. pure At 10,48). Se originariamente la formula “essere battezzato nel nome di Gesù”, serviva – sembra – a distinguere il battesimo cristiano da quello del Battista, è possibile che successivamente vi sia stata un’evoluzione verso un significato più profondo, come lascia supporre Paolo (cf. 1Cor 1,12-16): un rapporto di questo rito che rimette i peccati con l’espiazione compiuta sul Calvario. Cf. S. Légasse, Alle origini del battesimo – Fondamenti biblici del rito cristiano, trad. it. Milano 1994. 
[2] Sul tema cf. P. Grech, Formule trinitarie in San Paolo, in L. Padovese (cur.), Atti del IV Simposio di Tarso su San Paolo Apostolo, Roma 1996, pp. 133-138. Grech rileva come l’individuazione di tali formule in Paolo sia ancora oggetto di discussione. Resta il fatto che Paolo è il più antico autore del Nuovo Testamento a trasmetterle. «I generi letterari in cui occorrono queste formule sono i seguenti: un’acclamazione monoteista (1Cor 12,4-6), benedizione finale (2Cor 13,13), Sendungsformel (Gal 4,6), annunzio di resurrezione (Rom 8,11),chiamata profetica (Rom 15,16), e ringraziamento (2Cor 1,21). Il dato comune a tutti i detti trinitari è che Dio salva per mezzo di Cristo con la santificazione dello Spirito Santo» (ivi, pp. 134-135). [3] O. Cullmann, La fede ed il culto della Chiesa primitiva, trad. it. Roma 1974, pp. 108-109. 
[4] Cf. 1Cor 8,6; Rom 10,9. 
[5] Cf. H. Conzelmann, Teologia del Nuovo Testamento, trad. it. Brescia 1972, pp. 313-314. 
[6] Cf R. Penna, “Il giusto per fede vivrà”. La citazione di Ab2,4 (TM e LXX) in Gal 3,11 e Rom. 1,17, in L. Padovese (cur.), Atti del V Simposio su San Paolo Apostolo, Roma 1998, pp. 91-94. 
[7] Così G. Theissen, Come cambia la fede. Una prospettiva evoluzionistica, trad. it. Torino 1999, p. 169. 
[8] Cf. M. Mazzeo, Il vangelo della grazia nell’annuncio di Paolo, in P. Zilio – L. Borgese (eds.), La salvezza. Prospettive soteriologiche nella tradizione orientale ed occidentale, Venezia-Mestre 2008, p. 66. 
[9] Cf. G. Theissen, La religione dei primi cristiani, trad. it. Torino 2004, p. 280. 
[10] R. Penna, Tre tipi di conversione raccontati nell’antichità: Polemone di Atene, Izate dell’Adiabene, Paolo di Tarso, in L. Padovese (cur.), Atti del IV Simposio di Tarso su San Paolo apostolo, Roma 1996, p. 91. 
[11] Cf. ibid., pp. 91-92. 
[12] Cf. G. Pani, Conversione di Paolo o vocazione? La documentazione della lettera ai Romani, in L. Padovese (cur.), Atti del II Simposio di Tarso su San Paolo Apostolo, Roma 1994, pp. 74-75. Sempre di Pani, si veda lo studio precedente: Vocazione di Paolo o conversione?, in L. Padovese (cur.), Atti del I Simposio di Tarso su San Paolo Apostolo, Roma 1993, pp. 47-63. 
[13] H. Hübner, La legge in Paolo, trad. it. Brescia 1995, pp. 106-107. Scrivendo ai Galati l’apostolo dichiara che il senso della Legge, data non da Dio, ma dagli angeli (cf. Gal 3,19), è quello di provocare trasgressioni e di rendere schiavi (cf. Gal 3,19 s.). Rispetto a questa posizione iniziale Paolo, nella lettera ai romani, modifica il suo parere osservando che la Legge è santa, giusta e buona (7,12) e spirituale (7,14). Essa non induce più al peccato, ma porta il peccato alla coscienza del peccatore (7,7). La posizione antinomista espressa in Gal dall’apostolo avrebbe portato coerentemente ad una rottura con Giacomo e con i giudeocristiani (cf. H. Hübner, op. cit., p. 52). Di fatto,nella lettera ai Romani Paolo non polemizza né cerca il confronto, bensì il dialogo.Forse proprio un confronto con Giacomo l’aveva convinto della possibilità di connettere l’adesione a Cristo con l’osservanza della legge: cf. H. Hübner, op.cit., pp. 113-114. 
Note su Speranza
[1] Cf. J.H. Nicolas, Espérance, p. 1208. 
[2] R. Bultmann, Elpís, in Grande lessico del Nuovo Testamento, ed. it. Brescia 1967, p. 513. 
[3] Cf. W. Turek, L’influsso di Paolo su Tertulliano nell’evoluzione del concetto di speranza, in L. Padovese (cur.), Atti del IV Simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 1996, pp. 169-170. 
Note a Carità
[1] H.D. Wendland, Etica del Nuovo Testamento, trad. it. Brescia 1975, p. 101. 
[2] Cf R. Schnackenburg, Il messaggio morale del Nuovo Testamento, vol. 2, I primi predicatori cristiani, trad. it. Brescia 1990, pp. 57-58. 
[3] Cf. H.D. Wendland, op. cit., p. 106. 
[4] Ibid., p. 104. 
[5] Ibid., p. 102. 
[6] Cf. G. Theissen, Come cambia la fede, cit., pp. 204-205. 
[7] G. Theissen, La religione dei primi cristiani, cit., p. 101. 
[8] Ibid., p. 105. 
[9] G. Theissen, Forti e deboli a Corinto, in Sociologia del cristianesimo primitivo, trad. it. Genova 1987, p. 257.
Nota a Conclusione

[1] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sodale Pastores gregis, VII, 72. 15

Impariamo la tenerezza alla scuola di San Paolo (per la festa di San Pietro e Paolo, domani Pietro)

http://www.pasomv.it/ritiri_file/Page1031.htm

Inseguendo l’Agnello

Ritiro:

Impariamo la tenerezza alla scuola di San Paolo

Nel ritiro odierno vogliamo guardare a Paolo come maestro di quegli atteggiamenti interiori che dobbiamo potenziare in noi stessi per essere all’altezza di quella vocazione che abbiamo ricevuto di essere santi e immacolati al cospetto del Padre nell’amore (Ef 1,4). Paolo stesso era consapevole di questa sua missione di maestro: “Fatevi miei imitatori come io lo sono del Cristo” 1Cor 11,1.
Paolo dunque come maestro del nostro rapporto con Dio, cioè come nostro maestro di orazione, di preghiera. Il CCC parla della preghiera cristiana proprio come una relazione, cioè un rapportarsi reciproco:
CCC 2565 Nella Nuova Alleanza la preghiera è la relazione vivente dei figli di Dio con il loro Padre infinitamente buono, con il Figlio suo Gesù Cristo e con lo Spirito Santo. La grazia del Regno è « l’unione della Santa Trinità tutta intera con lo spirito tutto intero » [San Gregorio Nazianzeno]. La vita di preghiera consiste quindi nell’essere abitualmente alla presenza del Dio tre volte Santo e in comunione con lui. Tale comunione di vita è sempre possibile, perché, mediante il Battesimo, siamo diventati un medesimo essere con Cristo [cf Rm 6,5 ]. La preghiera è cristiana in quanto è comunione con Cristo e si dilata nella Chiesa, che è il suo Corpo. Le sue dimensioni sono quelle dell’Amore di Cristo [cf Ef 3,18-21].
Possiamo anche riassumere il tutto così:
La preghiera cristiana è una relazione viva con il Dio vivo e vero (cf CCC 2558. 2565) offertaci dal Padre donandoci suo Figlio, Gesù Cristo, e realizzata nello Spirito Santo.
Tutto parte dall’iniziativa del Padre che attraverso il Figlio bussa alle porte dei nostri cuori e chiede di cenare con noi, gustando la nostra amicizia, bevendo il nostro amore:
Ap 3,20 Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”.
CCC 2560. « Se tu conoscessi il dono di Dio! » (Gv 4,10). La meraviglia della preghiera si rivela proprio là, presso i pozzi dove andiamo a cercare la nostra acqua: là Cristo viene ad incontrare ogni essere umano; egli ci cerca per primo ed è lui che ci chiede da bere. Gesù ha sete; la sua domanda sale dalle profondità di Dio che ci desidera. Che lo sappiamo o no, la preghiera è l’incontro della sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di lui [S. Agostino].
CCC 2561. « Tu gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva » (Gv 4,10). La nostra preghiera di domanda è paradossalmente una risposta. Risposta al lamento del Dio vivente: « Essi hanno abbandonato me, sorgente d’acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate » (Ger 2,13), risposta di fede alla promessa gratuita della salvezza, [cf Gv 7,37-39; 2561 Is 12,3; Is 51,1] risposta d’amore alla sete del Figlio unigenito [cf Gv 19,28; Zc 12,10; Zc 13,1].
L’iniziativa della preghiera è dunque di Dio, è Lui che desidera entrare in una relazione viva e personale di conoscenza reciproca e di amore con noi.
Vediamo questo come si è realizzato nella storia di Paolo.

L’evento di Damasco
Di questo evento ne parlano diffusamente tre racconti lucani in At 9,1-22 (narrazione dello scrittore), At 22,6-11 (autodifesa di Paolo nell’arresto a Gerusalemme), At 26,12-18 (autodifesa di Paolo davanti al re Agrippa). Paolo, poi, ne accennerà in diverse lettere (cf 1Cor 9,1; 15,8; Gal 1,15ss). Riportiamo di seguito l’autodifesa di Paolo davanti al re Agrippa:
At 26 …[9]Anch’io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, [10]come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch’io ho votato contro di loro. [11]In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere. [12]In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno [13]vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. [14]Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo. [15]E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono Gesù, che tu perseguiti. [16]Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. [17]Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando [18]ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me.
La conversione di Paolo avviene sulla via di Damasco come rivelazione: il Padre gli rivela il volto del suo Figlio (cf Gal 1,15) e questa rivelazione gli manifesta pienamente se stesso come uno che aveva sbagliato tutto. Paolo su quella benedetta via entra nel conoscimento vero di sé, capisce chi è lui e lo capisce perché Dio gli ha mostrato il suo volto in Gesù, vedendo Gesù, vede se stesso nella verità e capisce che ha sbagliato tutto: «Ho sbagliato tutto!».
L’evento della via di Damasco pone Paolo nell’umiltà. Non umiltà frutto dell’esercizio di una virtù e neanche come decisione di uniformarsi ad una verità conosciuta con l’intelletto, ma come un qualcosa di subito che gli frantuma il cuore nella consapevolezza di aver sbagliato tutto: tutti i suoi pensieri e idee su Dio erano sbagliate, tutti i suoi giudizi erano sbagliati, tutte le sue convinzioni erano sbagliati, tutte le cose a cui lui dava importanza erano sbagliate, si scopre così bestemmiatore, prepotente e violento:
1Tm 1: [12]Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: [13]io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento.
Sulla via di Damasco Paolo ha la grazia, nella rivelazione del volto di Gesù, di scoprirsi peccatore, profondamente peccatore. È uno shock tremendo! Lui che si credeva giusto, integerrimo, perfetto e santo:
Fil 3 [4]Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: [5]circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; [6]quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge.
Comprende se stesso nella verità, tremenda verità che gli fa gridare che ha sbagliato tutto, ma…:
1Tm 1: [13]… Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; [14]così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Lì, su quella via di Damasco, Paolo si scopre profondamente e immeritatamente amato e prima ancora che possa riprendersi dallo stupore, Gesù lo manda alle genti: è sconvolgente per Paolo che nello stesso momento in cui Gesù gli fa capire: «Hai sbagliato tutto!», gli dice: «Tutto ti affido!», «Ti mando!». Il Dio del Vangelo e della misericordia è Colui che nell’istante in cui mi fa capire che ho sbagliato tutto su di Lui, perché ho messo me stesso al suo posto, mi dimostra la sua misericordia nel perdonarmi e mi dà fiducia nel chiamarmi al suo servizio, affidandomi la Parola.
Quest’esperienza immerge Paolo nell’umiltà per cui può farci da maestro nel nostro rapporto con Dio che può elevarsi solo da un fondo di umiltà. Il violento e prepotente lì su quella via divenne umile:
1Tm 1: [15]Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. [16]Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. [17]Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Quest’esperienza immerge Paolo nell’amore. Innanzi tutto nell’amore per il suo Gesù che lo aveva amato e per lui aveva dato Se Stesso (cf Gal 2,20). Su quella benedetta via di Damasco avviene lo spogliamento di Paolo per amore di Gesù, in un certo senso, a imitazione di quello spogliamento del Verbo, da lui tanto ammirato, che aveva spogliato Se Stesso della propria divinità per farsi simile a noi (Fi. 2,6-7), ora Paolo deve spogliare se stesso di tutto quel sovrappiù di cui si ritrova vestito per essere simile a Gesù e se ne disfa senz’altro:
Fil 3 [3]… [7]Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. [8]Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo [9]e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede.
Questa esperienza immerge Paolo nella tenerezza: lui, il violento e prepotente, si trasformerà in un pastore tenerissimo che sapeva costruire con le persone profonde relazioni di affetto e di amore:
– … Essere padri significa saper incontrare le persone facendo attenzione a ciascuna. Certamente, non per tutti potremo avere lo stesso tempo e la stessa possibilità di rapporto. Ma quanto è importante che ciascuno di quelli che ci incontrano possa avere la sensazione di essere stato accolto, stimato, guardato con amore. Dobbiamo essere Pastori dal cuore grande, sullo stile di Paolo che ai Tessalonicesi scriveva: « Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari » (1Ts 2,7-8). È, questo, il vocabolario della carità, direi anzi, della tenerezza. Paolo, che pur conosce, quando è necessario, il piglio vigoroso della fortezza e della severità, lo sa bilanciare con questo straordinario registro di umanità, di sensibilità, di delicatezza. Al Vescovo si richiede un dono di sé compiuto con pienezza di umanità. E questo ovviamente verso tutti. […]. –
Omelia del card. Giovanni Battista Re del 6/10/2000 in occasione del Giubileo dei Vescovi
La tenerezza: cos’è?
La tenerezza è la modalità dell’amore con cui la persona si relaziona con gli altri facendo loro percepire che li ama e che desidera essere ricambiata. La tenerezza è l’espressione adulta dell’amore, essa infatti richiede, per essere vissuta, aver raggiunto la maturità affettiva, cioè un cuore talmente forte che è capace di rischiare di essere ferito, un cuore senza difese, perché chi ama si mette nelle mani dell’altro con fiducia, rischiando di essere ferito e solo un cuore sovrabbondante di amore accetta con serenità questa possibilità.
Un anonimo autore dei nostri tempi così parla della tenerezza:
– … si tratta di sfumature come un sorriso, il tono delle parole, la capacità di farci piccoli con i piccoli, l’umiltà nell’accettare minuscoli doni; amare con amore di tenerezza richiede un lungo lavorio interiore che, sulla scia di quella divina, è accettazione del vicino con tutti i suoi limiti e difetti: è così che Dio ci ama. Bisognerebbe vedere i difetti dell’altro come uno specchio delle proprie manchevolezze; ciò presuppone il riconoscimento della nostra personale debolezza, riconoscimento che possiamo raggiungere solo con una lunga frequentazione del Signore nella profondità del nostro cuore, là dove la creatura incontra il Creatore, scopre la sua totale fragilità insieme con il suo destino divino».
E il teologo Carlo Rocchetta così magistralmente afferma:
– La tenerezza come stupore si collega alla tenerezza come forza dell’umile amore, intendendo in questa dizione l’umiltà di accettare sé e i propri limiti, facendosi teneri con se stessi; e l’umiltà di accettare gli altri per quello che sono, con bontà di cuore e generosità, facendosi teneri verso di loro. La tenerezza come «forza dell’umile amore» è un viaggio verso un amore che sa trasfigurare tutto e si lascia portare dall’amore come su ali d’aquila, sapendo che ogni tenerezza non è che un raggio dell’unica Tenerezza. […] La tenerezza viene descritta in modo mirabile dal monaco russo Stàrets Zòsima, ne I fratelli Karamazov: «[…] alcuni pensieri, specialmente alla vista del peccato umano, ti rendono perplesso, e ti domando: “Devo ricorrere alla forza o all’umile amore?”. Decidi sempre: ricorrerò all’umile amore. Se prenderai una volta per tutte questa decisione, potrai soggiogare il mondo intero. L’amore umile è una forza formidabile, la più grande di tutte, come non ce n’è un’altra» – Carlo Rocchetta, Teologia della Tenerezza, 40ss.

• La tenerezza: da dove nasce?
Un cuore capace di amare di tenerezza nasce dalla frantumazione del proprio cuore di pietra, si tratta di quel cuore di carne di cui parla Ezechiele (11,19 e 36,26) e tale frantumazione e tale nascita è concomitante all’esperienza della misericordia di Dio su di se stessi. Solo chi, come Paolo, ha avuto la sua via di Damasco, è capace di amare con tenerezza (non semplicemente qualcuno da cui è legato da particolare amicizia e affetto, ma tutti, cioè capace di amare tutti con tenerezza). Solo chi ha esperimentato e gustato la tenerezza di Dio su di sé, è capace poi di amare così, perché la tenerezza con cui si amano gli altri, altro non è che il traboccare della misericordia divina dal nostro cuore ferito appunto da questa ineffabile tenerezza con cui essa ci ha investiti, avvolti e sommersi in Gesù Cristo. Il testo di 1Tm 1,12-17, sopra citato, riassume l’esperienza di Paolo sulla via di Damasco e ci fa entrare nel mistero della tenerezza che sgorgò dal suo cuore: è dunque la consapevolezza che in lui la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato che gli permetterà di avere quel cuore di carne capace di amare con tenerezza, perché consapevole di essere stato immeritamente e ineffabilmente amato da Gesù Cristo “il Figlio di Dio, che lo ha amato e ha dato se stesso per lui” (Gal 2,20).
Tale è il pensiero anche di s. Caterina da Siena
– Per lo quale cognoscimento della somma bontà, quando l’anima si trova annegata in tanto abisso d’amore, quanto vede che Dio ha in lei; dilagarsi il cuore e l’affetto; onde l’occhio del cognoscimento apre a intendere, la memoria a ritenere, e la volontà si distende ad amare quello che egli ama. E dice e grida l’anima: « O dolce Dio, che ami tu più? ». Risponde il dolce Dio nostro: « Ragguarda in te, e troverai quello ch’io amo ». Allora ragguardate in voi, figliuoli miei carissimi, e troverete e vedrete che con quella medesima bontà e ineffabile amore che troverete che Dio ama voi, con quello medesimo amore ama tutte le creature che hanno in loro ragione. Onde l’anima come innamorata si levi e distendasi ad amare quello che Dio ama: ciò sono i dolci fratelli nostri. E levasi con tanto desiderio e concepe tanto amore, che volentieri darebbe la vita per la salute loro, e per restituirli alla vita della Grazia. Sicché diventano mangiatori e gustatori delle anime; e fanno come l’aquila che sempre ragguarda la rota del sole e va in alto. E poi ragguarda la terra, e prendendo il cibo, del quale si debbe notricare, il mangia in alto. –
S. Caterina da Siena, Lettera 134 (cf anche Dialogo della Divina Provvidenza, 89).
A completamento di questo discorso sulla tenerezza, occorre precisare che di per sé non è necessaria l’esperienza del peccato per poter gustare la sovrabbondanza della tenerezza di Dio che ci rende capace di relazionarmi con tenerezza di amore verso tutti. La Vergine Santa, infatti, ha esperimentato l’ineffabile tenerezza divina e gustato la sua infinita misericordia senza esser mai stata sfiorata neppure dall’ombra del peccato né originale né personale.
E questo lo ha potuto fare radicandosi e fondandosi nella sua umiltà, nel conoscimento di sé, direbbe s. Caterina da Siena. Consapevole del suo essere niente e nulla da sé, osservava stupita e grata quanto Lui operava in Lei a gloria Sua e lo magnificava commossa (cf Lc 2,46ss) e riconoscente per tanto amore che sentiva assolutamente non meritare. Questo sia in riferimento al dono della sua vita di essere creato dal nulla dall’amore del Padre, sia in riferimento al dono di essere preservata dal peccato originale e ricolma di ogni dono di grazia dello Spirito Santo, in previsione della passione e morte del Figlio di Dio e Figlio suo.

E questa è stata anche l’esperienza di quei Santi che, per grazia di Dio, hanno conservato l’innocenza battesimale e hanno saputo amare teneramente tutti come ad esempio s. Teresina di Lisieux e altri.

L’apostolo delle genti fra giudaismo e cultura ellenistica: La matrice ebraica di Paolo

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/116q04a1.html

L’apostolo delle genti fra giudaismo e cultura ellenistica

La matrice ebraica di Paolo

Il 20 maggio si apre, presso il Pontificio Istituto Biblico a Roma, il simposio internazionale « Paul in his Jewish Matrix » organizzato dal Centro Cardinal Bea per gli studi giudaici della Pontificia Università Gregoriana in collaborazione con l’Università Ebraica di Gerusalemme, con l’Università Cattolica di Lovanio e con la basilica di San Paolo fuori le Mura. Pubblichiamo – nella traduzione di Maria Brutti – alcune parti di una delle due letture pubbliche in programma.

di Ed Parish Sanders
Duke University (Durham, North Carolina)
Da tempo si discute su quanto profondamente Paolo fosse influenzato dalla cultura ellenistica o greco-romana. Dal punto di vista storico, gli studiosi del Nuovo Testamento offrono un’ampia gamma di possibilità:  dall’uomo che ellenizzò il cristianesimo al rabbi che modificò e allargò il suo pensiero senza cambiare le caratteristiche della sua visione. Non sono competente per accertare la profondità dell’ellenismo di Paolo, cercherò invece di definire alcuni degli aspetti principali della sua ebraicità, concentrandomi sulle più ampie categorie che sono a noi accessibili, per prima l’istruzione.
Nel mondo antico, tutti sapevano che  i  bambini  memorizzano  abbastanza facilmente, e che memorizzare nell’età infantile o giovanile è molto più facile che portare con sé rotoli pesanti  e  girarli  avanti  e  indietro in cerca di un passo. L’istruzione antica era basata sulla lettura ad alta voce, la ripetizione, e spesso la memorizzazione – sia voluta sia casuale – nasceva soltanto dalla ripetizione. I giovani maschi dell’élite del mondo greco-romano imparavano a memoria una grande quantità di poesia greca e i romani anche una notevole quantità di materiale latino. Uno degli scopi dell’istruzione era mettere una persona in grado di tirare fuori la citazione appropriata in tribunale o in senato. Così l’istruzione basata sulla memorizzazione, che a sua volta si esprimeva nella citazione.
Paolo stesso scrisse di essere superiore alla maggior parte dei suoi contemporanei nello zelo per le tradizioni dei suoi antenati (Galati, 1, 14). Ritengo che questo significhi che egli era il ragazzo più intelligente nella classe e che imparava di più riguardo agli argomenti che studiava. Quando incontriamo Paolo nelle sue lettere probabilmente aveva circa quaranta o cinquanta anni, e il suo cervello non era così agile come quando ne aveva quindici, ma aveva ancora facilità di ricordare e citare ciò che aveva imparato.
Dalle sue citazioni, si può dedurre che Paolo imparò a memoria la Bibbia in greco, almeno ampie parti. Tuttavia nelle lettere giunte fino a noi non cita niente altro se non una sentenza:  « Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi » (i Corinzi, 15, 33) che segue immediatamente una citazione da Isaia. Se avesse memorizzato i giusti passi della filosofia greca avrebbe aggiunto una citazione in ii Corinzi (4, 18), dove scrive che ciò che si vede è effimero, ma ciò che non può essere visto è eterno. Anche le opere del suo più anziano contemporaneo, Filone, gli sarebbero venute in aiuto. Allo stesso modo, sarebbe stato facile per uno studioso della filosofia greca usare una citazione a supporto di Filippesi 4, 11:  « Ho imparato a essere auto-sufficiente ». La parola fu riferita a Socrate e usata in varie scuole della filosofia greca, comprese il platonismo e lo stoicismo. Paolo chiaramente non ignorò del tutto il pensiero greco, ma sembra non aver avuto le citazioni appropriate sulle punte delle dita, quindi probabilmente non aveva imparato a memoria molta letteratura greca durante la sua vita di studente, che presumibilmente terminò all’età di quindici o sedici anni. Perciò riguardo all’aspetto fondamentale della matrice ebraica di Paolo, si può ipotizzare che da ragazzo e da giovane studiò la Bibbia greca, imparandola a memoria, tutta o parzialmente. La sua istruzione, se non esclusivamente ebraica, fu comunque fortemente ebraica.
Due aspetti dell’uso delle citazioni nell’argomentazione risaltano se considerati alla luce della memorizzazione. In primo luogo Paolo era in grado di lavorare su singole parole. In Galati, 3 cita gli unici passi della Settanta che combinano insieme le radici per i termini « fede » e « giustizia ». Cita anche l’unico  passo della Settanta che combina  le  parole « legge » e « maledizione ». Questo sarebbe facilmente spiegabile se avesse imparato a memoria Genesi, Deuteronomio e Abacuc. Se avesse dovuto davvero trovare ogni singolo uso delle combinazioni di queste parole girando i rotoli, avrebbe impiegato giorni, se non settimane. L’unica spiegazione ragionevole è la memoria. In questo caso particolare non voleva dire in generale che la disobbedienza ai comandamenti procurava una maledizione, ma voleva piuttosto collegare « maledizione » con la parola « legge », e la sua memoria fece emergere il riferimento.
Credo che la memoria sia anche responsabile del fatto che molte delle citazioni di Paolo sono combinate insieme. Notiamo infatti che Galati, 3, 8, « tutti i Gentili saranno in Te benedetti », combina Genesi, 12, 3 con 18, 18, mentre Galati, 3, 10 prende in prestito da Deuteronomio, 27, 26 e 28, 58. Una volta che la memoria possiede una parola chiave, produce passi che contengono quella parola, ed è molto più probabile che la conflazione sia il risultato della memoria piuttosto che del girare pagine di un rotolo e prendere deliberatamente una parola da un passo e poche da un altro. Certo il procedimento empirico non è così difficile se si combinano passi a distanza soltanto di pochi capitoli. Ma dove, per esempio, Paolo combina Isaia e Geremia, è molto difficile che il raccordo sia stato ottenuto girando i rotoli con attenzione.
Quando propongo a vari colleghi la tesi secondo la quale Paolo aveva imparato a memoria la Bibbia, gli studiosi cristiani considerano l’idea come qualcosa che va da « altamente improbabile » a « totalmente impossibile », mentre quelli ebrei danno per scontato che sia andata così.
La lingua di Paolo è impregnata dalle parole della traduzione greca della Scrittura ebraica. Questo va molto al di là delle citazioni formali. Paolo era in grado di scrivere e argomentare senza citare esplicitamente la Scrittura e può darsi che lui predicasse abitualmente ai gentili senza riferirsi in modo manifesto alla Bibbia. In Filemone, i Tessalonicesi, Filippesi e ii Corinzi non c’è una sola esplicita citazione dalla Scrittura ebraica, cioè nessun esempio in cui Paolo scrisse « come sta scritto » o qualcosa di simile.
Tuttavia, in tutti questi casi, tranne che in Filemone, la lingua della Bibbia Greca è evidente in numerosi luoghi. Sembra che gli studiosi del Nuovo Testamento pensino che Paolo avesse una grande biblioteca con gli oltre venti rotoli richiesti per contenere la Bibbia, e che possedesse un grande studio con numerosi tavoli sui quali i rotoli potessero essere aperti e confrontati. Questa visione è una versione antica dell’immagine di un professore moderno, ma la realtà è diversa. Per molti anni Paolo trascorse settimane o mesi sulla strada, senza avere asini sufficienti per trasportare un’ampia biblioteca attraverso le Porte della Cilicia o da una parte all’altra della pianura anatolica. Quando era pronto per sedersi a una tavola per lavorare il cuoio o fabbricare tende, non riusciva ad affittare un enorme studio invece di un semplice riparo sulle mura. Le difficoltà finanziarie dell’Apostolo depongono contro tesi di questo genere e fanno pensare che Paolo trasportasse la Bibbia direttamente nel suo cervello.
Non dobbiamo però pensare che imparasse a memoria tutto ricordando ogni singola parola di seguito per tutto l’intero testo biblico. Piuttosto, le citazioni di Paolo rivelano ciò che Albert Baumgarten ha chiamato « un’arte di investigazione e di recupero ». Paolo riusciva a trovare nel suo cervello testi che corrispondevano, più o meno bene, alle parole e alle idee di cui aveva bisogno quando ne aveva bisogno. Questo nasce, di solito, da una lettura costante e ripetuta. Se fosse stato in grado di iniziare con il primo libro e recitare a memoria l’intero testo è un problema diverso. Tutto ciò che noi sappiamo riguardo alla sua memoria è che era in grado di fare ciò che le sue citazioni rivelano:  usare a piacimento testi contenenti certe parole quando ne aveva bisogno.
Per quello che sappiamo, Paolo conobbe la Bibbia bene anche in ebraico. Possiamo dimostrare solo che egli di solito la citava in forma molto vicina alla Settanta come essa ci è stata tramandata. Ma questo non smentisce la teoria che studiò a Gerusalemme e conobbe la Bibbia in ebraico. Non sono del tutto convinto che Paolo fu istruito solo a Gerusalemme, ma non mi sembra impossibile che parte della sua istruzione sia avvenuta lì.
Vorrei ora descrivere molto brevemente  alcuni  degli  aspetti  più  ampi del pensiero di Paolo. Credo che nessuno di essi richieda molta elaborazione né molta prova del massimo della quintessenza dell’ebraicità, ma voglio registrare  il  fatto  che  le  più  importanti categorie del suo pensiero sono ebraiche. Nel senso stretto della parola, la sua teologia fu una forma di monoteismo  modificato.  « Modificato »  significa che oltre il vero o alto Dio si trovò spazio per altri dei, signori e poteri spirituali. Come ha di recente sottolineato Paula Fredriksen, molte persone, non solo ebrei, condividevano questa forma di monoteismo. Nella versione di Paolo, ciò che era ebraico fu che il vero Dio era il Dio di Israele. Tra le fonti giudaiche, le visioni di Paolo sono più vicine ai Rotoli del Mar Morto e ad alcune delle Apocalissi. Egli poi si univa agli ebrei suoi contemporanei nel denunciare l’adorazione di idoli.
La visione di Paolo del tempo e della storia era giudaica. La visione greca più comune era che la storia è ciclica. Nel giudaismo, la storia comincia con la creazione e va verso uno scopo stabilito da Dio. Questa fu esattamente la visione di Paolo. La visione di Paolo della storia fu altamente escatologica, incentrata sull’arrivo imminente del climax della storia ordinaria.
Molte culture hanno visioni di escatologia individuale:  ricompense e punizioni dopo la morte. Molte forme di giudaismo, comunque, seguendo parti della Bibbia, tendono verso la visione di un grande climax, dopo il quale gli eletti godranno pace, prosperità e sicurezza. Le aspettative dell’Apostolo sono, di nuovo, molto vicine a quanto si trova in alcune Apocalissi. La visione di Paolo riguardo alla sua attività è parte della sua escatologia. Sebbene gli apostoli dei gentili come lui non figurino nelle predizioni dei profeti ebraici, che sembrano aver atteso che i gentili spontaneamente si volgessero al Dio di Israele, la missione di Paolo fu a servizio di una visione giudaica del mondo. L’etica di Paolo fu giudaica. Tutti si opponevano all’assassinio, all’adulterio, al latrocinio, all’estorsione e così via.
La più grande distinzione tra il giudaismo e il resto del mondo fu l’atteggiamento verso l’attività omosessuale. Paolo si unì ad altri ebrei nell’esservi totalmente contrario. Egli discute in dettaglio pochi argomenti di morale, ma la maggior parte delle sue opinioni etiche, inclusa la denuncia dell’attività omosessuale, appare nelle liste dei vizi. L’istruzione di Paolo, la giovinezza, la teologia, la visione del mondo, la vocazione e le opinioni riguardo al comportamento corretto sono tutte distintamente e profondamente ebraiche.
Ma nonostante l’origine del movimento cristiano come una setta giudaica e l’assoluta ebraicità di Paolo, non dovremmo trascurare nelle sue lettere le indicazioni dove distingue il suo gruppo da ciò che egli chiamava giudaismo. Osserviamo innanzi tutto i passi in cui compare la parola « giudaismo »:  Paolo usa due volte il sostantivo, in Galati, 1, 13-14, e una volta il verbo « giudaizzare », in Galati, 2, 14. Non sono ricorrenze numerose, ma « giudaismo » sembra costituire un’entità del suo passato, non la stessa del suo gruppo attuale.
Paolo usa termini specifici per il suo gruppo, senza arrivare alla parola « cristiano » o « cristianesimo » fa riferimento a una distinta terminologia. Gli studiosi spesso ignorano o sottovalutano questo aspetto. In Galati, 6, 16, egli usa la frase « l’Israele di Dio » che indica forse proprio il suo gruppo. Paolo chiama inoltre il suo gruppo, « la chiesa » o, meglio, « la comunità », una parola che occorre da sola e in una molteplicità di frasi. Spesso indica il suo gruppo con una frase che include la parola « Cristo ». I « morti in Cristo » hanno una posizione speciale quando il Signore ritornerà (i Tessalonicesi, 4, 16).
Nelle lettere rimaste, Paolo saltuariamente usa una terminologia tripartita:  « Non date scandalo né ai giudei né ai greci né alla chiesa di Dio » (i Corinzi, 10, 32). In Romani distingue « noi » – il suo ambiente – dai giudei e dai gentili, che sono i gruppi dai quali « noi » siamo stati chiamati. I « giudei » e « la chiesa di Dio » sono entità distinte. Dal punto di vista terminologico, allora, Paolo distingue il suo gruppo sia dai giudei sia dai gentili, sia dal giudaismo sia dal paganesimo. La terminologia riflette la realtà sociale che Paolo abitava in un mondo tripartito:  c’erano ebrei, pagani e quelli che appartenevano a Cristo, alcuni dei quali erano appartenuti al giudaismo e alcuni al paganesimo.
I convertiti di Paolo, per quanto sappiamo, furono gli ultimi:  i gentili, precedentemente pagani o idolatri. Lo afferma in modo esplicito nel caso dei cristiani di Tessalonica e della Galazia (i Tessalonicesi, 1, 9; Galati, 4, 8), e il desiderio dei suoi convertiti di Corinto di seguire pratiche idolatriche indica un background  di  paganesimo (i Corinzi, 8, 10). Gli Atti mostrano Paolo in origine come un apostolo dei giudei della diaspora, che si rivolse ai gentili solo dopo la delusione per l’esito della sua missione precedente. La visione di Paolo è del tutto differente:  Cristo lo inviò ai gentili.
Troviamo la stessa idea quando consideriamo il suo compromesso con gli apostoli di Gerusalemme:  lui e Pietro si divisero il mondo, Pietro sarebbe andato dagli ebrei, Paolo dai gentili (Galati, 2, 7-10). Alcuni studiosi hanno interpretato questa come una divisione geografica, ma l’interpretazione più ovvia del linguaggio – che si riferisce ai « circoncisi » e ai « non circoncisi » – è una divisione etnica. Secondo questo accordo, Paolo non fu apostolo di chiunque dal vicino Oriente all’Europa, ma si dedicò ai pagani. Non voglio dire che avrebbe rifiutato l’opportunità di proporre il vangelo agli ebrei, ma questa non fu la sua missione.
La caratteristica sociale dei suoi convertiti era evidente a Paolo, talvolta dolorosamente. Poiché non erano né ebrei né pagani, essi erano isolati, senza una identità sociale riconoscibile. Questa mancanza di identità poteva portare a persecuzioni per la distanza dai culti locali. Anche in assenza di persecuzione, i suoi seguaci dovevano rinunciare a molti dei piaceri della vita civile, come i banchetti di carne rossa, che erano disposti dalle celebrazioni pubbliche religiose. Vediamo così che il vocabolario di Paolo per il suo gruppo riflette accuratamente la nuova realtà sociale che risulta dalla sua predicazione del vangelo di Cristo:  una comunità di gentili che rinuncia all’idolatria, che pratica il culto del Dio di Israele fuori dalla sinagoga, che non conta né come ebraica né come pagana e che riconosce Gesù come suo Salvatore e Signore.
Qualcuno potrebbe pensare che proponendo questa distinzione sociale e terminologica tra il gruppo di Paolo e il giudaismo io sostenga che Paolo cessò di essere ebreo. Non è così. La sua auto-identità è un altro problema. Paolo ebreo considerò se stesso come un apostolo ebreo dei gentili.
D’altra parte, dobbiamo considerare la sua ferma convinzione che lui e le altre membra della sua comunità avevano acquistato una nuova identità. Paolo era un ebreo diventato un’unica persona con Cristo. E, come scrisse, se qualcuno è in Cristo, è « una nuova creazione » (ii Corinzi, 5, 17). Tuttavia, essere una sola persona con Cristo, parte di una nuova creazione, non rende Paolo stesso un non ebreo. Gesù era un ebreo e credo che per nessun motivo Paolo avrebbe rifiutato la sua identità etnica.
Tuttavia la questione presente non è di definire la sua identità, ma piuttosto di chiarire il fatto che egli non pensava al suo gruppo in termini di « giudaismo ». L’unico modo con il quale avrebbe potuto affermare o pensare che le sue chiese costituivano parte del « giudaismo » sarebbe stato facendo una chiara distinzione tra falso e vero Israele. Avrebbe potuto scrivere che la nuova creazione era il vero giudaismo ma, per quanto ne sappiamo, non lo fece. Così egli fu ebreo e anche una persona nuova in Cristo, ma la sua comunità non formava « giudaismo »,  che  rimaneva un’entità  separata.
Mentre Paolo riconobbe la distinzione sociale che lui e gli altri stavano creando dalle fondamenta – una nuova identità spirituale, né ebraica né pagana – questa divisione non era né ciò che voleva né ciò che attendeva come esito finale. La sua teologia ebbe un’ottica differente. Secondo lui ci sarebbe stato un unico gruppo universale, che avrebbe incluso ebrei, greci e barbari, tutti in Cristo. Non era accettabile che i membri gentili del suo movimento giudaizzassero, riducendo così il numero dei gruppi a uno solo. La sua opposizione al giudaizzare causò le più forti invettive presenti nelle sue lettere. Il suo gruppo non avrebbe dovuto giudaizzare; piuttosto, chiunque altro si sarebbe dovuto unire.
Dal punto di vista teologico, Paolo sapeva quale doveva essere l’esito finale e vedeva anche che il piano presente per giungervi non funzionava perfettamente. La strategia, ricordiamo, prevedeva che lui (e apparentemente altri) avrebbe convertito i gentili alla fede in Cristo. Pietro e presumibilmente gli altri apostoli di Gerusalemme avrebbero persuaso anche gli ebrei a porre la loro fede in Gesù. Allora tutti avrebbero fatto parte del popolo di Dio, uniti dalla fede in Cristo.
Secondo la propria opinione, Paolo era vicino alla fine delle sue fatiche. Dopo un trionfo in un dibattito con i Corinzi, infatti, espresse ottimismo sul suo successo apostolico:  « Grazie a Dio, il quale in Cristo ci conduce sempre in processione trionfale e per mezzo nostro diffonde in ogni luogo il profumo che viene dalla sua conoscenza » (ii Corinzi, 2, 14).
Nella opinione di Paolo, Pietro aveva lavorato molto meno bene. Questo è evidente dalla innovazione di Romani 11. L’aspettativa comune di un ricongiungimento alla fine dei tempi del popolo di Israele e del volgersi dei gentili verso Dio aveva seguito la sequenza ovvia:  prima Israele, poi i gentili. Questo è in realtà un tema dei primi due capitoli di Romani:  « l’ebreo prima e poi anche il greco » (1, 16; 2, 9-10). Così Pietro avrebbe dovuto preparare gli ebrei, mentre Paolo portava la sua missione coronata da successo ai gentili. Ma gli ebrei non erano pronti. E così Paolo sviluppò un piano alternativo:  i suoi gentili sarebbero entrati per primi nella nuova creazione. Questo avrebbe reso i giudei gelosi e li avrebbe convinti ad affrettarsi, in questo modo Paolo indirettamente avrebbe salvato « alcuni » ebrei assieme ai gentili (Romani, 11, 13-14). Egli ripete lo schema ai versi 25-26:  il « numero totale dei gentili » entrerà e così, in questo modo, « tutto Israele sarà salvato ». Per essere sicuro che il lettore accolga la sua scoperta, lo ripete una terza volta. Gli ebrei sono stati disobbedienti « in modo che, a causa della misericordia mostrata a voi (gentili) anche essi possano ora ricevere misericordia » (11, 30-31).
L’uso di « in modo che » – hìna in greco – sottolinea la divina intenzione:  Dio ha reso gli ebrei disobbedienti per un periodo, allo scopo di autorizzare i gentili ad avere accesso per primi, cosa che consentirebbe poi di entrare agli ebrei. Paolo ha da poco scoperto quello che ritiene il vero piano di Dio per salvare tutti, una revisione rispetto a ciò che lui e gli altri avevano pensato in precedenza. Ora vede che proprio la sua missione verso i gentili aiuterà gli ebrei a salvarsi, in modo che tutti ricevano misericordia. Possiamo pensare però che il successo di Paolo come apostolo e la sua teoria sulla gelosia degli ebrei sia piuttosto un filo sottile a cui appendere la speranza della salvezza eterna per tutti. Da Romani, 11, 13 a 11, 32 Paolo offre per tre volte un modo razionale attraverso il quale Dio può salvare il mondo, una sequenza in cui la sua missione gioca un ruolo cruciale. Ma alla fine deve aver fiducia che sarà lo stesso Dio a escogitare un sistema. Il cervello fertile e ingegnoso di Paolo non può immaginare tutto.
Siamo partiti dalle distinzioni sociali tra ebreo, pagano e cristiano così come appaiono nelle lettere di Paolo e arrivati alla soluzione teologica/escatologica di Paolo, alla divisione sociale degli esseri umani:  tutti saranno un solo popolo. Gli apostoli dovranno fare del loro meglio per portare tutti nel corpo di Cristo, mentre la storia ordinaria continua, sebbene il tempo sia davvero breve. Ma alla fine del tempo, quando il redentore verrà dal monte Sion, Dio compirà lo scopo – la salvezza del mondo – in un modo che noi non possiamo comprendere.
Tornando alla fine di Romani, 11 e alla salvezza dell’umanità non si può immaginare un piano che sia più interamente ebraico. Nel background c’è la dottrina giudaica secondo la quale Dio ha creato il mondo e lo ha dichiarato buono:  questo principio è ovvio nella prima fiammata di universalismo di Paolo, i Corinzi, 15, 22:  « Come tutti muoiono in Adamo, così in Cristo tutti riceveranno la vita ». Questo passo porta immediatamente alla soggezione a Dio alla fine di « tutte le cose » (i Corinzi, 15, 27-28). Proprio come – secondo Romani, 11, 32 – Dio ha rinchiuso gli uomini nella disobbedienza così da salvarli tutti, così come Dio ha sottomesso l’intera creazione alla caducità così da renderla « libera dalla sua schiavitù alla corruzione » quando Lui porterà la storia ordinaria alla sua fine (Romani, 8, 20-21).
Che Dio abbia un piano benefico a lungo termine per una fine felice della storia ordinaria è un pensiero profondamente  giudaico,  sebbene  i  beneficiari siano diversi nei differenti corpi della letteratura. Che il piano includa peccato e sofferenza lungo la strada è ugualmente  giudaico.  Allo  stesso modo,  secondo  Giuseppe,  Dio  progettava il trasferimento del potere a Roma e  progettava  la  distruzione del tempio, che doveva essere purificato a causa dello spargimento di sangue e del peccato.
Sintetizzando, Paolo viveva e operava in un mondo che parlava greco. Quale che fosse la sua conoscenza di questo contesto, la sua istruzione e la sua educazione furono ebraiche; le categorie principali del suo pensiero furono ebraiche; la sua missione si svolse nel tessuto dell’escatologia ebraica; l’esito finale che desiderava ardentemente fu una forma universale di speranza ebraica. Temporaneamente, egli pensò, creò un terzo gruppo, né ebreo né gentile, come parte della nuova creazione che sarebbe arrivata pienamente quando il Dio di Israele, l’unico vero Dio, avrebbe portato la storia ordinaria alla sua conclusione.

(L’Osservatore Romano 21 maggio 2009)

Carlo Maria Martini – Le confessioni di Paolo : Esame di coscienza pastorale

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_confessioni_di_paolo5.htm

Carlo Maria Martini – Le confessioni di Paolo

(tratto da una seie di meditazioni di C.M.Martini su Paolo)

Esame di coscienza pastorale

A questo punto del corso di Esercizi, tutti, più o meno, ci disponiamo per fare la confessione sacramentale. Tenendo conto dell’importanza dell’argomento, riprendo brevemente alcuni punti secondo lo schema che parte da una riflessione sul nuovo « ordo paenitentiae ». È uno schema suddiviso in tre parti:

- «confessio laudis »,
- «confessio vitae »,
- «confessio fìdei ».

- Confessio laudis. Occorre iniziare la confessione con un atto di ringraziamento, rispondendo alla domanda: di che cosa devo ringraziare Dio principalmente in questo tempo?
- Confessio vitae. Si tratta di rispondere alle domande: «Che cosa in me vorrei che non fosse stato davanti a Dio? Che cosa mi pesa maggiormente in questo momento? ». La risposta va estesa dalle mancanze agli atteggiamenti interiori da cui le mancanze derivano: antipatie, risentimenti, sospetti, delusioni, amarezze; cose tutte che forse non costituiscono un peccato vero e proprio ma sono la radice ordinaria dei peccati. Messe con umiltà davanti a Dio e alla Chiesa, ci danno la possibilità di lasciarci medicare dalla grazia.
Confessio fidei. È la certezza che Dio, nel suo amore, mi accoglie e mi risana. L’atto di dolore diventa allora una manifestazione di fede.
La meditazione che ha come titolo « esame di coscienza pastorale », sarà un’ulteriore riflessione su come Paolo ha vissuto i diciannove anni dopo la conversione. Avremo in tal modo materia abbondante per prepararci alla confessione sacramentale.
Signore Gesù, tu sai quanto desideriamo servirti e come ci sentiamo spinti dallo Spirito nell’impegno pastorale. Conosci che spesso, in questo servizio, siamo presi da dubbi, da timori e ci domandiamo se ciò che stiamo facendo è veramente importante, se lo facciamo nel modo migliore. Ti chiediamo, Signore Gesù, pastore supremo del gregge della Chiesa, Vescovo delle nostre anime, di illuminarci perché in ogni cosa imitiamo te pastore, e imitiamo Paolo pastore del tuo gregge.
Medica il nostro cuore da ciò che lo turba e gli impedisce di comprendere le parole dell’ Apostolo. Fa’ che, dimenticando le nostre pesantezze, possiamo cogliere con animo libero il senso di quelle parole e la verità di amore e di salvezza che racchiudono. Tu vedi che non sappiamo esprimere queste realtà e non sappiamo comprenderle se tu non ci illumini nello spirito, nella mente e nella parola. Lo chiediamo a te, Signore Gesù, che con il Padre e lo Spirito Santo vivi e regni in eterno per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Partiamo dalle prime battute del discorso di Paolo a Mileto. Quel discorso corrisponde un po’ a quello che stiamo facendo noi in questi Esercizi. Molto prima di noi l’evangelista Luca, nel libro degli Atti, riferendo le parole di Paolo a Mileto, ha cercato di richiamare i punti che l’Apostolo avrebbe avuto maggiormente a cuore ricordando il suo passato in relazione ad una comunità.
Questo discorso che si chiama anche il « testamento pastorale di Paolo », oppure il « discorso di addio », è un capolavoro insuperato.
Come discorso di addio si colloca nella linea di tanti simili discorsi di addio che la Scrittura ci presenta: il cap. 49 della Genesi con il discorso di addio di Giacobbe ai suoi figli; il Deuteronomio con i discorsi di addio di Mosè; gli ultimi due capitoli di Giosuè, 23 e 24, con il testamento di Giosuè; e così via per Samuele, Davide, Tobia, Mattatia. Gesù stesso, nell’ultima cena (Gv 13-17), fa un lungo discorso di addio che è anche uno sguardo retrospettivo alla sua vita. Il discorso di Paolo si colloca in questa linea.
È interessante notare che il Nuovo Testamento ci dà soltanto due discorsi conclusivi: di Gesù e di Paolo. In tal modo sottolinea l’importanza di queste due figure.
Il testamento di Paolo è impostato, dal punto di vista di analisi logica, sul rapporto io-voi: io mi sono comportato…; voi sapete…; io vado a Gerusalemme…; voi non vedrete più il mio volto…
Un linguaggio come questo non gli è abituale: nel discorso ad Antiochia di Pisidia, il soggetto è sempre Dio, ciò che Dio ha fatto. Per questo, appunto, il discorso di Mileto è un discorso pastorale in cui Paolo riflette sui rapporti fra sé e coloro che per tre anni egli ha guidato nella via di Dio.
È quindi adattissimo per un esame di coscienza pastorale. Qui scorgiamo le cose che a Paolo sono sembrate importanti, quelle che più hanno caratterizzato la sua azione verso la comunità.
Con questo spirito cerchiamo di approfondire il discorso. Non potendo medi tarlo tutto, mi limito ad un esempio di analisi del primo versetto e mi servo di un libro molto bello: «Il testamento pastorale di San Paolo », di Jacques Dupont. È un commento ricchissimo di riflessioni su questo testo pastorale fondamentale del Nuovo Testamento.
Il metodo con cui il Dupont procede è molto semplice: prende le singole parole, le soppesa attentamente, lungamente, rimettendole nella luce della storia di Paolo e di tutte le affermazioni simili che si trovano nelle lettere. In questo modo si riesce a cogliere il discorso come sintesi della pastoralità paolina e del suo modo di riferirsi alle comunità.
Il versetto su cui ci soffermeremo: «Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime» (At 20, 19) sottolinea un atteggiamento pastorale importante per la Chiesa di tutti i tempi.

«Essere con»
Con le parole introduttive del discorso Paolo abbraccia in sintesi il suo ministero di circa tre anni ad Efeso: «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo» (v. 18). E lo abbraccia con una formula che rimanda immediatamente il gioco agli uditori. Non ha bisogno di descrivere prima di tutto se stesso; si riferisce all’esperienza che gli altri hanno fatto.
Fin da questa battuta introduttiva, comprendiamo che Paolo si sente uno con la sua comunità, si sente conosciuto, familiare. Non deve raccontare niente perché: «Voi sapete, mi avete visto, sono stato con voi ». Il suo ministero si può riassumere con: «è uno che è stato fra la gente », uno che la gente conosce, di cui sa tutto, e può renderne testimonianza.
È un ministero fondato sull’« essere con», sul comunicare, sul convivere. Paolo sa benissimo che guardavano a lui come ad un esempio e sente perfettamente la responsabilità non soltanto delle parole che ha detto, ma di ciò che ha fatto. Non: «voi ricordate ciò che vi ho detto in questi anni… », ma: «voi sapete come mi sono comportato ». La gente ha guardato a ciò che lui era, a come viveva, prima ancora di giudicare se le sue parole erano interessanti, belle, vere, pratiche.
E lui si è comportato servendo.

«Ho servito il Signore»
Il suo modo di essere nella comunità è definito con: « Ho servito il Signore, tra le lacrime, in tutta umiltà ». Servire il Signore è la prima realtà. Paolo si vede, e sa che gli altri lo vedono prima di tutto come un servitore di Cristo e non come un servitore della comunità. Questa qualifica caratterizza il suo attaccamento a Cristo e la sua libertà verso la comunità. Talora, noi parliamo del ministero come un « servizio» e lo intendiamo come un « servire la Chiesa », la diocesi, la gente. Il Nuovo Testamento parla di servizio e di servo in rapporto a Cristo Gesù. È vero che in qualche occasione Paolo dice: «Sono servo vostro per Cristo» (Gal 5, 13), ma ordinariamente è « servitore di Cristo».
Quindi il pastore deve vivere primariamente a servizio della persona di Cristo. Soltanto così può servire la Chiesa, la gente, il popolo.
Stupenda questa libertà che Paolo vive: non deve niente a nessuno se non a Cristo; e attraverso lui, poi, a tutti. Non deve piacere a nessuno, non deve rispondere a nessuno, se non a Cristo e la comunità sa benissimo che lui non è lì per piacere, per accontentare, per rispondere alle attese, ma è lì per servire Cristo.

«Tra le lacrime»
Se avessimo dovuto completare noi la frase, avremmo aggiunto: con zelo, con fervore, con intelligenza, con coraggio, con competenza, con perseveranza.
La sua esperienza gliene fa dire altre: «tra le lacrime, con tutta umiltà». Rimaniamo stupiti davanti ad una sottolineatura che appare negativa e ce ne chiediamo il perché.
Indubbiamente c’è da considerare che è un discorso di addio. Ed è un addio che non lo porta verso una nuova missione importante. Ciò che lo attende è chiaramente la persecuzione e le sofferenze. È un saluto pieno di nostalgia e che giustamente fa emergere elementi di sofferenze già vissute e che preludono a quelle future.
Al di là di questo bisogna però dire che, se emergono l’umiltà e le lacrime come modo di servire il Signore, vuol dire che questa era l’esperienza di Paolo, che nella sua vita risaltavano umiltà, lacrime, prove, insidie, difficoltà.
Si presenta come si sente: l’Apostolo mentirebbe, in questo caso, se sottolineasse elementi che non gli sono così presenti al cuore e allo spirito.
Proviamo a pensare attentamente alla sua azione apostolica ad Efeso, per meglio capire il senso della sua umiltà e delle lacrime. Di lacrime parla molte altre volte: è un tema che ricorre sia nel discorso di Mileto, che nelle lettere. Ritorna nel testo degli Atti: « Vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi» (v. 31). Sono lacrime versate nello sforzo affettuoso, amoroso e insistente di convincere qualcuno.
Dalle lettere possiamo citare: «Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e col cuore angosciato, tra molte lacrime» (2 Cor 2, 4). È un’esperienza-limite quella delle lacrime, per Paolo. Non sembra che fosse un uomo facile al pianto, eppure si trovava in situazioni di tale tensione, di tali violente difficoltà, di tali amarezze e delusioni che scoppiava in pianto sia parlando con la gente, sia scrivendo.
Tutto questo fa vedere l’intensità emotiva con cui Paolo viveva la sua missione pastorale. Esattamente l’opposto del funzionario, del burocrate, del programmatore intelligente.
Paolo è un uomo di intensissima partecipazione emotiva, che ha evidentemente riscontro nelle profondissime gioie. Proprio perché partecipava cosi emotivamente alle sofferenze del suo ministero poteva avere delle gioie e degli entusiasmi grandiosi di cui parla ancora più spesso nelle sue lettere.
Scriveva: «Quale ringraziamento possiamo rendere a Dio riguardo a voi, per tutta la gioia che proviamo a causa vostra davanti al nostro Dio? » (1 Ts 3, 9). Le intense sofferenze sono compensate da gioie profondissime, da entusiasmi straordinari: «Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4). Sono cosi contento di voi che le sofferenze non le sento più se penso alla vostra corrispondenza, al vostro affetto e alla vostra fede. Tutti sappiamo cosa significano queste esperienze: chi ama molto, soffre molto, gode molto; chi ama poco, soffre meno e gioisce meno.
L’immagine del pastore che Paolo ci dà, in queste prime battute, è di un uomo profondamente, affettivamente, emotivamente coinvolto in ciò che fa. Ama moltissimo la gente e non con un amore generico: ha presente i nomi, le situazioni personali, di famiglia, di lavoro, di malattia. Uno per uno quei cristiani gli stanno davanti, conosciuti, uno per uno sono fonte di amarezza, di tristezza, di lacrime oppure di gioia intensa.
Ecco il senso del suo aver servito il Signore tra le lacrime.

«Con tutta umiltà»
Anche qui vogliamo capire come mai tra le mille altre qualifiche del suo ministero Paolo sceglie questa, sottolineandola come fondamentale atteggiamento pastorale.
Il termine greco con cui si esprime può essere inteso « in ogni genere di umiliazione », con riferimento non all’atteggiamento ma alle situazioni. Cosi va inteso nel Magnificat là dove Maria dice: «Il Signore ha guardato all’umiltà della sua serva ». Indica l’insignificanza, l’abiezione, la piccolezza, il non contare nulla, e non la virtù dell’umiltà. Ma mentre nel Magnificat il vocabolo greco è esattamente «tapéinosis », qui è « tapeinofrosune »: sentimento di umiltà. Paolo qui si riferisce all’atteggiamento di umiltà con cui ha servito il Signore nell’attività pastorale. Umiltà è una parola che ripetiamo mille volte, ma di cui non è sempre facile cogliere tutte le implicazioni che ha per l’Apostolo.
In senso generale si potrebbe dire che l’umiltà è l’opposto di ciò che è detto nel Magnificat: «Dio ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore ». I superbi sono quelli che credono di essere qualcuno, che hanno di sé un concetto così alto da fame quasi una ragione di vita, per cui gli altri devono piegarsi al loro servizio, e neppure vanno ringraziati perché fanno ciò che è dovuto. È l’atteggiamento che Paolo stigmatizza altre volte nelle sue lettere. Ad esempio scrivendo ai Romani: «Non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12, 16). L’atteggiamento umile è quello di chi non si gonfia e non si illude.
È importante riflettere su questo atteggiamento di non-sapere: esso è utile sempre, ma è indispensabile soprattutto nel rapporto con Dio. Infatti « noi non sappiamo neanche pregare, non sappiamo neanche cosa chiedere» (cf. Rm 8, 26).
Spesso non riusciamo a pregare bene perché incominciamo con la presunzione di saper pregare, mentre dovremmo partire sempre confessando: «Signore, non so pregare; so di non sapere pregare ». Già questa è preghiera, perché fa posto allo Spirito che dobbiamo chiedere.
L’umiltà come atteggiamento che qualifica l’attività pastorale di Paolo si può descrivere secondo tre aspetti:

- aspetto sociale: un modo di comportarsi;
- aspetto personale: una certa coscienza di sé;
- aspetto teologale: un certo rapporto verso Dio.

a) L’aspetto sociale è da una parte assenza di pretese e, dall’altra, attenzione agli altri. «Ho cercato di essere tra voi senza pretese, non pretendendo per me niente di speciale, ma stando molto attento a ciascuno di voi », direbbe Paolo.
Si descrive così anche nella prima lettera ai Tessalonicesi, dando uno sguardo retrospettivo al suo rapporto con la comunità: «Come Dio ci ha trovati degni di affidarci il Vangelo, così lo predichiamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete, né avuto pensieri di cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1 Ts 2, 4-8).
L’umiltà è socievolezza senza pretese, colma di affetto, di attenzione, amorevolezza, prevenienza. Paolo sente che, per grazia di Dio, è stato così e che il suo modo di essere è modello per ogni pastore. L’umiltà come virtù sociale comporta anche distinzione, correttezza, un certo riserbo, un’educazione profonda, finezza sacerdotale che conquista il cuore, perché non è espressione semplicemente di un’affettazione esteriore. Niente commuove di più le persone che sanno di contare poco nella società, che il vedersi trattate con estremo rispetto e con grande valorizzazione di ciò che sono. I cristiani di Paolo erano in gran parte schiavi, abituati ad essere maltrattati, presi in giro, disprezzati, trascurati, e possiamo immaginare cosa volesse dire per loro sentirsi rispettati e sinceramente amati. Come doveva sconvolgerli il metodo apostolico di Paolo!
b) L’aspetto personale è un giudizio di valore semplice dato su di sé. Paolo ritorna diverse volte su questa capacità di valutarsi giustamente e secondo ciò che le nostre debolezze e fragilità ci fanno comprendere.
Nella prima lettera ai Corinti parla della apparizione di Gesù a lui: «Ultimo fra tutti apparve anche a me. lo sono l’infimo degli apostoli, non sono degno di essere chiamato apostolo» (1 Cor 15, 8-9). Lo dice con verità e con sincerità: non è affettazione, è chiarezza di giudizio su di sé.
E questo giudizio, è una maniera di comportamento che ha acquisito attraverso la scuola della vita, che gli ha fatto conoscere la sua fragilità e povertà. Ha imparato a pensare di sé in maniera umile, distaccata, tranquilla, senza colpevolizzarsi, con pace.
«Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpito oltre misura, aldilà delle nostre forze, si da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti» (2 Cor 1, 8-9). Ci stupisce un apostolo che parla di sé in quèsto modo, a rischio quasi di scandalizzare.
L’umiltà personale, venendo da una storia vissuta, difficilmente può averla un giovane. Magari avrà meditato queste cose, ma non potrà sentirle come naturali, perché non è passato per quella scuola di prove e di esperienza della propria debolezza che ci mettono al posto giusto e ci liberano da ogni presunzione.
È doloroso vedere come a volte passiamo per queste prove senza saperle vivere. Se Paolo di fronte alle tribolazioni che gli sono venute in Asia si fosse messo ad imprecare contro tutto e tutti, invece di riconoscere la propria debolezza e fragilità, non avrebbe tratto alcun profitto dalla prova. Invece si è formato come vero pastore perché ha saputo accogliere dal dolore quella umiltà vissuta, che poi espresse nella sua vita.

c) Aspetto teologale. Paolo si esprime cosi perché vive profondamente la sua verità davanti a Dio: «Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto? » (1 Cor 4, 7). Al fondo dell’atteggiamento di umiltà, che è uno dei segreti della sua capacità di conquistare la gente, stava un senso profondo di Dio ‘creatore, padrone, signore, misericordioso, datore di ogni bene. Di fronte a Lui Paolo è un povero peccatore che riceve grazia, misericordia, salvezza. La stessa Parola è Parola di Dio, non di Paolo: a lui è stata data nella misura del dono di Cristo. Lo stesso zelo apostolico non è di Paolo, ma gli è stato dato da Cristo che vive in lui.
Questa umiltà è trasparenza del divino che vive in lui, una trasparenza cristologica, di Cristo come lui l’ha conosciuto e capito, di Cristo Servo di Jahvè, di Cristo umile, umiliato, che non ha scelto di primeggiare, di buttarsi dal pinnacolo del tempio per fare scalpore, di cambiare le pietre in pane, di dominare sui regni della terra, ma che ha scelto di essere servo di tutti.
L’umiltà di Paolo è quella di Cristo che egli ha recepito e che esprime lasciandolo vivere in sé.
Per questo egli può presentarla come l’atteggiamento fondamentale di chi serve il Signore, così come il Signore ha servito. Cristo ha servito con tutta umiltà e il suo servo sceglie la sua stessa via esercitando l’autorità con l’umiltà, la mansuetudine e la mitezza del Maestro.
Questa è certamente una delle caratteristiche che distinguono radicalmente il potere pastorale da quello politico. Il potere pastorale è fondato sulla mitezza di Cristo e proprio per questo può assumere, come in Paolo, anche atteggiamenti duri, taglienti, risoluti, basati non sulla pretesa di difendere la propria personalità ma sulla mitezza e l’umiltà di Cristo che sa prendere posizione di fronte alla vita.
Ciascuno di noi deve meditare profondamente, con la coscienza che siamo molto lontani da questo ideale. Istintivamente il personalismo interviene tutte le volte che è in gioco il potere e noi siamo continuamente tentati di inserire nel servizio del Signore il nostro prestigio personale.
Abbiamo bisogno di essere purificati sull’esempio dell’Apostolo e soprattutto di essere purificati dalla forza di Cristo in noi.
Chiediamo per intercessione di Maria, di cui Dio ha guardato l’umiltà, di saper seguire Cristo come Paolo lo ha saputo seguire, con la coscienza che è un compito arduo e che siamo lontani da questa meta.
Con la grazia di Dio cerchiamo di metterci di fronte ad essa, di riconoscere le nostre mancanze, di chiedere che la potenza di Cristo, che vive in noi, ci renda simili a lui.

1...678910...15

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01