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PAOLO : IL CRISTIANESIMO INCANDESCENTE – DI GIANFRANCO RAVASI

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PAOLO : IL CRISTIANESIMO INCANDESCENTE

DI GIANFRANCO RAVASI

Oggetto d’indomato amore e di ardente detestazione, Paolo traccia una discriminante soprattutto tra giudaismo e cristianesimo ma anche tra ellenismo e cultura cristiana, divenendo «scandalo» nel senso etimologico della parola greca, cioè pietra d’inciampo. La sua conversione fu un’assunzione esclusiva del Cristo come termine di ogni verità e di ogni giudizio. Una vera immedesimazione con la sua persona, fino a dire: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» «Come la fiamma che si abbatte tra le canne e il fieno trasforma nella propria natura ciò che arde – scriveva Giovanni Crisostomo – così Paolo tutto invade e tutto trasporta alla verità, torrente che tutto raggiunge e che schianta gli ostacoli.  Come atleta che insieme lotta e corre e sferra pugni, come soldato che combatte in campo aperto, così Paolo usava ogni genere di battaglia, spirando fuoco…» Paolo, Servo di Cristo Gesù, Apostolo per vocazione». Inizia proprio con questa autodefinizione la Lettera che san Paolo indirizza «a  quanti sono in Roma amati da Dio e santi per vocazione». Ed è partendo da  queste parole che noi ora vorremmo proporre in modo molto essenziale e sintetico un profilo dell’Apostolo per eccellenza, in occasione dell’«anno  paolino» che la Chiesa sta celebrando, anno simbolico non essendo a noi  nota la data reale della nascita a Tarso di colui che avrebbe inciso così profondamente nella storia della cristianità e dell’intera umanità. Come  scriveva il nostro grande poeta Mario Luzi, «il nucleo della forza di Paolo sta  nell’assunzione totale ed esclusiva del Cristo Gesù come termine di ogni verità e di ogni giudizio. Si tratta anzi di una vera immedesimazione con la sua persona e di una piena integrazione nel suo corpo avvenute (e predicate) mediante il battesimo nella morte di Gesù». Paolo, «il Lenin del cristianesimo»? Eppure non sempre la figura dell’Apostolo è stata esaltata. «Il vero cristianesimo, che durerà eternamente, viene dai vangeli, non dalle epistole di Paolo. Gli scritti di Paolo sono stati, in verità, un pericolo e uno scoglio; sono stati la causa dei principali difetti della teologia cristiana. Paolo è il padre del sottile Agostino, Paolo è il padre dell’arido Tommaso d’Aquino, Paolo è il padre del tetro calvinista, Paolo è il padre del bisbetico giansenista. Gesù è, invece, il padre di tutti coloro che cercano nei sogni dell’ideale il riposo delle anime loro». Così dichiarava nel suo Saint Paul (1869) Ernest Renan, iscrivendosi nella lista dei detrattori dell’Apostolo, come avrebbe fatto più tardi il «laico» Gide, insofferente per il Paolo calvinista della sua famiglia d’origine. Oggetto d’indomato amore e di ardente detestazione, Paolo traccia una discriminante soprattutto tra giudaismo e cristianesimo ma anche tra ellenismo e cultura cristiana, divenendo «scandalo» nel senso etimologico di questa parola greca, cioè pietra d’inciampo. Per secoli nel giudaismo Paolo è stato bollato come traditore e apostata; ma non è mancato più recentemente chi, come l’ebreo Richard I. Rubenstein, l’ha ritrovato «fratello» ( My Brother Paul, New York 1972) o, come si legge nel titolo di un’opera di Alan F. Segal, l’ha definito Saul the Pharisee (New Haven 1990), considerandolo l’unico scrittore fariseo del I sec. e il fervido annunziatore del monoteismo ai pagani, mentre un esegeta cristiano, Ed P. Sanders, allentava di molto le tensioni tra Paolo e la dottrina giudaica tradizionale, contrariamente all’opinione dominante. Anche nel cristianesimo l’Apostolo per eccellenza, come viene chiamato, non ha mancato di dividere. La stessa definizione di «secondo fondatore del cristianesimo», coniata nel 1904 da Wilhelm Wrede nel suo Paulus, è ambigua: può indicare un’opera benefica di rigenerazione rispetto al primo fondatore Gesù, ma pure un intervento devastante di degenerazione. In questo secondo senso si muoverà Nietzsche, che nel suo Anticristo bollerà Paolo come «disangelista», cioè annunziatore di una cattiva novella, al contrario degli «evangelisti»; mentre Gramsci sbrigativamente lo classificherà come «il Lenin del cristianesimo». Certo è che qualche riserva almeno per un uso improvvido delle sue teorie appariva già nel Nuovo Testamento quando nella Seconda Lettera di Pietro si leggeva: «[Nelle lettere del nostro carissimo fratello Paolo] vi sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli incerti le travisano, al pari delle altre Scritture, a loro rovina» (2 Pt 3,16). Non è mancato, però, chi ha abbozzato ritratti aureolati dell’Apostolo, come Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli, che nella XXV Omelia dedicata alla Seconda Lettera ai Corinzi, esclamava: «Come la fiamma che si abbatte tra le canne e il fieno trasforma nella propria natura ciò che arde, così Paolo tutto invade e tutto trasporta alla verità, torrente che tutto raggiunge e che schianta gli ostacoli. Come atleta che insieme lotta e corre e sferra pugni, come soldato che assedia le mura e combatte in La « conversione di San Paolo » di Caravaggio (1601)campo aperto e guerreggia sulle navi, così Paolo usava ogni genere di battaglia, spirando fuoco… Balzava in ogni luogo senza interruzione, accorreva presso gli uni, raggiungeva gli altri, assisteva questi e si affrettava da quelli, più veloce del vento. Governava come fosse una sola casa o una sola nave il mondo intero, sollevando i sommersi, consolidando coloro che turbati cadevano, comandando ai marinai; seduto a poppa, teneva fisso lo sguardo a prua, tirava le funi, manovrava i remi, tendeva le vele con gli occhi che scrutavano il ciclo, facendo tutto da solo, come nocchiero, prodiere, vela, nave. E tutto per portare fuori dalla sventura tutti». Lutero ha assunto la Lettera ai Romani come vessillo della sua Riforma, brandendo spesso una frase paolina come spada per la sua lotta teologica ed ecclesiale. Bossuet nel suo Panegirico di San Paolo (1659) esaltava «colui che non lusinga le orecchie ma colpisce dritto al cuore», mentre Victor Hugo nel William Shakespeare (1864) lo inseriva tra i genii, «santo per la Chiesa, grande per l’umanità…, colui al quale il futuro è apparso: nulla è superbo come questo volto stupito dalla vittoria della luce». Franz Werfel nel dramma Paolo tra gli Ebrei (1926) cercava, invece, di illustrare il fallito tentativo del giudaismo di non perdere questo suo figlio brillante. Il suo antico maestro Gamaliel lo supplica: «Per la libertà di Israele, confessa: Gesù era solo un uomo!»; ma Paolo ormai ha la vita attraversata dalla luce di Cristo e non può che respingere il pur amato rabbì Gamaliel. Si potrebbe a lungo continuare questo elenco di ammiratori di Paolo, giungendo fino ai nostri giorni. Pensiamo al Saulo dell’ungherese Miklos Meszöly, composto tra il 1962 e il 1967, diario autobiografico paolino in cui il persecutore si trasforma nell’uomo braccato dal mistero, «come se fossi sempre inseguito da qualcuno» che alla fine lo raggiunge per sempre. Ma vorremmo soprattutto evocare quell’«abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo (sotto forma di appunti per un direttore di produzione)», datato «Roma, 22-28 maggio 1968», che Pier Paolo Pasolini ha elaborato e ripreso nel 1974 senza mai concluderlo e che sarà pubblicato postumo nel 1977 con il titolo San Paolo. L’idea era di trasporre la vicenda dell’Apostolo ai nostri giorni, sostituendo le antiche capitali del potere e della cultura con New York, Londra, Parigi, Roma, la Germania. «Paolo è qui, oggi, tra noi» scriveva l’autore delle Lettere luterane «egli demolisce rivoluzionariamente, con la semplice forza del suo messaggio religioso, un tipo di società fondata sulla violenza di classe, l’imperialismo, lo schiavismo…. Il film, però, rivelerà la contrapposizione tra ‘attualità’ e ‘santità’: il mondo della storia che tende, nel suo eccesso di presenza e di urgenza, a sfuggire nel mistero, nell’astrattezza, nel puro interrogativo; e il mondo del divino che, nella sua religiosa astrattezza, al contrario, discende tra gli uomini, si fa concreto e operante». Sulla strada verso Damasco «Oltre ogni misura perseguitavo la Chiesa di Dio cercando di distruggerla»; così confessava Paolo ai Galati (Gal 1,13) in un vasto brano autobiografico (cc. 1-2), documento rilevante per la ricostruzione della vicenda personale dell’Apostolo, insieme con 1’«autoelogio» di 2 Corinzi 11-12. Una confessione che ribadirà ai Filippesi: «Ero uno zelante persecutore della Chiesa» (Fil 3,6). Negli Atti degli Apostoli, dopo la lapidazione di Stefano, il primo martire cristiano, si annota: «Saulo era compiaciuto della soppressione di Stefano» (At 8,1). Ma ecco la grande svolta che Paolo affida solo a tre verbi, due di illuminazione, uno di lotta: «[Cristo] è apparso anche a me … [Dio] si degnò di rivelarmi il suo Figlio… Sono stato afferrato da Cristo Gesù» (1 Cor 15,8; Gal 1,16; Fil 3,12). Tre sono anche le
narrazioni di quella celebre epifania sulla via di Damasco: Ace le offrono gli Atti degli Apostoli, alla terza persona nel c. 9 e alla prima nei cc. 22 e 26. Quell’evento è per Paolo discriminante: da allora ci sarà un «prima» sconfessato e un «poi» tutto segnato da Cristo. Prima c’era Saulo («Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», gli grida la voce misteriosa), poi ci sarà Paolo, l’apostolo di Cristo. Anche Felix Mendelssohn Bartholdy nel suo mirabile oratorio Paulus op. 36, ideato a partire dal 1831 ed eseguito per la prima volta a Düsseldorf il 22 maggio 1836 con ben 356 coristi e 160 strumentisti, ha diviso la storia paolina desunta dagli Atti degli Apostoli in due parti, affidandola a due bassi diversi, l’uno è Saulo e l’altro incarna Paolo. «Un’opera, quella di Mendelssohn» come riconosceva Robert Schumann «dell’arte più pura, un’opera di pace e di amore». Nei nostri occhi, invece, quell’illuminazione divina rimane fissa nella raffigurazione della tela del Caravaggio a Santa Maria del Popolo a Roma, con l’enorme cavallo che sogguarda Saulo disarcionato e accecato. Una conversione che diventa quasi il modello di ogni altro rivolgimento spirituale. Basterebbe pensare ad Agostino che muterà la sua vita proprio aprendo una pagina paolina, al c. 13 della Lettera ai Romani: «Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze! Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata la lettura di questa frase, una luce di certezza penetrò il mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono» ( Confessioni VIII, 12,29). Osservava Victor Hugo nel citato William Shakespeare: «La via di Damasco è necessaria al cammino del progresso. Cadere nella verità e rialzarsi uomo giusto è una cadutatrasfigurazione: questo è sublime! Questa è la storia di Paolo e, dopo di lui, questa sarà la storia dell’umanità. Il progresso si attuerà solo attraverso una serie di illuminazioni». Anche August Strindberg nel suo audace dramma Verso Damasco, composto tra il 1898 e il 1904, trasforma quell’evento antico in una parabola del percorso della vita, ma per lo scrittore svedese la via che conduce a Damasco è un labirinto onirico ove le tracce si confondono, è una spirale ossessiva ove il passato a brandelli si mescola con il presente, ove ogni decorso lineare si aggroviglia in ripetizioni, ove ogni sbocco atteso si rivela un inganno, ove la folgorazione finale non accade. Così non è per Saulo che da quel giorno degli anni 32-35, a poca distanza dalla morte di Cristo, diventa il più appassionato missionario cristiano, soprattutto sulle strade dell’area geografica chiamata poeticamente da Deissmann «l’ellisse dell’ulivo», cioè la costa mediterranea che si dispiega da Antiochia, Efeso, Tessalonica, Atene, Corinto, fino a Roma. Proteso fin dall’inizio verso i pagani (Gal 1,16) e incline a scegliere i grossi centri (l’unica città di rilievo esclusa fu Alessandria d’Egitto), Paolo «evangelista» procede armato solo della parola, «come se Dio esortasse Iper mezzo nostro» (2 Cor 5,20), «non parola d’uomo ma parola di Dio, che effonde la sua energia in voi che avete creduto» (1 Ts 2,13). Il vangelo, però, non è solo una teoria, è anche e soprattutto un modo di esistere ed è per questo, come notava Dietrich Bonhoeffer nel suo Schema per un saggio scritto in carcere, che la parola dev’essere sostenuta dal «modello umano che trae origine dall’umanità di Cristo». Paolo, allora, si presenta proprio come un modello di vita da imitare: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1 Cor 4,16). Le sue Lettere sono questo intreccio tra parola e vita; non sono, come spesso erroneamente si crede, freddi trattati teologici. La lingua stessa è piegata all’azione, come riconosceva uno che se ne intendeva, Erasmo da Rotterdam nella lettera premessa alle due Epistole paoline ai Corinzi: «Se si suda a spiegare le idee di poeti e oratori, con questo retore [Paolo] si suda ancor di più a capire cosa vuole, a cosa mira», pronto com’è a farsi greco con i greci, giudeo con i giudei, «servo di tutti, per guadagnare il maggior numero« a Cristo (1 Cor 9,19-23). Il citato Wrede chiamava giustamente le Lettere paoline «frammenti di missione» e noi ad esse potremmo applicare la definizione che uno scrittore greco contemporaneo a Paolo, Demetrio, aveva coniato per il genere epistolare: è «l’altra parte del dialogo», che di sua natura è già intessuto con la presenza e la parola viva. Un mistero ancora da scoprire La lettura integrale degli scritti di Paolo rimane indispensabile per comprendere tutti i lineamenti di un volto originale e sfuggente. Ed è un limite grave che essi siano quasi del tutto assenti, sia nella predicazione ecclesiale sia nella conoscenza laica: quanti sono i cristiani che hanno letto con attenzione l’intera Lettera ai Romani? E quanti sono i cultori della storia dell’Occidente che hanno cercato di individuare e comprendere le radici paoline? Il vangelo di Paolo è centrato sul Cristo crocifisso e risorto, umiliato e glorioso: si pensi che delle 535 presenze nel Nuovo Testamento del nome di Gesù Cristo (di Gesù, di Cristo e così via) almeno 400 si trovano nell’epistolario paolino. Nella Lettera ai Romani egli confessava: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? No, in tutte queste cose noi stravinciamo per merito di Lui che ci ha amati. Sono, infatti, convinto che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39). l discorso teologico dell’Apostolo, radicato nel vangelo di Cristo, si allarga però fino ad abbracciare e ad illuminare orizzonti diversi entro i quali l’umanità si muove e si scontra continuamente. Il quadro generale potrebbe, essere così formulato secondo una sintesi suggerita da un esegeta, Pietro Rossano: «In un grande disegno salvifico Dio offre la salvezza a tutti, ebrei e gentili, in Cristo Gesù morto e risorto. Si diventa partecipi della salvezza unendosi a Cristo mediante la fede, morendo con lui al peccato e partecipando alla forza della sua risurrezione. La salvezza tuttavia non è ancora completa finché egli di nuovo ritorni; nel frattempo colui che in Cristo è stato affrancato al potere della legge e del peccato diventa un uomo nuovo per opera dello Spirito e la sua condotta si ispira alla nuova situazione in cui è venuto a trovarsi per la chiamata divina». Questo linguaggio teologico, pur accurato, risulta, però, uno stampo freddo che non può del tutto contenere l’incandescenza del pensiero e del sentimento dell’Apostolo.

LA PERSONA E L’OPERA DI PAOLO – GIUSEPPE BARBAGLIO

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LA PERSONA E L’OPERA DI PAOLO – GIUSEPPE BARBAGLIO

In Alessandro Sacchi e collaboratori, Lettere paoline e altre lettere, LDC-Torino (1996), pp. 53-60.

La vita di Paolo può essere ricostruita in base a due sole fonti di documenta¬zione, gli Atti degli apostoli e le lettere. Tra queste ultime possono essere utiliz¬zate direttamente solo quelle certamente autentiche (1 Tessalonicesi, 1-2 Corin¬zi, Galati, Romani, Filippesi, Filemone). Queste sette lettere, dettate dalla viva voce di Paolo, costituiscono una testimonianza diretta e per questo di assoluto valore; ma si tratta anche di una testimonianza interessata, proveniente da una persona che, essendo parte in causa, non può essere del tutto obiettiva . Infine è una testimonianza parziale, poiché le lettere, in quanto scritti di occasione, la¬sciano molti vuoti, soprattutto per quanto riguarda l’ultimo tratto della sua esi¬stenza, noto soltanto dagli Atti e da fonti cristiane ancora più tardive.
Accanto alle lettere si collocano, come fonte secondaria, gli Atti degli apo¬stoli, opera di un paolinista dell’ultimo ventennio del sec. I, lo stesso che ha scritto il terzo vangelo. Questi ha inserito Paolo nel quadro della sua visione storico¬salvifica, presentandolo come il portatore del vangelo sino all’estremità del mondo (cf At 1,8), in perfetta sintonia con gli apostoli di Gerusalemme. Se ne impone dunque un uso critico e comunque la sua testimonianza deve essere sempre con¬frontata con quella della fonte primaria. In concreto si dimostra attendibile sto¬ricamente là dove trasmette tradizioni antiche, come per esempio nel racconto della conversione dell’apostolo, in cui ha a disposizione alcune fonti proprie, op¬pure a proposito dei viaggi paolini, dove sfrutta, come si crede, alcuni dati mi¬nuziosi di carattere topografico o cronologico.
1.  IL PASSATO REMOTO
 I primi passi di Paolo possono essere compendiati in due caratterizzazioni: partecipazione convinta e zelante alla religiosità giudaica degli antenati; ostilità non priva di violenza esterna nei confronti del neonato movimento cristiano. Gli Atti degli apostoli e le lettere paoline in sostanza convergono. Circa il suo passa¬to nel giudaismo ecco le parole messegli in bocca dall’anonimo biografo: «Io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città (Gerusalem¬me), formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi » (At 22,3); «come fariseo sono vissuto nella setta più rigida della nostra religione» (At 26,5). Lui stesso può te¬stimoniare: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tem¬po nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la deva¬stassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazio¬nali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,13-14). Egli afferma con fierezza la nobiltà delle sue origini: «Sono ebrei? Anch’io! Sono israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! » (2 Cor 11,22); «circonci¬so l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge» (Fil 3,5-6).
 Nel libro degli Atti la sua attività persecutoria, ambientata nella città santa del giudaismo, con lo sguardo aperto però alla diaspora di Damasco, è dipinta con colori sempre più carichi e tenebrosi: «Saulo frattanto, sempre fremente mi¬naccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati» (At 9,1); «io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arre¬stando e gettando in prigione uomini e donne» (22,4); «molti dei fedeli li rin¬chiusi in prigione con l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti, e quando ve¬nivano condannati a morte, anch’io votai contro di loro. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere» (26,10-11). In questi testi l’autore presenta Paolo non come un semplice persecutore, ma quasi come la persecuzione in persona .
 Nelle sue lettere invece Paolo si limita ad affermare di aver perseguitato la Chiesa: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, ac¬canito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,13-14); «Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apo¬stolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (1 Cor 15,9); «…quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’os¬servanza della legge» (Fil 3,6). L’apostolo però non dice dove, quando, come, per quanto tempo e perché ha perseguitato la Chiesa. Non è neppure certo che abbia agito a Gerusalemme, né che la sua formazione sia avvenuta in questo luogo, poiché gli Atti, che affermano l’una e l’altra cosa, hanno interesse a metterlo in rapporto con la città santa del giudaismo .
Circa il perché della sua attività di persecutore Paolo dà un indizio, in quan¬to afferma di aver perseguitato la Chiesa «per zelo» (Fil 3,6), dunque a difesa della legge mosaica, sull’esempio degli eroici Maccabei. Si può quindi congettu¬rare che la sua ostilità si sia volta contro quell’ala del movimento cristiano che per bocca di Stefano dichiarava obsolete le prescrizioni rituali del codice mosai¬co, compresa la circoncisione.
Una parola di chiarificazione merita anche la natura della sua persecuzione. Si è spinto fino al versamento di sangue? Gli Atti lo affermano, ma questo più che un dato storico è un’esagerazione retorica: è probabile che si sia limitato ad applicare ai cristiani, che partecipavano ancora alla vita della comunità giudai¬ca, le misure disciplinari previste per coloro che non osservavano il regolamento della sinagoga.
Infine è impossibile determinare per quanto tempo si sia protratta la sua atti¬vità di persecutore. Invece se ne può precisare, con una certa verosimiglianza, il terminus ad quem: che coincide con la sua conversione, avvenuta verso la me¬tà degli anni 30.
2. IL PASSATO PROSSIMO
Nell’esistenza di Paolo si è verificata una svolta decisiva quando, sulla via di Damasco, incontra il Signore risorto e aderisce alla Chiesa. Gli Atti ne parla¬no ben tre volte (At 9,3-19; 22,6-11; 26,12-18), quasi a sottolineare l’importanza di questo evento. I racconti paralleli hanno una accentuata corposità plastica: Paolo sta recandosi a Damasco e nelle vicinanze della città è avvolto da una luce celeste e cadendo a terra sente la voce: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4). In realtà il narratore focalizza la sua attenzione sull’autorivelazione di Gesù e sulla missione di Paolo al mondo dei lontani. Dal punto di vista storico sono preziosi alcuni dati circostanziali propri della tradizione, come la precisa¬zione topografica, Damasco, e l’intervento di un cristiano damasceno, di nome Anania, che lo introduce nella chiesa della sua città.
Nelle sue lettere Paolo ricorda questo evento quasi vent’anni dopo, con una maturità che allora non aveva di certo ancora raggiunto. Egli non accenna mini¬mamente alle modalità esterne: tutto l’interesse appare incentrato sull’iniziativa di Dio. La prospettiva è dunque strettamente teologica. In 1 Cor 9,1 dice di aver visto Gesù il Signore e in 1 Cor 15,8 afferma che Cristo gli è apparso come era apparso a Cefa e ai Dodici. Perciò l’evento di Damasco è da lui interpretato co¬me una cristofania del Risorto, fonte di investitura apostolica. In Gal 1,15-16 le categorie teologiche sono: beneplacito divino (eudokew), predestinazione cele¬ste e vocazione per grazia al compito apostolico (al pari di Geremia scelto come profeta ancora prima di nascere), rivelazione (apwkaluptw) del Figlio di Dio af¬finché ne porti il lieto annunzio (euaggelizwmai) ai pagani. Si è trattato dunque di una «apocalisse», cioè di un evento appartenente ai tempi finali, caratterizza¬ti dal disvelamento e insieme dall’attuazione del progetto salvifico del Padre.
 In Fil 3 invece egli parla direttamente della sua esperienza, presentandola sem¬pre però come effetto dell’iniziativa di grazia di Dio: nella sua vita si è attuato un cambiamento radicale, che lo ha portato a rinunziare alla propria giustizia, costruita con le scrupolose osservanze della legge, per ricevere in dono la giusti¬zia divina. In una parola egli, che ben conosceva il codice del dovuto, ha scoper¬to quello diverso e alternativo del gratuito. Ma precisa subito che, al di là delle sue scelte, in realtà è Cristo che lo ha afferrato e si è imposto a lui.
 Se si vuole dunque parlare di conversione, usando un termine che non ricor¬re nelle sue lettere, ci si deve intendere: l’evento di Damasco non ha nulla di mo¬ralistico, perché Paolo non era né un ateo, né un peccatore in senso comune; il fariseo zelante si è convertito a Cristo, che ha colto per grazia come unica via alla salvezza per gli uomini .
3. LA MISSIONE
 Ancor più che teologo e scrittore, Paolo è stato uomo d’azione: azione mis¬sionaria, in terra ancora vergine, e azione pastorale a favore delle sue comunità. In lui è legittimo vedere il più grande missionario delle origini cristiane, impe¬gnato al massimo perché il vangelo arrivasse al mondo pagano.
 Non è stato il primo però a rompere gli steccati, preceduto in questo dal gruppo di Stefano, come testimoniano gli Atti (cf 11,19-21). Comunque, al di là della pur notevole azione in campo aperto, il suo merito principale è stato quello di avere elaborato una teologia capace di giustificare l’apertura universalistica del¬la Chiesa. In realtà non era in questione la possibilità che anche i pagani giun¬gessero alla salvezza, che anch’essi potevano ottenere attraverso l’accettazione della circoncisione e della legge mosaica, ma un universalismo incondizionato e a parità di condizioni: circoncisi e incirconcisi parimenti chiamati ad accoglie¬re Cristo e in lui l’iniziativa di grazia di Dio mediante la sola fede.
 Gli Atti presentano la missione di Paolo secondo lo schema di tre viaggi: il primo con e sotto Barnaba, a Cipro e nelle regioni sud-orientali dell’Anatolia (At 13-14); il secondo con Sila e poi con Timoteo dopo il concilio di Gerusalem¬me e la rottura con Barnaba attraverso la Galazia sino all’Europa, con tappe a Filippi, Tessalonica, Berea e Corinto (At 15,3Cr18,17); il terzo con epicentro Efeso (18,18-20,3). Si tratta però di una presentazione schematica, che potreb¬be far pensare al missionario Paolo come a un cavaliere errante. Di fatto i viaggi sono stati solo il trasferimento da una stazione missionaria all’altra, dove egli si fermava anche a lungo, per esempio più di un anno e mezzo a Corinto e due anni e più a Efeso, come precisano gli Atti, dando vita a vivaci comunità cristia¬ne, costituite in prevalenza da pagani convertiti. L’altro schematismo di Atti è che egli si rivolgeva prima agli ebrei e poi ai pagani. In realtà Paolo ebbe sempre coscienza chiara di essere stato mandato agli incirconcisi, lui «apostolo dei pa¬gani» (Rm 11,13). Invece gli Atti sono storicamente attendibili quando riferi¬scono dati circostanziali, come l’elenco delle città evangelizzate, il tempo di per¬manenza, i nomi dei suoi collaboratori.
  Stando invece alla testimonianza delle sue lettere, dopo l’evento di Damasco egli andò in Arabia, in concreto nella regione est e sud-est di questa città appar¬tenente al regno dei nabatei, non già per meditare, bensì come missionario. Quindi ritornò a Damasco, ma presto dovette lasciare la città per l’ostilità della sinago¬ga in cui propagandava il vangelo di Cristo. Si recò dunque a Gerusalemme, ma non dovette trovarvi spazio, perché presto se ne venne via facendo ritorno in Siria e Cilicia (cf Gal 1,15-24). Sono anni in cui non riesce a trovare il suo posto. Alla fine viene introdotto da Barnaba nella chiesa di Antiochia, con probabilità verso la metà degli anni 40, dove acquisisce un ruolo importante come dottore e profeta di questa comunità e missionario sotto la guida del grande leader sum¬menzionato (cf At 9,20-30; 11,25ss; 13,1-3).
Un’ipotesi abbastanza attendibile ritiene che Paolo, parlando di permanen¬za in Siria e Cilicia (Gal 1,21) per la durata di quattordici anni, essendo questo il periodo intercorso tra la prima e la seconda visita a Gerusalemme (cf Gal 2,1: «Dopo quattordici anni…»), si riferisse anche alla missione in Europa, che dun¬que precederebbe e non seguirebbe, come affermano gli Atti, il concilio di Geru¬salemme (cf Ga12,1-10), databile all’anno 51. In seguito si dovrebbe comunque collocare l’attività missionaria incentrata a Efeso .
 Si ritiene che la missione paolina fosse esclusivamente urbana, ma la regione galatica non era allora del tutto urbanizzata e forse in essa Paolo evangelizzò anche villaggi.
 Il suo progetto missionario aveva come coordinate geografiche l’oriente e l’oc¬cidente, e dunque possedeva un’estensione ecumenica: in Rm 15,19 afferma di aver portato a termine la predicazione evangelica essendo partito da Gerusalem¬me e giunto in Illiria; ora il suo sguardo si spinge fino a Roma e di qui intende raggiungere la Spagna (Rm 15,24).
 L’apostolo ha operato di regola su terreno vergine, dove Cristo non era an¬cora stato annunziato (2 Cor 10,15; Rm 15,20), e si è avvalso di una folta schie¬ra di collaboratori, quasi un centinaio, come risulta sommando i dati di Atti e dell’epistolario paolino . Aveva uno stile missionario proprio: si guadagnava da vivere con le proprie mani e rifiutava di farsi mantenere, per non creare sospetti di interesse privato e così porre ostacoli all’accettazione della parola (cf 1 Cor 9). Il frutto della sua attività sono le comunità paoline alle quali ha indirizzato le sue lettere; solo quella ai Romani è stata spedita a una comunità non di sua fondazione.
4. PASTORE D’ANIME
Dopo aver costituito una comunità cristiana Paolo non l’abbandonava a se stessa, ma si teneva in costante contatto, preoccupato della continuità del suo lavoro di araldo del vangelo. I rapporti con i neofiti passavano anzitutto attra¬verso visite personali – a Corinto l’apostolo si è recato più volte – o di suoi collaboratori, come Timoteo e Tito, mandati a Corinto in suo nome, il primo spedito a Tessalonica per rendersi conto della situazione e portare ai credenti della capitale della Macedonia l’assicurazione che egli non li aveva dimenticati. Ma Paolo comunicava anche epistolarmente, con lettere che testimoniano la sua cura pastorale. In ogni modo egli manteneva la guida spirituale delle sue comu¬nità, che non mancavano di ragguagliarlo sulla situazione e di chiedergli autore¬voli soluzioni ai loro problemi, come appare nei rapporti con la chiesa di Corinto .
D’altra parte però l’apostolo non si è mai preoccupato, prima di lasciarle per un altro campo apostolico, di dotare le sue comunità di capi. Confidava nella creatività dello Spirito capace di suscitare persone capaci e disponibili nel pre¬stare i servizi necessari alla crescita del gruppo e, quando sorgevano leaders na¬turali, egli li approvava ed esortava la comunità a riconoscerli (cf 1 Ts 5,12-13; 1 Cor 16,15-16) .
5. DURO CONFRONTO CON LA CHIESA GEROSOLIMITANA E CON I RIVALI
 Paolo tradisce una manifesta indipendenza dalle autorità cristiane di Geru¬salemme; per questo in Gal 1 accentua il fatto di essersi recato solo due volte a Gerusalemme, la prima per quindici giorni a far visita a Cefa, la seconda in occasione del concilio. Inoltre si mette alla pari di Pietro: se questi è capo della missione al mondo dei circoncisi, lui è il leader dell’evangelizzazione ai pagani (Gal 2,7-8). Però accetta di raccogliere nelle sue chiese una colletta per sovvenire ai bisogni dei poveri della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,9), il cui ruolo di chiesa madre viene da lui riconosciuto, nel senso che il vangelo è giunto al mondo pa¬gano partendo appunto da questa città (cf Rm 15,27).
 D’altra parte Giacomo, capo della chiesa gerosolimitana dopo la partenza di Pietro, doveva nutrire più di un dubbio sull’apostolo che proclamava Cristo venuto a mettere fine alla legge (Rm 10,4). Con probabilità non accettò la collet¬ta portata da Paolo in persona, come si può arguire dalla reticenza dell’autore degli Atti in proposito, che invece sottolinea come questi abbia accettato, dietro suggerimento di quello, di compiere un gesto esemplare di osservanza della leg¬ge per smentire quanti andavano dicendo che era un nemico della religione mo¬saica (21,20ss). Non mancano persino studiosi che individuano proprio in Gia¬como un avversario importante di Paolo.
 Una virulenta polemica invece ha combattuto contro i rivali che nelle chiese di Galazia, ma anche nelle comunità di Corinto e di Filippi, tentavano di scredi¬tare la sua rivendicazione di essere apostolo di Cristo e il suo annunzio della li¬bertà dalla legge mosaica e dello scandalo della croce. In quasi tutte le lettere infatti egli appare costretto a difendersi (apologia). Chi erano i suoi avversari? Non doveva essere un fronte solo, perché il campo di battaglia in Galati e nelle lettere ai Corinzi, dove non esigevano affatto la circoncisione dei neoconvertiti pagani, appare diverso. In Romani poi sembra che egli si difenda da quanti in¬terpretavano la sua predicazione della libertà in chiave libertinistica, come ap¬pare per es. nei due interrogativi di Rm 6,1 e 15 .
6. LA FINE DRAMMATICA
 Nella lettera ai cristiani di Roma Paolo si dice pronto ad andare a Roma, ma prima vuole passare da Gerusalemme a portarvi la colletta (Rm 15,25ss). Egli è consapevole di correre due gravi rischi: il primo è rappresentato dagli «incre¬duli della Giudea», cioè dai suoi avversari giudei, pronti a eliminarlo con la vio¬lenza; il secondo è costituito dalle prevenzioni della chiesa gerosolimitana, che avrebbe potuto rifiutare la colletta, segno della comunione delle sue chiese con le comunità palestinesi. Supplica dunque i romani di «lottare» con lui «nelle pre¬ghiere» perché sia liberato dai violenti e venga accettata la sua opera missionaria tra i pagani.
 Queste sono le ultime informazioni certe che Paolo dà di se stesso. Gli Atti invece riportano ulteriori notizie (At 21-28). Lasciata Corinto dove si era ricon¬ciliato con la locale comunità, l’apostolo arrivò a Gerusalemme, dove ebbe trat¬tative con Giacomo e il presbiterio della chiesa madre. Pro bono pacis accolse il suggerimento di dimostrare pubblicamente il suo attaccamento alle tradizioni mosaiche pagando di tasca propria lo scioglimento di un voto fatto da quattro cristiani della chiesa locale. Entrato con questi nell’area del santuario, fu lincia¬to da fanatici giudei; ma per sua buona sorte venne salvato dall’intervento della coorte del tribuno romano, che lo fece rinchiudere in carcere. In seguito fu tra¬sferito a Cesarea, sede del prefetto romano. Poiché il processo andava per le  lunghe, l’apostolo, in quanto cittadino romano, interpose appello al tribunale di Roma.
 L’autore degli Atti fa sfoggio della sua bravura letteraria nella pittoresca de¬scrizione del viaggio marittimo e soprattutto dell’avventuroso naufragio. Nella capitale dell’impero Paolo visse per un biennio in domicilio coatto, con la possi¬bilità però di annunziare il vangelo a un pubblico di giudei che venivano da lui per discutere di Gesù Cristo.
 Qui termina il libro, perché l’autore in questo modo ha raggiunto il suo sco¬po. Resta dunque aperto l’interrogativo come andò a finire il processo. Secondo la soluzione tradizionale Paolo fu liberato e ritornò in Oriente, dove la sua atti¬vità sarebbe testimoniata dalle Pastorali, ma poi fu arrestato di nuovo e con¬dannato a morte. Sembra più probabile invece che l’esito del processo sia stato la condanna capitale. Infatti si deve rilevare il carattere pseudoepigrafico delle lettere a Timoteo e Tito, e soprattutto il fatto che gli Atti conoscono la fine dram¬matica di Paolo a Roma dove era giunto in catene: ciò appare chiaramente dal discorso di Mileto, in cui egli dice ai presbiteri che non avrebbero più visto il suo volto (20,25). Siamo con probabilità nel 57, se si ammette il criterio di una cronologia corta .
 Anche la seconda lettera a Timoteo, composta verso la fine del secolo, sotto forma di profezia ne testimonia il martirio: «Io infatti già sto per essere offerto in libagione ed è sopraggiunto il tempo di sciogliere le vele» (4,6). Nel 96 1a lette¬ra di Clemente afferma che Paolo, dopo essere giunto «fino agli estremi confini dell’occidente», cioè verosimilmente in Spagna, «si staccò dal mondo e perven¬ne al luogo santo» (5,7). Nel 200 circa Tertulliano precisa che fu decapitato, co¬me il Battista . La data del martirio a129 giugno e l’indicazione della via Ostiense come luogo della sepoltura sono affermate dagli Atti apocrifi di Pietro e Paolo dello Pseudo-Marcello, che non sono anteriori al IV Secolo  .

L’ESPERIENZA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

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L’ESPERIENZA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

A.1) L’ESPERIENZA SOGGETTIVA DI SAN PAOLO COME MODELLO DI ‘ESISTENZA-IN’ CRISTO

Le basi teologiche offerte dal paragrafo precedente permettono ora un avvicinamento esistenzialistico alla straordinaria figura di san Paolo, secondo quella che è la “funzione modellare”[1] che Guardini riconosce all’apostolo di Tarso, ovvero il fatto di costituire un’esemplificazione concreta, un modello storico della relazione sussistente fra la dimensione essenziale del Cristianesimo, cioè Gesù Cristo nella sua persona, e quella esperienziale-esistenziale, cioè la vita cristiana. Si tratta di due prospettive strettamente correlate nella misura in cui ambedue risultano connesse all’istanza cristiana nella sua totalità di significato; come lo stesso Guardini mette in evidenza, dopo aver a lungo interrogato teologicamente il Cristianesimo dal punto di vista della sua essenza, il passo successivo è un’ulteriore domanda: “In che cosa consiste quella realtà, alla quale fa riferimento in maniera essenziale l’esistenza cristiana? Il valore che provoca alla decisione?”[2].
Il pensiero di Guardini può così inquadrarsi entro due grandi momenti teologici. Il primo è segnato dall’interrogativo essenziale circa l’oggetto del credo cristiano, il quale si è dimostrato essere, in termini assoluti, un “soggetto” personale, una singolarità categoriale, un’identità precisa e peculiare, cioè Gesù Cristo, il concreto vivente. Ora, nel secondo momento e mantenendo vivo questo presupposto, l’autore guarda a tale soggetto come ulteriore “oggetto” dell’esistenza cristiana, cioè colui che “nel soggetto” cristiano esiste personalmente plasmando sostanzialmente la stessa esistenza dell’uomo, facendo di essa una coesistenza o, più teologicamente, un’esistenza-in. Come si domanda l’autore, infatti: “Possono l’uomo singolo, tutti gli uomini, l’insieme dell’umanità, l’universo, entrare-in Lui? Non finiscono in una strettoia? Non perde l’universo il suo carattere di libera totalità?”[3].
In tale doppio momento teologico è tuttavia sotteso un fondamento di matrice filosofica, ovvero il concetto guardiniano di opposizione polare, che lo conduce all’individuazione di una dimensione “inabitativa” ed una “sovrabitativa” entro l’esistenza umana di un medesimo soggetto[4]. Tale fondamento, che sarà oggetto del successivo capitolo, viene qui considerato unicamente nella prospettiva di evidenziare il terreno filosofico nel quale  Guardini raccoglie le proprie considerazioni teologiche in merito alla figura di san Paolo e più in generale a quella di ogni soggetto cristiano. La figura paolina rappresenta pertanto un momento “peak” nel quadro argomentativo di Guardini, poiché gli offre la possibilità empirica di porre un soggetto concreto e non un’ideale ed astratta istanza umana quale strumento esemplificativo delle proprie riflessioni.
San Paolo certamente rappresenta un “caso emblematico” di esperienza di tensione degli opposti: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma ciò che detesto” (Rm 7,15). Questa però non è certamente una ragione sufficiente per assumere la figura di Paolo quale modello referenziale, anzi, per come è stata proposta qui sopra l’asserzione stessa potrebbe apparire equivoca e teologicamente fallace, entrando in una dimensione opinabile di giudizio della stessa figura paolina. Piuttosto Guardini si prodiga nella sua ricerca attorno all’apostolo di Tarso per una ragione che a lui stesso appare inconfutabile: “Chi ci schiude la via per penetrare nel mondo del Nuovo Testamento non sono né i Sinottici, né Giovanni, ma Paolo, e appunto per essersi trovato nell’identica situazione in cui ci troviamo noi stessi”[5]. L’opposizione polare è perciò un metro sotteso all’indagine di Guardini, che in termini espliciti, invece, rivendica delle giustificazioni teologiche, ponendo cioè l’esistenza cristiana di Paolo, così come testimoniata dalle Scritture, al vertice di un processo di incontro-con Cristo che per l’uomo di ogni tempo risulta emblematico; e questo a parere di Guardini proprio perché Paolo “è uno di noi”. Cosa significa, tuttavia, che Paolo “è uno di noi”?
Guardini offre una serie di ragioni a riguardo. Ad esempio, Paolo fu l’unico apostolo a non vedere Gesù con i propri occhi nella sua vita terrena e di Lui ha avuto notizia soltanto come la possiamo avere noi, cioè dall’esterno, ad opera di quelli che riferiscono di Lui e per gli effetti che da Lui si ripercossero nella storia; in un secondo momento anche dall’interno, allorché il Signore lo chiamò e gli si rivelò nel cuore. Ancora, quando Paolo delinea la propria figura di Cristo, lo fa attingendo fondamentalmente alle fonti alle quali pure noi facciamo ricorso, ovvero il messaggio tramandato e la propria esperienza. Inoltre, ciò che a noi manca, e che invece ebbe un’influenza enorme nei riguardi dei primi apostoli, cioè l’essere stati testimoni oculari, mancava anche a lui[6]. Tutto ciò porta Guardini a concludere che “proprio per questo, Paolo è l’uomo che fa al caso nostro: e se qualcuno afferma di comprendere il Nuovo Testamento senza far ricorso a Paolo, è da temere che non sia riuscito a comprendere molto della figura di Cristo”[7].
L’orizzonte che qui si dischiude, pertanto, è quello di analizzare l’esistenza di Paolo onde poter tratteggiare, utilizzando essa come guida, l’identità concreta di una vera esistenza-in Cristo che sia esemplare per ogni soggetto cristiano. Attraverso questo procedimento, infatti, risulta parafrasata concretamente, cioè resa esplicita, la volontà “pura” di Guardini, cioè la sua intenzione teologica originaria: “Ora diremo come l’essere di Cristo si attua nella personalità del cristiano, diremo cioè dell’immagine dell’uomo, che accoglie il messaggio con fede e fiducia, e si sforza di vivere in esso; cioè di compiere quella metànoia che è richiesta da Gesù con le prime parole. La risposta più profondamente urgente implica ciò che si può definire come una teologia dell’esistenza cristiana”[8].
Viene così da porsi con una certa inquietudine l’interrogativo che lo stesso autore pone a sé medesimo, ovvero, in termini esistenziali, chi fosse san Paolo. Se Guardini osserva a tutto tondo la figura paolina, scrutando con profonda attenzione quanto i testi biblici, e in particolare le stesse lettere paoline, rivelano direttamente o indirettamente di lui, non si getta, tuttavia, in un cieco inseguimento di un’ideale figura umana che si è riconosciuta primariamente come esemplare. Si intende dire, cioè, che Guardini, nel suo procedere teologico entro l’essenziale cristiano, cioè la persona di Cristo, segue sempre le linee strutturali della propria fede cristiana, senza mai dimenticare, quindi, il proprio concetto di esistenza cristiana e di opposizione polare nel soggetto umano. In termini pratici, se per Guardini, primariamente, “esistere significa che questo essere vivente critichi se stesso, sia dunque capace di prendere coscienza della differenza fra attività vera e falsa… determinare quel che si dice norma e valore”[9]; ancora, se “interiore a sé può essere solo ciò che ha almeno una possibilità di essere anche fuori di sé”[10], proprio perché, come indica la Iannascoli, “solo quando l’uomo si sa osservare come oggetto, si vede e si sa soggetto”[11], così che “contemplante e contemplato, soggetto e oggetto affiorano nella coscienza distinti l’uno dall’altro”[12], ebbene, attraverso questa prospettiva di pensiero sua personale Guardini incontra san Paolo e ne tratteggia la figura, riconoscendo in essa, come si è detto, un’esperienza archetipica dell’Io cristiano. L’autore, tuttavia, non cade nella trappola del superficialismo teologico, che vorrebbe dividere in due tronconi netti l’esistenza di Paolo, uno relativo al tempo prima della sua conversione, l’altro ad essa successivo, ma con la sua solita prudenza che tende a salvaguardare l’insieme, Guardini osserva ciò che di strutturante vi è nell’esistenza paolina nella sua interezza, senza tralasciare il radicale cambiamento operato dall’incontro con Cristo. Taluni aspetti esistenziali paolini, infatti, permangono anche dopo il noto avvenimento sulla via di Damasco, seppur nella nuova luce di quel Signore “che è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore, ivi c’è libertà” (2Cor 3,17).
Ora, rispondendo alla domanda esplicita “che uomo era, dunque, san Paolo?”, Guardini utilizza i parametri sopra accennati per offrire un quadro antropologico ed esistenziale dell’apostolo di Tarso. La personalità paolina, secondo l’autore italo-tedesco, “era tormentata da due forti passioni: una sensualità potente ed una grande ambizione; egli è il solo che parla di collette”[13]. La citazione di Rm 7,15, con cui sopra si è introdotta la figura di Paolo in questo paragrafo, si fa adesso quanto mai impellente. Essa, tuttavia, non è che un momento importante di tutto un quadro esistenziale; infatti, se lungo tutta la sua esistenza precristiana, “in se stesso, nelle sue membra, Paolo sente il contrasto di due potenze, una buona ed una cattiva, ma non riesce a dar libero passaggio a quella buona e a soggiogare la cattiva, ma piuttosto odia se stesso, si fa violenza, e finisce per sentirsi sempre più disperatamente misero”[14], anche dopo l’esperienza sulla via di Damasco la “tensione esistenziale” da Guardini individuata nel santo di Tarso appare talora un’istanza invalicabile: “Paolo non sembra né perfettamente sano, né completamente sicuro di sé. Egli sembra essere stato uno di quegli uomini che attirano le calamità, che predispongono contro di sé la loro sorte, un uomo tormentato”[15]. Le stesse Scritture sembrano confermare la visione guardiniana di san Paolo, traslando però quella che psicologicamente appare come una forte angoscia interiore in una più teologica inquietudine dello spirito. Per esempio, in At 9,16 il Signore dice di lui ad Anania. “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome”; di fronte alle incomprensioni dei Corinzi, Paolo afferma di se stesso: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi, tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde” (2 Cor 11,24-25), premettendo come tutto ciò sia avvenuto nonostante la sua apparente dualità: “Io davanti a voi così meschino, ma di lontano così animoso con voi” (2 Cor 10,1). La stessa immagine fisica di Paolo, così come deducibile dalle Scritture, testimonia per Guardini una sua ulteriore difficoltà sociale, questa volta legata alla dimensione estetica dell’apparire. Infatti, ciò che ad esempio si deduce dal passo di Atti 14,12, in cui si dice che dopo una guarigione operata a Listra i presenti “chiamavano Barnaba ‘Zeus’ e Paolo ‘Mercurio’, perché era lui il più eloquente”, secondo Guardini “sta a significare come Barnaba dovesse avere una figura più imponente, mentre Paolo fosse piccolo di statura e non appariscente”[16]. Tuttavia vi è soprattutto un momento biblico che Guardini riconosce come particolarmente emblematico per quella tensione paolina che, seppur non esplicitamente, rimanda alla struttura degli opposti polari così preponderante nel pensiero di Guardini. Si tratta del brano contenuto in 2Cor 12,7-9, dove Paolo afferma: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed Egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia’. Mi vanterò dunque ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”. Il racconto è un ulteriore suggello al brano già citato di Rm 7,15 e testimonia ancora di più quanto “Paolo ha dovuto soffrire molto, continuamente e per tutto”[17], e come nonostante l’avvenuta conversione, “nella sua nuova realtà di cristiano egli ha preteso da sé molto di più di quanto pretendesse prima”[18].
Perché, dunque, verrebbe da chiedersi, un tale attaccamento alla figura di Paolo da parte di Guardini, al punto da erigerlo a riferimento primario per un’esistenza-in Cristo? Quale fascino può destare, nel credente, una tal figura di cristiano zelante che, per come sinora è stata descritta, potrebbe suggerire un concetto semmai ombroso e tormentato di esistenza?
Guardini introduce, a questo proposito, un primo momento di forte “spaccatura” esistenziale nell’esperienza personale di Paolo, che molte volte viene tralasciato o comunque messo ai margini dall’episodio avvenuto sulla via di Damasco: l’incontro di Paolo con la giovane Chiesa rappresentata in particolare dal martire Stefano. Questo incontro per Guardini è assai significativo per lo zelante “Saulo”, soprattutto nella misura in cui quella tensione polare entro se stesso, che in ultima istanza non è mai stata davvero sopita in lui, è venuta alla luce per lo meno in termini di autocoscienza di sé, mostrandogli cioè la dimensione di se stesso, facendo emergere in lui il guardiniano “punto intimo dove sto”: “Di fronte all’eroica e sublime figura di Stefano, egli ha per la prima volta la percezione della potenza di Cristo, ma, naturalmente, ciò non fa altro che eccitarlo ancor più nella sua furia devastatrice”[19].
Un’esperienza forte, pertanto, ma non ancora debellante quel senso di autosufficienza, quella volontà tirannica rinchiusa entro le barriere del proprio Io e così fortemente legata alla metodicità, alla prassi legale, allo zelo religioso. Su questo terreno esistenziale, che se non altro ora appare “cosciente” allo stesso Paolo, irrompe l’azione trasformatrice della grazia, l’unica via, come si vedrà nel seguente paragrafo, di conciliazione degli opposti: l’apparizione di Cristo sulla via di Damasco. E tale esperienza, per come la interpreta Guardini, è proprio la risposta alla domanda posta qui sopra, cioè la ragione del fascino che la figura di Paolo esercita sul soggetto cristiano: “Quando Paolo è sulla via di Damasco, vede una luce, e non il volto di Cristo. In chi legge le sue lettere, si forma la convinzione che il Gesù Cristo di cui esse trattano è più potenza in atto, energia creativa, luce illuminante, vita irradiante e creante, che non una figura fisica sulla quale si possa fissare lo sguardo, un volto da poter rimirare. Nei Sinottici, invece, abbiamo un Gesù che guarda verso di noi, che ci rivolge la parola, che agisce. Ciò certamente è un privilegio prezioso che gli evangelisti ci offrono, ma al contempo un elemento che ci dà l’impressione di essere tanto lontani dalla loro narrazione in quanto non abbiamo mai visto con gli stessi nostri occhi il Signore”[20].
Con Paolo, quindi, il credente di ogni tempo si sente, secondo Guardini, maggiormente “condividente” l’esperienza dell’apostolo di Tarso, percependo come lui non la fisicità concreta di un volto, non dei tratti somatici esclusivi di un soggetto umano, non una carne o degli occhi, né uno sguardo o un’espressione del volto storici, bensì la presenza di una potenza esclusiva, l’irrompere di un’energia liberante, trasformatrice, un Qualcuno dalla luce inaccessibile che tuttavia si fa incontro all’uomo, permettendogli di scoprire come “in Lui viviamo, ci muoviamo e siamo” (At 17,28). In virtù di tale potenza Paolo riesce a superare le proprie tensioni esistenziali non, come si vorrebbe, eliminandole da se stesso, ma vivendo con esse nella nuova dimensione del battezzato, proprio in virtù di quel battesimo “a lui tanto caro che non è qualcosa di psicologico o etico, ma di pneumatico-reale”[21], affermando “che nell’uomo avviene qualcosa di singolare. Egli viene a trovarsi in comunione di esistenza con Cristo, proprio come se questi penetrasse in lui e vi permanesse come figura fino a dominarlo, come forza ad agire in lui. E quando Gesù si è stabilito in noi, vuole rivelarsi nell’esistenza umana”[22].
Qui si entra nuovamente nel cuore del Cristianesimo, attestando perciò il legame inscindibile tra l’essenza del Cristianesimo e l’esistere-in Cristo. Colui in cui si crede, infatti, che è persona viva e concreta, è pure Colui che nell’atto di fede da parte del credente penetra in lui realizzando una coabitazione esistenziale. Una coabitazione, però, che non va intesa secondo il senso comune del termine, intendendo cioè la reciproca presenza di due soggetti entro la stessa abitazione. Nel Cristianesimo colui che realmente vive è il Cristo, il quale plasma il soggetto credente nella sua particolarità di essere e di vita, nei suoi doveri e nei suoi destini, e ancor più non lo fa “individualmente”, cioè relativamente ad un singolo individuo, ma vive nella Chiesa, trasporta l’esistenza dell’uno nell’esistenza del complesso della cristianità, dove realmente “circola una stessa linfa, palpita una stessa vita, impera la stessa figura umana e divina”[23].
Ecco allora di nuovo “la differenza di ciò che è cristiano” (Unterscheidung des Christlichen)[24], presentata sotto una nuova veste, ovvero quella dell’esistenza umana, “che per essere salvata deve dunque essere incorporata nella realtà di Cristo”[25]. Tale differenza è proprio l’in-existenz, l’esistere-in Cristo, a partire dallo stesso Cristo che interpella l’uomo con una pretesa non astratta ma concreta[26], a partire dalla quale i fedeli devono camminare in Lui, “ben radicati e fondati in Lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie” (Col 2,7). In questo senso risulta per Guardini quanto mai pregnante la testimonianza di Paolo, nelle cui lettere “ritorna di continuo una espressione caratteristica: ‘in-Cristo”[27]. Fede cristiana, infatti,  significa essere in Cristo, cioè il continuo “essere spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni” (Col 3,9) per rivestirsi dell’uomo nuovo, per poter “partecipare alla sorte dei santi nella luce” (Col 2,12). Questo perché, come afferma ancora Paolo, “se uno è in Cristo, è una nuova creatura. Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17), per cui al credente è richiesto di effettuare con Cristo, nella propria esistenza, l’azione redentiva mediante una vittoria sempre nuova, affinché Cristo si formi in Lui (Gal 4,19)[28], e quindi “credere, venir battezzato, essere cristiano, insieme con tutto l’agire cristiano, significa inserirsi in questo permanente avvenimento; venirne afferrato ed esserne reso partecipe, in esso stare innanzi a Dio”[29]. Tutto questo avviene, come sottolinea Guardini, sempre nella bilatitudine dell’esistere in Cristo: la dimensione individuale, certamente, ma sempre nella prospettiva del Noi ecclesiale, cioè “l’unione della comunità credente come tale, un qualcosa che trascende la mera somma dei singoli credenti, ciò che è, insomma, la Chiesa”[30]. In ultima istanza, pertanto, l’esperienza soggettiva del cristiano è sempre una esperienza comunitaria del Cristo che vive nella Chiesa.

 - La Casa di Miriam –

SAN PAOLO APOSTOLO E MAESTRO – Mons. Giuseppe Petralia (2009)

http://www.diocesipatti.it/Prefazione%20Petralia.pdf

SAN PAOLO APOSTOLO E MAESTRO

Patti 2009

Mons. Giuseppe Petralia
Vescovo di Agrigento

PREFAZIONE
di S. E. Mons. Ignazio Zambito

È nel tempo del Concilio Vaticano II, nella stagione in cui la Chiesa si dischiude agli orizzonti della contemporaneità, che San Paolo, apostolo e maestro vede la luce. Un libro sorprendente per essenzialità teologica e qualità letteraria, chetrova vasta eco in ambito cattolico e laico.
Autore è Giuseppe Petralia, vescovo di Agrigento, impegnato, sin dagiovane, nel mondo della cultura come giornalista e scrittore, contribuendo al rinnovamento della Chiesa italiana.
La sua riflessione biblica, volta alla riscoperta della Parola incarnatanella storia di ieri e d’oggi, si rapporta all’ansia di verità, all’inquietudine esistenziale, all’invocazione angosciata del secolo breve, traversatoda guerre mondiali e indicibili orrori, di cui sono testimoni, soprattutto,
poeti, filosofi e narratori. Di questi Giuseppe Petralia diviene, nel ruolo di sacerdote, interprete
lungo un itinerario di dubbi, rischiarato dal baluginio della fede. Compagno umile di intellettuali alla ricerca di Dio, scrive per loro pagine di limpida spiritualità, la cui ragione si radica nella persona di Cristo con un linguaggio che rifugge dall’accademismo ed è in grado di comunicare empaticamente alla mente e al cuore. Quando, nel 1964, pubblica San Paolo, apostolo e maestro Petralia lo dedica ‘ai miei antichi allievi di Teologia, ai chierici del mio Seminario di Agrigento, a quanti mi seguono e mi confortano nella mia modesta ma vigile opera di Pastore’.
Il libro, tuttavia, appare consustanziale all’intelligenza di quanti si trovano extra moenia per la sintesi espositiva della personalità di Paolo e delle problematiche del cristianesimo.  Una visione globale, non generica, che penetra l’azione e il pensiero del vinto di Damasco, il cui universalismo si esplicita nell’annunzio di una salvezza che coinvolge uomini e donne, ebrei e romani, barbari e greci, schiavi e liberi. È cosmopolita Paolo: giudeo della diaspora, romano secondo il diritto,per cultura ellenista. Supera i limiti geografici della Palestina per raggiungere l’Asia minore, la Grecia, Roma, la Spagna nella estrinsecazione di una koiné che se d’un canto unisce le diversità culturali, dall’altro lesublima nell’idea della grazia divina.Succede spesso che testi di teologi, rigorosi per trattazione, risultino difficili per i non addetti ai lavori, riservati quindi a specialisti di esegesie filologia. Raro è il caso che il saggio di un biblista o di un liturgista avvinca perla materia significata e per la bellezza della scrittura, tale da impossessarsi dell’interlocutore. Il San Paolo di Petralia possiede questa specificità perché generato dalla
penna di un poeta, vissuto a lungo nell’esercizio del giornalismo, avendoa modello i classici e i maestri della narrativa e della critica contemporanea. Peculiarità che rende persuasivo il volume aulico nella concinnitas, moderno per la forma vibrante, teso alla presentazione della figura e della dottrina dell’apostolo delle genti, lungi da apologie, diatribe e moralismi.
Con scioltezza di eloquio ed esposizione serena il vescovo della Valle dei Templi ritrae Paolo di Tarso, ricostruendo dall’interno l’identikit, umano e psicologico, prima, poi l’intus, cioè l’enigma che fa di lui il profeta di Gesù sulla via di Damasco, nelle peregrinazioni per terra e per
mare, all’interno delle comunità ebraiche e cristiane, nelle agorà, nei tribunali, nel martirio.
Icona palpitante di vita è Paolo che si rivela, nella complessità, uno dei maggiori protagonisti non solo della fede, ma anche della storia.  Un intellettuale che più di Aristotele e Seneca determina il capovolgimento della civiltà dello spirito; un teologo che traspone nella linea escatologica il destino dell’uomo, in quell’incontro con il volto di Dio, che costituisce l’aspirazione di chi crede nel Golgota e nella Resurrezione. Ripercorrendo con padronanza gli itinerari degli Atti degli Apostoli e rivisitando le Lettere paoline, Petralia scrive un libro in cui Saulo, afferrato da Cristo, si offre sia come assertore della libertà e suo difensore sino allo spargimento di sangue, sia come ministro del Verbo e della Chiesa, nella esplicitazione del Vangelo e dei Sacramenti.Non la rappresentazione stereotipa del discepolo di Gamaliel e del fariseismo né quella del convertito che terrorizzando converte, bensì l’avventura di un grande uomo e di un grande santo. Il quale, dopo esserestato inondato di luce che lo acceca e lo consegna alla notte, scopre cheil Gesù da lui perseguitato è agostinianamente interior intimo meo, superior summo meo. Epifania dell’indicibile che spiega il senso di una fede che si incentra
nella verità dell’amore e che questa non è filosofia, ma la stessa personadi Cristo. Inizia così per Paolo un percorso che, attraverso struggenti inquietudini,folgorazioni spirituali, tribolazioni della carne, impossibili speranze, visioni estatiche, gli permette di comprendere che la legge e i profeti fanno parte di un passato propedeutico e che il compimento della Rivelazione è nel Discorso della Montagna e nella contemplazione del Figlio dell’Uomo,
crocifisso a Gerusalemme e risuscitato nell’alba della Pasqua. Ma altre sofferenze mancano al corpo di Cristo, come elementi costitutivi del corpo mistico che è la Chiesa, necessarie alla sua perfezione. Pertanto Paolo le accoglie e le esperimenta per primo nella carne, ansioso
di completare il mistero dell’unico corpo.Si compone di due parti il libro di mons. Petralia. Nella prima balza plastica la persona dell’apostolo, tratteggiata nel temperamento, indagata dentro il perimetro del giudaismo, svelata nella prospettiva di una fede che evolvendosi raggiunge l’identificazione con Cristo nel ministero della Parola e del Pane, in rapporto con le comunità da lui fondate e assistite.  Concatenata è la struttura dei capitoli. Mette in risalto, secondo un ritmo
diacronico, l’avvicendarsi di incontri ed eventi che plasmano l’esistenzadi Paolo e forgiano il suo impegno nella formazione delle Chiese dell’Anatolia e dell’Ellade, che lo obbliga, tra pericoli di ogni genere, a percorrere migliaia di chilometri e annunziare che il Messia è venuto e
che la sua luce risplende sulla croce. Dopo la conversione di Saulo scandiscono il suo tempo i grandi viaggi missionari, il Concilio di Gerusalemme, intorno all’anno 50, con le questioni riguardanti l’assoluta gratuità della grazia, il carcere e gli arresti domiciliari, la redazione delle epistole, l’attesa della condanna capitale, mentre intensa si fa l’opera di pastore. 6
Nemmeno le sofferenze fermano la sua attività di apostolo, spintodall’urgenza di rivelare ai popoli l’economia della redenzione e di contribuire, insieme con Pietro e gli altri eletti, a edificare la Chiesa dei santi, il cui fondamento è quella carità che egli celebra nella prima lettera ai Corinti: magnanima e benevola; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia; non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Nella seconda parte Petralia focalizza il magistero di Paolo nella dimensione filosofica e teologica. Sa di trovarsi dinanzi a una titanica intelligenza speculativa che, per volere di Dio, formula le basi, razionali emetafisiche, atte alla divulgazione della Buona Novella, ben comprese
dai Padri, non ultimo Agostino, che sentono pulsare di mistica il pensiero di colui che ha contemplato il volto di Cristo e può dichiarare ai Galati: Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.  Diverso è l’atteggiamento di parecchi intellettuali moderni, fra cui Nietzche e Renan, che ambiguamente considerano Paolo fondatore del cristianesimo, negando, pertanto, di questo la matrice divina. Petralia, conscio di problematiche e polemiche, intende offrire unosguardo di insieme.  Perciò non dibatte argomenti di struttura esegetica. Subito entra nel cuore di un insegnamento che trae linfa dalla confessione ai Galati, in cui l’apostolo dichiara che la sua sapienza è dono della Rivelazione, finalizzata all’annunzio salvifico alle genti. Rivelazione che sorprende l’intero Areopago di Atene – secondo la narrazione degli Atti – dove risuona la voce del maestro: Dio non dimora in templi costruiti da mani d’uomo… ma in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo. Articolata in paragrafi è la riflessione di Petralia: Cristo sapienza di Dio; la fede che si traduce in amore; il ministero sacramentale della Chiesa. Chiude il libro un intenso profilo del genio della spiritualità e dello scrittore universale. Carica di passione si staglia nelle pagine il personaggio di Paolo, chiamato a evangelizzare, con intelletto e immaginazione, l’oriente e l’occidente. Inaudito lo sforzo per far conoscere a tutti Cristo e sradicare dalle menti il male oscuro che corrode il mondo, forte di quella spes contra spem che sprona alla libertà. Per questo significativa è l’affermazione di Mario Luzi: Paolo è un’enorme figura che emerge dal caos dell’errore e dall’inquieta aspettativa degli uomini per dare senso alla speranza. Apostolo e maestro che vive, con gioia, di Cristo nella visione cosmica della gloria.Figura eccelsa è pressoché inimitabile, ribadisce Benedetto XVI, ma comunque stimolante, sta davanti a noi come esempio di totale dedizione al Signore e alla sua Chiesa, oltre che di grande apertura all’umanitàe alle sue culture. La prima volta ho letto San Paolo, apostolo e maestro fresco di inchiostro e ne sono rimasto affascinato.
Convivendo col vescovo Petralia, come suo segretario particolare, dopo avere ricevuto da lui il sacerdozio ministeriale, ho avuto modo di capire via via meglio il perché di questo libro profondo e semplice. Raccontando il segreto di una santità, che da secoli conquista gli spiriti
più acuti della fede, della cultura, della scienza e dell’arte, Mons. Petralia rivela quanto abbia personalmente attinto dalla profondità, dalla semplicità e dalla santità di Paolo. La riproposizione di quest’opera, a un tempo di teologia e letteratura,non sfigura accanto alle tante pubblicazioni che hanno visto la luce nel bimillenario paolino, contribuirà a penetrare la concezione universalistica di Paolo, vuole essere nei confronti dell’illustre pastore di Agrigento memoria e gratitudine.

Patti, 25 gennaio, Festa della Conversione di S. Paolo Apostolo, 2009
✠ Ignazio Zambito

SAN PAOLO: L’UNITÀ INTERIORE, SEGRETO DI SANTITÀ E FECONDITÀ APOSTOLICA – IL BEATO GIACOMO ALBERIONE

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SAN PAOLO: L’UNITÀ INTERIORE, SEGRETO DI SANTITÀ E FECONDITÀ APOSTOLICA

IL BEATO GIACOMO ALBERIONE, INTERPRETE ATTUALE DELL’APOSTOLO DELLE GENTI

04 LUGLIO 2012

DI PADRE JOSÉ ANTONIO PÉREZ, SSP

ROMA, mercoledì, 4 luglio 2012 (ZENIT.org).- Una persona si realizza nella misura in cui ha un principio interiore che si rivela in tutto il suo modo di essere, donandogli una fisionomia inconfon­dibile e un’unità d’azione. Nel credente, l’unità inte­riore dipende da un principio dinamico ricevuto da Dio stesso, vissuto in tutta la sua esigenza e portato alle ultime conseguenze. Tutto ciò che egli realizza, porterà il sigillo della sorgente profonda da cui pro­viene.

COSCIENZA E AFFERMAZIONE DELL’UNITÀ PERSONALE
La scoperta dell’apostolo Paolo da parte del beato Giacomo Alberione risale al primo contatto con gli studi teologici. San Paolo sapeva che in Gesù Cristo abita corporalmente la pienezza della divini­tà e che tutto abbiamo pienamente in lui (cf. Col 2,9-10); di conseguenza, non si può servire Gesù Cristo se non con una risposta di grande «pie­nezza» e sforzandosi perché tutti acquistino la piena intelligenza del mistero di Dio, che è Cristo (cf. Col 2,2-3); e in questo ministero impegnò tutte le risorse personali di natura e di grazia (cf. Col 1,28-29). Tutto questo colpì profondamente l’animo delgiovane ed inquieto Alberione.
«L’ammirazione e la devozione – scriveva nel 1954 – cominciarono specialmente dallo studio e dalla meditazione della Lettera ai Romani. Da allora la personalità, la santità, il cuore, l’intimità con Gesù, la sua opera nella dogmatica e nella morale, l’impronta lasciata nell’organizzazione della Chiesa, il suo zelo per tutti i popoli, furono soggetti di meditazione. Egli parve veramente l’Apostolo: dunque ogni apostolo ed ogni apostolato potevano prendere da lui». Da allora la conoscenza andò sviluppandosi e divenne «devozione», con tutta la carica che questa parola comporta: conoscenza sempre più approfondita, amore e volontà di identificazione, confronto continuo sul piano del pensare e dell’agire, decisione di far conoscere, amare, seguire e imitare l’Apostolo.
Questa «devozione» andò intensificandosi quando la figura dell’Apostolo fu associata alla nuova forma di apostolato che il giovane Alberione avviava con le sue fondazioni. «Tutte le anime che presero gusto agli scritti di San Paolo, divennero anime robuste», affermava. Ed esortava: «Preghiamo san Paolo che formi anche noi persone di carattere, che non si scoraggiano…, che sanno dare un valore giusto alle cose. Gente pratica che sa giocare il “tutto per tutto”, cioè dando tutto a Dio per riceve in cambio Dio stesso. E questo avviene quando vi è un grande amore, la convinzione che aveva san Paolo da farlo esclamare: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”».

L’UNITÀ IN GESÙ CRISTO, RICEVUTO DA SAN PAOLO
Per garantire l’unità di ispi­razione e di azione, Don Alberione si riporta sempre al punto essenziale, e così lo offre alla sua Famiglia: «L’unio­ne di spirito: questa è la parte sostanziale… vivere nel Divin Mae­stro in quanto egli è via, verità e vita; viverlo come lo ha compreso ilsuo discepolo san Paolo. Questo spirito forma l’anima della Famiglia Paolina, nonostante che i membri sia­no diversi ed operanti variamente… “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”», diceva nel 1960.
L’unità si trova dunque in Gesù Cristo, ricevuto da san Paolo. Per dono di Dio, don Alberione ha sentito a fondo la Parola rivela­ta circa la pienezza apostolica di san Paolo ed è stato mosso dallo Spiri­to all’impegno di riprodurlo, oggi, nella totalità del suo carisma aposto­lico. È questa la sorgente e l’unità profonda della Famiglia Paolina. È di qui che emanano le differenti fisionomie dei dieci gruppi che la costitui­scono.
Afferma don Silvio Sassi, Superiore generale della Società San Paolo, nella sua lettera annuale, “Ravviva il dono che hai ricevuto”, che per essere fedeli oggi in modo creativo a Don Alberione, occorre interpretare san Paolo per le urgenze della nuova evangelizzazione del nostro tempo: una profonda esperienza di Cristo, che si trasforma in fede missionaria nella comunicazione attuale, in contemplazione nella liturgia, in laboriosità nella pastorale parrocchiale, nel suscitare vocazioni, nel vivere lo stato di vita laicale in stile paolino e nella cooperazione alle opere di bene paoline. Sono questi, appunto, i vari raggruppamenti che debbo­no trovare in san Paolo il loro vincolo di unità e il loro dinamismo contemplativo-attivo verso Dio e verso gli uomini.

UNITÀ, SANTITÀ E FECONDITÀ APOSTOLICA
Il beato Giacomo Alberione considera san Paolo non solo padre e ispiratore, ma addirittura «fondatore», «forma» sulla quale la Famiglia Paolina deve riprodurre Gesù Cristo per essere «san Paolo vivo oggi»: «Gesù Cristo è il perfetto originale. Paolo fu fatto e si fece per noi forma: onde in lui veniamo forgiati, per riprodurre Gesù Cristo. San Paolo è forma non per una riproduzione fisica di sembianze corporali, ma per comunicare al massimo la sua personalità… tutto. La Famiglia Paolina, composta da molti membri, sia Paolo-vivente in un corpo sociale».
Il motivo dell’elezione di san Paolo è stata la sintesi che l’Apostolo ha saputo realizzare in se stesso di tutte le dimensioni della sua personalità:
Santità e apostolato: «Si voleva un santo che eccellesse in santità e nello stesso tempo fosse esempio di apostolato. San Paolo ha unito in se la santità e l’apostolato».
Amore a Dio e amore alle anime: «Se san Paolo oggi vivesse… adempirebbe i due grandi precetti come ha saputo adempierli: amare Iddio con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutta la mente; e amare il prossimo senza nulla risparmiarsi».
Attività e preghiera: «Sovente si dà risalto all’attività di san Paolo; ma prima bisogna mettere in risalto la sua pietà».
Il segreto: la vita interiore: «Perché san Paolo è così grande? Perché compì tante opere meravigliose? Perché anno per anno la sua dottrina, il suo apostolato, la sua missione nella Chiesa di Gesù Cristo vengono sempre più conosciuti, ammirati e celebrati?… Il perché va ricercato nella sua vita interiore. È qui il segreto», affermava il Fondatore.
E concludeva costatando come la santità consiste appunto nella sintesi dello sviluppo armonico di tutte le dimensioni umane: «Per san Paolo la santità è la maturità piena dell’uomo, l’uomo perfetto. Il santo non si involve, ma si svolge… La santità è vita, movimento, nobiltà, effervescenza… Ma lo sarà solo e sempre in proporzione dello spirito di fede e della buona volontà».
Segreto per raggiungere la realizzazione personale, la santità, e la fecondità apostolica è dunque l’unità interiore. San Paolo ne è il maestro.

*Postulatore generale della Famiglia Paolina

PAOLO APOSTOLO 3° ROTTURA CON BARNABA 4° LA TRASFIGURAZIONE- SEGUE 1 E 2

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PAOLO APOSTOLO 3° ROTTURA CON BARNABA 4° LA TRASFIGURAZIONE- SEGUE 1 E 2

ROTTURA CON BARNABA

C’è un episodio di cui Paolo non parla mai nelle sue lettere, eppure è quello che lo ha fatto soffrire di più ed è la rottura con Barnaba.
Chi era Barnaba e chi è stato per Paolo
• Uno dei primi a credere, a buttarsi, a vendere un campo (At 4, 36).
• Una grande personalità, ricco di sapienza e ottimismo, irradiante fiducia.
• È inviato in una missione di grande importanza (At 11, 22-24), nella quale ha saputo mediare facendo evitare la rottura tra Gerusalemme e Antiochia.
• Paolo, dopo Anania, è l’uomo cui deve di più. È stato l’amico, il padre spirituale, il maestro d’apostolato, colui che l’ha introdotto nell’esperienza apostolica (At 9, 26-28).
• È in piena collaborazione con Paolo. Negli elenchi è sempre il primo, Paolo viene dopo. Però, Barnaba sa valorizzare Paolo ed Antiochia è la prima comunità cristiana che si fa notare nella storia (At 11, 25-26).
• Nella missione (cf At 13) la personalità di Paolo comincia ad emergere. A volte è nominato prima l’uno, a volte l’altro.
• In tutto il capitolo di Atti 15 ancora sono in collaborazione. Però ormai Paolo è sempre nominato per primo.
Che cosa è accaduto
Alla fine del capitolo 15 è presentato il dramma della rottura (At 15, 36-40).
• A prima vista sembra un semplice dissenso con un collaboratore. Oppure c’è altro?
• Forse poteva essere un fatto psicologico, il crescente imbarazzo su chi doveva essere il capo della missione.
• Barnaba era un’autorità sin dall’inizio della Chiesa. Come poteva lasciare il posto ad uno nuovo, che ancora non tutti conoscevano e che a Gerusalemme non era ben visto?
• Oppure motivi più profondi. Barnaba è il responsabile, poi, di fatto, si accorge che è Paolo a prendere le decisioni. Viceversa poteva capitava a Paolo.
• C’è anche un altro fatto. Paolo vuole la rottura con i Giudei, Barnaba invece è più prudente, temendo conseguenze troppo gravi.
• Non si sa di preciso. Una cosa è certa, che è stata una lacerazione molto dolorosa e drammatica per entrambi.
Le conseguenze della rottura
• La sofferenza di Barnaba è assai dolorosa. Si sente respinto forse anche come amico, pur senza cattiva volontà di Paolo.
• Barnaba dopo questo episodio scompare. Un gigante della Chiesa primitiva, ad un certo punto, non lascia quasi più traccia di sé. Lo nomina Paolo in I Cor 9, 6 e in Cl 4, 10.
• Chi aveva ragione? Il tempo ha dato ragione a Barnaba. In ogni modo è andata così e ognuno ha dovuto abituarsi alla nuova situazione.
• È probabile che in seguito Paolo abbia rimpianto le capacità mediative di Barnaba e la sua affabilità.
• Eppure Paolo ha dovuto camminare per questa strada, in fondo senza aver nulla o ben poco da rimproverarsi, perché era venuto fuori una tale esasperazione senza che nessuno capisse bene quello che stesse accadendo.
La rottura vissuta da Paolo
• Certamente con sofferenza, sentendo il peso della solitudine. Anche questo episodio gli ha fatto approfondire l’intuizione fondamentale della visione di Damasco, in altre parole che solo il Signore è l’amico perfetto, fedele, che comprende sino in fondo e non abbandona mai.
• Attraverso il travaglio di questa e di simili sofferenze, si è maturato nel capire che veramente il Signore è “tutto”. Le amicizie umane, per belle e grandi che siano, impallidiscono di fronte alla forza della “conoscenza di Cristo Signore”. Per cui, altrove, dirà: “Per me, vivere è Cristo” (Fil 1, 21); “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rm 8, 35); “… tutto è spazzatura…” (Fil 3, 8-11).
• Paolo ha capito che per lui l’essenziale è Cristo. Tutto il resto che egli fa, opera e predica con tutto l’entusiasmo di cui è capace, è Cristo che vive in lui.
Ogni sofferenza porta ad una purificazione interiore e ad una trasfigurazione. La rottura con Barnaba è una delle sofferenze. Troviamo anche altri conflitti: con la comunità (cf II Cor e Galati), con Pietro ad Antiochia.
Non c’è da stupirsi, nella storia della Chiesa sempre nascono questi conflitti, anche tra le persone più sante. Non stupirsi, ma crescere nella comprensione di noi stessi, degli altri e del disegno di Dio.
Purtroppo, nei contrasti non sempre c’è solo la gloria di Dio, ma entra pure la nostra personalità. 

PAOLO APOSTOLO 4° :

LA TRASFIGURAZIONE

Parlando della sua esperienza dolorosa, che intende condividere con noi, Paolo dice: “Noi tutti a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (II Cor 3, 18).
La “trasfigurazione” è iniziata a Damasco ed è in continua crescita (= è la trasformazione interiore).
L’aspetto trasfigurato di Paolo attraeva la gente e costituiva uno dei segreti della sua azione apostolica. Era il risultato del lungo cammino di prove, di sofferenze, di preghiere incessanti, di confidenze rinnovate.
Anche noi siamo chiamati a trasfondere in chi incontriamo (= per la trasfigurazione che viviamo), quel sentimento di pace, di serenità, di confidenza che è indescrivibile, ma che si percepisce senza alcun ragionamento.
Atteggiamenti interiori della trasfigurazione
1. Grande gioia e pace interiore: “Sono pieno di consolazione, pervaso dio gioia in ogni tribolazione” (II Cor 7, 4).
• Altrove (II Cor 7, 4) riconosce che ciò viene da Dio, da sé non potrebbe averla. La gioia è tipica della trasfigurazione, non è semplice frutto di un buon carattere e di doti umane.
• Non è una situazione di tranquillità. È una gioia vera che fa i conti con tutti i tipi di pesantezza, di difficoltà, di cose spiacevoli che avvengono soprattutto attraverso i malintesi.
• Paolo, nevrastenico di carattere, è facilmente soggetto a depressione e a momenti di sconforto. Ma esperimenta che non c’è momento di sconforto in cui non appaia qualcosa di più forte dentro di lui (cf II Cor 4, 8-10).
• È una gioia non tanto personale, ma per quello che accade alle comunità: “Siamo collaboratori della vostra gioia” (II Cor 1, 24); “Mia gioia e mia corona” (Fil 4, 1). Questo, nonostante che nelle comunità vi fossero vana gloria, rivalità e litigi: “Non fate nulla per spirito di rivalità e vanagloria” (Fil 2, 3), e che gli creassero problemi e molestie. Per lui tutto diventava un dono.
2. Capacità di riconoscenza. Invita sempre a ringraziare con gioia il Padre (cf Col 1, 12).
• Tutte, o quasi, le lettere cominciano con una preghiera di ringraziamento.
• Paolo non deplora mai in maniera sterile. C’è il rimprovero, non la rassegnata amarezza. Il rimprovero è sempre dopo aver evidenziato la parte positiva.
3. Atteggiamento di lode: “Sia benedetto Dio che ci consola in ogni tribolazione” (cf II Cor 1, 3).
Atteggiamenti esteriori della trasfigurazione
1. Instancabile ripresa che ha del prodigioso. Sempre ricomincia, nonostante i fallimenti (cf At 14, 19-22). Questa ripresa non è umana, è il riflesso della carità di Dio che mai delude (cf Rm 5, 3-5).
2. Libertà dello spirito. Agisce non per costrizione, condizionamenti o conformazione a modelli esterni, ma per la ricchezza interiore. Ciò gli permette perfino di opporsi a Pietro (cf Gal 2, 13; 5, 1-13).
Modello per la nostra trasfigurazione
Ci domandiamo quando e come raggiungiamo la trasfigurazione e come possiamo mantenerla.
• Paolo si trasfigura dopo quindici anni di fatiche e sofferenze. Avviene per dono di Dio, non per sua conquista.
• Il primo modo per ricevere il dono è la contemplazione eucaristica di Cristo. È prendere sul serio la duplice mensa della Parola e dell’Eucaristia. S’innestano qui i gradi della preghiera. Avviene per l’intercessione di Maria, modello d’ascolto e contemplazione.
• Altro modo è la condivisione con altri, nel tenere la mano in chi ha visto la luce. S’innesta qui la direzione spirituale e il colloquio penitenziale.
• Infine la vigilanza evangelica: “Vegliate e pregate per non cadere in tentazione. – Lo spirito è pronto, ma la carne è debole. – vegliate e resistete saldi nella fede”.
• Vigilare sempre, sapendo che rapidamente potremmo ritrovarci tristi, stanchi, depressi, nervosi, irritati, oppure dissipati in gioie esteriori che infiacchiscono la fede.
• Essere convinti che nessuno è assicurato nella perseveranza. Il maggiore rischio è in coloro che pensano di aver raggiunto un buon grado di stabilità. 

MEDITAZIONI SU SAN PAOLO APOSTOLO: 1 CONVERSIONE, 2 DOVE LO PORTA IL SIGNORE

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MEDITAZIONI SU:

PAOLO APOSTOLO 1°  – CONVERSIONE

(ho trovato una serie di meditazioni in forma breve su San Paolo, sono 19, spero di ricordarmi di metterle tutte, magari non di seguito per poter inserire altri testi, metto le prime due – dal Santuario San Giuseppe, non capisco la provincia, ma non è lontano da Fano)

In relazione all’episodio di Damasco, è necessario correggere alcune idee false o, per lo meno, non precise ed esaurienti. L’episodio si trova in Atti, 9 – 22 – 26.
• Non è una conversione morale. Non sta semplicemente nel fatto che un peccatore cambia modo e stile di vita. Paolo, nel nostro caso, è perfettamente osservante della legge, non può rimproverarsi nulla.
• Non è un cambiamento di bandiera. Egli non passa solamente dallo zelo per la legge a quello per Cristo, dal servizio della sinagoga a quello della Chiesa.
• Paolo, quando cita l’episodio, non usa la parola “conversione”, come ora la intendiamo noi (= traduzione del termine “penitenza”, cioè del cambiamento di mentalità, di una retromarcia).
• Egli sa bene che ha pure tale senso e non lo scarta totalmente. Però non esprime tutto. Bisogna arrivare a comprendere che c’è qualcosa di molto più profondo.
Paolo considera l’evento di Damasco come un “mistero”, nel senso d’intervento e opera diretta di Dio. In un passo afferma che è stato “afferrato” da Cristo, come lo sono stati Abramo, Mosè e altri, sino al nostro don Alberione.                                                  
• “Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre, e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare a me suo Figlio, perché lo annunziassi in mezzo ai pagani…” (Gl 1, 15-16).
• Tutto è in un quadro di Provvidenza. Dalle parole sottolineate si evidenzia che è una scelta ed una chiamata, per una missione.
• “Non ho veduto Gesù, Signore nostro?” (I Cor 1, 9).”Ultimo fra tutti apparve anche a me” (I Cor 15, 8).”Tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore… per il quale tutto è spazzatura” (Fil 3, 4- 9).
• Per spazzatura intende la circoncisione, lo zelo, l’irreprensibilità. Se è irreprensibile, allora, che cosa è cambiato?
In lui è avvenuta una rivalutazione completa di tutto il mondo. Quello che prima considerava importante, ora gli appare zero e non desta più interesse per lui. Quello che prima sarebbe stato irrinunciabile, ora è divenuto “spazzatura”.
• “Rendo grazie a Gesù che mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (I Tim 1, 12-13). Allora, è irreprensibile o bestemmiatore? “Però mi è stata usata misericordia…” (cf I Tm 1, 13-16).
Come si vede l’evento di Damasco è molto più complesso di un semplice episodio di conversione morale, o di semplice cambio di mentalità.
Paolo è convertito, in altre parole è “afferrato” per una missione
Delle tre descrizioni, la più ricca e distesa è quella in Atti 26.
Alla domanda che si potrebbe porre: “Dove eri e com’eri, quando la Parola ti ha raggiunto?”, lui stesso risponde (Fil 3, 3-6).
 “Circonciso”, quindi non maledetto o abbandonato da Dio come i pagani
 “Stirpe di Israele”, appartenente al popolo eletto, alla luce delle nazioni
 “Tribù di Beniamino”, conosce antenati e il legame che lo riporta a Giacobbe
 “Ebreo da ebrei”, padre, madre, nonni, tutti di questa gloriosa generazione
 “Fariseo, quanto alla legge”, ebreo perfetto, della stretta osservanza
 “Persecutore della Chiesa, quanto a zelo”, quindi fedelissimo al massimo
 “Irreprensibile, quanto alla giustizia che deriva dalla legge”, uomo giusto come Giuseppe, Gioacchino e Anna, Zaccaria ed Elisabetta (= la massima lode che si può fare dal punto di vista biblico)     
Dunque, Paolo è colto in una situazione nella quale possiede tradizioni, impegno personale, zelo e giustizia. Un insieme di grandi beni, di cui fa l’elenco con profonda commozione.
Inoltre, vive la sua realtà come un “tesoro geloso” da non poter consegnare a nessuno. Ecco perché perseguita i cristiani, perché vanno alla radice di quel tesoro.
Come si spiega l’autoaccusa di “bestemmiatore, persecutore, violento”
Non bestemmiatore nel senso comune, ma nel senso che si è messo contro il Figlio per difendere il proprio tesoro. Ora, sempre più si considera peccatore, in quanto si accorge che il suo atteggiamento verso Dio era profondamente sbagliato.
Non considerava Dio come tale, autore e origine di ogni bene; ma al centro di tutto c’era il “suo” possesso, la “sua” verità, i “tesori” che gli erano stati affidati.
Era un atteggiamento apparentemente “irreprensibile”, ma che interiormente era di una possessività esasperata.
Egli viveva, non il vangelo della “Grazia”, ma la legge dell’autogiustificazione, che gli faceva dimenticare d’essere un pover’uomo, graziato da Dio, non perché valesse qualcosa, ma perché amato da Dio.
Paolo aveva il peccato che Gesù rimprovera ai farisei. Il peccato che fa essere “ciechi”. Ecco perché Gesù dice: “I peccatori, i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel regno dei cieli”. Questi descritti, sono i peccati di coloro che si rendono conto di sbagliare e si umiliano.
Il peccato di Paolo era un altro, del quale non si rendeva conto, anzi, se ne vantava.

PAOLO APOSTOLO 2°
(DOVE LO PORTA IL SIGNORE)
Poniamo a Paolo un’altra domanda relativa alla sua “conversione”.
“Verso quale direzione ti ha portato il Signore?”.

Distacco dalle sue sicurezze per una nuova missione
Verso un distacco da quello che prima gli era sembrato sommamente importante: “Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo” (Fil 3, 7-8).
• Verso la percezione che, quanto prima valeva, ora è zero, non in sé, ma di fronte a Cristo.
• Verso una visione completamente nuova delle cose. Non ad un cambiamento morale immediato, ma ad un’illuminazione, perciò parla di “rivelazione”.
• Il “perché mi perseguiti” di colpo gli fa capire e dire: “Ho sbagliato tutto. Io, che mi gloriavo della giustizia, sono diventato giustiziere degli innocenti!”.
Verso una missione: “Colui che mi scelse sin dal seno materno, si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1, 16).
• Nello stesso momento in cui Gesù gli fa capire di aver sbagliato tutto, dice pure di affidargli tutto, e di mandarlo.
• Il Dio del Vangelo, mentre gli fa capire che tutto è sbagliato, dimostra la sua misericordia e gli dà fiducia chiamandolo al suo servizio.
Com’è avvenuto questo passaggio
• Per pura iniziativa e dono di Dio. Non c’è stata da parte sua sforzo, meditazione, esercizi spirituali, lunghe preghiere, digiuni. Tutto gli è stato donato, perché fosse “segno” della misericordia di Dio, per tutti i popoli.
• Tutto gli è stato dato nella conoscenza di Gesù Cristo: “Si compiacque di rivelarmi suo Figlio”. È la nostra eredità, soprattutto in quanto paolini.
Che cosa succede a Paolo nei dieci anni dopo
Incontra il disagio a Damasco, l’incomprensione a Gerusalemme, momenti di solitudine e di sconforto (Atti 9, 19-31; Gal 1, 15. 2, 1).
Era considerato uno di disturbo, anche se lo ammiravano per lo zelo.Il periodo di solitudine e amarezza si chiude con una seconda visione della gloria di Dio: “Verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo…” (II Cor 12, 1-5)
Di chi la colpa delle sue amarezze? Un po’ degli altri e un po’ sua.
• Dei giudeo/cristiani che non lo hanno capito, non lo hanno saputo valorizzare, nel timore che il suo modo di agire producesse più danno che vantaggio.
• Degli avversari che gli si sono scagliati contro perché intuivano che era un uomo chiave.
• Di se stesso. Tornato alla vita quotidiana, si butta nella nuova missione con lo stesso zelo (= come se cambiasse bandiera). Ritorna ad appassionarsi dell’opera, come se fosse il suo “nuovo tesoro”.
Allora il Signore permette un periodo di durissima prova, di purificazione, perché impari che la conversione non gli ha fatto cambiare oggetto d’attività, ma ha formato in lui un nuovo modo di essere, un altro modo di vedere le cose, che deve essere macerato lentamente prima di integrarsi nella sua personalità.
Le idee sono chiare, le parole anche. Però, il modo istintivo di agire, torna ad essere quello di prima.
Come ha vissuto i dieci anni
Si premette che non è stato il primo a vivere quest’esperienza. È toccato anche a Mosè, ad Elia e ad altri profeti, anche dei nostri tempi.
La prima reazione è stata d’indignazione, di rivalsa e anche di risentimento.
• Perché perdere le forze e la vita per gente che tratta male?
• Perché Cristo mi ha chiamato con tante belle parole per poi ridurmi a lavorare nella mia bottega di Tarso?
• C’è veramente un disegno di Dio nella mia vita, oppure sono sogni del passato?
• Che cosa volevano dire quelle parole: “Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai viste e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo dei pagani?” (At 26, 16-17).
Paolo è passato, come ogni santo, attraverso il travaglio interiore. Però, dopo l’indignazione e il risentimento, come succede con la grazia di Dio quando la prova è macerata dentro, emerge la riflessione e trova sempre la risposta nella Parola di Dio: “Felice l’uomo che è corretto da Dio, egli fa la piaga e la fascia”.
Paolo trasforma la riflessione in “illuminazione” che rientra in quella rivelazione avuta sulla via di Damasco, come appare nelle sue lettere.
• Una riflessione escatologica: “Fratelli, il tempo si è fatto ormai breve…passa la scena di questo mondo” (I Cor 7, 29-31). Ridimensiona il suo zelo; si accorge che si era legato a progetti immediati, mentre il regno di Dio è al di là e al di sopra di tutto; tutte le cose, anche buone, passano; solo il Signore rimane.
• Un’illuminazione. L’opera appartiene a Dio; è Dio che pone tempi e condizioni. Deve ancora staccarsi dalla possessività: “Siamo ministri…chi è Paolo? (I Cor 3, 5). Non dirà più “il mio campo, il mio edificio”, ma “voi siete il campo…”. Così Paolo diventa strumento sempre più adatto nelle mani di Dio.
È a questo punto che giunge da Tarso la notizia che è arrivato Barnaba. Lo invita ad andare in Antiochia, dove c’è una comunità giovane che l’attende.
È il secondo momento dell’attività apostolica. Riprende, in forma nuova, ciò che dieci anni prima aveva iniziato con tanto zelo, ma mettendoci dentro non poco di sé.

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