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L’APOSTOLO DELLE GENTI FRA GIUDAISMO E CULTURA ELLENISTICA – 2009

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L’APOSTOLO DELLE GENTI FRA GIUDAISMO E CULTURA ELLENISTICA – 2009

LA MATRICE EBRAICA DI PAOLO

Il 20 maggio si apre, presso il Pontificio Istituto Biblico a Roma, il simposio internazionale « Paul in his Jewish Matrix » organizzato dal Centro Cardinal Bea per gli studi giudaici della Pontificia Università Gregoriana in collaborazione con l’Università Ebraica di Gerusalemme, con l’Università Cattolica di Lovanio e con la basilica di San Paolo fuori le Mura. Pubblichiamo – nella traduzione di Maria Brutti – alcune parti di una delle due letture pubbliche in programma.

di Ed Parish Sanders Duke University (Durham, North Carolina) Da tempo si discute su quanto profondamente Paolo fosse influenzato dalla cultura ellenistica o greco-romana. Dal punto di vista storico, gli studiosi del Nuovo Testamento offrono un’ampia gamma di possibilità:  dall’uomo che ellenizzò il cristianesimo al rabbi che modificò e allargò il suo pensiero senza cambiare le caratteristiche della sua visione. Non sono competente per accertare la profondità dell’ellenismo di Paolo, cercherò invece di definire alcuni degli aspetti principali della sua ebraicità, concentrandomi sulle più ampie categorie che sono a noi accessibili, per prima l’istruzione. Nel mondo antico, tutti sapevano che  i  bambini  memorizzano  abbastanza facilmente, e che memorizzare nell’età infantile o giovanile è molto più facile che portare con sé rotoli pesanti  e  girarli  avanti  e  indietro in cerca di un passo. L’istruzione antica era basata sulla lettura ad alta voce, la ripetizione, e spesso la memorizzazione – sia voluta sia casuale – nasceva soltanto dalla ripetizione. I giovani maschi dell’élite del mondo greco-romano imparavano a memoria una grande quantità di poesia greca e i romani anche una notevole quantità di materiale latino. Uno degli scopi dell’istruzione era mettere una persona in grado di tirare fuori la citazione appropriata in tribunale o in senato. Così l’istruzione basata sulla memorizzazione, che a sua volta si esprimeva nella citazione. Paolo stesso scrisse di essere superiore alla maggior parte dei suoi contemporanei nello zelo per le tradizioni dei suoi antenati (Galati, 1, 14). Ritengo che questo significhi che egli era il ragazzo più intelligente nella classe e che imparava di più riguardo agli argomenti che studiava. Quando incontriamo Paolo nelle sue lettere probabilmente aveva circa quaranta o cinquanta anni, e il suo cervello non era così agile come quando ne aveva quindici, ma aveva ancora facilità di ricordare e citare ciò che aveva imparato. Dalle sue citazioni, si può dedurre che Paolo imparò a memoria la Bibbia in greco, almeno ampie parti. Tuttavia nelle lettere giunte fino a noi non cita niente altro se non una sentenza:  « Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi » (i Corinzi, 15, 33) che segue immediatamente una citazione da Isaia. Se avesse memorizzato i giusti passi della filosofia greca avrebbe aggiunto una citazione in ii Corinzi (4, 18), dove scrive che ciò che si vede è effimero, ma ciò che non può essere visto è eterno. Anche le opere del suo più anziano contemporaneo, Filone, gli sarebbero venute in aiuto. Allo stesso modo, sarebbe stato facile per uno studioso della filosofia greca usare una citazione a supporto di Filippesi 4, 11:  « Ho imparato a essere auto-sufficiente ». La parola fu riferita a Socrate e usata in varie scuole della filosofia greca, comprese il platonismo e lo stoicismo. Paolo chiaramente non ignorò del tutto il pensiero greco, ma sembra non aver avuto le citazioni appropriate sulle punte delle dita, quindi probabilmente non aveva imparato a memoria molta letteratura greca durante la sua vita di studente, che presumibilmente terminò all’età di quindici o sedici anni. Perciò riguardo all’aspetto fondamentale della matrice ebraica di Paolo, si può ipotizzare che da ragazzo e da giovane studiò la Bibbia greca, imparandola a memoria, tutta o parzialmente. La sua istruzione, se non esclusivamente ebraica, fu comunque fortemente ebraica. Due aspetti dell’uso delle citazioni nell’argomentazione risaltano se considerati alla luce della memorizzazione. In primo luogo Paolo era in grado di lavorare su singole parole. In Galati, 3 cita gli unici passi della Settanta che combinano insieme le radici per i termini « fede » e « giustizia ». Cita anche l’unico  passo della Settanta che combina  le  parole « legge » e « maledizione ». Questo sarebbe facilmente spiegabile se avesse imparato a memoria Genesi, Deuteronomio e Abacuc. Se avesse dovuto davvero trovare ogni singolo uso delle combinazioni di queste parole girando i rotoli, avrebbe impiegato giorni, se non settimane. L’unica spiegazione ragionevole è la memoria. In questo caso particolare non voleva dire in generale che la disobbedienza ai comandamenti procurava una maledizione, ma voleva piuttosto collegare « maledizione » con la parola « legge », e la sua memoria fece emergere il riferimento. Credo che la memoria sia anche responsabile del fatto che molte delle citazioni di Paolo sono combinate insieme. Notiamo infatti che Galati, 3, 8, « tutti i Gentili saranno in Te benedetti », combina Genesi, 12, 3 con 18, 18, mentre Galati, 3, 10 prende in prestito da Deuteronomio, 27, 26 e 28, 58. Una volta che la memoria possiede una parola chiave, produce passi che contengono quella parola, ed è molto più probabile che la conflazione sia il risultato della memoria piuttosto che del girare pagine di un rotolo e prendere deliberatamente una parola da un passo e poche da un altro. Certo il procedimento empirico non è così difficile se si combinano passi a distanza soltanto di pochi capitoli. Ma dove, per esempio, Paolo combina Isaia e Geremia, è molto difficile che il raccordo sia stato ottenuto girando i rotoli con attenzione. Quando propongo a vari colleghi la tesi secondo la quale Paolo aveva imparato a memoria la Bibbia, gli studiosi cristiani considerano l’idea come qualcosa che va da « altamente improbabile » a « totalmente impossibile », mentre quelli ebrei danno per scontato che sia andata così. La lingua di Paolo è impregnata dalle parole della traduzione greca della Scrittura ebraica. Questo va molto al di là delle citazioni formali. Paolo era in grado di scrivere e argomentare senza citare esplicitamente la Scrittura e può darsi che lui predicasse abitualmente ai gentili senza riferirsi in modo manifesto alla Bibbia. In Filemone, i Tessalonicesi, Filippesi e ii Corinzi non c’è una sola esplicita citazione dalla Scrittura ebraica, cioè nessun esempio in cui Paolo scrisse « come sta scritto » o qualcosa di simile. Tuttavia, in tutti questi casi, tranne che in Filemone, la lingua della Bibbia Greca è evidente in numerosi luoghi. Sembra che gli studiosi del Nuovo Testamento pensino che Paolo avesse una grande biblioteca con gli oltre venti rotoli richiesti per contenere la Bibbia, e che possedesse un grande studio con numerosi tavoli sui quali i rotoli potessero essere aperti e confrontati. Questa visione è una versione antica dell’immagine di un professore moderno, ma la realtà è diversa. Per molti anni Paolo trascorse settimane o mesi sulla strada, senza avere asini sufficienti per trasportare un’ampia biblioteca attraverso le Porte della Cilicia o da una parte all’altra della pianura anatolica. Quando era pronto per sedersi a una tavola per lavorare il cuoio o fabbricare tende, non riusciva ad affittare un enorme studio invece di un semplice riparo sulle mura. Le difficoltà finanziarie dell’Apostolo depongono contro tesi di questo genere e fanno pensare che Paolo trasportasse la Bibbia direttamente nel suo cervello. Non dobbiamo però pensare che imparasse a memoria tutto ricordando ogni singola parola di seguito per tutto l’intero testo biblico. Piuttosto, le citazioni di Paolo rivelano ciò che Albert Baumgarten ha chiamato « un’arte di investigazione e di recupero ». Paolo riusciva a trovare nel suo cervello testi che corrispondevano, più o meno bene, alle parole e alle idee di cui aveva bisogno quando ne aveva bisogno. Questo nasce, di solito, da una lettura costante e ripetuta. Se fosse stato in grado di iniziare con il primo libro e recitare a memoria l’intero testo è un problema diverso. Tutto ciò che noi sappiamo riguardo alla sua memoria è che era in grado di fare ciò che le sue citazioni rivelano:  usare a piacimento testi contenenti certe parole quando ne aveva bisogno. Per quello che sappiamo, Paolo conobbe la Bibbia bene anche in ebraico. Possiamo dimostrare solo che egli di solito la citava in forma molto vicina alla Settanta come essa ci è stata tramandata. Ma questo non smentisce la teoria che studiò a Gerusalemme e conobbe la Bibbia in ebraico. Non sono del tutto convinto che Paolo fu istruito solo a Gerusalemme, ma non mi sembra impossibile che parte della sua istruzione sia avvenuta lì. Vorrei ora descrivere molto brevemente  alcuni  degli  aspetti  più  ampi del pensiero di Paolo. Credo che nessuno di essi richieda molta elaborazione né molta prova del massimo della quintessenza dell’ebraicità, ma voglio registrare  il  fatto  che  le  più  importanti categorie del suo pensiero sono ebraiche. Nel senso stretto della parola, la sua teologia fu una forma di monoteismo  modificato.  « Modificato »  significa che oltre il vero o alto Dio si trovò spazio per altri dei, signori e poteri spirituali. Come ha di recente sottolineato Paula Fredriksen, molte persone, non solo ebrei, condividevano questa forma di monoteismo. Nella versione di Paolo, ciò che era ebraico fu che il vero Dio era il Dio di Israele. Tra le fonti giudaiche, le visioni di Paolo sono più vicine ai Rotoli del Mar Morto e ad alcune delle Apocalissi. Egli poi si univa agli ebrei suoi contemporanei nel denunciare l’adorazione di idoli. La visione di Paolo del tempo e della storia era giudaica. La visione greca più comune era che la storia è ciclica. Nel giudaismo, la storia comincia con la creazione e va verso uno scopo stabilito da Dio. Questa fu esattamente la visione di Paolo. La visione di Paolo della storia fu altamente escatologica, incentrata sull’arrivo imminente del climax della storia ordinaria. Molte culture hanno visioni di escatologia individuale:  ricompense e punizioni dopo la morte. Molte forme di giudaismo, comunque, seguendo parti della Bibbia, tendono verso la visione di un grande climax, dopo il quale gli eletti godranno pace, prosperità e sicurezza. Le aspettative dell’Apostolo sono, di nuovo, molto vicine a quanto si trova in alcune Apocalissi. La visione di Paolo riguardo alla sua attività è parte della sua escatologia. Sebbene gli apostoli dei gentili come lui non figurino nelle predizioni dei profeti ebraici, che sembrano aver atteso che i gentili spontaneamente si volgessero al Dio di Israele, la missione di Paolo fu a servizio di una visione giudaica del mondo. L’etica di Paolo fu giudaica. Tutti si opponevano all’assassinio, all’adulterio, al latrocinio, all’estorsione e così via. La più grande distinzione tra il giudaismo e il resto del mondo fu l’atteggiamento verso l’attività omosessuale. Paolo si unì ad altri ebrei nell’esservi totalmente contrario. Egli discute in dettaglio pochi argomenti di morale, ma la maggior parte delle sue opinioni etiche, inclusa la denuncia dell’attività omosessuale, appare nelle liste dei vizi. L’istruzione di Paolo, la giovinezza, la teologia, la visione del mondo, la vocazione e le opinioni riguardo al comportamento corretto sono tutte distintamente e profondamente ebraiche. Ma nonostante l’origine del movimento cristiano come una setta giudaica e l’assoluta ebraicità di Paolo, non dovremmo trascurare nelle sue lettere le indicazioni dove distingue il suo gruppo da ciò che egli chiamava giudaismo. Osserviamo innanzi tutto i passi in cui compare la parola « giudaismo »:  Paolo usa due volte il sostantivo, in Galati, 1, 13-14, e una volta il verbo « giudaizzare », in Galati, 2, 14. Non sono ricorrenze numerose, ma « giudaismo » sembra costituire un’entità del suo passato, non la stessa del suo gruppo attuale. Paolo usa termini specifici per il suo gruppo, senza arrivare alla parola « cristiano » o « cristianesimo » fa riferimento a una distinta terminologia. Gli studiosi spesso ignorano o sottovalutano questo aspetto. In Galati, 6, 16, egli usa la frase « l’Israele di Dio » che indica forse proprio il suo gruppo. Paolo chiama inoltre il suo gruppo, « la chiesa » o, meglio, « la comunità », una parola che occorre da sola e in una molteplicità di frasi. Spesso indica il suo gruppo con una frase che include la parola « Cristo ». I « morti in Cristo » hanno una posizione speciale quando il Signore ritornerà (i Tessalonicesi, 4, 16). Nelle lettere rimaste, Paolo saltuariamente usa una terminologia tripartita:  « Non date scandalo né ai giudei né ai greci né alla chiesa di Dio » (i Corinzi, 10, 32). In Romani distingue « noi » – il suo ambiente – dai giudei e dai gentili, che sono i gruppi dai quali « noi » siamo stati chiamati. I « giudei » e « la chiesa di Dio » sono entità distinte. Dal punto di vista terminologico, allora, Paolo distingue il suo gruppo sia dai giudei sia dai gentili, sia dal giudaismo sia dal paganesimo. La terminologia riflette la realtà sociale che Paolo abitava in un mondo tripartito:  c’erano ebrei, pagani e quelli che appartenevano a Cristo, alcuni dei quali erano appartenuti al giudaismo e alcuni al paganesimo. I convertiti di Paolo, per quanto sappiamo, furono gli ultimi:  i gentili, precedentemente pagani o idolatri. Lo afferma in modo esplicito nel caso dei cristiani di Tessalonica e della Galazia (i Tessalonicesi, 1, 9; Galati, 4, 8), e il desiderio dei suoi convertiti di Corinto di seguire pratiche idolatriche indica un background  di  paganesimo (i Corinzi, 8, 10). Gli Atti mostrano Paolo in origine come un apostolo dei giudei della diaspora, che si rivolse ai gentili solo dopo la delusione per l’esito della sua missione precedente. La visione di Paolo è del tutto differente:  Cristo lo inviò ai gentili. Troviamo la stessa idea quando consideriamo il suo compromesso con gli apostoli di Gerusalemme:  lui e Pietro si divisero il mondo, Pietro sarebbe andato dagli ebrei, Paolo dai gentili (Galati, 2, 7-10). Alcuni studiosi hanno interpretato questa come una divisione geografica, ma l’interpretazione più ovvia del linguaggio – che si riferisce ai « circoncisi » e ai « non circoncisi » – è una divisione etnica. Secondo questo accordo, Paolo non fu apostolo di chiunque dal vicino Oriente all’Europa, ma si dedicò ai pagani. Non voglio dire che avrebbe rifiutato l’opportunità di proporre il vangelo agli ebrei, ma questa non fu la sua missione. La caratteristica sociale dei suoi convertiti era evidente a Paolo, talvolta dolorosamente. Poiché non erano né ebrei né pagani, essi erano isolati, senza una identità sociale riconoscibile. Questa mancanza di identità poteva portare a persecuzioni per la distanza dai culti locali. Anche in assenza di persecuzione, i suoi seguaci dovevano rinunciare a molti dei piaceri della vita civile, come i banchetti di carne rossa, che erano disposti dalle celebrazioni pubbliche religiose. Vediamo così che il vocabolario di Paolo per il suo gruppo riflette accuratamente la nuova realtà sociale che risulta dalla sua predicazione del vangelo di Cristo:  una comunità di gentili che rinuncia all’idolatria, che pratica il culto del Dio di Israele fuori dalla sinagoga, che non conta né come ebraica né come pagana e che riconosce Gesù come suo Salvatore e Signore. Qualcuno potrebbe pensare che proponendo questa distinzione sociale e terminologica tra il gruppo di Paolo e il giudaismo io sostenga che Paolo cessò di essere ebreo. Non è così. La sua auto-identità è un altro problema. Paolo ebreo considerò se stesso come un apostolo ebreo dei gentili. D’altra parte, dobbiamo considerare la sua ferma convinzione che lui e le altre membra della sua comunità avevano acquistato una nuova identità. Paolo era un ebreo diventato un’unica persona con Cristo. E, come scrisse, se qualcuno è in Cristo, è « una nuova creazione » (ii Corinzi, 5, 17). Tuttavia, essere una sola persona con Cristo, parte di una nuova creazione, non rende Paolo stesso un non ebreo. Gesù era un ebreo e credo che per nessun motivo Paolo avrebbe rifiutato la sua identità etnica. Tuttavia la questione presente non è di definire la sua identità, ma piuttosto di chiarire il fatto che egli non pensava al suo gruppo in termini di « giudaismo ». L’unico modo con il quale avrebbe potuto affermare o pensare che le sue chiese costituivano parte del « giudaismo » sarebbe stato facendo una chiara distinzione tra falso e vero Israele. Avrebbe potuto scrivere che la nuova creazione era il vero giudaismo ma, per quanto ne sappiamo, non lo fece. Così egli fu ebreo e anche una persona nuova in Cristo, ma la sua comunità non formava « giudaismo »,  che  rimaneva un’entità  separata. Mentre Paolo riconobbe la distinzione sociale che lui e gli altri stavano creando dalle fondamenta – una nuova identità spirituale, né ebraica né pagana – questa divisione non era né ciò che voleva né ciò che attendeva come esito finale. La sua teologia ebbe un’ottica differente. Secondo lui ci sarebbe stato un unico gruppo universale, che avrebbe incluso ebrei, greci e barbari, tutti in Cristo. Non era accettabile che i membri gentili del suo movimento giudaizzassero, riducendo così il numero dei gruppi a uno solo. La sua opposizione al giudaizzare causò le più forti invettive presenti nelle sue lettere. Il suo gruppo non avrebbe dovuto giudaizzare; piuttosto, chiunque altro si sarebbe dovuto unire. Dal punto di vista teologico, Paolo sapeva quale doveva essere l’esito finale e vedeva anche che il piano presente per giungervi non funzionava perfettamente. La strategia, ricordiamo, prevedeva che lui (e apparentemente altri) avrebbe convertito i gentili alla fede in Cristo. Pietro e presumibilmente gli altri apostoli di Gerusalemme avrebbero persuaso anche gli ebrei a porre la loro fede in Gesù. Allora tutti avrebbero fatto parte del popolo di Dio, uniti dalla fede in Cristo. Secondo la propria opinione, Paolo era vicino alla fine delle sue fatiche. Dopo un trionfo in un dibattito con i Corinzi, infatti, espresse ottimismo sul suo successo apostolico:  « Grazie a Dio, il quale in Cristo ci conduce sempre in processione trionfale e per mezzo nostro diffonde in ogni luogo il profumo che viene dalla sua conoscenza » (ii Corinzi, 2, 14). Nella opinione di Paolo, Pietro aveva lavorato molto meno bene. Questo è evidente dalla innovazione di Romani 11. L’aspettativa comune di un ricongiungimento alla fine dei tempi del popolo di Israele e del volgersi dei gentili verso Dio aveva seguito la sequenza ovvia:  prima Israele, poi i gentili. Questo è in realtà un tema dei primi due capitoli di Romani:  « l’ebreo prima e poi anche il greco » (1, 16; 2, 9-10). Così Pietro avrebbe dovuto preparare gli ebrei, mentre Paolo portava la sua missione coronata da successo ai gentili. Ma gli ebrei non erano pronti. E così Paolo sviluppò un piano alternativo:  i suoi gentili sarebbero entrati per primi nella nuova creazione. Questo avrebbe reso i giudei gelosi e li avrebbe convinti ad affrettarsi, in questo modo Paolo indirettamente avrebbe salvato « alcuni » ebrei assieme ai gentili (Romani, 11, 13-14). Egli ripete lo schema ai versi 25-26:  il « numero totale dei gentili » entrerà e così, in questo modo, « tutto Israele sarà salvato ». Per essere sicuro che il lettore accolga la sua scoperta, lo ripete una terza volta. Gli ebrei sono stati disobbedienti « in modo che, a causa della misericordia mostrata a voi (gentili) anche essi possano ora ricevere misericordia » (11, 30-31). L’uso di « in modo che » – hìna in greco – sottolinea la divina intenzione:  Dio ha reso gli ebrei disobbedienti per un periodo, allo scopo di autorizzare i gentili ad avere accesso per primi, cosa che consentirebbe poi di entrare agli ebrei. Paolo ha da poco scoperto quello che ritiene il vero piano di Dio per salvare tutti, una revisione rispetto a ciò che lui e gli altri avevano pensato in precedenza. Ora vede che proprio la sua missione verso i gentili aiuterà gli ebrei a salvarsi, in modo che tutti ricevano misericordia. Possiamo pensare però che il successo di Paolo come apostolo e la sua teoria sulla gelosia degli ebrei sia piuttosto un filo sottile a cui appendere la speranza della salvezza eterna per tutti. Da Romani, 11, 13 a 11, 32 Paolo offre per tre volte un modo razionale attraverso il quale Dio può salvare il mondo, una sequenza in cui la sua missione gioca un ruolo cruciale. Ma alla fine deve aver fiducia che sarà lo stesso Dio a escogitare un sistema. Il cervello fertile e ingegnoso di Paolo non può immaginare tutto. Siamo partiti dalle distinzioni sociali tra ebreo, pagano e cristiano così come appaiono nelle lettere di Paolo e arrivati alla soluzione teologica/escatologica di Paolo, alla divisione sociale degli esseri umani:  tutti saranno un solo popolo. Gli apostoli dovranno fare del loro meglio per portare tutti nel corpo di Cristo, mentre la storia ordinaria continua, sebbene il tempo sia davvero breve. Ma alla fine del tempo, quando il redentore verrà dal monte Sion, Dio compirà lo scopo – la salvezza del mondo – in un modo che noi non possiamo comprendere. Tornando alla fine di Romani, 11 e alla salvezza dell’umanità non si può immaginare un piano che sia più interamente ebraico. Nel background c’è la dottrina giudaica secondo la quale Dio ha creato il mondo e lo ha dichiarato buono:  questo principio è ovvio nella prima fiammata di universalismo di Paolo, i Corinzi, 15, 22:  « Come tutti muoiono in Adamo, così in Cristo tutti riceveranno la vita ». Questo passo porta immediatamente alla soggezione a Dio alla fine di « tutte le cose » (i Corinzi, 15, 27-28). Proprio come – secondo Romani, 11, 32 – Dio ha rinchiuso gli uomini nella disobbedienza così da salvarli tutti, così come Dio ha sottomesso l’intera creazione alla caducità così da renderla « libera dalla sua schiavitù alla corruzione » quando Lui porterà la storia ordinaria alla sua fine (Romani, 8, 20-21). Che Dio abbia un piano benefico a lungo termine per una fine felice della storia ordinaria è un pensiero profondamente  giudaico,  sebbene  i  beneficiari siano diversi nei differenti corpi della letteratura. Che il piano includa peccato e sofferenza lungo la strada è ugualmente  giudaico.  Allo  stesso modo,  secondo  Giuseppe,  Dio  progettava il trasferimento del potere a Roma e  progettava  la  distruzione del tempio, che doveva essere purificato a causa dello spargimento di sangue e del peccato. Sintetizzando, Paolo viveva e operava in un mondo che parlava greco. Quale che fosse la sua conoscenza di questo contesto, la sua istruzione e la sua educazione furono ebraiche; le categorie principali del suo pensiero furono ebraiche; la sua missione si svolse nel tessuto dell’escatologia ebraica; l’esito finale che desiderava ardentemente fu una forma universale di speranza ebraica. Temporaneamente, egli pensò, creò un terzo gruppo, né ebreo né gentile, come parte della nuova creazione che sarebbe arrivata pienamente quando il Dio di Israele, l’unico vero Dio, avrebbe portato la storia ordinaria alla sua conclusione.

(L’Osservatore Romano 21 maggio 2009) 

L’APOSTOLO SENZA FRONTIERE

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L’APOSTOLO SENZA FRONTIERE

Questa voce è stata pubblicata il 31 marzo, 2010, in Approfondimenti, Per conoscere Paolo. di Franco Cardini

Testo tratto dal numero speciale di “Luoghi dell’infinito” (supplemento mensile del quotidiano “Avvenire”) dedicato all’Anno Paolino (n. 7, luglio 2008, pp. 16-23).

«Io non Enea, io non Paolo sono»: così Dante, al principio della Commedia (Inferno, II, 32), dichiara la sua indegnità e impossibilità di ascendere al cielo, come invece avevano fatto, per speciale grazia divina, sia il progenitore del fondatore di Roma, sia il vas electionis, Paolo di Tarso, com’egli testimonia nella Seconda lettera ai Corinti (12,2-5). Delle narrazioni che hanno per tema le ascese al cielo, l’Alighieri tace quella – nella quale non credeva, ma di cui aveva pur notizia – del profeta Muhammad, attestata in quel Kitab al-Miraj, il Libro della Scala arabo-ispanico, che potrebbe essere tra le fonti del grandioso poema. In materia di viaggi di Paolo, sarebbe bello poter cominciare da quello arcano e ineffabile che lo lasciò turbato e impaurito, e del quale non osava parlare se non in terza persona: «So di un uomo del Cristo, quattordici anni fa – fu nel corpo, non lo so, oppure fuori del corpo, non lo so, Dio lo sa – il quale venne rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – fosse nel corpo o senza corpo, non lo so, Dio lo sa – venne rapito nel Paradiso e udì parole indicibili, che è proibito a un uomo dire. Di quest’uomo mi vanterò, ma non mi vanterò di me stesso…». Non è però all’ineffabile che ci volgeremo. L’uomo che Agostino definì “il gran leone di Dio” e che Antonio Gramsci vedeva – in una prosperava, ai suoi occhi, sommamente laudatoria – come “il Lenin del cristianesimo”, era un indomabile genio dell’azione. Nacque in una data che gli specialisti non sono stati in grado di fissare e che continua a oscillare fra il 5 e il 15 d.C. Il fariseo Saul di Tarso in Cilicia, della tribù di Beniamino, allievo di rabbi Gamaliele, era ebreo di formazione rigorosissima eppure fiero della versione latina del suo nome, Paulus, che ne sottolineava la cittadinanza romana conferita agli abitanti di Tarso già da Marco Antonio. Era stato educato a Gerusalemme, dove aveva appreso il mestiere di tessitore di tende, tipico della gente della sua regione. In Gerusalemme guidò la lotta con i primi nuclei cristiani e fu, a quanto sembra, ispiratore o istigatore della lapidazione del protomartire Stefano. Poteva avere dai 23 ai 33 anni allorché, nel 38, quel misterioso incidente sulla via di Damasco lo mutò per sempre. Se già prima di allora si era dimostrato instancabile, dopo il battesimo ricevuto nella metropoli siriaca da Anania lo fu ancora di più. Dev’esser chiaro che di lui non abbiamo notizie storiche extrascritturali: ne sappiamo solo quel po’ che ci dicono gli Atti degli Apostoli, attribuiti all’evangelista Luca, medico amico e collaboratore di Paolo, e le Lettere paoline. La critica lavora sulle corrispondenze tra i dati storici che possiamo trarre dai testi .neotestamentari e quello che sappiamo con documentata certezza: gli esiti di tale confronto sono obiettivamente esigui e non consentono di replicare con certezza a chi propende per l’ipotesi che Atti e Lettere siano stati abilmente redatti da autori posteriori ai fatti narrati, i quali avrebbero costruito un castello di architettate corrispondenze storiche. Sul piano della ragione e della critica, la questione resta aperta. Il cristiano non deve dimenticare che la veridicità di alcuni dati storici relativi alla fede è garantita non già dalla documentabile realtà storica bensì dal dogma: il Simbolo elaborato dal concilio di Nicea del 325, cioè il Credo, fonda come materia di fede quanto riguarda la vita, la morte e la resurrezione di Cristo, quindi il nucleo del racconto evangelico e del magistero paolino. La critica storica, che appartiene alla ragione, non può sostituirsi alla fede: ed è in forza di questa che noi sappiamo essere Verità anche ciò che alla luce di quella non può essere affermato con certezza razionale. Come sottolinea egli stesso nella Prima lettera ai Galati (1,1), Paolo era profondamente convinto di aver ricevuto la sua missione apostolica «non da parte di uomini… bensi per mezzo di Gesù Cristo e da parte di Dio Padre». Ciò non significa tuttavia ch’egli non tenesse nel massimo conto il suo rapporto con la Mater Ecclesiarum, la comunità gerosolimitana, e i suoi capi Pietro, Giacomo e Giovanni dal 45 al 65. Ma furono essi stessi a riconoscere che il suo territorio missionario era non già il popolo eletto, bensì quello delle gentes, ovvero tutte le “nazioni” escluso Israele. Non che questo avvenisse facilmente. Al contrario. I pareri secondo i quali la Buona Novella era riservata agli ebrei, e non era possibile se non una Ecclesia e circumcisione (cioè destinata a chi fosse ebreo e in quanto tale esclusivo destinatario della Rivelazione), erano forti e in un primo momento prevalenti. Solo dopo quello che è stato definito il “primo viaggio missionario”, iniziato secondo gli Atti degli Apostoli (13-14) verso il 45, e il fondamentale contatto con la comunità antiochena che pare avesse già accolto degli incirconcisi, la legittimazione di una Ecclesia e gentibus cominciò a prendere piede. Ciò si verificò approssimativamente nel triennio 45-48, allorché Paolo, con Barnaba e Marco, visitò l’Asia Minore, quell’Anatolia ch’era la terra della sua stessa natia Tarso, fondando comunità aperte a fedeli di estrazione pagana. Non si può al riguardo minimizzare la tensione, se non l’esplicito contrasto, soprattutto con Pietro, al quale Paolo rimprovera la perdurante discriminazione tra fedeli d’origine ebraica e fedeli d’estrazione “gentile” (Galati 2,11-14). Gli Atti sorvolano su questa specie di braccio di ferro, ma le Lettere paoline non danno adito a dubbi.

HA « BUCHERELLATO » L’IMPERO SALVANDO LE GENTI – SAN PAOLO DI TARSO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_sequeri36.htm

HA « BUCHERELLATO » L’IMPERO SALVANDO LE GENTI    

SAN PAOLO DI TARSO.

Pierangelo Sequeri (« Avvenire », 28/6/’09)

Paolo di Tarso ha « inventato » il cristianesimo? Ricordiamo l’esasperazione di Friedrich Nietzsche, nei confronti di un Dio dell’avvilimento, della « rappresaglia », dei sacrifici umani, «quem Paulus creavit». Paolo deve averlo creato, secondo Nietzsche, perché nulla di ciò si trova nel « Vangelo » di Gesù. Nietzsche coglie a suo modo nel segno. Però manca totalmente il bersaglio, con Paolo. Nel nucleo centrale del suo pensiero, « vulcanico » e roccioso, il Dio di Paolo è esattamente il Dio di Gesù: alla lettera. Quello stesso che per evitare sacrifici umani offre se stesso ai risentimenti di un « sacro » impazzito, che vuole smentirlo proprio su « agape ». Il Dio di Paolo è il Dio di « agape », del quale non si può pensare il più grande, secondo la formula di Anselmo d’Aosta. Per questo, dessi pure «il mio corpo alle fiamme», nell’atto di un supremo « martirio », se non ho « agape » «non sono niente» (« 1 Cor 13″). E persino – udite – «se avessi una fede che sposta le montagne». (Su questo aspettiamo un grande libro, colleghi « biblisti » e « teologi » quanti siamo – lo dico anche a me stesso – che ancora non abbiamo). Di fatto, la domanda ha potuto avere un senso (polemico e, rispettivamente, « apologetico ») quando i credenti e i loro « critici » leggevano poco i testi. E molto di più leggevano i « bigini » che se n’erano fatti. Rimane vero, con tutto questo, che Paolo è persona – e personalità – prodigiosamente creativa, nell’orizzonte aperto dalla rivelazione di Gesù. Paolo ha messo al sicuro la singolarità del « cristianesimo », per ogni mondo possibile. Vogliamo esemplificare, fuori da ogni « manierismo teologico »? Intanto non avremmo l’icona della « forma occidentale ». Inedita avventura di affetti e pensieri dell’umano, in cui le « dialettiche » dell’ »evangelo » hanno innervato due possenti creazioni dello spirito. In primo luogo, riabilitando religiosamente la grandiosa macchina « laica » della « cittadinanza liberale » (il « diritto romano »: messo in salvo dal suo stesso mondo, ormai a pezzi). Nessun altro pensiero religioso avrebbe potuto, se non quello che distingue radicalmente, senza contrapporli « pregiudizialmente », Cesare e Dio. (E il celebre « enunciato » è di Gesù, non di Cavour). In secondo luogo, metabolizzando religiosamente la prodigiosa conquista filosofica della « razionalità morale », che mette in rapporto il singolo con l’appello incondizionato della giustizia. Lo spessore – giustamente drammatico – che viene conferito da Paolo al severo confronto della coscienza con se stessa, per la retta decifrazione della « legge » (con la minuscola e con la maiuscola), interpreta l’appello di Gesù alla libertà della coscienza che decide la vita. La coscienza cerca la giustizia sempre di fronte a Dio, « devoti » o « pagani » quanti siamo. E sempre le è accessibile, nell’onestà del cuore, la propria ingiustizia (« Rm 7″). Vale per la religione e per la « morale », per la verità e per l’amore. Sarebbe solo l’inizio, se ci si vuole incamminare. L’ »Anno » che Benedetto XVI, con felice intuizione, ha proposto di dedicare alla viva « riappropriazione » di questa « colonna » dell’avventura cristiana, ha aperto il suo varco. L’ »Anno » si chiude, giustamente. Ma il « filo » da tessere va tenuto ben saldo. Poca conoscenza e troppi fraintendimenti, ancora. Con tutto il rispetto per Galileo e per Darwin, siamo in debito d’onore con Paolo: credenti e non credenti, quanti siamo, in questa parte del mondo che ci sembra, a tratti, così « s-finita ». Paolo, quasi dal niente, e con poco più che il suo Signore crocifisso e risorto, ha tessuto una « rete » miracolosa: « bucherellando » l’ »Impero » come un « colabrodo ». E salvando « le genti ». 

L’APOSTOLO DELLE GENTI FRA GIUDAISMO E CULTURA ELLENISTICA – LA MATRICE EBRAICA DI PAOLO

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/116q04a1.html

L’APOSTOLO DELLE GENTI FRA GIUDAISMO E CULTURA ELLENISTICA – LA MATRICE EBRAICA DI PAOLO

(Osservatore Romano, 21 maggio 2009)

Il 20 maggio si apre, presso il Pontificio Istituto Biblico a Roma, il simposio internazionale « Paul in his Jewish Matrix » organizzato dal Centro Cardinal Bea per gli studi giudaici della Pontificia Università Gregoriana in collaborazione con l’Università Ebraica di Gerusalemme, con l’Università Cattolica di Lovanio e con la basilica di San Paolo fuori le Mura. Pubblichiamo – nella traduzione di Maria Brutti – alcune parti di una delle due letture pubbliche in programma.

di Ed Parish Sanders Duke University (Durham, North Carolina)

Da tempo si discute su quanto profondamente Paolo fosse influenzato dalla cultura ellenistica o greco-romana. Dal punto di vista storico, gli studiosi del Nuovo Testamento offrono un’ampia gamma di possibilità:  dall’uomo che ellenizzò il cristianesimo al rabbi che modificò e allargò il suo pensiero senza cambiare le caratteristiche della sua visione. Non sono competente per accertare la profondità dell’ellenismo di Paolo, cercherò invece di definire alcuni degli aspetti principali della sua ebraicità, concentrandomi sulle più ampie categorie che sono a noi accessibili, per prima l’istruzione. Nel mondo antico, tutti sapevano che  i  bambini  memorizzano  abbastanza facilmente, e che memorizzare nell’età infantile o giovanile è molto più facile che portare con sé rotoli pesanti  e  girarli  avanti  e  indietro in cerca di un passo. L’istruzione antica era basata sulla lettura ad alta voce, la ripetizione, e spesso la memorizzazione – sia voluta sia casuale – nasceva soltanto dalla ripetizione. I giovani maschi dell’élite del mondo greco-romano imparavano a memoria una grande quantità di poesia greca e i romani anche una notevole quantità di materiale latino. Uno degli scopi dell’istruzione era mettere una persona in grado di tirare fuori la citazione appropriata in tribunale o in senato. Così l’istruzione basata sulla memorizzazione, che a sua volta si esprimeva nella citazione. Paolo stesso scrisse di essere superiore alla maggior parte dei suoi contemporanei nello zelo per le tradizioni dei suoi antenati (Galati, 1, 14). Ritengo che questo significhi che egli era il ragazzo più intelligente nella classe e che imparava di più riguardo agli argomenti che studiava. Quando incontriamo Paolo nelle sue lettere probabilmente aveva circa quaranta o cinquanta anni, e il suo cervello non era così agile come quando ne aveva quindici, ma aveva ancora facilità di ricordare e citare ciò che aveva imparato. Dalle sue citazioni, si può dedurre che Paolo imparò a memoria la Bibbia in greco, almeno ampie parti. Tuttavia nelle lettere giunte fino a noi non cita niente altro se non una sentenza:  « Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi » (i Corinzi, 15, 33) che segue immediatamente una citazione da Isaia. Se avesse memorizzato i giusti passi della filosofia greca avrebbe aggiunto una citazione in ii Corinzi (4, 18), dove scrive che ciò che si vede è effimero, ma ciò che non può essere visto è eterno. Anche le opere del suo più anziano contemporaneo, Filone, gli sarebbero venute in aiuto. Allo stesso modo, sarebbe stato facile per uno studioso della filosofia greca usare una citazione a supporto di Filippesi 4, 11:  « Ho imparato a essere auto-sufficiente ». La parola fu riferita a Socrate e usata in varie scuole della filosofia greca, comprese il platonismo e lo stoicismo. Paolo chiaramente non ignorò del tutto il pensiero greco, ma sembra non aver avuto le citazioni appropriate sulle punte delle dita, quindi probabilmente non aveva imparato a memoria molta letteratura greca durante la sua vita di studente, che presumibilmente terminò all’età di quindici o sedici anni. Perciò riguardo all’aspetto fondamentale della matrice ebraica di Paolo, si può ipotizzare che da ragazzo e da giovane studiò la Bibbia greca, imparandola a memoria, tutta o parzialmente. La sua istruzione, se non esclusivamente ebraica, fu comunque fortemente ebraica. Due aspetti dell’uso delle citazioni nell’argomentazione risaltano se considerati alla luce della memorizzazione. In primo luogo Paolo era in grado di lavorare su singole parole. In Galati, 3 cita gli unici passi della Settanta che combinano insieme le radici per i termini « fede » e « giustizia ». Cita anche l’unico  passo della Settanta che combina  le  parole « legge » e « maledizione ». Questo sarebbe facilmente spiegabile se avesse imparato a memoria Genesi, Deuteronomio e Abacuc. Se avesse dovuto davvero trovare ogni singolo uso delle combinazioni di queste parole girando i rotoli, avrebbe impiegato giorni, se non settimane. L’unica spiegazione ragionevole è la memoria. In questo caso particolare non voleva dire in generale che la disobbedienza ai comandamenti procurava una maledizione, ma voleva piuttosto collegare « maledizione » con la parola « legge », e la sua memoria fece emergere il riferimento. Credo che la memoria sia anche responsabile del fatto che molte delle citazioni di Paolo sono combinate insieme. Notiamo infatti che Galati, 3, 8, « tutti i Gentili saranno in Te benedetti », combina Genesi, 12, 3 con 18, 18, mentre Galati, 3, 10 prende in prestito da Deuteronomio, 27, 26 e 28, 58. Una volta che la memoria possiede una parola chiave, produce passi che contengono quella parola, ed è molto più probabile che la conflazione sia il risultato della memoria piuttosto che del girare pagine di un rotolo e prendere deliberatamente una parola da un passo e poche da un altro. Certo il procedimento empirico non è così difficile se si combinano passi a distanza soltanto di pochi capitoli. Ma dove, per esempio, Paolo combina Isaia e Geremia, è molto difficile che il raccordo sia stato ottenuto girando i rotoli con attenzione. Quando propongo a vari colleghi la tesi secondo la quale Paolo aveva imparato a memoria la Bibbia, gli studiosi cristiani considerano l’idea come qualcosa che va da « altamente improbabile » a « totalmente impossibile », mentre quelli ebrei danno per scontato che sia andata così. La lingua di Paolo è impregnata dalle parole della traduzione greca della Scrittura ebraica. Questo va molto al di là delle citazioni formali. Paolo era in grado di scrivere e argomentare senza citare esplicitamente la Scrittura e può darsi che lui predicasse abitualmente ai gentili senza riferirsi in modo manifesto alla Bibbia. In Filemone, i Tessalonicesi, Filippesi e ii Corinzi non c’è una sola esplicita citazione dalla Scrittura ebraica, cioè nessun esempio in cui Paolo scrisse « come sta scritto » o qualcosa di simile. Tuttavia, in tutti questi casi, tranne che in Filemone, la lingua della Bibbia Greca è evidente in numerosi luoghi. Sembra che gli studiosi del Nuovo Testamento pensino che Paolo avesse una grande biblioteca con gli oltre venti rotoli richiesti per contenere la Bibbia, e che possedesse un grande studio con numerosi tavoli sui quali i rotoli potessero essere aperti e confrontati. Questa visione è una versione antica dell’immagine di un professore moderno, ma la realtà è diversa. Per molti anni Paolo trascorse settimane o mesi sulla strada, senza avere asini sufficienti per trasportare un’ampia biblioteca attraverso le Porte della Cilicia o da una parte all’altra della pianura anatolica. Quando era pronto per sedersi a una tavola per lavorare il cuoio o fabbricare tende, non riusciva ad affittare un enorme studio invece di un semplice riparo sulle mura. Le difficoltà finanziarie dell’Apostolo depongono contro tesi di questo genere e fanno pensare che Paolo trasportasse la Bibbia direttamente nel suo cervello. Non dobbiamo però pensare che imparasse a memoria tutto ricordando ogni singola parola di seguito per tutto l’intero testo biblico. Piuttosto, le citazioni di Paolo rivelano ciò che Albert Baumgarten ha chiamato « un’arte di investigazione e di recupero ». Paolo riusciva a trovare nel suo cervello testi che corrispondevano, più o meno bene, alle parole e alle idee di cui aveva bisogno quando ne aveva bisogno. Questo nasce, di solito, da una lettura costante e ripetuta. Se fosse stato in grado di iniziare con il primo libro e recitare a memoria l’intero testo è un problema diverso. Tutto ciò che noi sappiamo riguardo alla sua memoria è che era in grado di fare ciò che le sue citazioni rivelano:  usare a piacimento testi contenenti certe parole quando ne aveva bisogno. Per quello che sappiamo, Paolo conobbe la Bibbia bene anche in ebraico. Possiamo dimostrare solo che egli di solito la citava in forma molto vicina alla Settanta come essa ci è stata tramandata. Ma questo non smentisce la teoria che studiò a Gerusalemme e conobbe la Bibbia in ebraico. Non sono del tutto convinto che Paolo fu istruito solo a Gerusalemme, ma non mi sembra impossibile che parte della sua istruzione sia avvenuta lì. Vorrei ora descrivere molto brevemente  alcuni  degli  aspetti  più  ampi del pensiero di Paolo. Credo che nessuno di essi richieda molta elaborazione né molta prova del massimo della quintessenza dell’ebraicità, ma voglio registrare  il  fatto  che  le  più  importanti categorie del suo pensiero sono ebraiche. Nel senso stretto della parola, la sua teologia fu una forma di monoteismo  modificato.  « Modificato »  significa che oltre il vero o alto Dio si trovò spazio per altri dei, signori e poteri spirituali. Come ha di recente sottolineato Paula Fredriksen, molte persone, non solo ebrei, condividevano questa forma di monoteismo. Nella versione di Paolo, ciò che era ebraico fu che il vero Dio era il Dio di Israele. Tra le fonti giudaiche, le visioni di Paolo sono più vicine ai Rotoli del Mar Morto e ad alcune delle Apocalissi. Egli poi si univa agli ebrei suoi contemporanei nel denunciare l’adorazione di idoli. La visione di Paolo del tempo e della storia era giudaica. La visione greca più comune era che la storia è ciclica. Nel giudaismo, la storia comincia con la creazione e va verso uno scopo stabilito da Dio. Questa fu esattamente la visione di Paolo. La visione di Paolo della storia fu altamente escatologica, incentrata sull’arrivo imminente del climax della storia ordinaria. Molte culture hanno visioni di escatologia individuale:  ricompense e punizioni dopo la morte. Molte forme di giudaismo, comunque, seguendo parti della Bibbia, tendono verso la visione di un grande climax, dopo il quale gli eletti godranno pace, prosperità e sicurezza. Le aspettative dell’Apostolo sono, di nuovo, molto vicine a quanto si trova in alcune Apocalissi. La visione di Paolo riguardo alla sua attività è parte della sua escatologia. Sebbene gli apostoli dei gentili come lui non figurino nelle predizioni dei profeti ebraici, che sembrano aver atteso che i gentili spontaneamente si volgessero al Dio di Israele, la missione di Paolo fu a servizio di una visione giudaica del mondo. L’etica di Paolo fu giudaica. Tutti si opponevano all’assassinio, all’adulterio, al latrocinio, all’estorsione e così via. La più grande distinzione tra il giudaismo e il resto del mondo fu l’atteggiamento verso l’attività omosessuale. Paolo si unì ad altri ebrei nell’esservi totalmente contrario. Egli discute in dettaglio pochi argomenti di morale, ma la maggior parte delle sue opinioni etiche, inclusa la denuncia dell’attività omosessuale, appare nelle liste dei vizi. L’istruzione di Paolo, la giovinezza, la teologia, la visione del mondo, la vocazione e le opinioni riguardo al comportamento corretto sono tutte distintamente e profondamente ebraiche. Ma nonostante l’origine del movimento cristiano come una setta giudaica e l’assoluta ebraicità di Paolo, non dovremmo trascurare nelle sue lettere le indicazioni dove distingue il suo gruppo da ciò che egli chiamava giudaismo. Osserviamo innanzi tutto i passi in cui compare la parola « giudaismo »:  Paolo usa due volte il sostantivo, in Galati, 1, 13-14, e una volta il verbo « giudaizzare », in Galati, 2, 14. Non sono ricorrenze numerose, ma « giudaismo » sembra costituire un’entità del suo passato, non la stessa del suo gruppo attuale. Paolo usa termini specifici per il suo gruppo, senza arrivare alla parola « cristiano » o « cristianesimo » fa riferimento a una distinta terminologia. Gli studiosi spesso ignorano o sottovalutano questo aspetto. In Galati, 6, 16, egli usa la frase « l’Israele di Dio » che indica forse proprio il suo gruppo. Paolo chiama inoltre il suo gruppo, « la chiesa » o, meglio, « la comunità », una parola che occorre da sola e in una molteplicità di frasi. Spesso indica il suo gruppo con una frase che include la parola « Cristo ». I « morti in Cristo » hanno una posizione speciale quando il Signore ritornerà (i Tessalonicesi, 4, 16). Nelle lettere rimaste, Paolo saltuariamente usa una terminologia tripartita:  « Non date scandalo né ai giudei né ai greci né alla chiesa di Dio » (i Corinzi, 10, 32). In Romani distingue « noi » – il suo ambiente – dai giudei e dai gentili, che sono i gruppi dai quali « noi » siamo stati chiamati. I « giudei » e « la chiesa di Dio » sono entità distinte. Dal punto di vista terminologico, allora, Paolo distingue il suo gruppo sia dai giudei sia dai gentili, sia dal giudaismo sia dal paganesimo. La terminologia riflette la realtà sociale che Paolo abitava in un mondo tripartito:  c’erano ebrei, pagani e quelli che appartenevano a Cristo, alcuni dei quali erano appartenuti al giudaismo e alcuni al paganesimo. I convertiti di Paolo, per quanto sappiamo, furono gli ultimi:  i gentili, precedentemente pagani o idolatri. Lo afferma in modo esplicito nel caso dei cristiani di Tessalonica e della Galazia (i Tessalonicesi, 1, 9; Galati, 4, 8), e il desiderio dei suoi convertiti di Corinto di seguire pratiche idolatriche indica un background  di  paganesimo (i Corinzi, 8, 10). Gli Atti mostrano Paolo in origine come un apostolo dei giudei della diaspora, che si rivolse ai gentili solo dopo la delusione per l’esito della sua missione precedente. La visione di Paolo è del tutto differente:  Cristo lo inviò ai gentili. Troviamo la stessa idea quando consideriamo il suo compromesso con gli apostoli di Gerusalemme:  lui e Pietro si divisero il mondo, Pietro sarebbe andato dagli ebrei, Paolo dai gentili (Galati, 2, 7-10). Alcuni studiosi hanno interpretato questa come una divisione geografica, ma l’interpretazione più ovvia del linguaggio – che si riferisce ai « circoncisi » e ai « non circoncisi » – è una divisione etnica. Secondo questo accordo, Paolo non fu apostolo di chiunque dal vicino Oriente all’Europa, ma si dedicò ai pagani. Non voglio dire che avrebbe rifiutato l’opportunità di proporre il vangelo agli ebrei, ma questa non fu la sua missione. La caratteristica sociale dei suoi convertiti era evidente a Paolo, talvolta dolorosamente. Poiché non erano né ebrei né pagani, essi erano isolati, senza una identità sociale riconoscibile. Questa mancanza di identità poteva portare a persecuzioni per la distanza dai culti locali. Anche in assenza di persecuzione, i suoi seguaci dovevano rinunciare a molti dei piaceri della vita civile, come i banchetti di carne rossa, che erano disposti dalle celebrazioni pubbliche religiose. Vediamo così che il vocabolario di Paolo per il suo gruppo riflette accuratamente la nuova realtà sociale che risulta dalla sua predicazione del vangelo di Cristo:  una comunità di gentili che rinuncia all’idolatria, che pratica il culto del Dio di Israele fuori dalla sinagoga, che non conta né come ebraica né come pagana e che riconosce Gesù come suo Salvatore e Signore. Qualcuno potrebbe pensare che proponendo questa distinzione sociale e terminologica tra il gruppo di Paolo e il giudaismo io sostenga che Paolo cessò di essere ebreo. Non è così. La sua auto-identità è un altro problema. Paolo ebreo considerò se stesso come un apostolo ebreo dei gentili. D’altra parte, dobbiamo considerare la sua ferma convinzione che lui e le altre membra della sua comunità avevano acquistato una nuova identità. Paolo era un ebreo diventato un’unica persona con Cristo. E, come scrisse, se qualcuno è in Cristo, è « una nuova creazione » (ii Corinzi, 5, 17). Tuttavia, essere una sola persona con Cristo, parte di una nuova creazione, non rende Paolo stesso un non ebreo. Gesù era un ebreo e credo che per nessun motivo Paolo avrebbe rifiutato la sua identità etnica. Tuttavia la questione presente non è di definire la sua identità, ma piuttosto di chiarire il fatto che egli non pensava al suo gruppo in termini di « giudaismo ». L’unico modo con il quale avrebbe potuto affermare o pensare che le sue chiese costituivano parte del « giudaismo » sarebbe stato facendo una chiara distinzione tra falso e vero Israele. Avrebbe potuto scrivere che la nuova creazione era il vero giudaismo ma, per quanto ne sappiamo, non lo fece. Così egli fu ebreo e anche una persona nuova in Cristo, ma la sua comunità non formava « giudaismo »,  che  rimaneva un’entità  separata. Mentre Paolo riconobbe la distinzione sociale che lui e gli altri stavano creando dalle fondamenta – una nuova identità spirituale, né ebraica né pagana – questa divisione non era né ciò che voleva né ciò che attendeva come esito finale. La sua teologia ebbe un’ottica differente. Secondo lui ci sarebbe stato un unico gruppo universale, che avrebbe incluso ebrei, greci e barbari, tutti in Cristo. Non era accettabile che i membri gentili del suo movimento giudaizzassero, riducendo così il numero dei gruppi a uno solo. La sua opposizione al giudaizzare causò le più forti invettive presenti nelle sue lettere. Il suo gruppo non avrebbe dovuto giudaizzare; piuttosto, chiunque altro si sarebbe dovuto unire. Dal punto di vista teologico, Paolo sapeva quale doveva essere l’esito finale e vedeva anche che il piano presente per giungervi non funzionava perfettamente. La strategia, ricordiamo, prevedeva che lui (e apparentemente altri) avrebbe convertito i gentili alla fede in Cristo. Pietro e presumibilmente gli altri apostoli di Gerusalemme avrebbero persuaso anche gli ebrei a porre la loro fede in Gesù. Allora tutti avrebbero fatto parte del popolo di Dio, uniti dalla fede in Cristo. Secondo la propria opinione, Paolo era vicino alla fine delle sue fatiche. Dopo un trionfo in un dibattito con i Corinzi, infatti, espresse ottimismo sul suo successo apostolico:  « Grazie a Dio, il quale in Cristo ci conduce sempre in processione trionfale e per mezzo nostro diffonde in ogni luogo il profumo che viene dalla sua conoscenza » (ii Corinzi, 2, 14). Nella opinione di Paolo, Pietro aveva lavorato molto meno bene. Questo è evidente dalla innovazione di Romani 11. L’aspettativa comune di un ricongiungimento alla fine dei tempi del popolo di Israele e del volgersi dei gentili verso Dio aveva seguito la sequenza ovvia:  prima Israele, poi i gentili. Questo è in realtà un tema dei primi due capitoli di Romani:  « l’ebreo prima e poi anche il greco » (1, 16; 2, 9-10). Così Pietro avrebbe dovuto preparare gli ebrei, mentre Paolo portava la sua missione coronata da successo ai gentili. Ma gli ebrei non erano pronti. E così Paolo sviluppò un piano alternativo:  i suoi gentili sarebbero entrati per primi nella nuova creazione. Questo avrebbe reso i giudei gelosi e li avrebbe convinti ad affrettarsi, in questo modo Paolo indirettamente avrebbe salvato « alcuni » ebrei assieme ai gentili (Romani, 11, 13-14). Egli ripete lo schema ai versi 25-26:  il « numero totale dei gentili » entrerà e così, in questo modo, « tutto Israele sarà salvato ». Per essere sicuro che il lettore accolga la sua scoperta, lo ripete una terza volta. Gli ebrei sono stati disobbedienti « in modo che, a causa della misericordia mostrata a voi (gentili) anche essi possano ora ricevere misericordia » (11, 30-31). L’uso di « in modo che » – hìna in greco – sottolinea la divina intenzione:  Dio ha reso gli ebrei disobbedienti per un periodo, allo scopo di autorizzare i gentili ad avere accesso per primi, cosa che consentirebbe poi di entrare agli ebrei. Paolo ha da poco scoperto quello che ritiene il vero piano di Dio per salvare tutti, una revisione rispetto a ciò che lui e gli altri avevano pensato in precedenza. Ora vede che proprio la sua missione verso i gentili aiuterà gli ebrei a salvarsi, in modo che tutti ricevano misericordia. Possiamo pensare però che il successo di Paolo come apostolo e la sua teoria sulla gelosia degli ebrei sia piuttosto un filo sottile a cui appendere la speranza della salvezza eterna per tutti. Da Romani, 11, 13 a 11, 32 Paolo offre per tre volte un modo razionale attraverso il quale Dio può salvare il mondo, una sequenza in cui la sua missione gioca un ruolo cruciale. Ma alla fine deve aver fiducia che sarà lo stesso Dio a escogitare un sistema. Il cervello fertile e ingegnoso di Paolo non può immaginare tutto. Siamo partiti dalle distinzioni sociali tra ebreo, pagano e cristiano così come appaiono nelle lettere di Paolo e arrivati alla soluzione teologica/escatologica di Paolo, alla divisione sociale degli esseri umani:  tutti saranno un solo popolo. Gli apostoli dovranno fare del loro meglio per portare tutti nel corpo di Cristo, mentre la storia ordinaria continua, sebbene il tempo sia davvero breve. Ma alla fine del tempo, quando il redentore verrà dal monte Sion, Dio compirà lo scopo – la salvezza del mondo – in un modo che noi non possiamo comprendere. Tornando alla fine di Romani, 11 e alla salvezza dell’umanità non si può immaginare un piano che sia più interamente ebraico. Nel background c’è la dottrina giudaica secondo la quale Dio ha creato il mondo e lo ha dichiarato buono:  questo principio è ovvio nella prima fiammata di universalismo di Paolo, i Corinzi, 15, 22:  « Come tutti muoiono in Adamo, così in Cristo tutti riceveranno la vita ». Questo passo porta immediatamente alla soggezione a Dio alla fine di « tutte le cose » (i Corinzi, 15, 27-28). Proprio come – secondo Romani, 11, 32 – Dio ha rinchiuso gli uomini nella disobbedienza così da salvarli tutti, così come Dio ha sottomesso l’intera creazione alla caducità così da renderla « libera dalla sua schiavitù alla corruzione » quando Lui porterà la storia ordinaria alla sua fine (Romani, 8, 20-21). Che Dio abbia un piano benefico a lungo termine per una fine felice della storia ordinaria è un pensiero profondamente  giudaico,  sebbene  i  beneficiari siano diversi nei differenti corpi della letteratura. Che il piano includa peccato e sofferenza lungo la strada è ugualmente  giudaico.  Allo  stesso modo,  secondo  Giuseppe,  Dio  progettava il trasferimento del potere a Roma e  progettava  la  distruzione del tempio, che doveva essere purificato a causa dello spargimento di sangue e del peccato. Sintetizzando, Paolo viveva e operava in un mondo che parlava greco. Quale che fosse la sua conoscenza di questo contesto, la sua istruzione e la sua educazione furono ebraiche; le categorie principali del suo pensiero furono ebraiche; la sua missione si svolse nel tessuto dell’escatologia ebraica; l’esito finale che desiderava ardentemente fu una forma universale di speranza ebraica. Temporaneamente, egli pensò, creò un terzo gruppo, né ebreo né gentile, come parte della nuova creazione che sarebbe arrivata pienamente quando il Dio di Israele, l’unico vero Dio, avrebbe portato la storia ordinaria alla sua conclusione.

FINO AGLI ESTREMI CONFINI DELLA TERRA (PER CONOSCERE PAOLO)

http://letterepaoline.net/2008/12/03/fino-agli-estremi-confini-della-terra/

FINO AGLI ESTREMI CONFINI DELLA TERRA (PER CONOSCERE PAOLO)

Questa voce è stata pubblicata il 3 dicembre, 2008,

Dicevamo che la forma mentis di Paolo, di questo “eroe dei tre mondi” [1], fu sinceramente urbana: anche se non è mancato chi abbia fatto notare la «concentrazione insolitamente alta», nelle sue lettere, di metafore che rispecchiano un ambiente rurale e una cultura agricola, forse proprio in dipendenza dall’insegnamento storico di Gesù, e segnatamente dalle immagini presenti nelle sue parabole [2].
I principali centri urbani dell’area mediterranea costituirono senza dubbio un punto di avvio privilegiato, per l’espansione del cristianesimo antico: basti pensare che fu ad Antiochia di Siria, allora una vera e propria metropoli, che un gruppo di discepoli di Gesù, formato da Ciprioti, Cirenei ed “Ellenisti” (Ebrei di lingua greca) cacciati da Gerusalemme, venne identificato per la prima volta con la dicitura di christianói, un termine greco che potremmo rendere alla lettera con l’espressione “quelli del Messia”, “i messianici” (in At 11,26 compare per la prima volta).
Nelle parole scelte da Paolo per descrivere la propria missione in Rm 15,19, i confini dell’evangelizzazione coincidono poi con i confini dell’Impero, dall’Arabia, ch’era zona soggetta alla sovranità di Roma, alla Spagna: un’ellisse i cui due fuochi erano rappresentati da Gerusalemme ad oriente – e sappiamo quanto le collette organizzate da Paolo nella diaspora avessero la funzione di legittimare le proprie zone di missione, agli occhi di questa chiesa-madre – e dall’Urbe ad occidente. Questo non fu certo l’unico arco d’azione delle missioni protocristiane, dato che una buona percentuale della diaspora ebraica, principale vettore di diffusione della Buona Notizia, risultava stanziata oltre i confini orientali, ma è certamente significativo il fatto ch’è solo della predicazione paolina che gli Atti canonici ci informano, e che questa si svolse puntando proprio al cuore politico e culturale del mondo mediterraneo.
Che ciò sia dipeso da una strategia “escatologica” (l’ingresso delle Genti in Israele, come sigillo della redenzione finale) o teologico-politica (la conversione della principale forza terrena del tempo), oppure da circostanze di tutt’altra natura – vuoi per la cittadinanza romana di Paolo, vuoi per la migliore distribuzione del sistema viario imperiale – non è qui il caso di discutere. Lo sviluppo e la diffusione del cristianesimo non possono comunque essere compresi senza l’esame delle rotte commerciali e delle vie di comunicazione dell’Impero, come suggeriva puntualmente Paolo Siniscalco in uno studio dedicato ai tempi di percorrenza via terra e via mare nelle tre grandi direzioni d’espansione cristiana, coincidenti con altrettante vie di traffico commerciale [3]. Le pagine di Wayne A. Meeks che abbiamo citate in precedenza, consacrate invece alla stratificazione sociale dei primi cristiani e alla formazione delle comunità paoline, forniscono per questo punto una preziosissima integrazione.
La predicazione di Paolo, quando non poteva svolgersi nel contesto sabbatico della sinagoga, poteva trovare un punto d’appoggio nell’ambiente dei colleghi di lavoro, intrecciando in tal modo l’occupazione artigianale allo scambio religioso.
Una variante di At 19,9, conservataci nel codice D greco-latino di Cambridge, risulta in proposito particolarmente illuminante. In essa si dice che Paolo avrebbe predicato ad Efeso, «nella scuola di un certo Tiranno, dall’ora quinta alla decima» (in corsivo, gli elementi propri della variante). Anche se non ci sono giunte informazioni più precise riguardo a questo Tiranno, possiamo trarre due importanti considerazioni. In primo luogo, costui avrebbe messo a disposizione di Paolo, per la sua qualità di predicatore itinerante, i locali di una propria scuola. In secondo luogo, tale ospitalità avrebbe riguardato un periodo compreso fra l’ora quinta e la decima, vale a dire dalle undici del mattino alle quattro del pomeriggio: le ore più calde della giornata, quelle in cui le attività scolastiche e lavorative erano costrette a fermarsi o almeno a rallentare. Si tratta di un dato di estremo interesse, che ci aiuta non soltanto a comprendere le modalità di svolgimento della predicazione paolina in un ambiente non direttamente “giudaico”, e quindi non veicolato alla sinagoga, ma anche ad immaginarne i possibili destinatari e l’immediata ricezione.
Una considerazione finale, per concludere queste rapide note, potrebbe essere fatta a partire dall’analisi del desiderio più volte espresso da Paolo, quello di coprire l’estensione di tutte le terre del mondo conosciuto, «per condurre all’obbedienza della fede tutte le Genti, a gloria del Suo nome» (Rm 1,5). Questo desiderio non poteva che trovare alimento nelle promesse degli antichi profeti d’Israele: «Darò loro un segno ed invierò alcuni dei loro superstiti verso le Genti: Tarsis, Put, Lud, Mesech, Ros, Tubal, Grecia, verso le isole lontane, che non hanno udito la mia fama e non hanno visto la mia gloria; essi annunceranno la mia gloria tra le Genti» (Is 63,19).
Tarsis, il primo dei luoghi nominati in questo versetto di Isaia, veniva spesso identificato con la Spagna. Quel viaggio «fino agli estremi confini della terra», allora interrotto, avrebbe trovato la sua più compiuta realizzazione nello slancio missionario dei primi annunciatori del vangelo. Paolo, come il suo maestro Gesù, sentiva di essere stato inviato da Qualcuno, e sentiva che chi avrebbe accolto lui, avrebbe accolto anche Colui che lo inviava.

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Note
[1] In quanto infaticabile esploratore del collegium trilingue del Mediterraneo, per riprendere una frase di Arnaldo Momigliano.
[2] Come ben argomentato a suo tempo da Harald Riesenfeld, The Gospel Tradition, Philadelphia 1970, pp. 171-201.
[3] Vd. P. Siniscalco, Le vie di commercio e la diffusione del cristianesimo, in Mondo classico e cristianesimo, Roma 1982, pp. 17-28.

SAN PAOLO, L’UOMO DELLA LIBERTÀ

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SAN PAOLO, L’UOMO DELLA LIBERTÀ

Nella prima lettura abbiamo sentito queste parole: « Quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto. Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà… Investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo… Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore… E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » (2Cor 3,16-17; 4,1.5-6)). Per cogliere meglio il senso delle parole di Paolo vale la pena vedere anzitutto come si svolge la sua argomentazione e poi cercare di capire che cosa ci dicono oggi nel tempo in cui noi viviamo.
I cristiani e soprattutto i missionari, dice Paolo, possono comportarsi e parlare con piena franchezza e apertura, perché mediante la conversione a Cristo vivono in un regime di libertà. Non hanno nulla da nascondere o da temere, perché fanno parte dell’alleanza nuova e definitiva. I giudei, invece, si richiamano al sistema legale e sono condizionati da un limite e da una oscurità insiti nella legge. Come il volto di Mosè quando usciva dall’incontro con Dio era velato, e perciò il riflesso della gloria divina era temporaneo, così la scrittura per gli ebrei non manifesta pienamente il progetto salvifico di Dio, perché sono incapaci di capirne il senso: il loro cuore, infatti è ricoperto da un velo. Manca ad essi la chiave della rivelazione, cioè della rimozione del velo, che si ha solo in Cristo. La scrittura stessa lo conferma là dove dice che il « velo viene tolto quando ci si converte al Signore » (Es 34,34). La conversione al Signore a sua volta fa spazio alla venuta dello Spirito, che è sempre Spirito di libertà. Dio ha affidato a Paolo il ministero di annunciare la libertà alla quale siamo chiamati in Cristo. A questa scoperta gioiosa egli è giunto nel momento della vocazione, che viene ricordato come se fosse per lui stato una creazione nuova.
Che cosa dice a noi oggi tutto questo? Per quanto riguarda la situazione odierna, possiamo costatare che fino a qualche tempo fa erano presenti, malgrado tutto, alcuni riferimenti di confronto: ci si confrontava con essi per consentirvi o per contestarli e magari calpestarli. C’era un complesso istituzionale di norme, di tradizioni, di consuetudini, di valori su cui la gente si confrontava, a prescindere dall’opzione precisa di fede o di pratica cristiana. Erano presenti anche limiti invalicabili per l’azione umana, stabiliti dai grandi fatti biologici, naturali, entro i quali si doveva vivere e operare. Il fatto tipico della nostra epoca è che l’uomo di oggi ha l’impressione che quasi tutto gli è possibile o gli sarà tecnicamente possibile e che i limiti sono o saranno superati. Egli avverte che sarà sempre più emancipato dal ritmo del giorno e della notte, dai ritmi e dai limiti dello spazio, grazie alla tecnologia e alle forme di trasporto velocissimo; la scienza sta travalicando le stesse leggi della generazione naturale, della procreazione, della eredità biologica. L’umanità pensa che potrà in avvenire fare tutto ciò che vuole sulla natura, sui modi di essere, sulla vita.
Di conseguenza, il fatto nuovo della storia umana è che mai come oggi si è accresciuto a dismisura il senso della libertà: la libertà dai condizionamenti naturali e biologici, libertà dalle leggi e dalle consuetudini. Mai l’uomo ha avuto tanta libertà, mai è stato più emancipato e disancorato da forme di riferimento che parevano ovvie, obbliganti, scontate, evidenti. Le norme, le regole, le tradizioni, le convenzioni di riferimento appaiono un valore relativo, non un dato assoluto che non si tocca; valgono nella misura in cui sono contrattabili in virtù di un utile, di un fine; tutto è negoziabile e opinabile, tutto può essere scelto, purché ci sia una ragione contingente. Un tale emergere del senso della libertà era sconosciuto nella storia umana.
Tuttavia, con questo crescere tumultuoso del senso prepotente della libertà (che avvince i ragazzi, i giovani, la gente semplice dei paesi e dei luoghi più remoti attraverso i messaggi che giungono dalla televisione, tesi a convincere che l’impossibile di oggi sarà possibile domani), dobbiamo constatare che la stessa libertà non è mai stata tanto manipolabile. I grandi strumenti del consenso sociale l’addormentano o la guidano mediante la tecnica applicata al controllo della vita di persone, mediante i mezzi informatici che permettono di seguire la gente in tutti gli atti più semplici dell’ambito privato. Tale controllo ci fa comprendere che la libertà cui l’uomo è assurto non è mai stata così grande e insieme così fragile.
Va inoltre ricordato che il luogo dove le tensioni della libertà e l’uscita dalle convenzioni si concentrano è la famiglia. La coppia nel matrimonio, la famiglia nella sua costituzione, nella sua durata, nella sua fecondità, viene invasa dall’opinabilità generale che non la ritiene soggetta a regole e norme da noi considerate proprie della famiglia tradizionale.
Questa situazione è vissuta da noi con atteggiamenti molto diversi.
Il primo è un atteggiamento sconsolato: stiamo andando verso la catastrofe, l’uomo non ha più regole, l’anomia crescerà. Soprattutto gli anziani manifestano un profondo disagio, un senso quasi di paura e di rabbia, una voglia di reagire oppure di nascondere la testa, rifugiandosi nel passato. Anche se si impegnano in iniziative settoriali, molti temono che si arrivi al peggio e non sanno come bloccare il male crescente.
Il secondo è l’atteggiamento di chi pensa di essere ancora in tempo a rimediare: urge ribadire le regole del vivere, rivalutarle, dal momento che la gente sbanda perché non le conosce; urge ribadire e richiamare continuamente i comandamenti. È spesso il nostro sforzo, quando pretendiamo di aiutare la gente che occorrono le regole, che l’arbitrarietà selvaggia induce alla noia della vita, a evasioni di ogni tipo, fino alle più pericolose di autodistruzione e di suicidio. Sottolineare i pericoli dell’anomia crescente e innegabile è certamente un modo di reagire.
Un terzo atteggiamento è caratterizzato dalla ricerca del « kairòs », della opportunità evangelica offerta dalla situazione globale odierna. Questo atteggiamento parte dalla intuizione che mai come oggi c’è stata così ampia possibilità di capire il messaggio evangelico, di cogliere che la libertà, nell’uomo, è imitazione di Dio, è dono di Dio, e che, attraverso una libertà tesa alla responsabilità, l’uomo può superare i pericoli di un arbitrio sfrenato, non con il ritorno al passato e la ripresa dei limiti naturali e tradizionali, bensì riscoprendo la sua vocazione di figlio di Dio, animato dallo Spirito, libero e chiamato a pienezza proprio mediante la presa di coscienza di tale libertà.
Paolo vive certamente in questo terzo atteggiamento. Per lui, se l’uomo vuole vivere nella libertà, deve convertirsi al Signore, cioè a Gesù risorto. Chi riconosce che Gesù è il Signore entra nello spazio della libertà cristiana, che ha la sua fonte interiore nel dono dello Spirito. Nel linguaggio corrente si usa spesso l’espressione « libertà di spirito »: si tratta di una dimensione interiore che qualifica l’uomo che è attivo e reattivo al punto da non lasciarsi condizionare dalla pressione dell’ambiente. A questo atteggiamento umano positivo Paolo dice che c’è un di più che dà una impronta nuova all’esistenza del credente in Cristo: la libertà nello Spirito. La libertà si trova dove è lo Spirito del Signore, lo Spirito di santificazione, lo Spirito Santo. Paolo afferma un legame di simultaneità tra lo Spirito e la libertà: se c’è lo Spirito di Cristo, c’è anche la libertà, dove è lo Spirito di Cristo vi è anche la libertà. Cristo ci ha liberati proprio in vista di una situazione di libertà vissuta.
La situazione cristiana di libertà è in contrasto con quella giudaica, detta da Paolo situazione di schiavitù, di chi è velato e impedito di vedere davanti a sé Dio. Se l’uomo si apre totalmente al dono di Cristo, si realizza in lui l’influsso liberante della sua morte e risurrezione. Per Paolo la libertà non è principalmente sociologica, politica, antropologica, ma è eminentemente trinitaria, teologica. La libertà è un dono di Dio, realizzato da Gesù Cristo, divenuto con la risurrezione Spirito datore di vita (1Cor 15,45). Questa libertà non viene da noi, dalle nostre opere; non è un diritto o la capacità di disporre di sé senza alcun condizionamento. La libertà è appartenenza a Cristo e l’uomo che aderisce a Gesù viene liberato dal peccato, dalla morte e dalla legge.
Il peccato è il primo tiranno dell’uomo (Rm 7,14). Esso non consiste in un atto sbagliato o in una catena di azioni sregolate. Le azioni sbagliate sono espressione, esteriorizzazione di una potenza negativa che agisce dentro di noi in opposizione radicale a Dio e al suo regno. Questa potenza da Paolo è chiamata peccato. Il peccato è un principio malefico, che quasi si confonde con satana, dal quale tuttavia è distinto: il peccato non è esteriore all’uomo, come satana, ma è dentro di lui e si esprime attraverso la sua condotta peccaminosa. La redenzione di Cristo non si limita alla remissione dei peccati, delle trasgressioni, ma in maniera più profonda demolisce la potenza negativa del mala e dona all’uomo un cuore nuovo, un principio interiore docile allo Spirito, che gli permette di essere fedele al Signore. Il dominio del peccato è distrutto dalla morte di Cristo (2Cor 5,21; Gal 3,13; Rm 8,2-3.15.20) e il battezzato è morto al peccato (Rm 6,10-11), è liberato dal peccato (Rm 6,18.22), è creatura nuova (Rm 6,5; 2Cor 5,17).
Strettamente congiunta al peccato è la morte: ne costituisce l’inevitabile conseguenza (Rm 5,12; 7,11), il salario (Rm 6,23), la prole. Il peccato è il pungiglione avvelenato della morte (1Cor 15,56), la morte è il frutto del peccato (Rm 7,5; Gal 6,8), la sua compagna immediata (Rm 5,12; 6,21.23). Anche la creazione ne è coinvolta a causa del peccato degli uomini. Non si può sfuggire alla schiavitù della morte senza eliminare il peccato. Ogni tentativo di evitarla è inutile. Anche accettarla stoicamente non è atteggiamento cristiano. Solo in Cristo, risuscitato dalla potenza del Padre, sono infrante le catene della morte (Rm 8,11). Siamo viventi grazie alla fede e al battesimo (Rm 6,13.17.18.22-23). La morte non ci può più separare da Dio e dalla sicura vittoria del suo amore (Rm 8,38-39). Gesù l’ha « transustanziata »: da castigo l’ha trasformata in atto di obbedienza, di fiducia, di amore; da severa pedagoga, che ci ricorda la transitorietà di tutte le cose, l’ha fatta diventare mistagoga, realtà che ci introduce pienamente nel mistero di Cristo. La piena liberazione dell’uomo dalla morte si avrà solo nella risurrezione finale con la completa redenzione del nostro corpo (Rm 8,23), quando la morte sarà annientata per sempre. Già ora però il cristiano è liberato dalla morte, perché sa che non muore da solo, ma che gli è data la grazia di morire in Cristo e con Cristo.
Cristo ci libera anche dalla legge. Nessuno più di Paolo ha percepito la differenza radicale tra chi è sotto la legge e chi è sotto la grazia, tra chi è sotto la lettera e chi è sotto lo Spirito. Paolo dice frequentemente che il cristiano è liberato dalla legge, da ogni legge che cerchi di esercitare su di lui una coercizione esteriore (Rm 6,14; 7,1-6). La legge ha la funzione poco desiderata del carceriere o del pedagogo, incaricato di condurre i bambini al loro maestro (Gal 3,23-24). La legge porta l’uomo al peccato e alla morte, è stata aggiunta in vista delle trasgressioni (Gal 3,19), serve solo a dare piena coscienza della caduta (Rm 3,20; 5,20; 1Cor 15,56). L’affrancazione dalla legge è un elemento essenziale della liberazione operata da Cristo: liberato dal peccato e dalla morte, il cristiano non sarebbe salvato se non fosse liberato anche dalla legge (Rm 6,14). Stare sotto la legge equivale a stare sotto il dominio del peccato.
Paolo insiste su questa liberazione dalla legge perché, a differenza di quanto l’uomo ritiene normalmente, essa non basta a conferire la vita, a cambiare il cuore. La legge in se stessa, anche se propone il più sublime degli ideali, non è capace di trasformare l’uomo in un essere spirituale che vive della stessa vita di Dio. La legge non ha la capacità di conferire la vita, cioè di distruggere nell’uomo la potenza di morte che è il peccato, o di reprimerla e di arginarla. La legge, anzi, permette al peccato di esercitare la sua virulenza. Pur essendo destinata a preservare la vita, la legge in realtà diventa causa almeno occasionale di morte. Il peccato si serve della legge e ci seduce.
La situazione di schiavitù opprimente è quella dell’Antico Testamento, o più esattamente quella determinata dalla legge così come era interpretata e vissuta in alcune correnti farisaiche al tempo di Paolo. Egli ne aveva fatto l’esperienza personale. Nato sotto il segno di una valorizzazione radicale della legge di Dio, mantenuta pura da tutti gli influssi dell’ambiente ellenizzato, il movimento farisaico, al quale Paolo apparteneva, era caduto nel perfezionismo. La legge, staccata di fatto da quel contatto vivo e vivificante con Dio che aveva avuto all’inizio, veniva ora analizzata dall’uomo in tutti gli aspetti possibili e veniva applicata con un’insistenza puntigliosa a tutti i dettagli della vita. L’uomo che fosse riuscito ad osservarla integralmente poteva sentirsi perfetto. Ma si trattava di una perfezione illusoria, di perfezionismo appunto. La legge donata da Dio era divenuta uno strumento nelle mani dell’uomo che se ne serviva per costruire un proprio progetto di se stesso e non poteva non restarne deluso. L’uomo, infatti, quanto più vi si impegna tanto più si sente legato in una infinità di minuzie che non gli lasciano tregua. E quando riesce ad osservarle sente il suo rapporto con Dio e con gli altri terribilmente appesantito, opprimente. L’uomo così non può sentirsi davvero realizzato: ha la sensazione di un peso che grava sulla sua vita e che gli toglie il respiro; ha la sensazione di essere in stato di schiavitù. Paolo porta per tutta la vita il segno di questa esperienza amara e dice che la legge di Dio, finita nelle mani dell’uomo è diventata « lettera che uccide » (2Cor 3,6).
Paolo ha capito che la giustizia, cioè il rapporto salvifico con Dio, sta nel convertirsi e legarsi a Gesù. Ora giunge a una valutazione nuova di tutte le cose. La giustizia fondata sulla legge non è autentica, perché in fondo è basata sui nostri sforzi, sulle nostre capacità e pretese. La legge mi dice quello che devo fare, io lo faccio e mi sento in regola. Questo sistema sembra giusto, ma in realtà non fa uscire la persona da se stessa, la lascia nel suo egocentrismo, nella sua superbia. Tutti i suoi sforzi servono a nutrire il suo orgoglio più o meno consapevole. Invece la vera giustizia viene gratuitamente da Dio, e l’uomo è invitato ad accoglierla mediante la fede: allora la persona esce da se stessa, riconosce di non poter andare avanti con le proprie forze, di aver bisogno di una relazione con un’altra Persona che la salverà. Quest’altra Persona è Gesù Cristo morto e risorto, che ci introduce nella relazione con la Trinità. Il punto essenziale della conversione è capire che il peccato consiste nel mettere la propria sicurezza in se stessi, nelle proprie opere, nel pensare bene di se stessi, nel pretendere di salvarsi con le proprie opere, con l’esecuzione fedele della legge.
Noi siamo liberati dal peccato, dalla morte e dalla legge, perché uniti a Cristo abbiamo dentro di noi una legge nuova: quella dello Spirito, quella che consiste nello Spirito, e lo Spirito è libertà. Parlando di legge dello Spirito, Paolo si richiama a due passi ben precisi dell’Antico Testamento, dove i profeti Geremia ed Ezechiele promettono un’alleanza nuova, che consiste nel dono di una legge interiore all’uomo, nel dono dello Spirito (Ger 31,31-33; Ez 36,26-27). Tramite Gesù siamo liberati dalla legge, perché abbiamo la legge dello Spirito: ci viene messa nel cuore una forza nuova, un dinamismo che consiste nell’azione Spirito stesso dentro di noi. Non si tratta più di una norma esterna, di un’indicazione magari più perfetta e più elevata di quelle contenute nell’Antico Testamento, ma di un dinamismo nuovo che ci viene dato, di un principio di azione che ci spinge ad agire spontaneamente. Lo Spirito Santo che ha agito in Gesù, rendendolo obbediente in tutto al Padre e solidale coi fratelli fino alla morte, ci viene donato perché agisca dentro di noi in maniera analoga: viene in noi, vive in noi e ci dà una connaturalità con Gesù; è lui che prega il Padre in noi, è lui che ama il Padre e i fratelli in noi. Quando lo Spirito agisce così in noi, siamo veramente liberi.
Lo Spirito ci permette di realizzare quello che Dio ci domanda. Siamo liberati dalla forza del peccato, dalla paura della morte, dalla costrizione delle norme esterne perché lo Spirito ci dona la capacità di lasciarci amare dal Padre, di fidarci costantemente di lui chiamandolo « Abbà » e dicendogli « amen », ci infonde la capacità di incarnare la fede nella carità, di amare Dio e di amare gli altri. Lo Spirito ci libera dal peccato, dalla morte, dalla costrizione della legge per vivere con un intuito interiore da figli di Dio e da fratelli tra noi, per vivere in alleanza con Dio e coi fratelli, per essere in pace con Dio e tra di noi: ci libera togliendo da noi la paura e la costrizione e infondendo in noi l’amore, che è la pienezza della legge. Animato dallo Spirito, l’uomo evita quasi d’istinto ciò che è carnale e in lui nasce invece il frutto dello Spirito che « è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé » (Gal 5,22).
A questa scoperta Paolo è arrivato nel momento della sua vocazione, sul quale riflette anche nel passo che oggi abbiamo sentito. Paolo ritorna frequentemente alla sua vocazione: ogni volta che le difficoltà lo circondano pensa a quel momento fondamentale della sua esistenza. Se non coltiviamo la consapevolezza della nostra chiamata alla fede e al ministero, a un certo punto le motivazioni del nostro agire si inaridiscono. Dovremmo perciò amare le difficoltà e le avversità che il ministero vissuto nella sua verità incontra. Sono proprio esse, se le viviamo come prova, a far crescere in noi la coscienza del senso di ciò che facciamo. Le cose facili, invece, inducono alla pigrizia e non ci aiutano a maturare il senso della chiamata. Paolo è convinto che la sua chiamata alla fede in Cristo e al ministero apostolico, come ogni vocazione, è anzitutto un’opera di Dio e non un fatto umano. La nostra vocazione al cristianesimo e al ministero presbiterale è opera di Dio, che dobbiamo riconoscere con stupore e riconoscenza.
La vocazione di Paolo fu umanamente inspiegabile. La sua strada normale era quella di continuare a vivere da fariseo, confidando nelle proprie opere, e a rifiutare Cristo, a ostacolarlo anche con la persecuzione violenta. Ma Dio intervenne e diede a Paolo una vocazione che andava esattamente in senso contrario. Dio ha chiamato una creatura peccatrice: questo è successo per Paolo, per Pietro, per tanti uomini e tante donne, per tutti noi. La spiegazione della chiamata non è mai nei meriti umani, ma nella generosità e nella misericordia straordinaria di Dio. La vocazione non è mai basata sulla nostra dignità precedente: occorre piuttosto dire che la vocazione ci conferisce gratuitamente la nostra dignità. La elezione di Dio è gratuita e precede ogni azione umana: è manifestazione della grazia e della misericordia di Dio e non ricompensa dei nostri sforzi: siamo tutti investiti del nostro ministero « per la misericordia di Dio » (2Cor 4,1). Dio si è degnato di mettersi in relazione con noi e di metterci in relazione personale con lui e per questo non possiamo mai perderci d’animo (cfr. 2Cor 4,1).
Paolo sa che Dio ha scelto un persecutore per farne un apostolo. In questo modo sa di essere chiamato a vivere la continuità tra dono battesimale e dono apostolico. Il ministero è lo sviluppo delle radici battesimali della nostra esistenza. Di conseguenza Paolo e ogni ministro non possono attribuire ai propri meriti la vocazione o la fecondità del loro ministero (1Cor 15,10; Gal 1,6). Paolo paragona la chiamata sulla via di Damasco con l’opera creatrice di Dio: il Dio che ha fatto risplendere la luce dalle tenebre, ha illuminato il suo cuore, dissolvendone le tenebre, per renderlo capace di far risplendere la gloria divina che rifulge sul volto di Cristo (2Cor 4,6). È Dio che opera in Paolo ed è ancora Dio che gli affida un compito. Questa è la grande lezione che Paolo ha imparato e ha insegnato a tutti.
Paolo è consapevole che questa iniziativa di Dio è stata preparata da lontano: Dio ha avuto un progetto su di lui fin dal seno materno (Gal 1,15). Dio si è rivolto a Paolo ritenendolo persona capace di sentire, di ascoltare, di capire, di rispondere. Dio non ha voluto fare tutto da sé, ma ha istituito un rapporto personale con Paolo: per questo gli ha parlato. In quella chiamata Paolo ha riconosciuto un fatto della grazia, della benevolenza gratuita di Dio. Da questo punto di vista, la vocazione di Paolo è prototipo di tutte le nostre vocazioni: ci fu data la grazia, per grazia siamo stati chiamati.
Questa grazia consiste nel poter conoscere il Figlio suo. Anche per Pietro è stato così (cfr. Mt 16,17). Ogni vocazione è un’azione del Padre che mette la persona chiamata in rapporto profondo col Figlio suo. Si tratta di venir chiamati a conoscere il cuore del Figlio di Dio fatto uomo. Dio non chiama per assegnare in primo luogo una funzione: la sua chiamata è anzitutto una grazia personale, dona la conoscenza intima di Gesù, Figlio di Dio. Paolo ormai impara a vedere se stesso nel Cristo che gli si fa incontro.
Questa conoscenza intima del Figlio viene data in vista di un annuncio: per far « risplendere la gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » (2Cor 4,6), per far conoscere il cuore di Cristo come via per capire il Padre, per far conoscere il suo amore a tutti. Paolo capisce che dall’esperienza di Damasco nasce il suo impegno missionario. L’amore che Dio gli rivela è universale, riguarda tutti. Paolo comprende che Dio lo chiama a diventare apostolo del suo amore a tutte le genti, comprende che ha ricevuto la splendida missione di annunciare tra le nazioni la meravigliosa novità: tutti sono da lui amati.
La chiamata di Dio ha comportato per Paolo un cambiare tutto l’orientamento della vita, tutto il sistema di valori cui era legato, di cui era orgoglioso, tutto ciò che costituiva la sua sicurezza spirituale. Sulla via di Damasco ha rigettato tutto questo sistema di valori non per abbracciare un nuovo sistema di valori, ma per seguire una persona: Gesù Cristo. Paolo ha ormai un solo tesoro: Gesù Cristo morto e risorto. Prima riteneva di essere giusto davanti a Dio con l’osservanza delle leggi, dei divieti e delle prescrizioni, cioè con le proprie prestazioni. Non si accorgeva che in tal modo al centro di tutto non poneva Dio, autore e origine di ogni bene, ma se stesso. Cercava la salvezza nelle proprie forze, sicuro di possedere la verità. Sulla via di Damasco è liberato dalla convinzione e dal peso di salvarsi con le sue possibilità: la salvezza non è realizzabile  con le sue sole forze, ma unicamente grazie alla forza interiore che viene dallo Spirito.
Paolo capisce che convertirsi è prendere l’adesione a Cristo come base di tutta la propria esistenza. Per raggiungere Cristo c’è un solo mezzo: entrare nel suo mistero pasquale, condividere la sua croce, la sua sofferenza, per condividere anche la sua gloria. Paolo ha imparato a mettere il suo vero io nel Cristo. Per questo userà di frequente le espressioni « in Cristo », « Cristo, mio Signore », diventando il primo mistico cristiano. In Cristo, Paolo vive, parla, lavora, soffre, è lieto, si prodiga, è debole, è forte, ama, è fiducioso. La nuova vita dell’apostolo prende inizio con la scoperta che in ogni momento è valida l’espressione: « Sono vostro servitore per amore di Gesù » (cfr. 2Cor 4,5).
Paolo capisce che il primo modo per esercitare questo servizio sacerdotale è offrire se stesso a Dio: Dio non lo si onora pensando di placarlo con alcune pratiche aggiunte alla vita, come i digiuni o le penitenze. Dio lo si onora quando, non per placarlo, ma in ringraziamento per i suoi doni e a riconoscimento della sua bontà gli offriamo, uniti con Gesù, la nostra vita concreta, con le sue gioie, le sue difficoltà, le sue tentazioni, le sue speranze (cfr. Rm 12,1-2). Certamente questa offerta di noi stessi comporta anche le opere buone, ma esse sono buone perché fatte senza insuperbirsi, perché sono riconosciute anzitutto come opere dello Spirito in noi, opere della grazia di Cristo, risposta al dono di Dio.
Siamo sempre chiamati a scegliere fra una vita solitaria di schiavitù e una vita di libertà nello Spirito che ci permette di amare. Chi vuole fondare il proprio valore personale sui suoi meriti, sulle sue attività e decisioni, rimane solo nella sua superbia più o meno consapevole: con tutti i suoi sforzi nutre il proprio orgoglio, anche compiendo atti in apparenza generosi. Invece chi accoglie in tutto la fede in Cristo, chi aspetta dal suo Spirito la forza per andare avanti, per vivere nell’amore, compie la conversione essenziale. Fare questa conversione è una liberazione, che ci fa uscire da noi stessi e ci dà una serenità straordinaria e anche una grande gioia, perché non c’è serenità e gioia più grande che vivere continuamente nell’amore suscitato in noi dallo Spirito di Cristo.
Comprendiamo ora perché la libertà per Paolo, più che antropologica o sociologica, è eminentemente teologica o trinitaria. In quanto buona novella del Figlio di Dio entrato nel tempo per dimorarvi e per accoglierlo in sé, Paolo sperimenta che il vangelo è originariamente vangelo della libertà. La libertà che esso proclama è anzitutto quella del Dio che è così originariamente libero da sé, da essere costitutivamente dono di sé all’altro, comunione di amore delle tre Persone e loro apertura verso la realtà creata dal nulla, creata cioè unicamente per una decisione di amore libero e gratuito. Questa apertura di Dio verso il creato si manifesta nell’atto della sua continua creazione e nella storia della redenzione e ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. Comunicando la sua vita, la Trinità partecipa questa libertà divina agli uomini. L’uomo è chiamato ad essere soprattutto a immagine del Figlio diletto, ad essere icona creata del Figlio, il quale nella Trinità è accoglienza increata. Nel mistero trinitario il Figlio è l’eternamente aperto ed accogliente davanti alla sorgente purissima dell’amore e della vita che è il Padre. Il Figlio è la capacità di una libera accoglienza dell’Altro: nella libertà sta eternamente davanti al Padre e da lui si lascia amare, si lascia generare nel processo eterno dell’Amore. Per l’uomo dimorare nella libertà donata significa unirsi al Figlio, mettersi alla sua sequela ed esprimersi nell’esercizio della libertà continuamente accolta e testimoniata, per appartenere incondizionatamente a Dio. Gesù ci ha liberati nella verità, che ci fa conoscere quale è la nostra vera patria e ci dà la forza di conseguirla nella pazienza del divenire. La libertà cristiana è pertanto l’incondizionato appartenere a Dio per mezzo di Cristo nello Spirito Santo, che si traduce nell’esistenza dell’uomo, il quale da un lato è liberato dalla schiavitù del peccato e dall’angoscia prodotta dal peccato, dalla morte e dalla legge, e dall’altro è reso libero per servire gli altri nella giustizia e nella carità. L’essere affrancato in Cristo diviene sorgente di una vita vissuta nella libertà e nel coraggio dell’amore.
Concludendo, due sono i pensieri di queste splendide righe scritte da Paolo e che oggi abbiamo sentito: la libertà che ha la sua fonte nello Spirito, dono di Gesù, Signore risorto, e la continua riscoperta della propria chiamata da parte di Dio. Incontrare il Signore risorto vuol dire anzitutto essere liberati dalle paure e dai pesi insiti in ogni sistema religioso basato unicamente sulla legge. Questa libertà non è anarchia, né spontaneismo emotivo, perché ha la sua fonte nello Spirito, ma è invece venire sottratti al regime del peccato, della morte e della legge, che si alimenta di egoismo e di angoscia, per fare spazio al dinamismo dell’amore, che fa maturare il progetto dell’uomo nuovo già realizzato in Gesù glorificato. È opportuno allora domandarci: dove poniamo il nostro valore personale? Sulle nostre opere, sui nostri sforzi, o unicamente sulla persona di Gesù e sulla sua grazia? C’è sempre il pericolo che altri tesori umani ci facciano perdere di vista l’unica cosa decisiva: la nostra relazione personale con Gesù, che ci ha chiamati, ci vuole liberi, ci vuole comunicare il suo amore, ci vuole partecipi del dinamismo della sua morte e della sua risurrezione. Pretendere di meritare la grazia della fede sarebbe chiudersi al dono di Dio. La base di tutta la vita spirituale è il dono di Dio: allora la nostra vita diventa libera. La conversione essenziale consiste nel riconoscere che non siamo in grado di porre noi le basi della nostra vita spirituale, ma che dobbiamo fondare tutto sull’amore di Cristo, sulla sua grazia. Chi è nel peccato in modo vistoso, riconosce più facilmente questa sua impotenza; chi non è nel peccato in modo vistoso, è tentato dallo spirito farisaico, che consiste nel credere di essere in grado di fabbricare la propria santità, nell’avere l’ambizione di salvarsi da soli. Paolo ha denunciato con forza questa illusione dell’uomo che si crede di essere l’artefice del proprio valore davanti a Dio e davanti agli uomini.
Incontrare il Signore risorto vuol dire, in secondo luogo, ritornare alle radici della nostra vocazione battesimale e presbiterale. Meditando la vocazione di Paolo siamo invitati a ringraziare Dio per il dono fatto a Paolo: la sua vocazione è diventata sorgente di grazia per tutta la chiesa. Poi possiamo ricordare la nostra vocazione personale, la nostra vocazione battesimale e quella al ministero sacerdotale; possiamo pensare alle grazie personali ricevute, alle difficoltà superate, alla conoscenza di Gesù che abbiamo ricevuto, alle persone alle quali l’abbiamo potuto annunciare. Possiamo riferire a Dio  l’iniziativa nella nostra vita: quella battesimale e quella apostolica. Egli rifulse nei nostri cuori, ha salvato la nostra esistenza dall’ambiguità del non senso, l’ha cristificata, l’ha divinizzata per un impegno missionario, per far rifulgere Cristo nel volto di ogni uomo che incontriamo.
Chiediamo a Paolo che ci sia vicino per conoscere la libertà dal peccato, dalla morte e dalla legge che ci è stata donata nel battesimo, per conoscere la vocazione ministeriale alla quale siamo stati chiamati, in modo che la nostra vita sia un « venir trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore » (2Cor 3,18), un venir trasformati in una gloria sempre maggiore, per essere simili a Cristo grazie all’azione dello Spirito del Signore, in modo che nella nostra vita acquistiamo la luminosità di Cristo. Questa qualità della vita, questa libertà viene da Gesù, che dà se stesso per noi, viene dall’eucaristia che stiamo celebrando: in essa incontriamo il Cristo morto e risorto, da essa viene la forza permanente della libertà per ogni cristiano e per ogni presbitero.

Andalo, 12 giugno 1997                                                                    

don Lorenzo Zani

LA BIBLIOTECA DELL’APOSTOLO PAOLO

http://camcris.altervista.org/spurgeon16.html

LA BIBLIOTECA DELL’APOSTOLO PAOLO

di C. H. Spurgeon

(Sermone tratto dal sito Cristiani Evangelici, pubblicato con permesso)

« Quando verrai porta il mantello che ho lasciato a Troas presso Carpo e i libri, soprattutto le pergamene » (2 Timoteo 4:13).

    Che cosa leggeva l’apostolo Paolo? Non lo sappiamo e possiamo solo indovinare che cosa fossero queste pergamene a cui egli fa riferimento. Paolo aveva lasciato a Troade dei libri a cui teneva, forse avvolti in un mantello. Anche un apostolo deve leggere. Alcuni dei nostri fratelli in fede ritengono che un predicatore che legge dei libri e prepara attentamente il suo sermone sia un predicatore piuttosto deplorevole. Mentre un uomo che sale sul pulpito affermando di cogliere sul momento il testo biblico su cui predicherà e dice una quantità di banalità, per alcuni è il massimo… Se poi parla senza premeditazione, o afferma di farlo senza cibare il cervello di gente spiritualmente morta – allora quello è un vero predicatore!
Eppure l’apostolo Paolo è un rimprovero vivente per gente così. Egli è ispirato, e ciononostante vuole… i suoi LIBRI! Ha predicato per almeno trent’anni, e vuole ancora dei LIBRI! Ha visto il Signore e vuole ancora dei LIBRI! Ha avuto l’esperienza più vasta che si possa immaginare, e ha ancora bisogno di LIBRI! E’ stato rapito al terzo cielo, ha udito cose che non è neppure lecito ad un uomo di proferire, e vuole ancora dei LIBRI! Ha scritto la maggior parte del Nuovo Testamento, e vuole ancora dei LIBRI! L’apostolo dice a Timoteo, e a ciascuno di noi, specialmente se predicatore: « Applicati alla lettura ».
    L’uomo che non legge mai, non sarà mai letto; colui che non cita mai, non sarà mai citato. Colui che non è pronto ad usare il prodotto del cervello di altri uomini, dimostra di non avere un cervello. Fratelli, quel che è vero per i predicatori, è vero anche per tutti. Voi avete bisogno di leggere.
Rinunciate pure a tutta la letteratura leggera, ma fintanto che vi è possibile, studiate sana letteratura teologica, specialmente quella dei Puritani e le esposizioni della Bibbia. Siamo persuasi che per voi il modo migliore di passare il tempo libero sia leggere oppure pregare. Potrete acquisire molta conoscenza da libri che potrete in seguito usare come un’autentica arma al servizio del Signore. Paolo dice: « Porta i libri ». Non dovremmo noi fare altrettanto?
La nostra seconda osservazione è che l’apostolo non si vergogna di confessare di leggere. Egli scrive al suo figlio in fede Timoteo. Ora, alcuni vecchi predicatori del passato non permetterebbero mai ai giovani di scoprire i loro segreti. Si atteggiano a grande dignità e fanno mistero della loro arte di predicare, ma tutto questo è alieno dallo spirito di trasparenza che dovremmo avere. Paolo vuole i suoi libri e non si vergogna di dire a Timoteo che lui legge e Timoteo potrà andare a dire questo a Tichico, se lo vorrà, ma a Paolo non importa. Paolo qui è un autentico esempio di praticità. E’ in prigione, non può predicare, così legge. Era così per certi pescatori del passato: avevano perduto le loro barche, e allora che facevano? Rammendavano le loro reti. Così, se la provvidenza ti fa stare a letto ammalato e non puoi insegnare alla tua classe, se non puoi lavorare per Dio in pubblico, rammenda le tue reti leggendo. Se un’occupazione ti è tolta, prendine un’altra e lascia che i libri dell’Apostolo ti insegnino qualcosa almeno di pratico.

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