Archive pour la catégorie 'Paolo – approfondimenti sulla sua persona'

IL BIBLISTA ROMANO PENNA: COSÌ L’APOSTOLO «SPIEGA» LA PASSIONE SENZA AVERLA VISTA

http://www.donatocalabrese.it/jesus/dibages3.htm

CON PAOLO SUL CALVARIO DI CHI NON C’ERA

IL BIBLISTA ROMANO PENNA: COSÌ L’APOSTOLO «SPIEGA» LA PASSIONE SENZA AVERLA VISTA

(intervista al docente della Lateranense, autore di un Dizionario sul «gigante della fede», ripercorre con lui l’evento della Pasqua)

«Dietro alle parole sulla Croce come scandalo per i giudei c’è la sua esperienza: quel fatto era tutto ciò che conosceva di Gesù prima della conversione»

Francesco Ognibene

E chi sotto la croce, quel giorno, non c’era? Meditando nella basilica del Santo Sepolcro accanto alla vetta spaccata del Calvario, è impossibile non sentirsi sopraffatti da questa considerazione: io non c’ero ma, pur non avendo visto, ora sono qui, ed è come se il tempo non si fosse spostato dalle tre di quel pomeriggio. Perché è vero che non vedo scorrere il sangue e non sento i colpi che conficcano i chiodi: ma tocco con mano la fede. Il cristiano è testimone di un mistero grande come il Venerdì Santo: non ha visto ma crede, e non solo perché ha « letto » o « ascoltato ». Per muovere qualche passo dentro questo labirinto può affidarsi a san Paolo, che di questa fede è un po’ il prototipo. A guidarci è don Romano Penna, studioso della prima cristianità e professore alla Lateranense, oltre che curatore qualche mese fa dell’edizione italiana dell’imponente Dizionario di Paolo e delle sue lettere (San Paolo, 1886 pagine, 120 mila lire), che tenta di tracciare un profilo di questo gigante della fede e della teologia facendo giustizia di luoghi comuni e tesi stravaganti fioccate negli ultimi tempi.
Colpisce nelle lettere di Paolo trovare essenzialmente due soli episodi della vita di Cristo: la morte e la risurrezione. Cosa significa?
«C’è anzitutto un dato biografico. Stando alle lettere, non è possibile stabilire con certezza quanto ampia e dettagliata fosse la conoscenza che Paolo aveva della vita di Gesù. L’Apostolo non poteva conoscere i Vangeli: le lettere sono state scritte tra il 50 e il 55, il testo di Marco, il primo evangelista a scrivere, è del 70: ritengo inattendibili le datazioni più « alte » proposte sulla base di labilissimi indizi, tipo il frammento di Qumran 7Q5. Ciò premesso, è interessante notare che nelle lettere paoline la morte e la risurrezione non siano descritte ma ripensate nel loro spessore salvifico. Non c’è alcun riferimento a fatti compiuti da Gesù, ma a sue parole. Se però Paolo ha perseguitato la prima comunità cristiana è perché doveva sapere di cosa si trattava e cosa c’era dietro. Là dove dice che la croce di Cristo è « scandalo per i giudei » bisogna intravedere una citazione autobiografica: era lui a essersi scandalizzato prima della conversione. Non aveva conosciuto fisicamente Gesù, ma
sapeva bene chi era e cosa rappresentava».
Qualcuno ne ha dedotto che allora è Paolo il vero fondatore del cristianesimo…
«È una tesi infondata, chi la afferma non coglie la prospettiva paolina: i Vangeli narrano, Paolo è su un piano diverso per quanto non alternativo. Nei Vangeli ci sono i fatti ma non è altrettanto centrale la loro interpretazione in chiave salvifica. Non cadiamo nell’errore del protestantesimo liberale di fine ’800, che si è appiattito sulla vicenda storica riducendo Gesù al livello dei grandi dell’umanità, un’istanza che trasforma il Messia in un maestro da imitare, una linea solo parallela alla vita del
credente. Paolo invece gli fa intersecare l’esistenza concretissima del cristiano, annunciandolo come il Risorto».
Fu subito chiaro che dal Calvario al sepolcro vuoto c’è tutto ciò che basta al credente?
«Sì. Però quel che più conta è che non si tratta di un’intuizione di Paolo ma di un patrimonio dei cristiani delle origini. Al capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi l’Apostolo scrive: « Vi ho trasmesso anzitutto quello che ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati, e che fu sepolto, e fu risuscitato il terzo giorno ». Dunque un annuncio pre-paolino, fatto proprio e sviluppato da Paolo in modo originale ma già presente nella Chiesa primitiva. Dopo Gesù non viene subito Paolo ma la prima
comunità cristiana. Quel che Paolo approfondisce sono le conseguenze salvifiche della morte in croce».
E non è un modo per sovrapporre una dottrina agli eventi?
«Nient’affatto. Le radici paoline sono giudaiche, e in quella cultura la storicità è fondamentale. Paolo parla di un personaggio con una precisa fisionomia, non di una leggenda. E si rende conto che dal venerdì alla Pasqua si verificano i fatti culminanti, quelli che esprimono maggiormente l’atto di amore di Gesù per l’uomo. In Romani 5,8 si legge che « mentre ancora eravamo peccatori Cristo morì per noi ». È questa dimensione di dedizione totale che Paolo sottolinea, in polemica con il giudeo-cristianesimo: la figura di Cristo infatti emerge con tale forza da rendere chiaro che la salvezza si trova in lui solo, e non nella Torah».
Dal Venerdì Santo alle lettere passano poco più di vent’anni: bastano per una teologia già così compiuta?
«In mezzo c’è la genialità di Paolo. La comunità primitiva aveva fede nel dato del Cristo risorto. La confessione di fede della prima lettera ai Corinzi appare già consolidata e – guarda caso – non si perde in resoconti ma si concentra sull’essenziale: morte e risurrezione. La sintesi paolina è esemplare della fede della prima comunità, che aveva capito tutto: Gesù è morto « per i nostri peccati », e questo
è già un annuncio. Aggiungere poi che è risuscitato il terzo giorno è qualcosa di straordinario, rispetto alla grecità ma anche all’interno di Israele. Il cristiano dunque non spera in un evento generico che va atteso, ma ha la certezza di un fatto già avvenuto».

Gli evangelisti conoscevano le lettere di Paolo?
«No, e secondo me non lo conosceva neppure Luca che proprio a Paolo dedica oltre metà degli Atti. Il motivo? Le lettere erano state scritte a comunità diverse, e solo più tardi verranno raccolte in un corpus che però quando Luca scrive, alla fine degli anni 80, non esiste ancora. Tutt’al più possiamo dire che le lettere forse gli erano note ma lui non le ha volute utilizzare. Illogico? È sbagliato pretendere dagli autori antichi la nostra stessa logica compositiva».

Dalla croce quale fede nasce nel credente che « non ha visto »?
«Quella per il Gesù del quale si vive una presenza: altrimenti lo si ridurrebbe a un Buddha o a un Maometto, morti e basta. Dalla croce alla risurrezione sgorga tutto un concetto di salvezza e di comunità cristiana, perché ci si rapporta a questi eventi non per ricostruirne la memoria archeologica, ma per vivere del « Cristo attuale »: di colui che, pur essendo morto, vive».

Francesco Ognibene

PAOLO, UN « INATTUALE » PERENNE

http://www.stpauls.it/vita/0706vp/0706vp46.htm

PAOLO, UN « INATTUALE » PERENNE

di VINCENZO VITALE

Vita Pastorale n. 6 giugno 2007

Studi specialistici di ogni genere hanno affrontato la figura e l’opera dell’apostolo delle genti. L’ultimo libro è di un grande studioso di san Paolo, Jerome Murphy O’Connor, e si intitola Paolo. Un uomo inquieto, un apostolo insuperabile. L’autore, in una veste narrativa, che non rinuncia alla ricostruzione storica di ambienti e situazioni, presenta un ritratto realistico e vivo di Paolo. Proteso in avanti, ma anche vivamente inserito in precise coordinate storico-culturali.
La vicenda biografica e i temi teologici dell’apostolo Paolo sembrano appassionare gli studiosi – tanto che ogni anno escono articoli e monografie specialistiche –, ma un po’ meno i divulgatori e il grande pubblico, anche se non manca ogni tanto qualche opera del genere « giornalistico » (ad esempio Paolo di Tarso di Dreyfus). È ancora più raro che a uno studioso esperto venga l’idea di una « riscrittura » in forma narrativa di quanto ha esposto altrove in forma « accademica ». È quanto ha fatto invece Jerome Murphy O’Connor, un’autorità da decenni nel campo degli studi paolini, docente all’École Biblique di Gerusalemme, con Paolo. Un uomo inquieto, un apostolo insuperabile (San Paolo 2007, pp. 322, € 22,00).
L’autore aveva già all’attivo, infatti, un ponderoso studio, Vita di Paolo (Paideia 2003, pp. 480; titolo originale: Paul. A critical life, 1997): un’opera davvero ricca, ma anche densa e zeppa di discussioni e note faticose per un lettore medio.
L’ultimo libro ha il pregio di presentare un ritratto estremamente realistico di Paolo e della sua parabola apostolica (la personalità, vista nel vivo dell’interazione con eventi, persone, situazioni), dell’accuratezza storica nell’ambientazione, del piacere della narrazione che, con estrema naturalezza, sa inserire digressioni storiche, notizie su città e ambienti.
Vita di san Paolo(IX secolo). In alto: punta estrema della penisola iberica. Paolo progettava un viaggio fin là.
Vita di san Paolo(IX secolo). In alto: punta estrema della penisola iberica.
Paolo progettava un viaggio fin là (foto Lores Riva).

Un quadro realistico e vivo
Curiosando un po’ tra opere degli anni ’40 su Paolo, troviamo titoli eloquenti: Dux Verbi. L’apostolo delle Genti (1942) di Vincenzina Battistelli; L’Apostolo Paolo (1939), di Joseph Holzner (un classico all’epoca), il cui titolo originale (tedesco) suonava Paolo. Una vita d’eroe al servizio di Cristo (1937). Basta leggerne alcune pagine per rendersi conto della luce idealistica in cui l’apostolo è immerso, anche quando si racconta della sua vita di persecutore: «Evidentemente Saulo spirava odore di martirio; odore che inebria, consola e stordisce» (Dux Verbi, p. 16). Abbonda la terminologia militaresca: «Conquistare il mondo alla verità cristiana», «la sua salda armatura» (p. VII), «capitano designato a quelle gesta gloriose» (p. VIII). Un personaggio così tutto d’un pezzo lo si ammirerà forse, ma difficilmente ci si può identificare o simpatizzare.
È proprio su questo terreno che a Murphy O’Connor riesce uno dei tratti migliori del suo libro: presentarci un Paolo umanamente vivo, uomo coraggioso senz’altro, ma pure animato da sentimenti ed emozioni di grande impatto anche sul tono e la qualità della sua comunicazione (Prefazione, pp. 8-9). L’autore evidenzia più volte il temperamento forte dell’apostolo, con i limiti umani che questo comporta: esemplare è il caso della corrispondenza con la comunità di Corinto (pp. 201-206), in cui Paolo arriva a dare risposte sferzanti fino al sarcasmo (cf 1Cor 3,3-4 e 4,7), finendo per avere un impatto disastroso sulla comunità: e Paolo deve faticare non poco per « riconquistarsi » la comunità offesa (cf seconda Lettera ai Corinzi, dove con un accorto uso della retorica può attaccare gli avversari senza colpo ferire, pp. 220-229).
Altrove ci mostra un Paolo possessivo verso le comunità che ha fondato e non si fa scrupoli ad attaccare chi non è d’accordo con lui (così con i Galati, p. 82; con i Corinzi riguardo ad Apollo, sentito come possibile rivale, p. 157); un Paolo che non riesce a mettersi nel punto di vista di altri, oggi diremmo poco empatico (p. 140); un Paolo addirittura manipolatore (p. 188).
Questi tratti sono ben lontani dallo « sfigurare » l’apostolo: anzi, su di essi risaltano le qualità positive: il non avere mezze misure (prima della conversione come dopo), la capacità di andare al cuore delle questioni, come nel caso delle comunità cristiane miste, cioè con fedeli provenienti sia dal giudaismo che dai « gentili ». Quello che ne esce è una figura umanamente credibile, in cui si vede quasi tangibilmente come il tesoro della grazia di Dio sia racchiuso in vasi di creta e la forza si manifesta nella debolezza (cf 2Cor 4,7; 12,9).
Insomma: un uomo vivo, « in carne ed ossa », come ha scritto Ravasi su Il Sole 24 Ore. Osserva l’autore che «egli [Paolo] era tutta un’altra cosa dal pensatore impassibile che la maggior parte degli studiosi ha fatto di lui» (p. 10). E questo proprio perché poco o nulla è stata presa in considerazione la sua componente emozionale, accanto alla sua intelligenza.

Lo sfondo storico
Un altro pregio del libro è la straordinaria vividezza con cui l’attività di Paolo è inserita nel mondo di allora. L’autore ci fa sfilare davanti, con il loro brulichio umano, i grandi centri dell’epoca, che furono il campo di azione di Paolo: Tarso, Damasco, Gerusalemme, Filippi, Corinto, Tessalonica, fino a Roma. Da eccezionale conoscitore delle fonti antiche, vediamo con estremo realismo i pericoli di cui Paolo parla (cf 2Cor 11,26-27): apprendiamo così dettagli sui viaggi via mare e via terra, sulla vita e i problemi delle grandi città.
Straordinario lo squarcio su Corinto (pp. 104-123, cf di Murphy O’Connor lo studio sui testi e l’archeologia di Corinto: St. Paul’s Corinth: texts and archaeology): una città opulenta, ma in cui era forte il senso dell’assurdità della vita, della sproporzione tra sforzo e risultati, come testimonia la popolarità del mito di Sisifo nella città: dunque un’epoca d’ansia, in cui «il carattere arbitrario della riuscita generava un mondo interiore abitato dal timore e dall’incertezza [...] c’era un vuoto di pessimismo che andava colmato con la buona novella del Vangelo» (p. 108-109). Il Vangelo attecchì a Corinto con straordinaria velocità e ciò non per l’oratoria di Paolo (egli stesso lo esclude: cf 1Cor 2,1-4), ma perché col suo paradosso di un Salvatore crocifisso ebbe «una risonanza nelle vite di Corinzi preminenti dando loro un senso» (p. 112). Viene spontaneo un parallelo con le città del mondo odierno; non a caso Pasolini, in quella sceneggiatura di un film su san Paolo che non ebbe mai modo di portare a compimento, aveva voluto ambientare la sua vicenda nelle grandi città del Novecento: Parigi, Roma, New York.

Molto interessante è la ricostruzione storica di Murphy O’Connor sul lavoro di Paolo: Paolo veniva, egli sostiene, da una classe sociale relativamente agiata (p. 16), ma a un certo punto dopo la conversione scelse di fare il fabbricatore di tende (At 18,3). Perché, viene da chiedersi? Perché era un mestiere che gli permetteva di lavorare ovunque, anche spostandosi da una città all’altra, e di venire in contatto con tutte le fasce della popolazione (pp. 46-47): dunque costituiva anche un’occasione preziosa, conversando, per contatti iniziali in vista dell’annuncio del Vangelo (p. 110). Un lavoro dunque che corrisponde a una strategia missionaria di Paolo, la cui coscienza è « dominata » dall’imperativo di estendere la buona notizia del Vangelo ai « gentili » (i non ebrei), come aveva compreso dal suo incontro con il Risorto (p. 41).
Il quadro storico consente inoltre di inquadrare a grandi linee le lettere di Paolo, che l’autore presenta nella loro genesi e partendo dai rapporti instaurati tra l’apostolo e la sua comunità: un vantaggio che permette di rileggere tante espressioni delle lettere su basi estremamente concrete e, talvolta, più semplici di quello che si crede. Si capisce anche meglio perché Paolo spesso ricorra agli strumenti della retorica: vuole persuadere i suoi destinatari, dopo aver constatato l’impatto disastroso dell’attacco frontale sulla comunità con la prima Lettera ai Corinzi.
Interessante è l’ipotesi molto personale di Murphy O’Connor sull’origine del concetto di « Peccato » (maiuscolo dell’autore, ndr) in Paolo: in un mondo pieno di pericoli (cf 2Cor 11,26), l’insidia più forte è la preoccupazione per la propria sopravvivenza , per il proprio « io », che « porta » come per forza all’egocentrismo (pp. 70-75): uno stile di vita che è l’esatto contrario del Vangelo, di quell’«esistere completamente rivolto verso gli altri» (p. 71) che è l’ideale di Paolo da quando ha trovato il senso dell’umano esistere nella morte liberamente scelta da un Messia che finisce crocifisso (pp. 55-56). Questo contribuisce, secondo l’autore, alla comprensione di quell’impressionante affresco che Paolo fa dell’io alienato perché costretto a essere altro da quello che in realtà desidera essere (Rm 7).
Sono solo alcuni esempi, tra i tanti, di come una lettura autenticamente storica possa contribuire alla comprensione del messaggio e anche della spiritualità di Paolo.
Copertine di alcuni libri dedicati all’apostolo Paolo per una bibliografia essenziale.
Copertine di alcuni libri dedicati all’apostolo Paolo per una bibliografia essenziale.

Un pastore dalle mille risorse
Un aspetto che emerge dal libro con vivacità è il rapporto tra Paolo e le sue comunità: il « pastore » Paolo, con le sue immense risorse quanto a capacità di fondare comunità, con il suo apprendistato (impara dagli errori commessi e sa cambiare toni quando necessario: p. 222), ma anche con le sue ombre quanto al carattere, soprattutto quando sente messa in discussione la sua autorità.
Emerge con forza anche la capacità dell’apostolo di cogliere con molta lungimiranza il cuore di un problema che agita la comunità e di sapervi dare risposte appropriate. È il caso, ad esempio, del problema della comunione di mensa tra i cristiani provenienti dal giudaismo e quelli dai « gentili »: un problema che ad Antiochia, prima del famoso incidente con Pietro, veniva risolto, probabilmente, con la fiducia reciproca, ma anche in una separazione di fatto tra le due componenti; fu proprio Paolo a comprendere nella sua essenza il problema: accettare la legge in quel caso significava mettere a repentaglio la comunità e la sua unità e porre un principio di salvezza al di fuori della fede in Cristo (pp. 60-64). Si capisce da qui anche l’oscillazione, o se vogliamo l’evoluzione, delle valutazioni di Paolo sulla legge.
Un bell’esempio della sua capacità pastorale è la genesi della prima Lettera ai Tessalonicesi (pp. 116-118): nella comunità, che attenendosi alla sua predicazione attende a breve il ritorno di Cristo nella gloria, alcuni sono morti; qual è la loro sorte? La stessa convinzione dell’imminente ritorno di Cristo è all’origine della scelta di alcuni di vivere da sfaccendati. Queste due problematiche sollecitano Paolo a risposte chiare e precise.
Emerge con forza anche la capacità « strategica » di Paolo nel fondare le comunità in grandi centri urbani, crocevia cosmopoliti: con le persone qui convertite, Paolo si garantisce un intero territorio, così da potersi spingere più lontano. Fonda le comunità, ma poi le lascia e le affida a responsabili, con cui mantiene i contatti per avere notizie: sa scegliersi le persone e sa delegare (p. 161). Emerge il suo ideale di Chiesa, dove conta la capacità della comunità di irradiare il Vangelo con la parola e lo stile di vita, come riconosce ai Tessalonicesi (1,7-8). Nelle comunità Paolo non si impone mai con la costrizione del comando: «Sulle questioni morali fondamentali Paolo è disposto solo a dare consigli» (p. 148), perché per lui il bene supremo è la libertà della decisione, che deve essere spontanea. È il corrispettivo del suo atteggiamento antinomico (= contro la legge): «Egli non era disposto a obbedire ad alcuna legge, e non pretendeva che i suoi convertiti si sottomettessero ad alcun precetto. [...] Di conseguenza era fortemente limitato nella guida della comunità. Poteva indicare quello che si attendeva dai suoi membri; poteva cercare di persuaderli a modificare il loro comportamento; poteva proporsi come esempio (1Corinzi 8,13 e 11,1). Ma questo era tutto! [...] L’esperienza fatta ad Antiochia aveva insegnato a Paolo che operare mediante precetti costrittivi avrebbe inevitabilmente ricondotto sia lui, sia i suoi convertiti nell’orbita della legge» (pp. 149-150). L’unica legge che Paolo conosce e predica è la « legge di Cristo » (Gal 6,2), cioè l’amore: «La volontà di Dio è ormai incarnata nei comportamenti di Cristo, che esemplifica insieme la domanda fatta all’umanità e la risposta a cui essa è chiamata» (p. 146).

Qualche testo di riferimento
Concludiamo rimandando ad alcuni testi, scelti per brevità e autorevolezza, per avere una specie di « mappa di orientamento » nel mondo concettuale paolino. È utile infatti leggere Paolo avendo una specie di « fondale »: questo permetterà poi di collocare meglio i temi particolari. Un testo di lettura lineare ma di solido fondamento è Introduzione alla lettura di Paolo (Borla 2006, pp. 288, H 25,00) di Rinaldo Fabris e Stefano Romanello, con una trattazione sia della biografia che delle lettere e l’originale proposta, per ogni capitolo, di un « laboratorio », ossia di « esercizi » su passi delle lettere di Paolo.
Un libretto agile e di lettura piana, ma frutto anche di una grande conoscenza storica, è quello di Étienne Trocmé: San Paolo (Queriniana 2005, pp. 136, € 10,50): l’autore mette spesso a confronto le lettere di Paolo con la narrazione degli Atti, letta criticamente. Mette molto bene in luce come Paolo fu tutt’altro che compreso dai suoi contemporanei, che dovettero vedere in lui un «pericoloso avventuriero, le cui imprudenze compromettevano il Vangelo», tanto che «furono rari tra i suoi contemporanei della prima generazione cristiana quelli che seppero riconoscere in lui il pensatore più vigoroso della religione di Cristo e il precursore più audace della futura organizzazione della Chiesa» (p. 94).
Frutto di anni di ricerche di uno studioso che ha dato una svolta mettendo gli scritti di Paolo sullo sfondo del giudaismo della sua epoca e recuperandone così la fondamentale « ebraicità » è il San Paolo di E. P. Sanders (Il Melangolo 1997, pp. 144, € 11,36). Egli dà spazio soprattutto alla ricostruzione delle costellazioni concettuali fondamentali per capire Paolo: vi sono affrontati in sostanza i grandi temi teologici. Un lavoro breve, ma denso e istruttivo nel far vedere le cose sotto una « prospettiva nuova » che da allora si è affermata.
Infine segnaliamo, di Klaus Berger, L’apostolo Paolo (Donzelli 2003, pp. 154, € 19,00); creativo e imprevedibile come sempre, anch’egli attento a mettere in luce le radici ebraiche di Paolo (distinte da quelle farisaiche, che egli ritiene Paolo abbia in larga misura conservato e riletto alla luce della fede in Cristo: pp. 35-37) e il suo essere un outsider nel cristianesimo primitivo (pp. 39-46); una lettura più spirituale, sui riflessi concreti per una vita cristiana, quella di Ugo Vanni, L’ebbrezza nello spirito. Una proposta di spiritualità paolina (Adp 2000, pp. 238, € 10,00), e una lettura di taglio psicologico quella di Annamaria Verdi Vighetti: La conversione del cuore in San Paolo. Aspetti psicologici: una nuova chiave di lettura su Paolo di Tarso (Edizioni Appunti di Viaggio 2000, pp. 160, € 12,39).

Vincenzo Vitale

OBBEDIENZA E FOLLIA: PAOLO SERVO DI CRISTO, APOSTOLO PER VOCAZIONE – (1999)

http://www.meetingrimini.org/detail.asp?c=1&p=6&id=586&key=3&pfix=

OBBEDIENZA E FOLLIA: PAOLO SERVO DI CRISTO, APOSTOLO PER VOCAZIONE – (1999)

Presentazione della mostra (non trovo la mostra)

Relatori:

Gianluca Attanasio,
in rappresentanza di Mons. Massimo Camisasca,
Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari
San Carlo Borromeo di Roma

Paolo Prosperi,
Fraternità Sacerdotale dei Missionari San Carlo Borromeo
di Roma

Marco Bona Castellotti,
Docente di Storia dell’Arte presso l’Università degli Studi di Brescia

Attanasio: Monsignor Massimo Camisasca – impossibilitato ad essere qui di persona – mi ha incaricato di leggere il seguente testo, scritto per questa presentazione.

In uno dei suoi ultimi anni di vita, il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, Paolo IV che del convertito di Tarso aveva voluto prendere il nome, rivelò all’angelus che ogni tanto andava a leggersi le pagine del Vangelo che raccontano di san Pietro, per trovare nelle debolezze del principe degli apostoli conforto alle proprie. È così anche per me, e posso fare senza arrossire riferimento a quelle immani figure perché penso che così possa e debba essere per ogni cristiano. Ci sono delle sere in cui il peso delle cose fatte o non fatte, in cui tra tristezza del male proprio o altrui, in cui la complessità della responsabilità sembra schiattarci e impedirci di dormire; preferiamo allora nella notte una luce, una spiegazione, un conforto. Io spesso prendo le lettere di san Paolo, dove trovo meravigliosamente espresse le infinite sfumature dell’animo umano suscitate dalle infinite circostanze della vita. Lo scopo di questa mia riflessione non è fare l’indice di un trattato di psicologia – benché a tal riguardo le lettere di Paolo aprano al lettore attento e interessato la rivelazione di un animo a cui non è mancata nessuna corda espressiva, comprese le più estreme –, vorrei invece soffermarmi su un’altra questione di gran lunga più importante per me: chi è l’uomo preso da Dio? che cosa accade in lui ad ogni livello del suo essere a causa di questa prigionia? che ne è della sua libertà e della creatività e dei limiti, dei peccati, delle smagliature del proprio essere? Tutto è cancellato, si è sopra-vestiti senza che ce ne accorgiamo, oppure tutto rimane come prima illudendoci come visionari che qualcosa in noi sia mutato?

Innanzitutto dunque: chi è l’uomo preso da Cristo?
Anche Paolo si è definito prigioniero di Cristo, ma nell’esperienza della prigionia fisica, vissuta prima in Oriente e dopo a Roma, ha scoperto la differenza tra le due situazioni, tra la semplice prigionia fisica e la prigionia per Cristo. Il prigioniero di Cristo ha accettato tale condizione perché propriamente convinto che sia la strada per la sua libertà, l’unica strada possibile: infatti è l’abbandono ad un altro che ci conosce più di noi stessi. Quando Paolo vicino a Damasco senti quella voce chiamarlo « Saulo », percepì di essere scoperto e scrutato da Uno che sapeva di lui più di quanto lui stesso ne sapesse. « Intimior », intimo mio, dirà sant’Agostino; sia lui che san Paolo hanno in mente il salmo: « Tu mi scruti e mi conosci perché sei Colui che mi ha tessuto nel seno di mia madre, ricamato nelle profondità della terra ».
La prigionia di Gesù non è un atto di annientamento dell’io neppure nelle più grandi esperienze mistiche, come quelle di alcuni santi spagnoli dove tutto sembra, per amore dell’assolutezza che contraddistingue quel popolo, essere piegato al volere di un altro: « moro porché non moro ». Rimane paradigmatica l’esperienza di Gesù, l’umanità è unita alla divinità senza che l’una oscuri o sacrifichi l’altra. Quello che i mistici chiamano annientamento è l’espressione letteraria di un amore assoluto. Ogni amore brama l’identità dell’amante con l’amato (« amada e nell’amado trasformata », diceva san Giovanni della Croce). Ma anche tale ardente desiderio è l’ambito di una passione, non la morte dell’io. La tua volontà sia fatta ma attraverso le condizioni storiche, materiali, psicologiche, temperamentali della mia. Il mio io non viene cancellato ma riceve in tutte le sue fibre, in tutte le sue stratificazioni una nuova finalizzazione.
Per questo i grandi santi sono stati sempre grandi uomini: Paolo, Benedetto, Basilio, Ambrogio, Agostino, Francesco, Domenico, Ignazio, Giovanni della Croce, Teresa d’Avila, Caterina da Siena, Vincenzo de Paoli, Camillo de Lellis, Teresa di Calcutta… Ciascuno di loro potrebbe essere per la sua vita umanamente affascinante, e costituire il tema di più romanzi, di molti film, senza dovere inventare nulla. Per questo Gesù quando vuole fare qualcosa di grande che segni epoche intere sceglie uomini e donne che avrebbero potuto guidare Stati, immense imprese di bene o di male; ci sono, è vero, anche piccoli santi con piccoli carismi, che avranno un grande peso per la santità di molti, ma che non hanno potuto portare al regno di Dio sulla Terra quella svolta oggettiva che le grandi personalità hanno realizzato. La dimensione di una personalità non dipende dai chilometri percorsi come sarà per san Paolo, dalle parole dette come sarà per Agostino, dalle opere create come sarà per Vincenzo, Camillo, Teresa di Calcutta, dipende interamente dal modo con cui ha percepito l’umanità propria dentro l’abbraccio di Cristo; così è stato per Teresa di Lisieux, che, nell’ultimo secolo di questo millennio, ha portato tutta l’essenza umana alla semplificazione assoluta del dialogo tra una bambina e il suo creatore.
« Se non ti imprigiono non sarai mai libero », sembra dire Gesù a questi grandi uomini e donne che ho citato. La libertà si manifesta così come l’esperienza di una progressiva liberazione, come liberazione dalle catene della legge per arrendersi a Colui che si è fatto annientare perché noi potessimo essere liberi. È il cuore dell’esperienza personale di Paolo quello che lui chiama con ardimento spropositato « il mio Vangelo ». Questa liberazione totale come il dono germinale che è dentro di noi, è progressiva, e talvolta procede in modo spasmodicamente lento come esperienza: da qui la contraddizione che ogni uomo segnato da Cristo vive quotidianamente sulla sua pelle, ed è proprio qui nel punto di una possibile crepa nella vicenda di ciascuno che si manifesta la forza totalizzante della fede di Paolo e della sua stessa sintesi. Lo stesso sarà per Agostino, che preferirà correre il rischio del predestinazionismo piuttosto che cancellare l’ »etiam peccata », piuttosto che escludere i peccati dal piano di Dio. Così sono nate quello lunghe autobiografiche elencazioni di prove subite da Paolo, e raccontate a più riprese nelle lettere da differenti angolature: colpiti ma non uccisi, in tutte le prove siamo super vincitori perché nulla ci separerà dall’atto con cui Cristo ci ama. E non solo la prova ha un senso, ma anche la debolezza, la sconfitta. Paolo inventa qui una frase che resta nella storia di tutti i tempi: « Poiché la tua potenza si manifesta nella mia debolezza, è quando sono debole che sono forte ». Nulla dunque è magicamente cancellato, nulla censurato ma tutto assume un nuovo peso e una luce nuova, anche il peccato.
Così la realtà personale di colui che è segregato da Cristo per una missione, vive una letizia piena di vigilanza, e il segregato è lieto perché conosce l’irreversibilità di ciò che è accaduto, ma è anche saggiamente nel timore perché non conosce dove la misura, che non può essere misurata da lui, lo porterà, a quali esperienze del limite lo sottoporrà. « Sovrabbondo di gioia nelle mie tribolazioni »: è questa forse l’espressione più sconvolgente dell’equilibrio cristiano, il punto più alto dell’esperienza dell’uomo nuovo che Paolo ha illustrato con la sua vita e i suoi scritti. « Le sue fatiche – ha scritto Rossano – sono state paragonabili solo a quelle di Alessandro Magno e di Giulio Cesare, le sue lettere per la bellezza della lingua all’Apologia di Socrate e di Platone o al discorso per la corona di Demostene, ma esse aprono all’uomo prospettive che né Platone, né Demostene potevano immaginare ».
Prosperi: In questa mostra abbiamo anzitutto voluto porre una sfida, una sfida a noi stessi: la sfida di riuscire a cogliere e a fare emergere dai testi che Paolo ha lasciato una persona viva, una persona presente, un’esistenza reale. Per questo, la mostra è tutta costruita su citazioni (accompagnate da commenti) tratte o dalle lettere di san Paolo o dagli Atti degli apostoli, che sono le testimonianze dirette su san Paolo che noi abbiamo. La scelta delle citazioni non è stata generica, bensì precisa e puntuale: abbiamo cercato di soffermarci di più, di trattenerci di più sui passi da cui emergeva più direttamente la sua persona, la sua intimità, il suo temperamento, un temperamento molto complesso, sfaccettato capace degli accenti più estremi.
Questa è stata la scommessa della mostra; in questo senso si capisce anche il significato del logo, dell’immagine guida della mostra. Si tratta di un particolare di un quadro del Greco, Entierro del conde d’Orgaz, una delle pochissime rappresentazioni non stilizzate di san Paolo, raffigurato con gli occhi sgranati, sbigottiti, che fissa Cristo; Cristo però non si vede, è come fuori campo. Abbiamo scelto questo quadro perché si tratta di un uomo vivo, un uomo come noi, a cui accade qualcosa di completamente spiazzante e imprevedibile che gli capovolgerà letteralmente la vita.
Il titolo della mostra può sembrare sibillino e strano, dato che accosta due concetti che sembrano contraddittori, obbedienza e follia; eppure forse queste due parole insieme alle due citate prima, prigionia e libertà definiscono esaurientemente la personalità drammatica e sempre in lotta di quest’uomo. Per questo la parola obbedienza è forse quella che si adatta meglio per definire il rapporto personale, così come è sentito da Paolo, nei confronti di Cristo. Cristo è sempre il Signore per Paolo: quando si legge Paolo sarebbe bello andare al significato originale che hanno le parole per lui. Signore significa padrone, kurios in greco, e per Paolo Cristo è padrone innanzitutto a partire dall’esperienza della sua vita, di quello che gli è successo.
La prima sezione della mostra, che si intitola « Sulla via di Damasco », riguarda appunto l’avvenimento della conversione. Paolo sta andando a Damasco per stanare i cristiani che sta perseguitando e viene improvvisamente sbalzato da cavallo da Cristo, che gli appare; quando racconta questo fatto è significativo che Paolo usi proprio questi termini, « sono stato sconfitto, conquistato da Cristo »: è come una guerra in atto, e questa è la percezione che Paolo avrà sempre di ciò che gli è accaduto e di ciò che significa il fatto cristiano. Nessuno come lui o pochi come lui avevano addirittura odiato Cristo, perché Cristo per un fariseo convinto, radicale come lui, era lo scandalo, la contraddizione più grande che ci potesse essere all’idea di Messia, l’idea del Messia re, trionfatore, Messia conquistatore. Infatti Paolo dirà « scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani ». Eppure proprio lui viene scelto, in un certo senso si più dire che Cristo sembra fare un’eccezione nel suo caso; lui stesso dirà nella prima ai Corinzi « non sono nemmeno degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Cristo ». Cristo entra nella sua vita quasi con violenza, senza preavviso; Paolo dirà « infine è apparso anche a me come a un aborto », dove con la parola « aborto » vuole proprio indicare che è come se fosse stato strappato prematuramente, senza preavviso, rispetto agli altri apostoli che hanno vissuto tre anni con Gesù, che sono stati preparati, mentre invece per Paolo l’incontro è qualcosa di completamente sconvolgente, in un certo senso irripetibile.
Ma proprio qui sta il grande paradosso che è al centro dell’esperienza di Paolo e che accende in lui una gratitudine sterminata: tutte le volte che Paolo racconta della sua conversione sembra quasi incredulo di fronte alla predilezione che Cristo ha avuto per lui, totalmente immeritata. Per questo abbiamo scelto proprio il quadro del Greco come logo della mostra, perché Paolo ha la bocca spalancata e gli occhi spalancati come di fronte a qualcosa di inconcepibile, come se avesse subito un urto; ma questa apparente violenza è il segno di una misericordia inimmaginabile. Il primo dei peccatori scelto per il compito più vasto e più grande tra tutti gli apostoli. Questo sarà il cuore bruciante dell’esperienza di Paolo, e arriverà a determinare anche il suo modo di guardare e di sentire l’evento di Cristo. Infatti la parola che meglio descrive la percezione dell’avvenimento cristiano di Paolo e proprio la parola « caris », che in greco significa grazia. La grazia per Paolo è proprio questo darsi totale di Cristo. Le prime due sezioni, che fanno un blocco unico nella mostra, testimoniano questo, attraverso i contrasti tipici di Paolo: la personalità di Paolo non viene annullata ma viene trapassata dalla presenza di Cristo.
La seconda parte riguarda invece l’esito, il frutto di questa elezione. L’elezione è sempre per il compito, e quanto più esclusiva, come nel caso irripetibile di Paolo, tanto più è per il mondo, tanto più è per tutti, come lui stesso dirà in un modo lapidario: « mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare ad ogni costo qualcuno ». Di qui i due caratteri che abbiamo voluto più mettere in evidenza: anzitutto un’apertura a 360 gradi, indomabile verso ogni tipo di cultura, tale che, storicamente, se non ci fosse stato Paolo, il Vangelo alle Genti – ai pagani – non sarebbe arrivato con l’immediatezza e la forza con cui è arrivato. Paolo era cittadino romano e sapeva il greco benissimo: aveva tutti i requisiti, tutte le conoscenze culturali e anche l’apertura mentale, essendo cresciuto a Tarso, città cosmopolita, per incontrare ogni tipo di persona. L’altro aspetto è il fortissimo e particolarissimo senso della comunità e dell’amicizia che ha Paolo, tanto che l’immagine da lui spesso usata è quella della paternità e della maternità.
Gli ultimi due pannelli, che sembrano a parte rispetto alla mostra, in realtà ne sintetizzano il significato. Il penultimo si intitola « Cristo mio tutto »: qui abbiamo voluto riassumere il fatto che al centro di questa personalità così esplosiva, così varia e anche così contraddittoria nelle sue manifestazioni, ci sia un amore personale per quell’uomo che lo ha scaraventato giù da cavallo. In quest’ottica concreta, esistenziale, va letto il famoso brano del dilemma di San Paolo: « Siccome per me vivere è Cristo, morire è un guadagno, se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto non so davvero cosa scegliere, sono messo alle strette tra queste due cose, da una parte il desiderio di essere sciolto per essere con Cristo il che sarebbe assai meglio, d’altra parte è più necessario per voi che io rimanga nella carne, per conto mio sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti per il progresso e la gioia della vostra fede ». Quindi è tale l’amore per Cristo che Paolo vorrebbe morire per star sempre con lui. L’ultimo paradosso e proprio questo, se restare significa spendersi per Lui, spendersi come Lui per gli uomini, allora restare è la possibilità più grande.
L’ultimo pannello è una citazione di una frase che Giussani ha detto alla Fraternità San Carlo, citazione che abbiamo voluto mettere a chiusura della mostra perché dice lo spirito e l’intento con cui abbiamo fatto questa mostra: « Strappiamo via la missione, cosa resterebbe di noi? Non resterebbe niente, nel senso che quello siamo non ci sarebbe più, perché l’uomo è la sa vocazione ». La mostra è una provocazione alla nostra persona: guardare Paolo per noi è guardare forse l’esempio più grandioso ed emblematico nella storia del cristianesimo di quello a cui siamo chiamati, di quello a cui ognuno di noi è chiamato, a cui ogni cristiano è chiamato.
Bona Castellotti: Allestendo la mostra su san Paolo, ci siamo accorti di non poter giocare sull’iconografia, perché è un’iconografia molto fissa: infatti, a partire dal III secolo, san Paolo ha un volto molto preciso che è quello del filosofo Plotino, volto che viene preso a prestito e messo a disposizione di questa immagine cristiana e rimane costante. È un volto piuttosto scavato, allungato, con una barba piuttosto fluente e a pizzo, i peli piuttosto radi.
Il percorso della mostra ha dei significati simbolici elementari che sono quelli che scandiscono il percorso anche concettualmente, di per sé molto semplice: il pregio essenziale di questa mostra è quello di aver mantenuto un certo rigore di forme. È quel tipo di linearità, di classicità, di forme, che consente una lettura molto semplice della realtà che si ha di fronte.

SAN PAOLO: L’UNITÀ INTERIORE, SEGRETO DI SANTITÀ E FECONDITÀ APOSTOLICA (Alberione)

http://www.zenit.org/it/articles/san-paolo-l-unita-interiore-segreto-di-santita-e-fecondita-apostolica

SAN PAOLO: L’UNITÀ INTERIORE, SEGRETO DI SANTITÀ E FECONDITÀ APOSTOLICA

IL BEATO GIACOMO ALBERIONE, INTERPRETE ATTUALE DELL’APOSTOLO DELLE GENTI

04 Luglio 2012

di padre José Antonio Pérez, ssp

ROMA, mercoledì, 4 luglio 2012 (ZENIT.org).- Una persona si realizza nella misura in cui ha un principio interiore che si rivela in tutto il suo modo di essere, donandogli una fisionomia inconfon­dibile e un’unità d’azione. Nel credente, l’unità inte­riore dipende da un principio dinamico ricevuto da Dio stesso, vissuto in tutta la sua esigenza e portato alle ultime conseguenze. Tutto ciò che egli realizza, porterà il sigillo della sorgente profonda da cui pro­viene.
Coscienza e affermazione dell’unità personale
La scoperta dell’apostolo Paolo da parte del beato Giacomo Alberione risale al primo contatto con gli studi teologici. San Paolo sapeva che in Gesù Cristo abita corporalmente la pienezza della divini­tà e che tutto abbiamo pienamente in lui (cf. Col 2,9-10); di conseguenza, non si può servire Gesù Cristo se non con una risposta di grande «pie­nezza» e sforzandosi perché tutti acquistino la piena intelligenza del mistero di Dio, che è Cristo (cf. Col 2,2-3); e in questo ministero impegnò tutte le risorse personali di natura e di grazia (cf. Col 1,28-29). Tutto questo colpì profondamente l’animo delgiovane ed inquieto Alberione.
«L’ammirazione e la devozione – scriveva nel 1954 – cominciarono specialmente dallo studio e dalla meditazione della Lettera ai Romani. Da allora la personalità, la santità, il cuore, l’intimità con Gesù, la sua opera nella dogmatica e nella morale, l’impronta lasciata nell’organizzazione della Chiesa, il suo zelo per tutti i popoli, furono soggetti di meditazione. Egli parve veramente l’Apostolo: dunque ogni apostolo ed ogni apostolato potevano prendere da lui». Da allora la conoscenza andò sviluppandosi e divenne «devozione», con tutta la carica che questa parola comporta: conoscenza sempre più approfondita, amore e volontà di identificazione, confronto continuo sul piano del pensare e dell’agire, decisione di far conoscere, amare, seguire e imitare l’Apostolo.
Questa «devozione» andò intensificandosi quando la figura dell’Apostolo fu associata alla nuova forma di apostolato che il giovane Alberione avviava con le sue fondazioni. «Tutte le anime che presero gusto agli scritti di San Paolo, divennero anime robuste», affermava. Ed esortava: «Preghiamo san Paolo che formi anche noi persone di carattere, che non si scoraggiano…, che sanno dare un valore giusto alle cose. Gente pratica che sa giocare il “tutto per tutto”, cioè dando tutto a Dio per riceve in cambio Dio stesso. E questo avviene quando vi è un grande amore, la convinzione che aveva san Paolo da farlo esclamare: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”».

L’unità in Gesù Cristo, ricevuto da san Paolo
Per garantire l’unità di ispi­razione e di azione, Don Alberione si riporta sempre al punto essenziale, e così lo offre alla sua Famiglia: «L’unio­ne di spirito: questa è la parte sostanziale… vivere nel Divin Mae­stro in quanto egli è via, verità e vita; viverlo come lo ha compreso ilsuo discepolo san Paolo. Questo spirito forma l’anima della Famiglia Paolina, nonostante che i membri sia­no diversi ed operanti variamente… “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”», diceva nel 1960.
L’unità si trova dunque in Gesù Cristo, ricevuto da san Paolo. Per dono di Dio, don Alberione ha sentito a fondo la Parola rivela­ta circa la pienezza apostolica di san Paolo ed è stato mosso dallo Spiri­to all’impegno di riprodurlo, oggi, nella totalità del suo carisma aposto­lico. È questa la sorgente e l’unità profonda della Famiglia Paolina. È di qui che emanano le differenti fisionomie dei dieci gruppi che la costitui­scono.
Afferma don Silvio Sassi, Superiore generale della Società San Paolo, nella sua lettera annuale, “Ravviva il dono che hai ricevuto”, che per essere fedeli oggi in modo creativo a Don Alberione, occorre interpretare san Paolo per le urgenze della nuova evangelizzazione del nostro tempo: una profonda esperienza di Cristo, che si trasforma in fede missionaria nella comunicazione attuale, in contemplazione nella liturgia, in laboriosità nella pastorale parrocchiale, nel suscitare vocazioni, nel vivere lo stato di vita laicale in stile paolino e nella cooperazione alle opere di bene paoline. Sono questi, appunto, i vari raggruppamenti che debbo­no trovare in san Paolo il loro vincolo di unità e il loro dinamismo contemplativo-attivo verso Dio e verso gli uomini.

Unità, santità e fecondità apostolica
Il beato Giacomo Alberione considera san Paolo non solo padre e ispiratore, ma addirittura «fondatore», «forma» sulla quale la Famiglia Paolina deve riprodurre Gesù Cristo per essere «san Paolo vivo oggi»: «Gesù Cristo è il perfetto originale. Paolo fu fatto e si fece per noi forma: onde in lui veniamo forgiati, per riprodurre Gesù Cristo. San Paolo è forma non per una riproduzione fisica di sembianze corporali, ma per comunicare al massimo la sua personalità… tutto. La Famiglia Paolina, composta da molti membri, sia Paolo-vivente in un corpo sociale».
Il motivo dell’elezione di san Paolo è stata la sintesi che l’Apostolo ha saputo realizzare in se stesso di tutte le dimensioni della sua personalità:
Santità e apostolato: «Si voleva un santo che eccellesse in santità e nello stesso tempo fosse esempio di apostolato. San Paolo ha unito in se la santità e l’apostolato».
Amore a Dio e amore alle anime: «Se san Paolo oggi vivesse… adempirebbe i due grandi precetti come ha saputo adempierli: amare Iddio con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutta la mente; e amare il prossimo senza nulla risparmiarsi».
Attività e preghiera: «Sovente si dà risalto all’attività di san Paolo; ma prima bisogna mettere in risalto la sua pietà».
Il segreto: la vita interiore: «Perché san Paolo è così grande? Perché compì tante opere meravigliose? Perché anno per anno la sua dottrina, il suo apostolato, la sua missione nella Chiesa di Gesù Cristo vengono sempre più conosciuti, ammirati e celebrati?… Il perché va ricercato nella sua vita interiore. È qui il segreto», affermava il Fondatore.
E concludeva costatando come la santità consiste appunto nella sintesi dello sviluppo armonico di tutte le dimensioni umane: «Per san Paolo la santità è la maturità piena dell’uomo, l’uomo perfetto. Il santo non si involve, ma si svolge… La santità è vita, movimento, nobiltà, effervescenza… Ma lo sarà solo e sempre in proporzione dello spirito di fede e della buona volontà».
Segreto per raggiungere la realizzazione personale, la santità, e la fecondità apostolica è dunque l’unità interiore. San Paolo ne è il maestro.

*Postulatore generale della Famiglia Paolina

L’ARMATURA DI DIO

http://www.vivereliberi.it/Meditazioni/L’armaturadiDio.htm

L’ARMATURA DI DIO

La vita cristiana viene paragonata ad un combattimento ed il credente ad un soldato.
La battaglia che i figli di Dio sono chiamati a combattere è speciale e, di conseguenza, necessita di un’armatura speciale. Questa armatura non possiamo procurarcela da noi, con i nostri mezzi o con i nostri sforzi, Dio stesso c’è la fornisce e ci ordina di indossarla.

INDRODUZIONE
Alcuni episodi ricordati con dovizia (grande abbondanza di particolari,) trascendono il loro significato storico per esprimere una lezione spirituale.
Questo è uno di quelli perché qui si propone una lezione di dottrina cristiana che possiamo definire fondamentale.
L’apostolo Paolo esprime chiaramente questo concetto: “Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate star saldi contro le insidie del diavolo; il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti” (Efesini 6:11,12).
Stando così le cose sarebbe assurdo voler affrontare un tale combattimento con mezzi umani o con le nostre sole forze quando Dio ci mette a disposizione quanto ci serve per combattere e vincere.
La nostra è una gara, una battaglia nella quale “non basta partecipare”, è indispensabile vincere, perché soltanto così regneremo con il nostro amato Maestro per l’eternità.
“Chi vince sarà dunque vestito di vesti bianche e Io non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma confesserò il suo nome davanti al Padre Mio e davanti ai Suoi angeli” (Apocalisse3:5).
Le promesse di Dio sono per chi vince (Apocalisse 2:7,11,17,26; 3:12,21); i perdenti hanno solo il vituperio e le pene eterne.
Il nostro Padre celeste non ci manda allo sbaraglio, ma ha provveduto per noi il necessario affinché possiamo essere soldati che onorano il loro Signore con le vittorie che conseguono nel Suo Nome.
Le armi che ci ha provveduto sono utili sia per difenderci che per offendere e tutte portano il marchio di appartenenza di Colui che ci ha assoldati.

“Prendete la verità per cintura dei vostri fianchi…”.

Primo elemento dell’armatura di Dio:
LA CINTURA DELLA VERITA’
“Che cos’è verità” (Giovanni 18:38); Pilato aveva posto questa domanda a Gesù e senza aspettare risposta uscì verso i Giudei nel tentativo di dissuaderli dal loro intento di far morire Gesù.
I Giudei, la folla, non vollero saperne e, poco dopo, gridarono: “Crocifiggilo”.
La domanda che Pilato fece a Gesù è rimasta posta in ogni tempo, a ogni generazione: “Che cos’è verità?”.
Per i credenti è importante sapere che cosa è verità, perché l’apostolo Paolo afferma che è un elemento importante dell’armatura di Dio di cui non possiamo fare a meno.
Molti nel tempo passato e presente hanno cercato di identificare la verità nelle persone, nelle idee, nelle cultura, ma invano.
Noi abbiamo trovato la risposta a questa domanda nella Parola di Dio. E’ fondamentale conoscere che cosa è la verità perché soltanto allora potremo indossarla ed andare così, ben equipaggiati alla battaglia.
“Gesù disse: Io sono…la verità” (Giovanni 14:6).
“Padre…la Tua Parola è verità” (Giovanni 17:17).
“Lo Spirito è la verità” (1 Giovanni 5:6).
Adesso noi abbiamo la risposta alla domanda di Pilato e desideriamo, come soldati di Cristo, indossare l’armatura di Dio, iniziando proprio col prendere “la verità per cintura dei fianchi” (Efesini 6:14).

1. Scegliere la verità.
La Bibbia afferma che satana è padre della menzogna e combatte i figli di Dio attraverso la menzogna. Come abbiamo già visto, la Bibbia afferma anche che Cristo Gesù è la verità e che “la verità vi farà liberi” (Giovanni 8:32).
Come credenti siamo messi ogni giorno dinanzi ad una scelta: menzogna o verità?
Non credo basti aver scelto una volta per tutte, ogni giorno dobbiamo confermare con atti concreti la scelta fatta al momento della nostra conversione, perché la menzogna spinge continuamente dall’esterno e cerva di soffocare la verità che è in noi.
Scegliere la verità significa scegliere ogni giorno Cristo, la Sua Parola, la Sua volontà. Tutti fanno delle scelte e credo che ognuno di noi vive le conseguenze delle proprie scelte. Scegliere bene è importante e il più grande bene che l’uomo possa fare a se stesso è scegliere Cristo Gesù il Signore, Colui che è l’unica verità che salva e rende liberi.
Indossa la cintura della verità, scegli la verità e conoscerai una vita di trionfo in Cristo Gesù.

2. Saldi nella verità.
Dopo aver scelto la verità per cintura dei nostri fianchi, bisogna rimanere saldi e coerenti nella nostra scelta.
La menzogna ci bombarda continuamente.
Nel campo sociale: sono tanti i falsi messaggi che giungono all’uomo, messaggi che evidenziano una vita facile, che puntano sulla popolarità, sul successo e sulla prosperità, fino al punto da far credere che il tutto dell’uomo sta nel possedere molti beni e godere, se è possibile, di una buona reputazione.
Menzogna!
Nel campo religioso: si è perso il senso del limite. Quello che molti religiosi vanno affermando è che ciò che importa è avere un credo, non importa quale, basta averne uno.
Menzogna!
La Bibbia continua ad affermare che Gesù è l’unica via, l’unica verità, l’unica via e che nessuno va al Padre se non per mezzo di Lui (Giovanni 14:6).
Nel campo degli affetti: è diffusa l’idea che proclama un amore libero, perché ciò che è importante è amare, affermano tanti. Così facendo, scusano e spiegano ogni immoralità, conducendo gli uomini nel baratro dell’abisso.
Menzogna!
Nel campo morale: ormai viviamo in tempi dove tutto è lecito. E’ lecito uccidere bambini mentre sono ancora nel grembo delle loro madri, e per farci credere che tutto va bene, ciò viene anche autorizzato dalle leggi dello Stato. Non si arrossisce più se si viene scoperti a commettere fornicazioni, anzi, alcuni si vergognano se si dovesse venire a sapere che non ne hanno mai commesse. “L’adulterio, un toccasana per il matrimonio”, affermava un noto sociologo.
Tutte menzogne!
Chi commette tali cose cadrà sotto il giudizio di Dio se non si ravvede.
Noi credenti abbiamo scelto di rimanere saldi nella verità e ciò sarà possibile se giudicheremo ogni cosa non secondo la morale corrente, ma se tutto lo faremo passare al vaglio della Parola di Dio.
Sii Geloso della verità.
Veglia sui tuoi pensieri; se qualcosa che hai in mente non è in armonia con la Parola di Dio che è verità, liberatene.
Se ti viene proposto di dire o fare qualcosa che entra in conflitto con la santità di Dio, evitala.
Rimani saldo nella verità, indossa la cintura, rimani saldo in Cristo Gesù il Signore.
“Se è la verità ci sto, altrimenti non contate su di me”, questa dovrebbe essere la regola di comportamento di un figliolo di Dio.
Indossa la cintura della verità.

3. Amare la verità.
Si ama quando si conosce.
Possiamo indossare stabilmente e volentieri la cintura della verità se nel nostro cuore coltiveremo dei veri sentimenti di affetto per essa.
Il nostro cuore deve essere attratto dalla verità,, perché questo sarà il segno distintivo che ci porterà ad essere identificati come figli di Dio.
I figli del diavolo amano la menzogna, la falsità, l’ipocrisia, l’inganno; i figli di Dio amano la verità, camminano nella verità.
Gesù disse ad alcuni Giudei che non credevano in Lui: “Voi siete figli del diavolo, che è vostro padre, e volete fare i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dal principio e non si è attenuto alla verità, perché non c’è verità in lui. Quando dice il falso, parla di quel che è suo perché è bugiardo e padre della menzogna. A Me, perché Io dico la verità, voi non credete” (Giovanni 8:44,45).
Chi non ama la verità non appartiene al Padre celeste; il nostro Maestro pregò per ognuno di noi, chiedendo a Dio: “Padre…non prego che Tu li tolga dal mondo; ma che Tu li preservi dal maligno…Santificali nella verità: la Tua Parola è verità” (Giovanni 17:15-17).
Ama la Parola di Dio, ama la verità, indossa la verità per cintura dei fianchi.
Il primo elemento dell’armatura che Dio ci fornisce è la cintura della verità.
Se vogliamo vivere da vittoriosi e così onorare il Signore, non possiamo farne a meno. E’ di vitale importanza rivestirci di questo elemento dell’armatura, perché solo allora potremo evitare di rimanere schiacciati dalla menzogna.
Indossa la cintura della verità, sarai forte ed onorerai il Signore.

Secondo elemento dell’armatura di Dio:
LA CORAZZA DELLA GIUSTIZIA
Non possiamo limitarci all’indossare solo una parte dell’armatura, ma siamo chiamati a rivestire la “completa armatura di Dio affinché possiamo star saldi contro le insidie del diavolo”.
Rivestire la completa armatura di Dio, significa rivestirsi di Cristo: “La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente come in pieno giorno, senza gozzoviglie e ubriachezza; senza immoralità e dissolutezze; senza contese e gelosie; ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non abbiate cura della carne per soddisfarne i desideri” (Romani 13:12-14).
Quando indossiamo Cristo ci poniamo fuori dal regno e dal dominio della carne.
Se viviamo la nostra vita ad un livello spiritualmente basso, carnale, saremo vulnerabili agli attacchi del nemico delle anime nostre, ma se ci poniamo sotto il dominio di Dio rivestendoci di Cristo, il nemico non potrà prevalere su noi, ma saremo noi più che vincitori su di lui.
Tutto dipende dal livello della nostra vita spirituale; satana può toccare e danneggiare ciò che è al suo livello, ma se noi ci eleviamo alla statura di Cristo, viviamo seduti “nei luoghi celesti” (Efesini 2:6), saremo al sicuro e ben protetti. Ecco perché ci viene ordinato “non abbiate cura della carne per soddisfarne i desideri”; ciò significa: «non vivete al livello di satana».
Per poter vivere ad un alto livello spirituale è indispensabile indossare “la completa armatura di Dio”.
Il secondo elemento di questa armatura è la corazza della giustizia.
“Rivestitevi della corazza della giustizia” (Efesini 6:14).

1. La corazza della giustizia ci porta a comprendere il principio della confessione del peccato.
Pur godendo della nostra posizione in Cristo, siamo ben coscienti che a volte veniamo meno: nel modo di pensare, nel modo di agire e modo di parlare. Ciò non annulla l’opera salvifica di Cristo Gesù, ma dimostra la nostra tendenza al male, la nostra fragilità.
Siamo dei santi, dei figli di Dio che talvolta peccano!
Indossare la corazza della giustizia di Dio, significa capire e applicare il principio della confessione.
Chi vive nel peccato non capisce e non applica questo principio, ma il credente che viene meno sa che nella confessione, frutto di vero pentimento, e nell’abbandono del peccato, risiede il segreto per il perdono e per il ripristino della comunione con Dio: “Chi copre le sue colpe non prospererà, ma chi le confessa e le abbandona otterrà misericordia” (Proverbi 28:13).
Confessare non significa dire soltanto “mi dispiace”, ma significa “riconoscere o essere d’accordo”. La vera confessione non ha nulla a che vedere con un atteggiamento di sola esteriorità, ma coinvolge interamente le nostre emozioni, i nostri pensieri e la nostra volontà. Affermare di essere dispiaciuti di aver commesso una cattiva azione o di aver parlato male del tal fratello, non significa star confessando la propria colpa. Significa constatare, anche con dispiacere, ciò che di male si è fatto.
La confessione gradita da Dio, per la quale noi possiamo ottenere il perdono, non solo deve comprendere il riconoscimento del male commesso accompagnato da sincero dispiacere, ma deve riportarci ad una profonda umiliazione dinanzi al nostro Padre celeste, consapevoli che prima di tutto abbiamo peccato contro il Signore. Dopo di che nel nostro cuore ci deve essere la ferma determinazione di abbandonare il peccato per il quale stiamo invocando il perdono divino. Il nemico renderà la confessione delle nostre colpe il più difficile possibile, cercherà di convincerti che è troppo tardi, che non c’è più nulla da fare, che Dio ha già cancellato il tuo nome dal libro della vita, perché anche lui sa che “se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” (1 Giovanni 1:9).
Non lasciarti distrarre dalle menzogne del nemico delle anime nostre, egli vuole schiacciarti sotto il peso delle tue colpe, vere o presunte che siano. Una cosa è certa: se hai confessato il tuo peccato e lo hai abbandonato, sei già stato perdonato, perché Dio non può mentire e la Sua Parola afferma chiaramente questa gloriosa verità.
Indossa la corazza della giustizia, appropriati del potere che c’è nel Sangue di Gesù: è per la Sua giustizia che tu sei giustificato dinanzi a Dio.

2. La corazza della giustizia alimenta la fede nella potenza del Sangue di Gesù Cristo.
E’ indispensabile per ogni credente questo elemento dell’armatura di Dio; non possiamo rinunciare alla corazza della giustizia.
E’ la corazza della giustizia che alimenta la nostra fede nell’incrollabile potere del Sangue di Cristo Gesù, il Signore.
E’ la corazza della giustizia che ci permette di presentarci dinanzi a Dio puri, come se non avessimo mai peccato, in quanto ci possiamo avvalere del carattere di Cristo e della Sua santità.
Una delle astuzie del nemico delle anime nostre è quella di farti vivere sotto condanna, schiavo del rimorso, perché sa che se riuscirà in questo renderà debole la tua testimonianza e inefficace le tue preghiere. Egli continuamente punterà il di te, ti ricorderà spesso quello che sei stato, le tue cadute e ogni volta ti suggerirà che non può esserci speranza per te, che è impensabile che Dio possa perdonarti.
Se Gesù non fosse morto per noi, il nemico forse avrebbe ragione, ma, gloria a Dio, Gesù è morto per noi, ha pagato il nostro debito e ci ha riconciliati con il Padre celeste.
Noi ora possiamo rivestirci della Sua giustizia ed essere giustificati dinanzi a Dio; non giusti in noi stessi, ma ritenuti giusti perché il prezzo per la nostra salvezza e stato pagato, il nostro Dio santo è stato soddisfatto.
Il peccato doveva essere giudicato e condannato, perché l’assoluta santità di Dio richiedeva la giustizia e la condanna del peccato e dei peccatori. Per far ciò si poteva ricorrere ancora una volta al diluvio come ai tempi di Noè, o far scendere fuoco dal cielo come ai tempi di Lot; ma non è accaduta né l’una né l’altra cosa.
La giustizia di Dio è stata soddisfatta con la morte espiatrice di Cristo.
La pazienza che Dio aveva dimostrato nel passato era stata possibile solo in vista del sacrificio della croce: “Dio lo ha prestabilito come sacrificio propiziatorio, mediante la fede nel Suo Sangue; per dimostrare la Sua giustizia, avendo usato tolleranza verso i peccati commessi in passato” (Romani 3:25).
Alla croce Dio non passa sopra il peccato, ma lo giudica condannando a morte il Suo Figliolo al nostro posto e provvedendoci così la corazza della giustizia.
Se teniamo indossata questa corazza provvedutaci dal nostro Padre celeste, le frecce che il nemico scaglierà contro di noi si sprezzeranno, perché alle sue accuse potremo rispondere come l’apostolo Paolo: “Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio è Colui che li giustifica” (Romani 8:33).
Indossa la corazza della giustizia, abbi fede nel potere del Sangue di Gesù, sparso per la remissione dei nostri peccati.

3. La corazza della giustizia ci dà vittoria sul senso di colpa.
Spesso mi succede di incontrare credenti che sono schiacciati dal loro senso di colpa, dal pensiero che per loro non c’è più alcuna speranza.
Ultimamente ho avuto modo di parlare con una giovane credente proprio di questo problema. Il nemico sta lavorando nella sua mente fino al punto che è riuscito a toglierle la pace di Dio e la certezza della salvezza. La tattica è sempre la stessa: insinuare il dubbio del perdono di Dio e portare alla mente tutti i peccati commessi prima ancora di far pace con Dio. Questa ragazza non era in grado di godere dei frutti della salvezza, perché nella sua mente c’era una guerra continua.
Da una parte, razionalmente, credeva che il Signore avesse perdonato il suo peccato e l’aveva accolta nella Sua famiglia; dall’altra, emotivamente, non riusciva a godere del fatto di essere figlia di Dio, perché veniva assalita dal dubbio e dal senso di colpa.
Il segreto, certamente, è vivere in comunione con Dio, perché la Sua costante presenza dentro di noi aumenta la certezza di ciò che siamo e di ciò che possiamo.
Un credente riconciliato con Dio per il sacrificio della croce, non può e non deve lasciarsi schiacciare dal senso di colpa, perché le sue colpe sono state immolate sulla croce del Calvario.
Se dopo aver confessato il tuo peccato ed esserti sinceramente pentito, se dopo aver abbandonato il peccato e aver fatto di Gesù il tuo Salvatore e Signore continui a soffrire del senso di colpa e senti il rimorso che ti attanaglia, probabilmente ciò deriva dal fatto che non hai riposto la tua fede nel Sangue di Gesù cristi che ci lava e ci “purifica da OGNI peccato”.
Il Sangue di Cristo non solo ci purifica da ogni peccato ma ci rende giusti dinanzi a Dio: “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto per la fede, l’accesso a questa grazia nella quale stiamo fermi; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio” (Romani 5:1,2).
Non possiamo fare a meno delle della corazza della giustizia, abbiamo bisogno di indossarla continuamente, perché soltanto allora le frecce infuocate dell’accusatore dei figli di Dio, potranno infrangersi e diventare inoffensive.

Terzo elemento dell’armatura di Dio:
LE CALZATURE DELLA PACE
E’ ormai chiaro che, per il credente, è indispensabile rivestire la completa armatura di Dio.
Abbiamo già considerato i primi due elementi dell’armatura: la cintura della verità e la corazza della giustizia, ma, prima di passare a considerare il terzo elemento, voglio brevemente ricordare qual è lo scopo dell’armatura.
Lo scopo è quello di impedire alle frecce del nemico di penetrare nel corpo e quindi ferire o, peggio ancora, uccidere il soldato.
Noi abbiamo un nemico che è sempre in azione e cerca continuamente di ferire e annientare la nostra fede.
Se non ci fosse la possibilità che le frecce di satana possano colpirci, non ci sarebbe bisogno dell’armatura che Dio mette a nostra disposizione.
L’esortazione a rivestire l’armatura ci fa comprendere che il nemico scaglia continuamente i suoi dardi contro i credenti e solo coloro che sono ben equipaggiati potranno resistere e riportare gloriose vittorie. Il nemico delle anime nostre fa uso di ogni astuzia malefica per bloccare la nostra marcia verso il cielo, ma noi non vogliamo affrontare il cammino impreparati, il Padre celeste mette a nostra disposizione i mezzi per poter combattere e vincere ed è bene che indossiamo l’intera armatura di Dio.
Abbiamo già considerato l’importanza dei primi due elementi dell’armatura, adesso considereremo il terzo elemento: le calzature della pace.
“Mettete come calzature ai vostri piedi lo zelo dato dal Vangelo della pace” (Efesini 6:15).

1. Le calzature della pace ti proteggono.
Quando riceviamo Cristo Gesù come Salvatore e Signore, ecco che ci uniamo al Principe della Pace.
Una delle principali opere che Cristo compie in noi e per noi è quella di farci fare pace con Dio.
Il nostro peccato aveva creato inimicizia con Dio e i rapporti erano completamente deteriorati.
Non potevamo presentarci da soli a Dio, era necessario un mediatore che si impegnasse a presentarci al trono del Padre celeste e che nello stesso tempo fermasse la sua ira contro di noi peccatori, mettendo “una buona parola”, affinché il rapporto di comunione possa essere ristabilito.
Quest’opera di mediazione l’ha compiuta Cristo, infatti l’apostolo Paolo afferma che “giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore” (Romani 5:1). Cristo fa quindi da “tramite”, tra noi e Dio, e la fede nell’opera della croce ristabilisce il rapporto con il nostro Padre celeste.
Ma fare pace con Dio non è sufficiente per vivere una vita gioiosa nella salvezza, ciò che è anche necessario è la realizzazione della pace di Dio.
Un ruolo chiave per far sì che noi realizziamo la pace, lo occupa la Parola di Dio: “E la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori; e siate riconoscenti. La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente…” (Colossesi 3:15,16).
Se hai fatto pace con Dio mediante la fede nel sacrificio di Cristo, se hai realizzato nel tuo cuore e stai vivendo la pace di Dio mediante la Parola, ecco che le calzature della pace sono ai tuoi piedi e ti proteggono.
Sono le calzature della pace che portano i credenti ad adoperarsi per l’armonia, sventando i piani di divisione del nemico e cementando la comunione fraterna.
Sono le calzature della pace che ci ricordano che, benché diversi, siamo tutti figli di Dio e che quindi dobbiamo cercare “dunque le cose che contribuiscono alla pace e alla reciproca edificazione” (Romani 14:19).
Sii un uomo di pace, usa le calzature della pace, sii strumento di riconciliazione. Ricorda cosa disse il nostro maestro: “Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Matteo 5:9).

2. Le calzature della pace ti portano in trionfo.
Se camminiamo a piedi nudi su della ghiaia o su delle spine, sicuramente proveremo molto dolore.
Il cammino cristiano spesso si presenta come un sentiero pieno di ghiaia e di spine, siamo continuamente chiamati a misurarci con le circostanze, con le situazioni non sempre facili della vita. Nella lotta che siamo chiamati ad affrontare, le calzature della pace sono determinanti, perché soltanto se le indosseremo saremo portati in trionfo.
Sono le calzature della pace che ci fanno comprendere che le promesse di Dio sono per noi, creando nei nostri cuori e nella nostra mente quella serenità che contraddistingue i figli di Dio, in particolar modo quando si trovano in situazioni estremamente dolorose.
Qualcuno ha detto che nella Bibbia ci sono 32.500 promesse sulle quali possiamo fondarci. Se indossiamo le calzature della pace vivremo da trionfatori, perché sempre vedremo nella Parola di Dio e nella Sua presenza nei nostri cuori, la via di uscita per qualunque situazione.
Il nostro Padre celeste nella Bibbia viene chiamato anche Jehovah-Jireh, che significa “il Dio che provvede”.
Molti, purtroppo, vivono una vita di dolorose e sanguinanti esperienze, perché non portano le scarpe che Dio ha loro provveduto per affrontare il cammino. Il cammino del cristiano è un cammino speciale che si può affrontare solo con delle calzature speciali.
Indossa i calzari che Dio ti ha provveduto e vivrai una vita di trionfo nella consapevolezza che il nostro Padre celeste è Colui che guida i Suoi figli portandoli di vittoria in vittoria.

3. Le calzature della pace ti fanno un messaggero di buone notizie.
“Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone notizie, che annuncia la pace, che è araldo di notizie liete, che annunzia la salvezza, che dice a Sion: Il tuo Dio regna!” (Isaia 52:7).
Chi può essere messaggero di buone notizie?
Solo colui che sta vivendo ed ha realizzato il messaggio che annuncia.
Noi siamo chiamati ad essere araldi di Dio, annunciatori di pace e di salvezza e tutte queste cose potremo adempierle, trasmetterle, se sono realtà nella nostra vita.
Non puoi essere portatore di pace se non la stai vivendo; non puoi annunciare la salvezza se non sei certo di essere salvato; non puoi portare agli uomini notizie lieti se il tuo cuore e nella tristezza e nell’angoscia.
Il credente può essere portatore di un messaggio che salva soltanto se ha indossato realmente i calzari della pace, perché soltanto allora sarà in grado di trasmettere quello che vive e che ha realizzato.
Sono le calzature della pace che ti fanno un messaggero di buone notizie.
Usa il tuo cuore per amare Dio, usa la tua mente per pensare a Dio, usa la tua bocca per lodare Dio, usa le tue orecchie per ascoltare la Parola di Dio, usa i tuoi piedi per diffondere la pace, per portare il messaggio di salvezza, per proclamare che Dio regna!
Per correre bene abbiamo bisogno dei giusti calzari.
Le uniche scarpe adatte alla lotta cristiana sono le calzature della pace di cui parla la Parola di Dio.
“Ma ora, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani siete stati avvicinati mediante il Sangue di Cristo. Lui, infatti, è la nostra pace; Lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel Suo corpo terreno la causa dell’inimicizia” (Efesini 2:13,14).

Quarto elemento dell’armatura di Dio:
LO SCUDO DELLA FEDE
La vita del credente spesso è caratterizzata dal combattimento spirituale.
Più si è impegnati nel campo del Signore, più si desidera rimanere fedele al Signore, più intense sono le lotte.
Se tu non disturbi l’azione malefica del nemico, egli non disturberà te; ma se tu decidi di schierarti decisamente dalla parte di Dio e di combattere le forze del male con la potenza che viene dal Cielo, allora stai pur certo che incontrerai delle serie opposizioni.
A volte alcuni credenti mi chiedono: “come mai a quel credente che non si impegna per il Signore, che non è coinvolto nel servizio a Dio gli va tutto bene, mentre io che sono impegnato nel servire il Signore, che ho consacrato la mia vita a Lui devo affrontare tutte queste lotte e tutte queste difficoltà?”
Il nemico delle anime nostre non creerà mai ostacoli a un credente che non ha interesse per le cose di Dio, anzi farà di tutto affinché il suo disinteresse aumenti.
Non c’è lotta per chi giace nella tomba, perché è morto! Come non c’è lotta per chi è fisicamente morto, così non c’è combattimento per chi è spiritualmente morto.
Ad uno stato di morte spirituale senza lotta, preferiamo uno stato di vita spirituale anche se ciò comporterà continue lotte e continue prove.
L’apostolo Paolo, scrivendo a Timoteo lo esorta dicendo: “Sopporta anche tu le sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù. Uno che va alla guerra non s’immischia in faccende della vita civile, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato” (2 Timoteo 2:3,4).
Questo testo ci rivela alcune cose importanti riguardo alla nostra vita spirituale.
Prima di tutto mette in evidenza che noi siamo dei soldati al servizio di Gesù; poi appare evidente che non siamo “soldati semplici o sedentari”, siamo dei buoni soldati, dei combattenti con l’armatura al suo posto; ancora questo testo ci parla del fatto che non possiamo portare a compimento la nostra missione se non la riteniamo prioritaria su ogni altra cosa, non possiamo immischiarci degli affari di questa vita se stiamo combattendo per il Signore; infine dobbiamo ricordare che siamo stati scelti dal nostro “Capitano” e che il nostro scopo di vita deve essere piacere a Lui.
Per far ciò abbiamo bisogno di indossare la completa armatura di Dio.
Il quarto elemento di questa armatura è lo scudo della fede.
“Prendete oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno” (Efesini 6:16).

1. Lo scudo della fede sarà tanto grande quanto la nostra conoscenza di Dio.
L’armatura a cui si riferisce l’apostolo Paolo, era quella dell’esercito romano di allora.
Lo scudo (scutum) del soldato romano non era piccolo e circolare, ma grande e curvo; misurava 1,20 per 0,75 m. ed era fatto di legno ricoperto prima di lino e poi di cuoio, ed era tenuto insieme da fili di ferro o fissato su un’intelaiatura di ferro.
Lo scudo per il soldato era importante perché lo proteggeva e sarebbe stato impensabile andare alla guerra senza questo elemento dell’armatura.
Il nostro scudo nelle battaglia è composto dalla fede che abbiamo nel Signore.
La fede non ha nulla di mistico.
La fede biblica è semplicemente ciò che crediamo su Dio e della Sua Parola. Più conosciamo Dio e la Sua Parola, più la nostra fede aumenta, quindi aumenta la grandezza del nostro scudo di protezione.
Meno sappiamo su Dio e la Sua Parola, più si rimpicciolisce lo scudo di protezione e più si corre il rischio di essere colpiti dai dardi infuocati del maligno.
Il profeta Osea, ispirato dallo Spirito Santo, ci esorta dicendo: “Conosciamo il Signore, sforziamoci di conoscerlo! La Sua venuta è certa, come quella dell’aurora; Egli verrà a noi come la pioggia, come la pioggia di primavera che annaffia la terra” (Osea 6:3).
Se vuoi che il tuo scudo della fede diventi grande e protettivo devi impegnarti a conoscere meglio il Signore, devi imparare a confidare nelle Sue promesse, devi conoscere ed amare quello che Egli è, il Suo carattere, quello che Egli pensa, i Suoi progetti per la tua vita e per l’umanità.
C’è un solo modo per conoscere meglio il Signore e, quindi, far si che la fede aumenti: andare alla Parola di Dio.
L’apostolo Paolo ricorda che “la fede viene da ciò che si ascolta e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo” (Romani 10:17).

2. Lo scudo della fede deve essere assolutamente impugnato.
Prima di entrare nel campo di battaglia, i soldati immergevano lo scudo nell’acqua così esso poteva spegnere le temute frecce del nemico che venivano bagnate nella pece bollente prima di essere lanciate.
Ancora oggi satana scaglia continuamente le sue frecce infuocate sui credenti.
Questi dardi del maligno possono assumere diverse forme e aspetti.
A volte questi dardi si presentano sottoforma di menzogne; d’altra parte il diavolo viene chiamato “bugiardo e padre della menzogna” (Giovanni 8:44). Egli si presenterà a te sul campo di battaglia e comincerà ad insinuare il dubbio nella tua mente cercando di convincerti che Dio ti ha dimenticato;…che non si interessa a te;…che le Sue promesse probabilmente sono per gli altri cristiani più santi di te, ma non per te;…che per la tua situazione ormai non c’è più alcuna speranza.
Tutte bugie del nemico!
Quando queste si affacceranno alla tua mente, eleva lo scudo della fede e riafferma la tua fiducia nel Signore.
Altre volte i dardi infuocati del maligno assumono la forma di accuse infamanti. Cercherà di dirti in tutti i modi che sei indegno per servire il Signore, che non sarai mai all’altezza di fare quello che Dio ti chiede a motivo dei tuoi peccati passati.
Se canti nel coro della chiesa egli ti accuserà in modo da non farti portare avanti il tuo compito, se suoni o sei impegnato in qualsiasi altro compito, il nemico ti sussurrerà che hai le mani sporche e il cuore impuro, che sei un disonore per il Signore a causa di quello che sei stato prima di conoscere la grazia di Dio.
Chi soccombe sotto le accuse del diavolo finisce per convincersi di essere un buono a nulla e che quindi Dio non potrà mai servirsi di loro.
Se questa è la tua situazione, fermati e rifletti, non sulla tua condizione umana, sulla tua debolezza, ma afferra lo scudo della fede e levalo in alto, proclamando che tu puoi ogni cosa, non in te stesso o per te stesso, ma in Colui che ti fortifica, Gesù Cristo il Signore.
Altre volte ancora i dardi infuocati del maligno giungono a noi sottoforma di tentazioni che bombardano la nostra mente.
Non c’è dubbio che il più grande campo di battaglia si trova nell’area della mente.
Colui che controlla la mente degli uomini è colui che controlla gli uomini.
Il Signore sa molto bene i conflitti che dobbiamo affrontare continuamente al livello della nostra mente ed è per questo che la Sua Parola ci invita ad amare Dio con tutta la nostra mente (Matteo 22:37). Ci viene anche detto che dobbiamo avere la mente di Cristo (1 Corinzi 2:16) e di vigilare sulla nostra mente affinché solo le cose buone siano oggetto dei nostri pensieri (Filippesi 4:8).
Noi possiamo sconfiggere il nemico delle anime nostre solo elevando lo scudo della fede è proclamando la Parola di Dio che ci da vittoria su ogni tentazione.
Cosa fece Gesù per proteggersi dalle frecce infuocate del maligno quando fu tentato?
Rispose con la Parola di Dio (Matteo 4), dimostrando così di credere in Dio e in quello che Egli afferma nella Sua Parola.

3. Lo scudo della vede deve essere tenuto in alto.
Troppi credenti si ritrovano feriti e abbattuti, perché hanno immerso il loro scudo nel dubbio e nell’incredulità.
Come abbiamo già detto il tuo scudo sarà proporzionato alla conoscenza che hai di Dio, per questo devi vivere la tua vita nel continuo impegno e nel continuo desiderio di conoscere meglio il Signore.
Lo scudo della fede deve essere sempre impugnato e tenuto in alto in modo da risultare ben visibile, anche perché il nemico, a volte, si traveste da angelo di luce mentre in realtà è un leone rapace ed è bene che sappia che tu hai a tua protezione lo scudo della fede.
Dichiara apertamente che hai fede nel Signore e non lasciarti convincere dalle circostanze.
Siamo chiamati a fondare la nostra vita sulla Parola di Dio, a dichiararla.
Non possiamo fondarci sulle nostre impressioni o sui nostri sentimenti; sulle percezioni o sulle nostre esperienze, perché queste sono mutevoli e incerte e, a volte, risultano anche ingannevoli. Dobbiamo fondarci sulla Parola del Signore e a questa Parola dobbiamo credere con fede.
Il nostro motto deve essere: “Dio lo ha detto… e io lo credo”.
Tieni alto lo scudo della fede ed afferma del continuo: “Io credo in Dio e nella Sua Parola”.
Se vuoi vivere da trionfatore ed al centro della volontà di Dio, tu non puoi fare a meno di questo elemento dell’armatura di Dio.
Dio lo ha provveduto per te, fa parte del tuo bagaglio, della tua dote, non rigettarlo.

“Or senza fede è impossibile piacergli; poiché chi si accosta a Dio deve credere che Egli è e che è il ricompensatore di tutti quelli che Lo cercano” (Ebrei 11:6).

Angelo Gargano

PAOLO APOSTOLO E TESITORE DI TENDE LA BOTTEGA SOME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

http://www.saverianibrescia.com/missione_oggi.php?centro_missionario=archivio_rivista&rivista=&id_r=44&sezione=alla_luce_della_parola_&articolo=paolo_apostolo_e_tessitore_di_tende&id_a=1301

PAOLO APOSTOLO E TESITORE DI TENDE LA BOTTEGA SOME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

A CURA DELLA REDAZIONE

Novembre 2008

L’articolo è tratto liberamente da una riflessione di Ronald F. Hock in The Social Context of Paul’s Ministry: Tentmaking and Apostleship, Philadelphia, Fortress 1980.

In uno dei suoi trattati politici, Plutarco critica alcuni filosofi perché rifiutavano di conversare con le autorità nel timore di essere considerati ambiziosi o troppo ossequienti. Per evitare il diffondersi di una tale situazione, Plutarco suggerisce che l’unica alternativa per l’uomo dalla mente aperta e desideroso di praticare la filosofia è fare l’artigiano, per esempio, il calzolaio, in modo da avere l’opportunità di conversare nella bottega, come Simone il calzolaio aveva fatto con Socrate. Questo suggerimento di Plutarco, che la bottega fosse un luogo che potesse ospitare discorsi intellettuali, è interessante e fa sorgere l’interrogativo se altre botteghe, specialmente quelle usate ai suoi tempi da Paolo, il tessitore di tende, nei suoi viaggi missionari, siano state utilizzate allo stesso modo nelle città della Grecia orientale. Questa tesi, pur avanzata dagli studiosi, non è mai stata studiata a fondo. Questo articolo è un tentativo di approfondire l’esame dei contesti sociali in cui si sono svolti la predicazione e l’insegnamento dei primi cristiani.
È noto che Paolo era un tessitore di tende. Questo suo lavoro è sempre stato considerato come un’eredità della sua tradizione ebraica. L’attività lavorativa di Paolo è considerata come un residuo della sua vita di fariseo ed è spiegata nei termini di un ideale rabbinico che cerca di associare lo studio della Torah con la pratica di un mestiere. Vorremmo ora portare il dibattito al di là dell’aspetto strettamente ebraico.

LA BOTTEGA DI PAOLO
Per una discussione sull’uso missionario della bottega da parte di Paolo, si deve sottolineare l’evidenza che lo colloca nelle botteghe delle città da lui visitate. Luca indica che Paolo aveva lavorato come tessitore di tende solo in Corinto e Efeso (At 18,3; 20,34); ma le Lettere di Paolo aggiungono Tessalonica (1 Ts 2,9) e – più importante – afferma che in generale la pratica missionaria era di lavorare per potersi mantenere (1 Cor 9,15 – 18). E allora, il riferimento di Paolo al lavoro di Barnaba per sostenere se stesso (1 Cor 9,6) dovrebbe coprire i cosiddetti primi viaggi missionari e la sua permanenza in Antiochia (At 13,1 – 14,25; 14,26-28; 15,30-35), il tempo in cui Luca pone Barnaba come suo compagno di viaggio. Il riferimento di Paolo al suo lavoro a Tessalonica (1 Ts 2,9) e la sua conferma dell’affermazione di Luca riguardante Corinto (1 Cor 4,12) si applicherebbe anche al secondo viaggio missionario (At 16,1 – 18,22). Il riferimento al suo lavoro in Efeso (cfr. 1 Cor 4,11: « fino ad ora »), di nuovo conferma il ritratto di Luca e la sua insistenza nel mantenersi economicamente, durante un futuro viaggio a Corinto (2 Co 12,14), confermerebbe questa pratica anche nel terzo viaggio missionario (At 18,23 – 21,16). In At 28,30 vediamo Paolo presumibilmente lavorare in seguito anche a Roma. In breve, le Lettere e gli Atti mettono in evidenza l’Apostolo nelle botteghe dove predicava e insegnava. Ma che cosa faceva Paolo nella bottega, oltre al suo lavoro di tessitura? Di cosa parlava? Sfruttava l’occasione per una predicazione missionaria?
Una risposta affermativa sembra verosimile, dato il suo impegno nella predicazione del Vangelo. Però né le Lettere, né gli Atti dicono esplicitamente che Paolo utilizzava la bottega per la predicazione. Il silenzio delle Lettere in proposito non è un problema, perché Paolo è di solito silenzioso o vago sulle circostanze della sua predicazione missionaria (cfr. per esempio 1 Cor 2,1-5). Con gli Atti tuttavia la situazione è diversa.
Il silenzio di Luca negli Atti può essere parzialmente spiegato perché l’evangelista era interessato a raccontare le esperienze di Paolo nella sinagoga. Solo in Atene, il centro della cultura greca e della filosofia, questo interesse è lasciato da parte in deferenza alle esperienze di Paolo al mercato (At 17,17) e specificatamente alle sue conversazioni con i filosofi stoici ed epicurei (ver.18) che portarono al discorso dell’Apostolo all’Aeropago (22-31). Qui Luca si avvicina molto nel menzionare le conversazioni della bottega, ma non lo fa, poiché le discussioni con i filosofi sono probabilmente da collocarsi sotto i portici della città, forse la Stoà di Attalos ad Atene.
La possibilità di fare conversazioni in bottega è intuibile da un brano delle Lettere di Paolo: il sommario dettagliato dell’attività missionaria dell’Apostolo nella città di Tessalonica (1 Ts 2,1-12). Al versetto 9, il lavoro e la predicazione sono accennati insieme: « Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il Vangelo di Dio ».

L’ATTIVITÀ MISSIONARIA
Se questi sei passi scelti dagli Atti e dalle Lettere parlano di Paolo che utilizzava le botteghe come contesti sociali per la sua predicazione missionaria, bisogna interpretare questi contesti come entità a sé, oppure confrontarli con la vita intellettuale delle città che egli ha visitato. Se la bottega è stata un contesto sociale dell’attività missionaria, per Luca questa era solo uno dei tanti luoghi in cui l’Apostolo predicava. Più frequentemente egli indica la sinagoga. Paolo predica nelle sinagoghe di Damasco (At 9,20), Gerusalemme (At 9,29), Salamide (At 13,5), Antiochia di Pisidia (At 13, 14, 44), Iconio (At 14,1), Tessalonica (At 17,1), Berea (At 17,10), Atene (At 17,17), Corinto (At 18,4) e Efeso (At 18,19; 19,8). Un altro contesto missionario importante è la casa, specialmente quelle di Lidia a Filippi (At 16,15, 40), di Tizio Giusto a Corinto (18,7) e di un cristiano non identificato a Triade (20,7-11) e di parecchie persone a Efeso (20, 20). Altre case devono essere incluse, anche se Luca non vi fa menzione di attività missionaria: la casa di Giasone a Tessalonica (17, 5-6), di Aquila e Priscilla a Corinto (18, 3), di Filippo a Cesarea (21, 8), di Mnasone di Cipro, presumibilmente a Gerusalemme (21, 16-17) e forse quelle di parecchi altri (cfr. 16,34; 21, 3-5, 7).
Ulteriori segni che indicano la varietà dei contesti sociali nella missione di Paolo sono la residenza del proconsole di Cipro, Sergio Paolo (13, 6-12), la porta della città in Listra (14, 7, 15-18), la scuola di Tiranno a Efeso (19, 9-10) e il pretorio a Cesarea (24, 24-26; 25, 23-27). Insomma, se la bottega era un contesto sociale per l’attività missionaria di Paolo, era solo uno dei tanti.

IL PULPITO, LA PIAZZA E LA BOTTEGA
La pratica dei filosofi sopra descritta può aiutarci a capire anche ciò che avveniva nella bottega di Paolo. Lo possiamo immaginare nelle lunghe ore al tavolo di lavoro mentre taglia e cuce le pelli per fare tende. Egli si rende autonomo economicamente, ma ha anche possibilità di portare avanti il suo impegno missionario (cfr. 1 Ts 2, 9). Seduti nella sua bottega troviamo i suoi compagni di lavoro o qualche visitatore, clienti e forse qualche curioso che aveva sentito parlare di questo « filosofo » tessitore di tende appena arrivato in città. In ogni caso sono tutti là ad ascoltare e a discutere con lui, che porta il discorso sugli dei ed esorta i presenti ad abbandonare gli idoli e a servire il Dio dei viventi (1, 9-10). In questo modo, certamente qualcuno degli ascoltatori, un compagno di lavoro, un cliente, un giovane aristocratico o forse anche un filosofo cinico, sarebbe stato curioso di sapere di più di Paolo, delle sue chiese, del suo Signore e sarebbe tornato per un colloquio privato (2, 11-12). Da queste conversazioni di bottega alcuni avrebbero accolto le sue parole come Parola di Dio (2, 13).
Per Paolo, il missionario, quindi, il pulpito della sinagoga non bastava, ma usciva anche in piazza ed entrava nella sua bottega. « Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16).

A CURA DELLA REDAZIONE

Il contesto storico
Esaminiamo la pratica paolina nel contesto della vita intellettuale della Grecia orientale dei suoi tempi. Ad Atene, nel quinto e quarto secolo a. C., alcuni contesti specifici, inclusa la bottega, erano diventati normali per l’attività intellettuale ed ancora esistevano ai tempi di Paolo. Senofonte descrive Socrate mentre discute di filosofia in varie botteghe, tra cui quelle di un pittore, di uno scultore, di un fabbricante di armature. Platone menziona le bancarelle del mercato come abituale ritrovo di Socrate. Naturalmente la bottega non era il suo solo ritrovo: lo si poteva trovare in altre parti del mercato, come la stoà o altri edifici pubblici, nel ginnasio o nelle case di amici. In un certo senso la pratica di Socrate era tipica dei suoi giorni, data l’abitudine della gente di frequentare i negozi e i banchi del mercato. Ma, in un altro senso, l’abitudine di Socrate era molto atipica, non solo a causa dell’alto contenuto intellettuale delle sue conversazioni, ma anche per l’effetto limitato che questa sua pratica ebbe sui filosofi che lo seguirono. A giudicare da quanto riferisce Diogene Laerzio, i discepoli di Socrate non discutevano di filosofia nella bottega, anche se alcuni di essi da studenti lo avevano accompagnato, per esempio, alla bottega del sellaio.
I seguaci di Socrate, scegliendo il ginnasio o altri edifici, praticavano una filosofia meno pubblica rispetto al loro maestro. Il numero delle persone che partecipava a queste discussioni nelle botteghe non poteva essere grande. Spesso erano solo in due, Socrate con Simone e Crate con Filisco. Gli argomenti trattati erano molti: dalle discussioni che riguardavano i commerci degli artigiani a temi più interessanti: gli dei, la giustizia, la virtù, il coraggio, la legge, l’amore, la musica, ecc.

CATECHESI SU S. PAOLO DI PADRE ROBERTO ZAMBOLIN – la personalità dell’Apostolo

http://www.sacrafamiglia.diocesipa.it/testo%20catechesi%20paolina%20padre%20roberto%20zambolin.htm

CATECHESI SU S. PAOLO DI PADRE ROBERTO ZAMBOLIN

La personalità dell’Apostolo Paolo è una personalità poliedrica e complessa che tuttavia noi possiamo leggere per un dato importante perché Paolo ha posto come obiettivo nella sua vita, quello che la propria vita avesse un senso cioè tutta la sua vita è stata centrata , tutta la sua vita le sue passioni le sue esperienze sono state centrate attorno ad un obiettivo che per lui è diventato il senso della sua vita e questo obiettivo è Gesu’ Cristo; questo già secondo me è un dato molto importante, a volte noi, ecco, nella nostra vita siamo molto divisi, la mente và per conto suo, il cuore và per conto suo, gli istinti vanno per conto loro; facciamo fatica ad essere delle personalità unificate, a ritrovare un senso di ciò che facciamo, facciamo fatica a dare un orientamento preciso alla nostra vita, per questo a volte siamo un po’ smarriti, scissi, anche noi stessi divisi, noi possiamo comprendere qualcosa della personalità di Paolo perché Paolo ha trovato un centro unificatore nella sua vita che è Gesu’ Cristo; questo è un dato importante anche nella psicologia cioè ché se noi vogliamo essere persone autentiche, ognuno di noi deve avere un centro attorno al quale unifica e da senso a tutto ciò che fa ed è bellissimo pensare che Cristo sia stato il senso del suo essere uomo e del suo essere credente ed evangelizzatore.
Credo che il primo dato che appare sia proprio questo : Paolo che era un uomo passionale è diventato Paolo e non ha cambiato temperamento o carattere ma con l’aiuto della grazia di Dio Paolo ha saputo orientare le sue passioni , le sue energie fisiche e spirituali verso una nuova meta quella di conquistare Cristo dopo essere stato conquistato da Lui ( Fil. 3,8 ) ed io credo che qui sta tutto il segreto della felicità per ogni essere umano, quello di cercare e trovare un centro unificato attorno al quale fare girare tutta la propria vita; allora tutto diventa più chiaro, tutto finisce col piacere e anche riusciamo a superare le prove più terribili che immancabilmente la vita ci riserva se abbiamo davanti a noi un obiettivo ben preciso.
Quali sono i tratti della personalità di Paolo mi sembra di poterli riassumere così, di individuarne sostanzialmente quattro: innanzitutto è una persona estremamente volitiva, solo una persona come lui poteva reggere per esempio all’urto subìto a Damasco dove la sua umanità è stata messa a dura prova, c’è stato uno sconvolgimento pieno della sua umanità, un cambiamento totale della sua vita, lì ha fatto un’esperienza che ha trasformato completamente lui come uomo; pensate per esempio questa sua aggressività, il suo andare contro i cristiani, questo suo mettersi d’impegno per dire:io devo andare a cercare i seguaci di Cristo.Dunque Paolo era uno, in un certo senso,che metteva come centro anche se stesso;l’esperienza di Damasco l’ha reso umile,docile e gli ha fatto capire che anche lui ha bisogno di essere condotto dagli altri;gli ha fatto capire che il suo passato forse aveva bisogno di essere illuminato da un’ altra luce, allora si è fatto condurre da Anania, si è fatto condurre anche lui per mano per strada; Paolo che mentre prima aveva fatto di se stesso il centro della sua vita, ora lui non era più il centro di se stesso, lui si è messo alla periferia di se stesso e ha messo Cristo come centro di se stesso; dunque per un cambiamento del genere è possibile se davvero una persona cerca, trova e rimane fedele a ciò che ha trovato. Quì però dobbiamo dire che Paolo è estremamente onesto, Paolo è sì un passionale però attenzione, a volte capita che quando noi siamo passionali ed emotivi noi stravolgiamo la verità. A Paolo premeva mettersi a servizio della verità e una volta scoperta si sente anche in dovere di cambiare strada nella propria vita; l’onestà di Paolo la potremmo chiamare un onestà a prova di bomba, per esempio questa forza di volontà, questa onestà di Paolo la esprime quando entra in polemica con i suoi avversari, non certo per odio contro di loro ma piuttosto per un amore incondizionato alla verità.Di questo amore alla verità Paolo è un testimone credibile, per esempio nella lettera agli Efesini 4,14-15, quando Paolo vuole esortare i cristiani di Efeso a costruire la chiesa dell’unità, scrive così:questo affinchè non siamo più come fanciulli, sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina secondo l’inganno degli uomini, con quell’astuzia che tende a trarre nell’errore, al contrario vivendo e servendo la verità nella carità.Cerchiamo di crescere in ogni caso verso di Lui che è il capo ,Cristo. Ecco, fare la verità nella carità ,una passione quella di Paolo,al servizio della verità; il testo greco dovrebbe essere tradotto “più che fare la carità nella verità” potremmo tradurlo in “verare la verità”, cioè non può esistere una carità se non c’è una verità, la prima forma di carità è il servizio alla verità.Quella di Paolo era una passione al servizio della verità e quindi viveva nell’amore autentico nel senso che Paolo non ha mai disgiunto la verità dalla carità. Attenzione alla falsa forma di carità io li distinguo anche nell’evangelizzazione, cioè un conto è l’attenzione, la conoscenza della persona umana nei suoi tempi, nei suoi ritmi, ma per questo noi non possiamo stravolgere la verità; va offerta secondo la comprensione, secondo la possibilità di ognuno ma non possiamo passare una fede facile.Così per essere accettati, per essere accolti, per sentirsi moderni, a volte questo purtroppo succede e noi pensiamo di vivere la carità e non curando la verità e così non facciamo un servizio né alla carità ne alla verità. Quindi Paolo estremamente volitivo, ma anche estremamente angusto, estremamente sincero, un ricercatore della verità, sincero al punto tale che di fronte alla verità cambia completamente centro della sua vita, non è più se stesso ma è di Cristo. Ancora un altro elemento della personalità di Paolo l’abbiamo già accennato, un temperamento passionale nel bene e nel male, sentite cosa dice Paolo nella 1° lettera a Timoteo 1,13:io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento, bene questo, la violenza di un tempo Paolo l’ha messa a servizio del Vangelo, sapendo sopportare anche le prove più tremende.E’ molto bello quello che dice Paolo quando parla anche delle sue esperienze, delle prove che lui ha sopportato e che ha sopportato per amore di Cristo ed è proprio per questo suo temperamento passionale che l’ apostolo delle genti ha speso il resto dei suoi anni in una serie interminabile di viaggi missionari che caratterizzano il suo servizio apostolico,perché poi la verità unita alla volontà,unita alla passione per ciò che si fa ti spinge ad uscire fuori,ti spinge a donare,ti spinge a camminare;una persona che ha la passione alla verità, altamente sentirà il desiderio di poterla dire, di poterla evangelizzare,di poterla comunicare. Il guaio a volte di molti credenti è che credono senza passione,,è che credono in modo scontato, è che credono senza contemplazione, senza godere in ciò in cui credono.Attenzione che, un conto è la passione, un conto è l’emozione;avete presente quando si va ai pranzi di nozze.si beve un po’ di vino e ci si sente un pochino tutti allegri;il mondo sembra tutto allegro ,poi passa l’effetto del vino e si torna come prima.L’emozione è questa, è quella fascia delle sensazioni che dura finchè dura l’emozione e poi tutto finisce.La passione è invece un motore che spinge la macchina, è una specie di forza che ti porta avanti nella vita e tu vivi proprio con gioia, con bellezza, gustando quella verità che tu hai e cerchi di coinvolgere il più possibile nella conoscenza, nella testimonianza di questa verità.Questo è temperamento passionale, un altro elemento che noi troviamo in Paolo, che emerge dai suoi scritti è una persona di un’intelligenza eccezionale, non solo da un punto di vista logico, ma anche da un punto di vista relazionale, cioè Paolo sa entrare in contatto con tutti, all’occorrenza sa anche entrare in polemica con gli avversari che negano la verità, come sa discorrere serenamente con chi è disposto al dialogo per amore della verità, Paolo sa interpretare correttamente la profezia dell’Antico Testamento, mostrando che Cristo ha attualizzato quella profezia; come sa dimostrare la ragionevolezza nell’ andare in Cristo e la libertà nell’ atto di fede; sa confutare chi pretende di dire la verità mentre sta seminando menzogna e zizzania, come per esempio, Paolo, sa esortare con la parola, ma soprattutto con l’esempio di una vita totalmente dedita al Vangelo. Paolo sa scrivere pagine di arte di ispirazione poetica,pensate agli Inni Paolini, sublimi e profondi, come l’addentrarsi in discussioni teologiche più specialistiche, quindi è un’intelligenza molto acuta quella di Paolo. Possiamo dire che Dio lo ha dotato di doni di natura e di doni di grazia,uomo difficilmente uguagliabile, ma tutto viene messo al servizio della carità e della verità . Mi pare che Paolo possa dirsi anche un amico fedele,ci sono delle cose molto belle anche di questa affettività di Paolo,intanto fedele nei confronti della verità che non è una verità teorica, quella di San Paolo, la verità ha un nome che si chiama Gesù Cristo che è una persona; non avrebbe senso rimanere fedeli ad una verità per la verità, ma quando quella verità è divenuta una persona, allora solo un rapporto culturale (dobbiamo stare attenti perché alle volte un rapporto relazionale con Cristo rischia di trasformare il Vangelo in cultura) non è sempre detto che un teologo sia per forza un credente, per essere credente si deve stabilire una relazione con Gesù Cristo, non solamente una deduzione intellettuale razionale, ecco perché l’importante è che accanto alla profondità teologica ci sia questa dimensione relazionale, affettuosa con Cristo.Una volta che Paolo ha conosciuto Cristo Signore attraverso una relazione che Cristo ha avuto con lui perché sapete che nella fede il primo passo lo fa sempre il Signore.é stato proprio Dio che ha incontrato Paolo, una volta che Paolo si è lasciato incontrare da Dio, Paolo non ha mai cessato di coltivare questa amicizia straordinaria e di onorarla anche a costo di pagare di persona.Paolo lo ha dimostrato in diverse circostanze ,anche con il martirio e a questo proposito è bene che ascoltiamo proprio lui nella 2° lettera di Timoteo 4,6-8 “Quanto a me, dice Paolo,il mio sangue sta per essere sparso in libagione, ed è giunto il momento di sciogliere le vele, ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede; mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto Giudice, mi consegnerà in quel giorno.” Vedete che sono parole estremamente chiare che indicano il percorso di vita di Paolo, e soprattutto sarà una profezia di quello che capiterà, non molti anni dopo, a Roma quando sarà decapitato intorno all’anno 64 d.C.; ebbene, con queste pennellate essenziali io penso un pochino di avere colto qualche cosa della psicologia di Paolo.
Paolo uomo estremamente volitivo, passionale, di un’intelligenza eccezionale, uomo di relazione, uomo fedele. Mi vorrei fermare un pochino di più sull’incontro di Paolo a Damasco perché lì c’è proprio di mezzo la sua vita, il coinvolgimento della sua vita, potremmo dire lo sconvolgimento della sua vita. Che cosa rivela quell’incontro di Paolo a Damasco? Rivela delle qualità eccezionali per un’uomo che non è facile riscontrare; rivela innanzitutto una capacità di rimettersi in discussione, di non vivere una vita scontata, di aprirsi alla novità, di tendere sempre al futuro, di cercare una qualità migliore della sua vita; cioè direi veramente che Paolo voleva vivere una vita in pienezza per un uomo che amava la vita,voleva gustare la vita in pienezza e tutto questo lo ha portato a rendersi disponibile a qualche cosa di nuovo, a qualche cosa di profondo, di misterioso, a qualche cosa che lo superava che era la rivelazione di DIO; un confronto che lo ha cambiato spiritualmente; è diventato un uomo nuovo difatti Paolo, una nuova creatura, amico di Gesù, missionario del Vangelo, fratello universale; ma se Paolo fosse stato una persona introversa, una persona chiusa nelle sue certezze, chiusa nella sua sicurezza, una persona non disposta all’ascolto, al dialogo, all’accoglienza della novità, soprattutto chiusa nel mistero, Paolo probabilmente non si sarebbe lasciato inondare dalla luce di Cristo. Uno studioso morale contemporaneo ha scritto che per comprendere la teologia di Paolo non è sufficiente partire da Tarso, città nella quale Paolo è nato ed ha ricevuto la sua prima formazione, non basta nemmeno partire da Gerusalemme, città nella quale Paolo è stato educato ed ha potuto confrontarsi con gli apostoli, in modo particolare con Pietro; non è sufficiente neanche partire da Antiochia che è stato il punto di riferimento di tutti i suoi viaggi missionari; certo queste città hanno avuto importanza nella formazione di Paolo, hanno contribuito alla sua crescita morale e spirituale, ma per entrare nel pensiero di Paolo dobbiamo capire l’approccio che lui ha avuto con Cristo perché il rapporto con Cristo ha sconvolto la sua vita ed è stato al centro della sua evangelizzazione; che cosa è capitato in quell’avvenimento? – qui ci sono delle cose formidabili: Innanzitutto a Damasco Paolo ha capito che tra Gesù e i cristiani vi è una identità spirituale nella quale stà il segreto, il fondamento del nostro essere Chiesa, del nostro essere comunità, del nostro essere fraternità, del nostro amore alla Chiesa; Che cosa ha sperimentato in quell’avvenimento, che cosa dice l’esperienza che ha vissuto, ha sentito quelle parole “ Io sono quel Gesù che tu perseguiti “ , oggi molti dicono “ Cristo sì la Chiesa no”; Io sono quel Gesù che perseguiti ,dunque, nella persona dei suoi discepoli è il Signore ad essere perseguitato e allora voi capite che un elemento importante nella personalità di Paolo era quello che noi potremmo chiamare l’empatìa non la simpatia; cioè Paolo era uno che sapeva farsi carico della comunità, della fraternità, sapeva farsi carico degli altri; probabilmente se non avesse avuto questa empatia non avrebbe colto nei cristiani che lui perseguitava la presenza stessa di Gesù Cristo; dunque tra Gesù e i Cristiani c’è un’identità spirituale ; nella persona dei credenti Gesù stesso è perseguitato, quindi la Chiesa è il prolungamento della sua Umanità, la Chiesa è la sposa amata da Cristo e non si può separare la Chiesa da Cristo come non si può separare una persona dal suo corpo, come non si può dividere la sposa dallo sposo; sarebbe questa una violenza assurda; come si può separare la persona dalla unicità di se stessa? Paolo era una persona che aveva molto forte il senso dell’unità dell’uomo, io quando parlo di persona umana faccio un riferimento molto banale, ma se volete molto efficace: – a casa nostra abbiamo tutti delle credenze, dei comò e sono quasi tutti a cassetti; io tiro un cassetto, mi apro solo quel cassetto gli altri rimangono chiusi; la persona umana non è fatta a cassetti; la persona umana è fatta di un’unità, di una totalità! Se io sono stressato, se io ho un problema , se ho mal di testa, l’aspetto fisico, l’aspetto psichico, l’aspetto spirituale della persona umana funzionano insieme, non si può scindere e oggi il concetto di salute che non è più la salute fisica ma è la salute psicofisica; se io ho mal di dente, il dente è un elemento piccolissimo della persona, eppure se uno ha mal di dente, non ha voglia di fare niente, non ha voglia di pregare, non ha voglia di abbandonarsi a Dio, per dire come anche la nostra esperienza di fede deve essere così: si prega con tutto noi stessi anche la propria corporeità; voi pensate quanto danno abbiamo fatto anche nella nostra vita spirituale escludendo il corpo a volte dalla preghiera, escludendo la bellezza del corpo anche dalla nostra vita spirituale
perché il corpo veniva visto come fonte di passioni e mai invece come possibilità di espressione, come linguaggio, come ricchezza di linguaggio.
Paolo ad un certo punto era una persona che ha colto l’unità della persona umana; la testa senza il corpo non ha senso, il corpo senza la testa non è una cosa unita, perciò lui ha colto questa identità spirituale tra Gesù e i cristiani; non si può separare la Chiesa da Cristo, non si può separare la persona dal corpo, non si può separare la sposa dallo sposo, sarebbe una violenza assurda ed è per questo che lui ha compreso, che Gesù di Nazaret è il vero Messia, destinato a diventare il Salvatore di tutti gli uomini, di tutta l’umanità, di tutti i peccatori. Ecco, care sorelle, cari fratelli, io penso che forse Paolo qui ci insegna un grande principio fondamentale della psiche umana, cioè quello di imparare una unificazione nella nostra vita, oggi noi invece notiamo proprio questa continua separazione tra le persone; si pensa una cosa se ne dice un’altra e se ne fa un’altra ancora; a volte scherzando dico che se ci guardassimo allo specchio veramente, la nostra vita diventa un carnevale perché utilizziamo una maschera quando siamo soli, ne utilizziamo un’altra quando siamo in famiglia, ne utilizziamo un’altra quando siamo in parrocchia, ne utilizziamo un’altra quando siamo con altre persone, cioè noi procediamo nella vita per diversità, per distinzioni, invece Paolo era se stesso ovunque, sia quando era persecutore, sia quando ha fatto la scelta di Cristo; essere nella totalità del proprio essere, vivere nella totalità del proprio essere, e Paolo una volta fatta la scelta di Cristo a questa scelta è rimasto fedele ; soprattutto Paolo ha fatto una scelta importante, la scelta del dono della vita per i fratelli, dell’uscire da sé per andare verso gli altri, a Damasco Paolo ha avuto il dono di comprendere che della vita quello che vale di più non è l’affermazione di sé stessi a scapito degli altri ma il dono di sé stessi a colui per il quale possiamo ritrovare la nostra vita e amare il nostro prossimo. L’amore per il prossimo per Paolo è diventato inseparabile dall’amore di Gesù perché l’amore unifica, la centralità di sé divide; quante volte ci siamo trovati di fronte a persone che hanno voluto affermare la centralità di sé stessi e hanno diviso le comunità, hanno diviso le famiglie; l’amore invece unifica; invece vi capita che l’amore non è il piacere delle sensazioni, ad amare si impara, si impara accogliendo anche la diversità, accogliendo anche ciò che magari noi non abbiamo, noi non possediamo; ecco, su questo tema Paolo ha composto un bell’inno, pensate questo Paolo passionale, questo Paolo che ad un certo punto diventa anche molto polemico, molto forte, questo Paolo razionale. Andatevi a leggere questo inno alla carità: ritrovate questo Paolo calmo, sereno, semplice, profondo nello stesso tempo, la carità è paziente; secondo me l’inno alla carità è frutto di un percorso umano; andate a vedere tutti quegli elementi che Paolo ci
trasmette: ci sono elementi estremamente umani; se noi volessimo proporre alle persone un cammino di formazione anche umano, di equilibrio umano, basterebbe solo che gli proponessimo di vivere l’inno alla carità. La carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità; tutto copre, tutto crede, tutto sposa, tutto sopporta; A volte io questo testo lo propongo come esame di coscienza; se non dobbiamo esaminarci sulla carità, su cosa ci dobbiamo esaminare? Ecco, sull’amore e conclude poi Paolo “ la carità non avrà mai fine”; Paolo ha capito che c’è qualcuno al di sopra di tutti che merita di essere servito e amato sopra ogni altra cosa o persona: Gesù di Nazaret. Solo se noi impariamo a decentrarci possiamo fare la scoperta di qualcuno da amare profondamente; in fondo la persona autocentrata è una persona che ama solo sé stessa; la persona capace di decentrarsi è la persona che sa scoprire la bellezza di un amore che la può rendere più felice.
Paolo doveva poi far conoscere a tutti questa scoperta perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, in terra e sottoterra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore e gloria di Dio Padre.
Dunque a Damasco Paolo si è visto costretto a cambiare l’orientamento della sua vita e lo ha fatto in modo così netto e forte da lasciare intravedere che in quel preciso momento in lui ha trionfato la Grazia di Dio; ma Paolo si è aperto alla Grazia di Dio, Paolo ha lasciato che la Grazia di Dio lo lavorasse, lo plasmasse; Paolo si è posto come creta di fronte alla grazia di Dio tanto è vero che lui dice, pensate anche l’autocoscienza che poi ha avuto di se stesso, tanto è vero che dice: “voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo, nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la chiesa di Dio e la devastassi”,ma quando Colui che mi scelse sin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua Grazia si compiaque di rivelare in me suo Figlio perché lo annunziassi ai pagani, non fù più così.Paolo ha saputo fare una attenta riflessione del suo passato alla luce della novità di Cristo. Ognuno di noi può fare i progetti che vuole, può anche illudersi di potere fare tutto da solo, ma quando Dio decide di entrare nella sua vita tutto cambia e cambia in meglio; a volte, diceva un grande filosofo spagnolo “ la mia fede è lottare con Dio”; a volte la fede è anche lotta, però dobbiamo lasciare che sia Dio a vincere perché se Dio vince, veramente la nostra vita può cambiare; dopo una lotta invece, di fronte a dei cristiani a delle persone che dopo una lotta buttano le armi, pensate oggi quanto sia difficile per esempio parlo anche per noi sacerdoti; costruire una relazione, una relazione se gratifica si porta avanti, ma appena quella relazione diventa un po’ conflittuale e difficile subito si molla, subito si chiude, subito si lascia perdere, e così che cosa troviamo noi, noi troviamo delle persone che da un punto di vista affettivo io li chiamo i vagabondi dell’affetto, vagabondaggio affettivo, si gira per trovare un affetto che gratifica ma non si costruiscono relazioni, semplicemente si consumano emozioni; non si può costruire un rapporto su delle emozioni che consumano, ma il rapporto si costruisce sulla roccia e dunque la lotta, il confronto, le difficoltà, i problemi sono molto importanti da questo punto di vista; dunque Paolo lo ha imparato questo, che ad un certo punto anche gli sconvolgimenti della vita possono portare ad una vita migliore. Dovremmo di Paolo capire un’altra cosa: quando qualcosa nella nostra vita si chiude vuol dire che Dio vuole aprire qualche altra cosa, perché qualche cosa di nuovo nasca, questa è la legge della vita , qualche cosa deve morire, quindi se non accettiamo di morire non accettiamo di crescere, di guardare avanti ; Paolo ha accettato di morire a se stesso per potere ritrovare se stesso nell’amore di Dio, questo è anche un’indicazione umana molto importante, io vi consiglio se volete un bel libro sull’Apostolo Paolo, un testo di Albert Wanhoye “ Pietro e Paolo” ; ci sono due capitoli , uno sul carattere di Paolo e uno sulla vita affettiva di Paolo; sono due capitoli della personalità di Paolo, vi leggo semplicemente un passaggio che riguarda la sua vita affettiva : è molto importante questo, dice l’autore, nei suoi rapporti con gli altri Paolo sfruttò veramente tutte le doti della sua affettività a cominciare dai suoi collaboratori. Come Timoteo che egli chiama figlio e a cui scrive: “sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia e anche tante altre persone, uomini e donne suoi collaboratori e collaboratrici a cui mostra molto affetto, alle sue comunità Paolo manifesta un’affetto paterno, un’affetto materno, un’affetto anche sponsale e ai cristiani della Galazia dice persino i miei bambini che partorisco di nuovo nel dolore , egli parla di un amore geloso per le sue comunità, quindi San Paolo ci insegna ad investire pienamente tutte le nostre capacità di azione, di affetto nel nostro amore per Cristo e nell’amore per le persone che Cristo ci affida, Paolo dice infatti : Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza ma di coraggio, di amore e di saggezza ; quindi in Paolo noi troviamo quelli che sono gli elementi che fanno l’umanità vera, l’azione, la passione, l’affetto, la razionalità che sono poi le sfere che costituiscono la struttura della persona umana, le troviamo veramente unificate; se noi le scindiamo noi avremo l’uomo tutta ragione, tutto testa o avremo l’uomo tutto cuore o avremo l’uomo tutto azione, proprio sempre un uomo bilaterale per potere avere una personalità piena questi elementi devono essere unificati insieme e io credo che Cristo possa essere davvero il collante di tutto questo per cui davvero quello che dice anche Giovanni Paolo II nella sua 1° enciclica REDENTIO HOMINI “ chi si avvicina a Cristo diventa anch’egli più uomo; e Paolo è anch’egli una testimonianza di questa bella affermazione.

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