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PAOLO – UN SANTO SULLE FRONTIERE DELLA CULTURA (2008) – Intervista a Ravasi

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PAOLO  – UN SANTO SULLE FRONTIERE DELLA CULTURA (2008)

di Giovanni Ferrò 

Secondo alcuni, è stato «l’inventore» del cristianesimo, perché avrebbe trasformato una piccola setta ebraica in una nuova, contagiosa, religione. Altri preferiscono definirlo «l’apostolo delle genti», perché ha dato respiro missionario alla Chiesa nascente, ancora ripiegata su se stessa. A duemila anni dalla sua nascita, Paolo di Tarso resta una delle figure più emblematiche e, a tratti, persino misteriose del Nuovo Testamento. Di certo, è stato un grande pastore, in grado di fondare comunità cristiane ovunque mettesse piede; ma anche un robusto teorico, l’uomo che ha prodotto un’originale sintesi tra la radice religiosa ebraica e la cultura greca, all’interno della cornice istituzionale della civitas latina. Per ricordare la figura e l’opera di questo santo, senza di cui il cristianesimo non sarebbe forse ciò che è, Benedetto XVI ha indetto, a partire dal giugno 2008, uno speciale Anno Paolino. Ma qual è stato lo stile di Paolo? Quale il suo insegnamento? E in che modo è possibile, oggi, tentare una nuova sintesi culturale, facendo i conti con un mondo diventato «adulto» e che cambia così rapidamente, prendendo a modello l’esempio di san Paolo? Siamo andati a chiederlo a monsignor Gianfranco Ravasi, biblista raffinato, per 18 anni prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, e soprattutto – da alcuni mesi – nuovo presidente del Pontificio Consiglio per la cultura, il dicastero vaticano che più di tutti ha il dovere di confrontarsi con l’universo del pensiero laico. Di seguito, l’intervista che monsignor Ravasi ci ha rilasciato..

L’intelligenza e l’amore di un uomo capace di rischiare Nei nobili corridoi della Biblioteca Ambrosiana, monsignor Gianfranco Ravasi si muove con la leggerezza e l’agio di chi si sente a casa. Nominato presidente del Pontificio Consiglio per la cultura il 3 settembre scorso, il più famoso biblista d’Italia ha lasciato l’incarico di prefetto di questa autorevole istituzione culturale milanese, fondata dal cardinale Federico Borromeo, e si è trasferito, armi e bagagli, in Vaticano. Però alla guida dell’Ambrosiana ha trascorso 18 anni. Comprensibile, dunque, che tra le « sue » mura tappezzate di libri antichi torni volentieri e con un pizzico di nostalgia. Per parlare di san Paolo, « teorico del cristianesimo » e santo del dialogo tra le culture, nonché delle sfide che la cultura contemporanea pone oggi alla Chiesa, siamo dunque venuti qui all’Ambrosiana, in piazza Pio XI, a due passi dal Duomo, dove monsignor Ravasi ci accoglie in un’enorme sala con piccoli banchi di legno che la rendono simile allo scriptorium di un antico monastero benedettino. Le coste di migliaia di volumi preziosi che raggiungono il soffitto e i ritratti di austeri personaggi alle pareti inducono una soggezione che il neoarcivescovo, con eleganza casual e colta bonomia, provvede subito a dissipare. Cosa vuol dire fare cultura per un’istituzione come la Santa Sede? «Prima di tutto c’è la questione piuttosto ardua di riuscire a definire che cosa è « cultura ». Indubbiamente, dopo un lungo periodo razionalistico che pensava alla cultura solo come a un fenomeno accademico, adesso sempre di più la si considera come una sorta di grande anima cosciente e coerente che attraversa tutto l’agire umano. Per questo motivo il Pontificio Consiglio ha un orizzonte vastissimo davanti a sé, che interseca anche il lavoro di altre strutture ecclesiali. Faccio qualche esempio: prendiamo il problema « scienza e fede », oppure il tema dei linguaggi, che personalmente ritengo capitale; o ancora il rapporto tra etica ed economia, un ambito su cui vorrei incrementare l’impegno del dicastero: l’economia non è soltanto un fenomeno tecnico-finanziario, è invece – come dice Amartya Sen – una scienza umanistica. Altro capitolo: il dialogo interreligioso, per il quale esiste un dicastero specifico, ma che presuppone una riflessione di matrice culturale. In questo senso, il Consiglio per la cultura è più un dicastero di prospettiva che non un organismo operativo in senso stretto. Fare cultura nella Chiesa diventa, insomma, una componente costante che attraversa, orienta e interpreta tutte le scelte pastorali». Di questi tempi si parla moltissimo di dialogo tra le fedi, ma anche – al contrario – di scontro tra culture e tra civiltà. Qual è il suo giudizio su questo quadro, tratteggiato così spesso a tinte fosche? «Nel dialogo tra le culture ci sono sempre state, nella storia, delle oscillazioni. Ci sono periodi in cui è quasi istintivo lo scontro, pensiamo per esempio alle guerre mondiali; e altri – magari immediatamente successivi – in cui prevale il desiderio di dialogo, il sogno dell’unità: è il caso della nascita dell’Onu nel 1945. Oggi siamo indubbiamente in un periodo di « caduta » nello scontro, ma mi pare si intraveda uno slancio verso la ripresa del dialogo. Comunque, non bisogna mai rassegnarsi ai meccanismi della storia. Credo quindi che la registrazione che ha fatto Huntington parlando di « scontro di civiltà », alla fine, è solo una sorta di accettazione dello status quo, non una proposta per affrontarlo o superarlo. Tanto è vero che il suo libro è stato molto apprezzato dai fondamentalisti islamici. La mera registrazione del fenomeno non è fare cultura. Per questo credo non ci si debba rassegnare alla logica dello scontro. E si debbano offrire proposte alternative di dialogo. Purtroppo, per quanto riguarda il campo religioso, il dialogo oggi è diventato difficile. Se guardiamo all’Ottocento, notiamo che il confronto-scontro avveniva tra grandi sistemi di pensiero. Il marxismo era una vera e propria Weltanschauung, così come il cristianesimo e il liberalismo. Si trattava di veri scontri tra opposte visioni dell’uomo, con pensatori di livello eccelso sui diversi fronti. Oggi invece, per via della modesta temperie culturale in cui viviamo, lo scontro avviene sul piano dell’ironia, del sarcasmo, dello sbeffeggio da una parte; e dall’altra, con insorgenze altrettanto modeste di tipo fondamentalista-apologetico. Questa è l’altra malattia che si aggiunge alla sindrome dello scontro: non è più uno scontro nobile e alto, è quasi un gioco di società». Il dialogo con il mondo della cultura è sempre più dialogo con un mondo laico, aconfessionale, distante dalla fede e dalla Chiesa. Come si fa a entrare in dialogo oggi con il mondo laico? «Uno dei capitoli su cui vorrei impegnarmi di più, come presidente del Pontificio Consiglio per la cultura, è quello che un tempo era la stessa ragion d’essere del dicastero, il cui nome originale era « Consiglio per il dialogo con i non credenti ». Il confronto con la laicità è quindi un tema da rinverdire e da riportare a un livello nobile. Su questo abbiamo tanta strada da fare. Ho alcune idee e progetti, però sarà un lavoro arduo e molto lento. Il problema, infatti, è che il nostro orizzonte non può e non deve essere soltanto il mondo europeo o occidentale, ma deve abbracciare tutti i continenti. E qui lo scenario si fa complesso e diversificato. Si affacciano sullo scenario internazionale culture come quella cinese o indiana che sono molto caratterizzate. Per confrontarcisi, occorre un’elaborazione complessa. D’altra parte, anche queste culture così forti e tipizzate risentono del processo di globalizzazione trionfante che investe l’intero pianeta. Bisogna quindi trovare un modello di confronto con la cultura « globale » dominante che però non penalizzi le identità particolari, che non possono essere semplicemente ignorate: perché, come si vede bene, le identità risorgono. Insomma, è fondamentale l’impegno al confronto con la laicità e la non credenza, ma con una laicità che oggi è il mondo intero». Di questo dialogo con la laicità, qui a Milano, è stato maestro il cardinale Martini. Quello stile dell’ex suo arcivescovo che cosa le ha insegnato? «La « Cattedra dei non credenti » è stata un’esperienza molto importante ma è stata figlia di un periodo particolare. A mio parere, ha insegnato una cosa fondamentale: l’ascolto dell’altro. E non è una cosa banale: ascoltare è un’attività che costa tanto quanto il parlare. Vuol dire non scegliersi l’interlocutore compiacente, vuol dire anche lasciarsi ferire dalle domande che vengono poste. Questo è un atteggiamento importantissimo. D’altro canto, la Cattedra ha avuto anche un punto debole, a causa del quale quell’esperienza alla fine è morta: è stato un evento che, sostanzialmente, non è entrato in un programma pastorale effettivo». Quanto sarà complicato introdurre uno stile del genere in una struttura come il Pontificio Consiglio? «Non sarà facile. È facile organizzare grandi incontri e grandi convegni a livello internazionale. Di questi ce ne sono tanti. La cosa più complicata è invece elaborare delle visioni, dei progetti, dei percorsi, che poi vanno verificati nella realtà concreta, a livello locale». Un disegno di san Paolo realizzato su pergamena, risalente al X secolo e conservato alla Biblioteca capitolare di Vercelli. Benedetto XVI ha indetto per il 2008 uno speciale Anno Paolino. Perché san Paolo è così importante nella Chiesa primitiva, e dunque nel farsi stesso della comunità cristiana? «Il discorso che abbiamo fatto finora va proprio a confluire su Paolo: intanto, Paolo è sì un pastore, ma è anche un grande teorico. Non è il « Lenin del cristianesimo », come lo definiva Gramsci. Però, certo, è colui che ha un grande progetto ermeneutico. Paolo vuole dare una interpretazione coerente del cristianesimo, un’interpretazione che sia interculturale, anzi inculturata: con lui inizia la grande operazione di trasmissione della fede con le categorie del pensiero greco, che durerà per 4-5 secoli e che culmina nei grandi Concili di Nicea e Costantinopoli. Paolo intuisce insomma che, se il cristianesimo non vuole essere una setta, deve riuscire a fare i conti con la cultura del proprio tempo: da qui la scelta di riscrivere – senza perderla – la propria radice ebraica. Infine, Paolo è anche un pastore: costruisce delle Chiese e le modella secondo paradigmi diversi. Noi abbiamo sicuramente almeno 3-4 modelli diversi di « Chiesa paolina ». Paolo d’altronde è stato un uomo di tre culture: quella ebraica, greca e romana. Quindi è vissuto in continuo ascolto e attenzione a questi mondi». Paolo, dunque, rompe le catene che rischiavano di rinchiudere la prima comunità nell’ambito angusto di una piccola setta ebraica e apre al cristianesimo un orizzonte universale? «Sì, rompe le catene di un cristianesimo solo giudaico. Però non rinuncia mai all’eredità ebraica, la considera una delle componenti insostituibili. Certo, non teme il confronto con la laicità, che allora voleva dire il paganesimo. E mette in conto il rischio dello scacco. È il caso emblematico dell’Areopago di Atene: un tentativo di dialogo e di incontro con un mondo del tutto « altro », usando lo stesso linguaggio e la stessa strumentazione culturale dell’ »altro ». Poi però Paolo si accorge dell’ »eccedenza » del messaggio cristiano, si accorge che non è possibile giungere a un accordo sulla base del semplice sincretismo. Se non è accettabile il fanatismo che « nega » l’altro, non è neppure sufficiente il sincretismo. E questo è un altro problema fondamentale del dialogo con il mondo laico: il confronto deve essere sempre civile, però alla fine c’è una « eccedenza » della fede che non posso non riconoscere». Che cosa intende con « eccedenza »? «L’eccedenza ha a che fare con la tutela della specificità della teologia. Altrimenti è una filosofia. In questo senso, per me, il libro fondamentale è Giobbe: un libro che è un continuo atto d’accusa contro gli « amici », cioè contro i sistemi di pensiero onnicomprensivi, anche quelli che difendono Dio. Tanto è vero che Giobbe alla fine abbandona la via del luogo comune, del sentito dire, e prende la via della visione. Questa è l’eccedenza. A questo dovremmo educare un po’ anche i nostri fedeli: bisogna ricordare che la fede non è spiegare o imparare poche cose, e non è praticare poche cose. È sempre un di più, molto di più. Come la salvezza è molto di più che la semplice « sanazione » del limite». Ultimamente, con il Motu proprio sull’antica liturgia, la lingua latina è tornata d’attualità. Indubbiamente, il latino ha svolto un ruolo fondamentale nella storia della Chiesa. Ma oggi è ancora vitale? «A mio parere, bisogna evitare in tutti i modi una delle grandi malattie del nostro tempo: la smemoratezza. In questa chiave, al di là della questione del suo ruolo nella liturgia, il latino – come stendardo – è importante: a livello generale, pensiamo cosa ha significato per l’elaborazione delle categorie teologiche, e del pensiero in generale, occidentali. Nella liturgia, poi, recuperare il latino significa recuperare anche la possibilità di comprensione di tutto il patrimonio musicale. Il punto ovviamente non è ripetere, ma comprendere e far vivere il passato. Coltivare la memoria del latino deve essere, in qualche modo, un’operazione innovativa». San Paolo è stato un grandissimo comunicatore. Oggi che viviamo nella società delle comunicazioni, perché invece la Chiesa fa così fatica a parlare al mondo? «Un tempo il mondo era mosso dalla Chiesa. A partire dall’Ottocento, ha preso a muoversi da solo, è diventato « adulto », come dice Bonhoeffer. E la Chiesa si è trovata a inseguirlo. Il problema centrale è quello del linguaggio: in passato i linguaggi erano coniati all’interno della Chiesa. Pensiamo al linguaggio artistico, musicale, alla stessa letteratura. Oggi non è più così. E la Chiesa, per tutelare la sua identità, si è aggrappata alle formulazioni che già conosceva. Oppure le ha rielaborate, cercando di restare al passo: è il caso, ad esempio, dei catechismi. Ma nel frattempo il mondo era già andato avanti, era passato oltre. Il punto è che, quando si muta il linguaggio, si muta la struttura del pensiero. In questo caso, dunque, la soluzione non sta nel rincorrere il medium, con un semplice aggiornamento tecnico: l’homo telematicus non è solo colui che è capace di usare il computer, è proprio un fenotipo antropologico differente. E la comunicazione telematica non è soltanto un fenomeno tecnico, è un fenomeno esistenziale. Questa realtà non si può soltanto deprecarla, rimanendo aggrappati al passato. Il punto è riuscire a « comunicare » in questo mondo, riuscire a parlare a questo uomo contemporaneo, senza però rassegnarsi all’esito che l’uomo contemporaneo ha raggiunto». In sintesi, qual è il segreto di un evangelizzatore così grande come Paolo? «Il segreto mi sembra questo: per annunciare in maniera autentica bisogna saper coniugare l’intelligenza e l’amore. Non basta solo l’intellettualismo, come non basta solo la partecipazione passionale. Le due cose si devono sposare. E Paolo, in questo senso, è stato un maestro. Bisogna quindi recuperare l’idea di una Chiesa « calda », ma al tempo stesso non perdere il rigore intellettuale. Talvolta oggi, invece, la teologia se ne va per suo conto, la catechesi è affidata alla buona volontà, mentre certa pastorale – in particolare nei movimenti – esalta solo la dimensione spiritualistica. Un’ultima cosa che ci insegna Paolo è la necessità di porsi sulle frontiere, anche le più difficili: non accontentarsi dei propri orti, ma affrontare anche il mare aperto, gli spazi apparentemente più ostili. E, in questo apostolato di frontiera, non temere di adottare tutti i mezzi e gli stili a disposizione, anche i più moderni e « alieni ». Però, senza perdere l’anima, cioè il radicamento indiscutibile nella grandezza di un messaggio. Cosa di cui non sono consapevoli, tante volte, i cristiani». E dove è oggi Paolo, nella Chiesa? In quale luogo ecclesiale è più vicino il suo spirito? Nei movimenti? Nei monasteri? Nelle piccole parrocchie? «Ci sono due frasi di Paolo significative a questo proposito. Una è « esaminate tutto, tenete ciò che è buono ». E l’altra: « Io mi sono fatto tutto per tutti ». Voglio dire: la concezione di Chiesa propria di Paolo – una Chiesa non monolitica e non anarchica, ma vivente, « somatica » – ci fa capire che il modello cristiano è quello della molteplicità, della diversità nell’unità. Nessuno può dire: « Questo è l’unico, vero cristiano ». Il cristianesimo nasce nella sua ecclesialità, nel suo essere tutti partecipi, pronti a prendere dall’altro gli aspetti positivi, in una continua osmosi. Per questo non bisogna avere mai disprezzo di qualsiasi tipo di esperienza ecclesiale. Però bisogna condannarla quando diventa integralista, arrogante, autosufficiente e pretende di affermare di essere l’unica: l’unità vitale del Corpo di Cristo è decisiva, ma può esistere solo nell’efficacia e nell’armonia dei suoi membri, dal capo ai piedi, come ricorda Paolo ai Corinzi».

Giovanni Ferrò  

PREDICATORE DEL PAPA: PAOLO, MODELLO DI VERA CONVERSIONE EVANGELICA

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PREDICATORE DEL PAPA: PAOLO, MODELLO DI VERA CONVERSIONE EVANGELICA

Prima predica d’Avvento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap.

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 5 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la prima predica d’Avvento pronunciata alla presenza di Benedetto XVI da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia. Nel cuore dell’anno paolino, padre Cantalamessa ha proposto una riflessione sul posto che occupa Cristo nel pensiero e nella vita dell’Apostolo, in vista di un rinnovato sforzo per mettere la persona di Cristo al centro della teologia della Chiesa e della vita spirituale dei credenti.

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« QUELLO CHE POTEVA ESSERE UN GUADAGNO L’HO CONSIDERATO UNA PERDITA A MOTIVO DI CRISTO »

L’anno paolino è una grazia grande per la Chiesa, ma presenta anche un pericolo: quello di fermarsi a Paolo, alla sua personalità, la sua dottrina, senza fare il passo successivo da lui a Cristo. Il Santo Padre ha messo in guardia contro questo rischio nell’omelia stessa in cui ha indetto l’anno paolino e nell’udienza generale del 2 Luglio scorso ribadiva: « È questo il fine dell’anno Paolino: imparare da san Paolo, imparare la fede, imparare il Cristo ». È successo tante volte nel passato, fino a dar luogo all’assurda tesi secondo cui Paolo, non Cristo, sarebbe il vero fondatore del cristianesimo. Gesù Cristo sarebbe stato per Paolo quello che Socrate era stato per Platone: un pretesto, un nome, sotto il quale mettere il proprio pensiero. L’Apostolo, come prima di lui Giovanni Battista, è un indice puntato verso uno « più grande di lui », di cui egli non si ritiene degno nemmeno di essere apostolo. Quella tesi è il travisamento più completo e l’offesa più grave che si possa fare all’apostolo Paolo. Se tornasse in vita, egli reagirebbe a quella tesi con la stessa veemenza con cui reagì di fronte a un analogo fraintendimento dei corinzi: « Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati? » (1 Cor 1,13). Un altro ostacolo da superare, anche per noi credenti, è quello di fermarci alla dottrina di Paolo su Cristo, senza lasciarci contagiare dal suo amore e dal suo fuoco per lui. Paolo non vuole essere per noi solo un sole d’inverno che illumina ma non riscalda. L’intento evidente delle sue lettere è di portare i lettori non solo alla conoscenza, ma anche all’amore e alla passione per Cristo. A questo scopo vorrebbero contribuire le tre meditazioni di Avvento di quest’anno, a partire da questa di oggi in cui rifletteremo sulla conversione di Paolo, l’avvenimento che, dopo la morte e risurrezione di Cristo, ha maggiormente influito sul futuro del cristianesimo.

1. La conversione di Paolo vista da dentro La migliore spiegazione della conversione di san Paolo è quella che da lui stesso quando parla del battesimo cristiano come di un essere « battezzati nella morte di Cristo » « sepolti insieme con lui » per risorgere con lui e « camminare in una vita nuova » (cf. Rom 6, 3-4). Egli ha rivissuto in sé il mistero pasquale di Cristo, intorno a cui ruoterà in seguito tutto il suo pensiero. Ci sono delle analogie anche esterne impressionanti. Gesù rimase tre giorni nel sepolcro; per tre giorni Saulo visse come un morto: non poteva vedere, stare in piedi, magiare, poi al momento del battesimo i suoi occhi si riaprirono, poté mangiare e riprendere le forze, tornò in vita  (cf. Atti 9,18). Subito dopo il suo battesimo, Gesù si ritirò nel deserto e anche Paolo, dopo essere stato battezzato da Anania, si ritirò nel deserto di Arabia, cioè nel deserto intorno a Damasco. Gli esegeti calcolano che tra l’evento sulla via di Damasco e l’inizio della sua attività pubblica nella Chiesa ci sono una decina d’anni di silenzio nella vita di Paolo. Gli ebrei lo cercavano a morte, i cristiani non si fidavano ancora e avevano paura di lui. La sua conversione ricorda quella del cardinal Newman che gli ex fratelli di fede anglicani consideravano un transfuga e i cattolici guardavano con sospetto per le sue idee nuove e ardite. L’Apostolo ha fatto un lungo noviziato; la sua conversione non è durata pochi minuti. Ed è in questa sua kenosi, in questo tempo di svuotamento e di silenzio che ha accumulato quella energia dirompente e quella luce che un giorno riverserà sul mondo. Della conversione di Paolo abbiamo due diverse descrizioni: una che descrive l’evento, per così dire, dall’esterno, in chiave storica e un’altra che descrive l’evento dall’interno, in chiave psicologica o autobiografica. Il primo tipo è quello che troviamo nelle tre diverse relazioni che si leggono negli Atti degli apostoli. Ad esso appartengono anche alcuni accenni che Paolo stesso fa dell’evento, spiegando come da persecutore divenne apostolo di Cristo (cf. Gal 1, 13-24). Al secondo tipo appartiene il capitolo 3 della Lettera ai Filippesi, in cui l’Apostolo descrive quello che ha significato per lui, soggettivamente, l’incontro con Cristo, quello che era prima e quello che è diventato in seguito; in altre parole, in che è consistito, esistenzialmente e religiosamente, il cambiamento intervenuto nella sua vita. Noi ci concentriamo  su questo testo che, per analogia con l’opera agostiniana, potremmo definire « le confessioni di S. Paolo ». In ogni cambiamento c’è un terminus a quo e un terminus ad quem, un punto di partenza e un punto di arrivo. L’Apostolo descrive anzitutto il punto di partenza, quello che era prima: « Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge » (Fil 3, 4-6). Ci si può facilmente sbagliare nel leggere questa descrizione: questi non erano titoli negativi, ma i massimi titoli di santità del tempo. Con essi si sarebbe potuto aprire subito il processo di canonizzazione di Paolo, se fosse esistito a quel tempo. È come dire di uno oggi: battezzato l’ottavo giorno, appartenente alla struttura per eccellenza della salvezza, la chiesa cattolica, membro dell’ordine religioso più austero della Chiesa (questo erano i farisei!), osservantissimo della Regola… ». Invece c’è nel testo un punto  a capo che divide in due la pagina e la vita di Paolo. Si riparte da un « ma » avversativo che crea un contrasto totale: « Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo » (Fil 3, 7-8). Tre volte ricorre il nome di Cristo in questo breve testo. L’incontro con lui ha diviso la sua vita in due, ha creato un prima e poi. Un incontro personalissimo (è l’unico testo dove l’apostolo usa il singolare « mio », non « nostro » Signore) e un incontro esistenziale più che mentale. Nessuno mai potrà conoscere a fondo cosa avvenne in quel breve dialogo: « Saulo, Saulo! » « Chi sei tu, Signore? Io sono Gesù! ». Una « rivelazione », la definisce lui (Gal 1, 15-16). Fu una specie di fusione a fuoco, un lampo di luce che ancora oggi, a distanza di duemila anni, rischiara il mondo. 2. Un cambiamento di mente Proviamo ad analizzare il contenuto dell’evento. È stato anzitutto un cambiamento di mente, di pensiero, letteralmente una metanoia. Paolo aveva fino allora creduto di potersi salvare ed essere giusto davanti a Dio mediante l’osservanza scrupolosa della legge e delle tradizioni dei padri. Ora capisce che la salvezza si ottiene in altro modo. Voglio essere trovato, dice, « non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede » (Fil 3, 8-9). Gesù gli ha fatto sperimentare su di sé quello che un giorno avrebbe dovuto proclamare a tutta la Chiesa: la giustificazione per grazia mediante la fede (cf. Gal 2,15-16; Rom 3, 21 ss.). Leggendo il capitolo terzo della Lettera ai Filippesi a me viene in mente un’immagine: un uomo cammina di notte in un fitto bosco al fioco lume di una candela, facendo attenzione a che non si spenga; camminando, camminando viene l’alba, sorge il sole, il fioco lume di candela impallidisce, finché non gli serve più e lo getta via. Il lucignolo fumigante era la sua propria giustizia. Un giorno, nella vita di Paolo, è spuntato il sole di giustizia, Cristo Signore,  e da quel momento non ha voluto altra luce che la sua. Non si tratta di un punto accanto ad altri, ma del cuore del messaggio cristiano; lui lo definirà il « suo vangelo », al punto di dichiarare anatema chi osasse predicare un vangelo diverso, fosse pure un angelo o lui stesso (cf. Gal 1, 8-9). Perché tanta insistenza? Perché in ciò consiste la novità cristiana, quello che la distingue da ogni altra religione o filosofia religiosa. Ogni proposta religiosa comincia dicendo agli uomini quello che devono fare per salvarsi o ottenere la « Illuminazione ». Il cristianesimo non comincia dicendo agli uomini quello che devono fare, ma quello che Dio ha fatto per loro in Cristo Gesù. Il cristianesimo è la religione della grazia. C’è posto – e come – per i doveri e l’osservanza dei comandamenti, ma dopo, come risposta alla grazia, non come sua causa o suo prezzo. Non ci si salva per le buone opere, anche se non ci si salva senza le buone opere. È una rivoluzione di cui, a distanza di duemila anni, ancora stentiamo a prendere coscienza. Le polemiche teologiche sulla giustificazione mediante la fede dalla Riforma in poi l’hanno spesso ostacolata più che favorita perché hanno mantenuto il problema a livello teorico, di tesi di scuole contrapposte, anziché aiutare i credenti a farne esperienza nella loro vita. 3. « Convertitevi e credete al vangelo » Ma dobbiamo porci una domanda cruciale: chi è l’inventore di questo messaggio? Se esso fosse l’Apostolo Paolo, allora avrebbero ragione quelli che dicono che è lui, non Gesù, il fondatore del cristianesimo. Ma l’inventore non è lui; egli non fa che esprimere in termini elaborati e universali un messaggio che Gesù esprimeva con il suo tipico linguaggio, fatto di immagini  e di parabole. Gesù iniziò la sua predicazione dicendo: « Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1, 15). Con queste parole egli insegnava già la giustificazione mediante la fede. Prima di lui, convertirsi significava sempre « tornare indietro » (come indica lo stesso termine ebraico shub); significava tornare all’alleanza violata, mediante una rinnovata osservanza della legge. « Convertitevi a me [...], tornate indietro dal vostro cammino perverso », diceva Dio nei profeti  (Zc 1, 3-4; Ger 8, 4-5). Convertirsi, conseguentemente, ha un significato principalmente ascetico, morale e penitenziale e si attua  mutando condotta di vita. La conversione è vista come condizione per la salvezza; il senso è: convertitevi e sarete salvi; convertitevi e la salvezza verrà a voi. Questo è il significato predominante che la parola conversione ha sulle labbra stesse di Giovanni Battista (cf. Lc 3, 4-6). Ma sulla bocca di Gesù, questo significato morale passa in secondo piano (almeno all’inizio della sua predicazione), rispetto a un significato nuovo, finora sconosciuto. Anche in ciò si manifesta il salto epocale che si verifica tra la predicazione di Giovanni Battista e quella di Gesù. Convertirsi non significa più tornare indietro, all’antica alleanza e all’osservanza della legge, ma significa fare un salto in avanti, entrare nella nuova alleanza, afferrare questo Regno che è apparso, entrarvi mediante la fede. « Convertitevi e credete » non significa due cose diverse e successive, ma la stessa azione: convertitevi, cioè credete; convertitevi credendo! « Prima conversio fit per fidem », dirà san Tommaso d’Aquino, la prima conversione consiste nel credere (1). Dio ha preso, lui, l’iniziativa della salvezza: ha fatto venire il suo Regno; l’uomo deve solo accogliere, nella fede, l’offerta di Dio e viverne, in seguito, le esigenze. È come di un re che apre la porta del suo palazzo, dove è apparecchiato un grande banchetto e, stando sull’uscio, invita tutti i passanti a entrare, dicendo: « Venite, tutto è pronto! ». È l’appello che risuona in tutte le cosiddette parabole del Regno: l’ora tanto attesa è scoccata, prendete la decisione che salva, non lasciatevi sfuggire l’occasione! L’Apostolo dice la stessa cosa con la dottrina della giustificazione mediante la fede. L’unica differenza è dovuta a ciò che è avvenuto, nel frattempo, tra la predicazione di Gesù e quella di Paolo: Cristo è stato rifiutato e messo a morte per i peccati degli uomini. La fede « nel Vangelo » (« credete al Vangelo »), ora si configura come fede « in Gesù Cristo », « nel suo sangue » (Rm 3, 25). Quello che l’Apostolo esprime mediante l’avverbio « gratuitamente »(dorean) o « per grazia », Gesù lo diceva con l’immagine del ricevere il regno come un bambino, cioè come dono, senza accampare meriti, facendo leva solo sull’amore di Dio, come i bambini fanno leva sull’amore dei genitori. Si discute da tempo tra gli esegeti se si debba continuare a parlare della conversione di san Paolo; alcuni preferiscono parlare di « chiamata », anziché di conversione. C’è chi vorrebbe che si abolisse addirittura la festa della conversione di S. Paolo, dal momento che conversione indica un distacco e un rinnegare qualcosa, mentre un ebreo che si converte, a differenza del pagano, non deve rinnegare nulla, non deve passare dagli idoli al culto del vero Dio (2). A me pare che siamo davanti a falso problema. In primo luogo non c’è opposizione tra conversione e chiamata: la chiamata suppone la conversione, non la sostituisce, come la grazia non sostituisce la libertà. Ma soprattutto abbiamo visto che la conversione evangelica non è un rinnegare qualcosa, un tornare indietro, ma un accogliere qualcosa di nuovo, fare un balzo in avanti. A chi parlava Gesù quando diceva: « Convertitevi e credete al vangelo »? Non parlava forse a degli ebrei? A questa stessa conversione si riferisce l’Apostolo con le parole: « Quando ci sarà la conversione al Signore quel velo verrà rimosso » (2Cor 3,16). La conversione di Paolo ci appare, in questa luce, come il modello stesso della vera conversione cristiana che consiste anzitutto nell’accettare Cristo, nel « rivolgersi » a lui mediante la fede. Essa è un trovare prima che un lasciare. Gesù non dice: un uomo vendette tutto che quello che aveva e si mise alla ricerca di un tesoro nascosto; dice: un uomo trovò un tesoro e per questo vendette tutto. 4. Un’esperienza vissuta Nel documento di accordo tra la Chiesa cattolica e la Federazione mondiale della Chiese luterane sulla giustificazione mediante la fede, presentato solennemente nella Basilica di S. Pietro da Giovanni Paolo II e l’arcivescovo di Uppsala nel 1999, c’è una raccomandazione finale che mi pare di importanza vitale. Dice in sostanza questo: è venuto il momento di fare di questa grande verità una esperienza vissuta da parte dei credenti, e non più un oggetto di dispute teologiche tra dotti, come è avvenuto nel passato. La ricorrenza dell’anno paolino ci offre una occasione propizia per fare questa esperienza. Essa può dare un colpo d’ala alla nostra vita spirituale, un respiro e una libertà nuova. Charles Péguy ha raccontato, in terza persona, la storia del più grande atto di fede della sua vita. Un uomo, dice, (e si sa che quest’uomo era lui stesso) aveva tre figli e un brutto giorno essi si ammalarono, tutti e tre insieme. Allora aveva fatto un colpo di audacia. Al ripensarci si ammirava anche un po’ e bisogna dire che era stato davvero un colpo ardito. Come si prendono tre bambini da terra e si mettono tutti e tre insieme, quasi per gioco, nelle braccia della loro madre o della loro nutrice che ride e dà in esclamazioni, dicendo che sono troppi e non avrà la forza di portarli, così lui, ardito come un uomo, aveva preso -s’intende, con la preghiera – i suoi tre bambini nella malattia e tranquillamente li aveva messi nelle braccia di Colei che è carica di tutti i dolori del mondo: «Vedi – diceva – te li do, mi volto e scappo, perché tu non me li renda. Non li voglio più, lo vedi bene! Devi pensarci tu». (Fuori metafora, era andato a piedi in pellegrinaggio da Parigi a Chartres per affidare alla Madonna i suoi tre bambini malati). Da quel giorno, tutto andava bene, naturalmente, poiché era la Santa Vergine a occuparsene. È perfino curioso che non tutti i cristiani facciano altrettanto. È così semplice, ma non si pensa mai a ciò che è semplice (3). La storia ci serve in questo momento per l’idea del colpo di audacia, perché è di qualcosa del genere che si tratta. La chiave di tutto, si diceva, ciò è la fede. Ma ci sono diversi tipi di fede: c’è la fede-assenso dell’intelletto, la fede-fiducia, la fede-stabilità, come la chiama Isaia (7, 9): di quale fede si tratta, quando si parla della giustificazione «mediante la fede»? Si tratta di una fede tutta speciale: la fede-appropriazione! Ascoltiamo, su questo punto, san Bernardo: «Io – dice -, quello che non posso ottenere da me stesso, me lo approprio (usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore, perché è pieno di misericordia. Mio merito, perciò, è la misericordia di Dio. Non sono certamente povero di meriti, finché lui sarà ricco di misericordia. Che se le misericordie del Signore sono molte (Sal 119, 156), io pure abbonderò di meriti. E che ne è della mia giustizia? O Signore, mi ricorderò soltanto della tua giustizia. Infatti essa è anche la mia, perché tu sei per me giustizia da parte di Dio» (4). È scritto infatti che  « Cristo Gesù … è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione (l Cor l, 30). Per noi, non per se stesso! San Cirillo di Gerusalemme  esprimeva, con altre parole, la stessa idea del colpo di audacia della fede: «O bontà straordinaria di Dio verso gli uomini! I giusti dell’Antico Testamento piacquero a Dio nelle fatiche di lunghi anni; ma quello che essi giunsero a ottenere, attraverso un lungo ed eroico servizio accetto a Dio, Gesù te lo dona nel breve spazio di un’ora. Infatti, se tu credi che Gesù Cristo è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo e sarai introdotto in paradiso da quello stesso che vi introdusse il buon ladrone» (5). Immagina, scrive il Cabasilas sviluppando un’immagine di san Giovanni Crisostomo, che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu non hai combattuto, non hai né faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l’assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore. Ma c’è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri, più di ogni altra cosa, vedere onorato il suo fautore e consideri quale premio del suo combattimento l’incoronazione dell’amico, in tal caso quell’uomo non otterrà forse la corona, anche se non ha né faticato né riportato ferite? Certo che l’otterrà! Ebbene, così avviene tra Cristo e noi. Pur non avendo ancora faticato e lottato – pur non avendo ancora alcun merito -, tuttavia, per mezzo della fede noi inneggiamo alla lotta di Cristo, ammiriamo la sua vittoria, onoriamo il suo trofeo che è la croce e per lui valoroso, mostriamo veemente e ineffabile amore; facciamo nostre quelle ferite e quella morte (6). È così che si ottiene la salvezza. La liturgia di Natale ci parlerà del « santo scambio », del sacrum commercium, tra noi e Dio realizzato in Cristo.  La legge di ogni scambio  si esprime nella formula: quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio. Ne deriva che quello che è mio, cioè il peccato, la debolezza, diventa di Cristo; quello che è di Cristo, cioè la santità, diventa mio. Poiché noi apparteniamo a Cristo più che a noi stessi (cf.1 Cor 6, 19-20), ne consegue, scrive il Cabasilas, che, inversamente, la santità di Cristo ci appartiene più che la nostra stessa santità (7). E’ questo il colpo d’ala nella vita spirituale. La sua scoperta non si fa, di solito, all’inizio, ma alla fine del proprio itinerario spirituale, quando si sono sperimentate tutte le altre strade e si è visto che non portano molto lontano. Nella Chiesa cattolica abbiamo un mezzo privilegiato per fare esperienza concreta e quotidiana di questo sacro scambio e della giustificazione per grazia, mediante la fede: i sacramenti. Ogni volta che io mi accosto al sacramento della riconciliazione faccio concretamente l’esperienza di essere giustificato per grazia, ex opere operato, come diciamo in teologia. Salgo al tempio, dico a Dio: « O Dio, abbia pietà di me peccatore » e, come il pubblicano, me ne torno a casa « giustificato »  (Lc 18,14), perdonato, con l’anima splendente, come al momento in cui uscii dal fonte battesimale. Che san Paolo, in questo anno a lui dedicato, ci ottenga la grazia di fare come lui questo colpo di audacia della fede.                      

SAN PAOLO SCRIVEVA SUI MURI

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=125032

SAN PAOLO SCRIVEVA SUI MURI

(forse l’ho già postato, ma mi sembra..bello!)

Corse così tanto per annunciare il Vangelo da lasciarsi alle spalle già allora incomprensioni e amarezze. Non che Paolo di Tarso fosse uno che nelle dispute si tirava indietro. Anzi, era proprio in quei momenti che manifestava tutto il suo temperamento focoso e passionale. Di fatto però, come succede ai grandi personaggi della storia, dopo duemila anni la sua figura è ancora al centro di dibattiti e polemiche.
Corse così tanto per annunciare il Vangelo da lasciarsi alle spalle già allora incomprensioni e amarezze. Non che Paolo di Tarso fosse uno che nelle dispute si tirava indietro. Anzi, era proprio in quei momenti che manifestava tutto il suo temperamento focoso e passionale. Di fatto però, come succede ai grandi personaggi della storia, dopo duemila anni la sua figura è ancora al centro di dibattiti e polemiche. C’è chi è convinto che senza i suoi viaggi missionari la buona notizia di Cristo sarebbe rimasta circoscritta a una sparuta setta ebraica e che l’Apostolo debba essere considerato il vero «inventore» del cristianesimo come religione universale. Sono tesi che conosce bene uno dei massimi studiosi della Chiesa primitiva, il tedesco Rainer Riesner, esegeta protestante, docente di Nuovo Testamento all’Università di Dortmund. Riesner interverrà questa sera all’Università Cattolica in una conferenza organizzata dal Centro culturale di Milano: «Dalla terra alle genti: San Paolo, fondatore del cristianesimo o Apostolo di Gesù?».
Professor Riesner, come mai Paolo di Tarso continua a far discutere?
«È ancora in voga una tesi del XIX secolo per cui Paolo sarebbe l’inventore del cristianesimo. Si vuole così contrapporre Gesù come semplice profeta e Paolo che dai suoi insegnamenti avrebbe creato una teologia complicata e distinta. Paolo viene dipinto come un uomo profondamente condizionato dal pensiero pagano, che per convincere i suoi interlocutori pagani avrebbe divinizzato Gesù. Ma dietro il tentativo di ridimensionare l’apostolo c’è la volontà di negare la natura divina di Gesù e di ridurlo al ruolo di un insegnante di morale… Eppure basta leggere la Lettera ai Filippesi, in cui Paolo fa riferimento a una tradizione che non ha formulato lui ma che ha preso dalla Palestina, perché il linguaggio è semitico. La tradizione sostiene che Gesù è il figlio di Dio. Per cui Paolo non è il primo ad averne affermato la divinità. Allo stesso tempo egli è intimamente persuaso della divinità di Cristo, non solo per aver accettato la tradizione, ma perché ne ha fatto esperienza lui stesso sulla via di Damasco, come racconta nella Lettera ai Galati».
Qual è l’originalità di Paolo nella storia del cristianesimo?
«Paolo ha capito più profondamente e più velocemente degli altri apostoli che Cristo andava annunziato in tutto il mondo e che il padre di Gesù è il Dio dell’Antico Testamento. Ha testimoniato che attraverso Cristo tutti gli uomini possono arrivare al Dio d’Israele, l’unico vero Dio: anche i non ebrei; da qui le sue dispute con i Giudei. E allo stesso modo si è battuto perché gli ebrei convertiti a Cristo potessero continuare i rituali ebraici come la circoncisione. Per questo la sua è una figura moderna, che sprona anche oggi le Chiese alla missione, e Benedetto XVI ha perfettamente ragione sulla necessità di una nuova evangelizzazione dell’Europa. Paolo è un modello anche per le altre religioni e per i politici: lui ha predicato il Vangelo in maniera del tutto nonviolenta e ha sempre rispettato l’irriducibile valore della libertà di coscienza della persona».
Lei è uno dei più apprezzati studiosi di esegesi biblica e archeologia dei luoghi sacri. Quali sono gli ultimi rilevamenti significativi sulle origini del cristianesimo?
«Oggi siamo in grado di mostrare a Gerusalemme il luogo esatto in cui la prima comunità si ritrovava: il Cenacolo della tradizione. Purtroppo non si può scavare in quel posto per motivi politici. Ci sono però importanti sviluppi in un luogo legato alla vita stessa di Paolo: a Smirne, in Turchia, grazie alle ricerche di uno studioso americano, Roger Bagnall, sono stati rinvenuti dei graffiti che fanno riferimento a Gesù; in particolare è stata decifrata la frase « Colui che dona lo Spirito », che potrebbe essere la più antica testimonianza scritta della storia cristiana».
Finora la Lettera ai Tessalonicesi – scritta nel 50-51 – è considerata il testo più antico di un autore cristiano. È l’Apostolo il padre della letteratura cristiana?
«Il dibattito è aperto. Molti studiosi dell’Europa centrale pensano effettivamente che la Lettera ai Tessalonicesi sia il testo cristiano più antico. Ma in ambito anglofono e ora anche tra alcuni cattolici c’è un numero rispettabile di esegeti che ritengono più vecchia la Lettera ai Galati. C’è poi una minoranza di studiosi in cui mi riconosco che pensa sia più datata la Lettera di Giacomo. Penso infatti che essa sia stata scritta prima del Concilio apostolico di Gerusalemme nel 48. In questo testo Giacomo introduce il problema principale affrontato dal Concilio: il rapporto dei cristiani con la legge mosaica. Un tema che sarà trattato, sebbene più tardi, anche da Paolo nella Lettera ai Galati».
Oggi c’è un grande interesse intorno alla storicità di Cristo e degli apostoli. C’è il rischio che alcuni best-seller falsino la verità storiografica?
«Non solo come cristiano ma come studioso sono convinto che i Vangeli siano fonti storiche molto affidabili. Nel Vangelo di Marco soprattutto c’è coincidenza tra fatti, testimonianza oculare e Scritture. Nella ricerca non è più discusso ma accettato che questo Vangelo sia in gran parte l’insegnamento di Pietro. Il legame tra Pietro, l’evangelista Marco e il suo Vangelo diventa importante soprattutto se si considerano i vangeli apocrifi che adesso hanno fortuna nella letteratura popolare. Nessuno degli apocrifi è più antico del II secolo e per nessuno di essi si può riscontrare continuità tra testimoni diretti di Gesù e la loro redazione. E questa è una differenza importante rispetto ai Vangeli canonici».
Che cosa la preoccupa di più delle polemiche su Paolo di Tarso?
«La tesi dell’Apostolo come inventore del cristianesimo è nata all’interno del protestantesimo liberale, anche se molti esegeti evangelici si oppongono a tale interpretazione e non a caso proprio da essi il Papa ha ricevuto le recensioni più entusiaste del libro su Gesù. Ma sono molto dispiaciuto del successo di questa corrente anche al di fuori della Riforma. Io temo che essa sia così diffusa e amata perché apparentemente rende più facile il dialogo con le altre religioni: se Gesù è presentato solo come maestro e profeta e non come figlio di Dio sarebbe più semplice accettarlo per l’ebraismo liberale e l’islam. Ma possiamo rinunciare alla cristologia per il dialogo interreligioso? Su questa domanda si gioca il futuro del cristianesimo».

CORPOREITÀ E VIRTÙ IN SAN PAOLO

http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=241&id_n=7364

CORPOREITÀ E VIRTÙ IN SAN PAOLO

Autore: Re, Don Piero Curatore: Riva, Sr. Maria Gloria
Fonte: CulturaCattolica.it

Il corpo – è il caso di osservare – nella visione paolina non è né neutro né negativo, come riteneva una certa cultura greca. È portatore di dignità ed è costitutivo dell’uomo, non meno dello spirito. E insieme allo spirito compone l’uomo come immagine di Dio: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?…Glorificate, dunque, Dio nel vostro corpo!» (1Cor 6, 19s).
La corporeità trova nella sessualità un mezzo per esprimersi e comunicare, sempre in una significativa parità di diritti fra uomo e donna, anche se molte espressioni paoline risentono delle culture maschiliste giudaica e greca (cf Ef 5, 22). Per Paolo, il matrimonio non solo è legittimo, ma è «grande mistero», perché nell’unione dei coniugi si attua il mistero salvifico dell’amore di Cristo capo e sposo, per la Chiesa suo corpo e sposa (cf Ef 5, 21-33).
Tuttavia – in un contesto di erotismo esasperato – l’apostolo è portato concretamente a valutazioni a prima vista rigoriste e pessimiste, quali: meglio non sposarsi, a meno di bruciare (cf 1Cor 7, 1s. 8s); l’astensione dai rapporti coniugali, per dedicarsi alla preghiera (cf 1Cor 7, 5); la verginità esaltata a scapito della coniugalità con le sue tribolazioni (cf 1Cor 7, 25-27).
Ciò non toglie che per Paolo matrimonio e verginità siano entrambi vocazioni di origine divina, carismi (cf 1Cor 7,7). La verginità è preferibile ed è consigliata come segno provocatorio che anticipa lo stato finale e definitivo dell’umanità risorta (che sarà «senza mogli né mariti»: Mt 22, 20) e che testimonia una libera e totale dedizione a Cristo e al servizio del prossimo: ideale di carità, cui deve tendere e che avvalora anche la condizione degli sposati (cf 1Cor 7, 29-35).
Le tre virtù – che poi la tradizione cristiana chiamerà ”virtù teologali” – sono le disposizioni e forze interiori, che orientano e plasmano tutta la vita dell’uomo nuovo; sono le nuove facoltà di chi si è incontrato e convertito a Cristo e ora – docile allo Spirito – liberamente e progressivamente conforma a Lui intelligenza e volontà, pensieri e azioni, rapporti e sentimenti.
A volte, Paolo le nomina tutte insieme: «Abbiamo ricevuto notizie della vostra fede in Cristo Gesù, e della carità che avete verso tutti i santi (i battezzati), in vista della speranza che vi attende nei cieli» (Col 1,3; cf 1Cor 13,13; Ef 1, 15-18). Sono inseparabili e da esse scaturiscono – come sorgenti – i singoli atti di fede, speranza, carità.
La «obbedienza della fede» (Rom 1, 5; 16, 26) è l’assenso totale che la libertà umana dà a Dio che in Cristo si dona tutto all’uomo. Abramo è «il padre di tutti i credenti» (Rom 8, 11. 18) e Paolo ne tesse l’elogio (cf Rom 4, 16-22); insieme al battesimo la fede è l’unica causa di giustificazione (cf Rom 3-6; Gal 3); la conoscenza di fede deve diventare ”sapienza” (cf Ef 1, 17s), crescendo nell’età (cf 1Cor 13, 11), fino alla visione perfetta (cf 1Cor 13, 12).
Da quella nuova creatura che è il cristiano, scaturisce un nuovo principio di conoscenza: «Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2, 16), «Siamo in Cristo Gesù, che per noi è sapienza» (1Cor 1,30). Ai Corinti Paolo insegna che esistono due ben diverse sapienze: quella del mondo e quella del cristiano (cf 1Cor 1, 17; 2, 16).
«La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio», è «vana» (1Cor 3, 19s, Ef 5, 6) e Dio la disperde e l’annienta (cf 1Cor 1, 19-21); non può che ritenere follia la parola della croce (cf 1Cor 1, 18) e non arriva a conoscere Dio, se rimane chiusa nella sua orgogliosa autosufficienza (cf 1Cor 1, 20). È questa infatti la sapienza dell’uomo naturale, che si attiene unicamente alle risorse della sua natura (cf il «corpo psichico», 1Cor 15, 44).
La sapienza del cristiano, invece, proviene dallo Spirito di Dio (cf 1Cor 2, 10-13); è pienamente presente in Cristo nel quale si possono trovare «tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2, 3); con il dono di questa nuova sapienza, l’uomo ”spirituale” può conoscere i profondi segreti di Dio (cf 1Cor 2, 10s),«che Dio ha preparato per coloro che lo amano» (1Cor 2, 9); non c’è allora da stupirsi se questa sapienza, con un linguaggio insegnato dallo Spirito, esprime «cose spirituali in termini spirituali » (1Cor 2, 13); anzi, con essa «giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno» (1Cor 2, 15), che non sia anch’esso ”uomo spirituale”.

PAOLO ERA UN VERO FARISEO – di PAOLO DE BENEDETTI

http://www.stpauls.it/vita/0909vp/0909vp32.htm

PAOLO ERA UN VERO FARISEO

di PAOLO DE BENEDETTI

Tra gli articoli sull’Apostolo ci mancava il punto di vista di un cristiano di radici e fedeltà ebraiche come De Benedetti, che ci parla dell’autocoscienza ebraica di Paolo, dell’adesione alla corrente farisaica e della sua tensione messianica.
Che Paolo fosse e si sentisse ebreo, appare da diverse sue affermazioni, a cominciare dalla dichiarazione che, secondo Atti 22,3, fece sui gradini del tempio al momento dell’arresto: «Fratelli, io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi». E poco dopo, davanti al sinedrio: «Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti» (Atti 23,6). Vetrata della cattedrale di Saint-Julien a Le Mans, XIII sec. (foto Censi). Da queste due dichiarazioni emerge non soltanto la sua autocoscienza ebraica, ma anche la sua adesione alla corrente farisaica (in cui, secondo alcuni studiosi moderni, si era formato Gesù): Gamaliele il Vecchio era nipote di Hillel, il grande maestro che, a differenza del contemporaneo Shammaj, era noto per la sua dolcezza e moderazione.
La tradizione farisaica non era compatta e omogenea. Una citazione talmudica distingue sette tipi di farisei: «Il fariseo shikmi (che, come il biblico personaggio Sichem, si converte per opportunismo); il fariseo niqpi (che cammina a piccoli passi per ostentare umiltà); il fariseo kizai (che per non vedere le donne cammina a testa bassa e quindi picchia contro i muri e si copre di sangue); il fariseo pestello (che cammina curvo come il pestello nel mortaio); il fariseo che grida sempre (qual è il mio dovere perché io lo possa compiere?); il fariseo per amore e il fariseo per timore» (Talmud babilonese, Sotah 22b).
Ma che cosa dice la Scrittura a proposito dei precetti? «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme perché tu viva» (Dt 30,15-16). Ascoltando tali precetti – dopo la rivelazione sinaitica – il popolo disse a Mosè: «Tutto ciò che il Signore ha parlato, eseguiremo e ascolteremo» (Es 24,7). Dove si deve notare la precedenza dell’ »eseguire » sull’ »ascoltare », della prassi sulla riflessione.

Il rapporto di Paolo con la legge
Qual è la posizione di Paolo sui precetti? «Quelli che si richiamano alle opere della legge, stanno sotto la maledizione [...] e che nessuno possa giustificarsi davanti a Dio per la legge, risulta dal fatto che il giusto vivrà in virtù della fede [...]. Cristo ci ha salvati dalla maledizione della legge» (Gal 3,10-11.13). A questa e altre numerose negazioni della legge, Paolo alterna valutazioni di altro senso (per esempio in Rm 7,7.14-16). Tutto ciò deriva, a mio parere, da un’esperienza giovanile turbata e forse traumatica dell’osservanza dei precetti, come quella esemplificata nella citazione talmudica proposta sopra. Mi pare evidente che nella sua giovanile presenza farisaica il rapporto di Paolo con la legge non sia stato quello del « fariseo per amore ».
La sua colpa (che ha avuto conseguenze gravissime nelle interpretazioni cristiane dell’ebraismo) sta nell’aver generalizzato ed esclusivizzato il modello del fariseo kizai, e nell’aver ignorato una tradizione orale che insiste su quello che potremmo chiamare il significato sacramentale del precetto: il precetto, come il sacramento, non ha il suo significato nell’atto o nella materia prescritti, ma nella « provenienza ». Ossia: il precetto, come il sacramento, è un memoriale, una memoria attiva ed efficace, della volontà di Dio. Quando mi astengo, per esempio, da cibi proibiti, il vero senso del precetto è che io mi ricordo di Dio. Mi sia consentito riprendere in proposito quanto ho scritto nella mia Introduzione al giudaismo (Morcelliana 1999, pp. 74 -75). La presenza,Vetrata del duomo di Prato, 1459, realizzata su disegno di Filippo Lippi (foto Censi). l’incarnazione della volontà di Dio – potremmo dire di Dio in quanto volontà – è la radice biblica della halakhà, « norma ». Come afferma E. Levinas, la halakhà è un accesso all’intellettuale – direi alla conoscenza di Dio – a partire dall’obbedienza.
Leggiamo uno dei precetti biblici più incompresi dai non ebrei: «Parla ai figli di Israele e di’ loro che si facciano delle frange agli angoli delle loro vesti, per tutte le loro generazioni, e mettano alla frangia di ogni angolo un filo di porpora azzurra. E della frangia avverrà che quando la guarderete vi ricorderete di tutti i comandi del Signore, e li eseguirete, e non devierete dietro il vostro cuore e dietro i vostri occhi, al seguito dei quali vi siete prostituiti» (Nm 15,38-39). Se Paolo non avesse sofferto una situazione psicologica disturbata come quella del fariseo kizai, avrebbe compreso che i due versetti sono il cuore della Torà, perché contengono tre elementi assolutamente fondamentali: un comando di Dio, un comando spoglio di senso etico, e un collegamento del comando al ricordo. Potremmo aggiungere: al ricordo di Dio come voce. Proprio perché il valore dei precetti sta nella provenienza, si capisce quel detto midrashico secondo cui «non bisogna soffermarsi a ponderare sul valore dei precetti».
Il grande rabbi Jochanan ben Zakkaj, contemporaneo di Paolo, diceva: «Né il morto contamina né l’acqua purifica [che sono due principi della Torà] ma è il decreto del Re dei re, come dice il Santo benedetto sia: « Ho decretato i miei decreti e ho prescritto le mie prescrizioni, né l’uomo può violare il mio decreto »» (Midrash Rabbà a Numeri 19,8).
E due secoli dopo Rav – altro grande maestro della tradizione orale – diceva a proposito delle regole di macellazione rituale: «Forse importa al Santo, benedetto sia, che chi scanna l’animale lo colpisca al collo o lo colpisca alla nuca? Così, i precetti non sono stati dati se non allo scopo di purificare le creature» (Midrash Rabbà 6,2). Questi precetti « punteggiano » l’esistenza quotidiana, indipendentemente dall’eventuale formazione teologica del singolo: potremmo dire perciò che in un certo senso sono un modo che Dio ha di arrivare all’uomo comune. Ecco perché è stato affermato che Dio sta nel precetto (e, aggiungiamo noi, non soltanto nella morale).
La posizione, o meglio l’alternanza di posizioni di Paolo sui precetti (che, lo ripetiamo, è responsabile di gravissimi fraintendimenti dell’ebraismo da parte dei cristiani) è tuttavia, paradossalmente, un fattore intra-giudaico. Infatti il giudaismo si è sempre nutrito di discussioni anche violente, di divergenze profonde, come quelle famose, nel primo secolo, tra la scuola di Hillel e quella di Shammaj. Se i cristiani leggessero più criticamente le discordanti asserzioni di Paolo sui precetti, forse anch’essi, come i discepoli dei due maestri, sentirebbero una voce dal cielo che afferma: «Queste e quelle sono parole del Dio vivente». Ma ci vuole ancora pazienza e libertà.

La sua tensione messianica
Se l’ebraicità di Paolo emerge anche dalle sue ossessioni, c’è un altro elemento ebraico del pensiero paolino, che lo pone tra le più grandi – se non la più grande – personalità del Nuovo Testamento. Mi riferisco alla sua tensione messianica, tipica del medio giudaismo e radice perenne del cristianesimo. Essa trova il suo culmine in un passo della lettera ai Romani che vorrei fosse riletto da ogni ebreo e da ogni cristiano ogni giorno: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa, e nutre la speranza di essere liberata dalla corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati» (Romani 8,19-24).
E non dimentichiamo che questa è anche la speranza messianica di Dio.

Paolo De Benedetti

Vita Pastorale n. 9 ottobre 2009

1.LA SANTITÀ DI SAN PAOLO EBBE PRINCIPIO IL GIORNO DELLA SUA CONVERSIONE (Alberione)

http://www.alberione.org/100anni/documenti/convspaolo/alberione-mese.pdf

DON GIACOMO ALBERIONE – MESE A SAN PAOLO

Sesto giorno – Conversione di San Paolo.

1.LA SANTITÀ DI SAN PAOLO EBBE PRINCIPIO IL GIORNO DELLA SUA CONVERSIONE. Ora: che cosa è la conversione? E’ un cambiamento, è un mutare strada, è un prendere un altro metodo di vita. Importa: cambiamento di pensieri, di desideri, di opere: cioè che il convertito cominci a stimare quanto prima disprezzava e disprezzare ciò che prima
stimava. La conversione non si può soltanto avere cambiando religione, o lasciando una vita di vizi1 e di peccati: si può anche verificare lasciando certi difetti. Chi da disobbediente si fa obbediente, da pigro si fa laborioso, da freddo diventa fervoroso, da superbo diviene umile: si converte. In questo senso la Chiesa ogni giorno mette in
bocca ai suoi sacerdoti questa preghiera: Signore, degnatevi convertirci: e il Venerabile Olier2 chiedeva e proponeva spesso di convertirsi.
2.La conversione di San Paolo3 fu così straordinaria, così completa, così stabile che la chiesa ha creduto di ricordarla con una festa speciale che si deve celebrare in tutto il mondo solennemente. Fu straordinaria più di quella di Pietro e di Sant’Agostino perché avvenne per un prodigio, avendolo Gesù atterrato sulla via di Damasco ed essendo Paolo allora così persuaso della verità della sua religione che era divenuto un vero e fiero persecutore della Chiesa: la sua conversione fu così
repentina che neppur Anania e gli Apostoli volevano crederla: fu così completa che egli cominciò subito4 a predicare Gesù Cristo con tanto ardore e tanta convinzione quanto prima ne aveva usate nell’incoraggiare i farisei a uccidere Santo Stefano e nel cercare di incarcerare i cristiani: fu così stabile che mai più egli ebbe un giorno di esitazione né per il tempo che passò nella solitudine, né durante i viaggi apostolici, né nelle sue prigionie.
3.San Paolo esortando gli Ebrei a convertirsi dice loro: Abbiate grande fiducia nella divina misericordia5: andate solo con sincero sentimento: portate una grande volontà di far meglio. Chi avesse dei peccati gravi dovrebbe fare una buona
confessione e cambiare radicalmente. – E gli altri? Scegliere il loro difetto principale, col consiglio del confessore: dichiararvi una guerra senza tregua: giorno per giorno pregare, promettere, esaminarsi; settimana per settimana renderne conto al Confessore; una grande vigilanza, una violenza costante. Si richiederanno anche anni ed anni; ma si riuscirà ad acquistare la virtù opposta: sarà la fede, sarà la carità, sarà
1Nel ms: vizzi.
2Jean-Jacques Olier (1608-1657), sacerdote francese; fondatore della « Società di San Sulpizio » (Sulpiziani) per la formazione del clero. Guidato spiritualmente da san Vincenzo de’ Paoli, l’Olier operò con risultati eccellenti sia nel ministero parrocchiale sia nella cura dei seminaristi. Vi fu chi, a motivo soprattutto della sua finezza di sentimento, lo accostò a san Francesco di Sales. La sua spiritualità, ispirata all’Oratorio francese e specialmente alla dottrina del cardinale de Bérulle, si caratterizza soprattutto per l’amore verso Cristo e la mistica unione con il Verbo incarnato.
3Il racconto della conversione, o vocazione, di san Paolo si può leggere in At 9,1-30. Come sappiamo, l’apostolo stesso racconta più volte il suo incontro decisivo con il Signore Gesù: At 22, 3-21; At 26, 2-23; Ga1 l, 11-24.
4subito: aggiunto nel ms.
5Cf Eb 4,16.

la umiltà, sarà l’obbedienza? Qualunque sia: è certo che in pratica è impossibile acquistare completamente una virtù, senza che con essa ne vengano molte altre. Esempio. Il fatto della conversione di San Paolo. Saulo, poi Paolo, persuaso della verità della religione ebraica, desiderava mettere a morte tutti i cristiani. Avendo ottenuto la facoltà di andare a Damasco e incarcerarne quanti troverebbe, si recava colà con soldati. Presso Damasco all’improvviso lo circondò uno splendore improvviso6 di luce e cadendo a terra udì una voce che diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? – Rispose: E chi sei, o Signore? – E questi: Io sono quel Gesù che tu perseguiti. – Tremando e stupito, Saulo rispose: Signore, che vuoi che io faccia? – E il Signore: Entra in città e ti sarà detto il da farsi. – I circostanti udivano, ma non vedevano: alzarono Saulo, che più non vedeva, e lo condussero per mano in Damasco. Vi rimase tre giorni pregando e digiunando. – In fine il Signore mandò al discepolo Anania una visione in cui l’avverti di cercare Saulo all’albergo, senza alcun timore, e di dargli il battesimo. – Così fece Anania: Saulo fu battezzato, riacquistò la vista, fu ripieno di Spirito Santo e di sapienza. Da quel giorno egli fu il più fervente fra gli Apostoli di Nostro Signore Gesù Cristo.
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Per umiltà rifiuta gli onori divini: V. Atti degli Apostoli7; oppure Bosco, Vita di San Paolo8, pag.27.
6Vocabolo aggiunto in un secondo momento, a margine del foglio. Probabilmente, l’Autore non si ricordava di aver già espresso lo stesso concetto con l’avverbio « all’improvviso ».
7Si tratta di una aggiunta a fondo pagina. Per questo riferimento, cf At 14,13ss.
8Si tratta di un’opera scritta da san Giovanni Bosco: « Vita di S. Paolo Apostolo dottore delle genti, per cura del Sacer. Bosco Giovanni », Torino, Tip. di G.B. Paravia e Comp., 1857. – Verosimilmente, Don Alberione avrà utilizzato una edizione più recente.

PAOLO, TREDICESIMO APOSTOLO. SIGNIFICATO DEL TERMINE. – IGNAZIO SANNA

http://www.ignaziosanna.com/files/Paolo-tredicesimo-apostolo.pdf

PAOLO, TREDICESIMO APOSTOLO.

SIGNIFICATO DEL TERMINE.

IGNAZIO SANNA

I Vangeli ci dicono che gli apostoli sono dodici e che sono stati scelti da Gesù di Nazareth. Gli apostoli, rimasti in undici, dopo il tradimento di Giuda, sono ritornati al numero di 12, dopo che viene eletto il sostituto del traditore nella persona di Mattia. Paolo è il “tredicesimo” apostolo ed è stato scelto da Gesù Cristo. La tradizione parla della differenza tra Gesù di Nazareth e Gesù Cristo. Il primo nome indica il Gesù della storia, che è vissuto poco più di trent’anni nella Palestina; ha insegnato la buona novella; ha guarito molti malati; è stato processato e condannato a morte. Il secondo nome indica il Gesù della fede, “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti”. In base a ciò, è il Gesù risorto che sta nei cieli che elesse Paolo come apostolo. Oggi come oggi, questa è la modalità con cui Dio sceglie gli apostoli. Gli Apostoli di oggi sono i testimoni del Risorto.
Definizione personale.
Come descrive in prima persona la sua personalità S . Paolo? Egli si definisce come “servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione” (Rm 1,1). “Apostolo per volontà di Dio” (2Cor 1,1). “Io sono un giudeo, nato a Tarso in Cilicia, ma educato in questa città (Gerusalemme), formato alla scuola di Gamaliele nell’osservanza scrupolosa della Legge dei padri, pieno di Zelo per Dio” (At 22, 3)
“Circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’ Israele, della tribù di Beniamino. Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile” (Fil 3,5).
Paolo identifica la sua personalità con quella di G esù. Dal momento dell’incontro con Gesù, egli giudica ogni altra cosa come spazzatura. La sua identità è Gesù stesso. Nella vita delle persone comuni, invece, ciò che costituisce la fonte dell’i dentità è un’idea, l’incontro con una persona, una esperienza personale.
Definizione della Chiesa.
Come descrive la Tradizione in terza persona la personalità di Paolo? L’ appellativo più comune è quello di “Apostolo delle genti”. In effetti, S. Pa olo è figlio di tre culture: ebreo, cittadino romano, ellenista; Saul, Paolo, Apostolo, e porta l’annuncio cristiano nel mondo pagano.
Dati biografici.
Paolo è nato a Tarso, una cittadina al confine conla Siria, tra il 7 e il 10 d.C. Il padre aveva ottenuto la cittadinanza romana e, dunque, Saulo, un giudeo della diaspora, era cittadino romano. Nel 35 si converte sulla via di Damasco. Dopo la conversione, negli anni 35-38, sosta in Arabia e a Damasco. Nel 38 compie la prima visita a Gerusalemme. Negli anni 39-52, partendo da Antiochia compie il primo viaggio missionario che lo porta a Cipro. Negli anni 50-52, nel corso del secondo viaggio missionario, si ferma 18 mesi a Corinto. Nel 52 si reca all’Assemblea a Gerusalemme. Negli anni 55-57, subisce l’arresto a Gerusalemme ed è trasferito in prigionia a Cesarea. Verso il 57-58 compie il viaggio verso Roma, dove rimane agli arresti domiciliari per i primi due anni. Sotto la persecuzione di Nerone, viene martirizzato sulla via Ostiense.
Attività missionaria
Nell’anno 35 o 36, Saulo, non ancora trentenne e zelante sostenitore del più rigido giudaismo farisaico, partecipa al martirio di Stefano (At 7, 58) ed approva la sua uccisione. Con la legittimazione delle autorità religiose di Gerusale mme si dirige verso Damasco per arrestare i cristiani. “Mentre era in viaggio e stava per avvic inarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo, e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 22, 7).
Nell’anno 39, ricevuto il battesimo, Paolo viene istruito sui contenuti della fede. Per tre anni si ritira nel deserto d’Arabia. Ritorna a Damasco, ma è costretto a fuggire, calato di notte dalle mura in una cesta. A Gerusalemme vive la Chiesa Madre, presieduta dall’apostolo Giacomo. Paolo vi fa ingresso grazie alla presentazione autorevole dell’apostolo Barnaba, ebreo originario di Cipro. La Chiesa Madre, centro del giudaismo cristiano, è il luogo di verifica della missione degli apostoli. Nella sua permanenza a Gerusalemme, Agli ebrei della diaspora presenti nella Città santa Paolo rivolge il suo annuncio in tutta libertà e iniziano i primi contrasti.
Negli anni 44-49 si trova a Gerusalemme ma deve fuggire anche da qui. Torna a Tarso. Barnaba va a cercarlo per portarlo ad Antiochia, città cosmopo lita, dove c’era una fiorente comunità cristiana. Vi rimase un anno intero. Qui per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani. La chiesa di Antiochia diviene il riferimento della missione tra i pagani, così come Gerusalemme lo è per la missione tra i giudei.
Antiochia capitale della Siria è la base di partenza dei tre viaggi missionari di Paolo nei quali compie circa tredicimila chilometri, molti dei quali a piedi. Il primo viaggio vede Cipro come prima tappa. Qui, il proconsole romano Sergio Paolo diventa credente. In questo primo viaggio missionario, Paolo sperimenterà avversità e soffere nze di ogni sorta: fustigazioni, lapidazioni, naufragi, pericolo e travagli.
Nel 49, dopo tre anni, nei quali ha percorso le strade di Cipro, della Panfilia e della Galazia, torna ad Antiochia. Di lì parte un anno dopo per il secondo viaggio missionario. L’evangelizzazione tra i pagani si estende in poco tempo. La missione in Asia Minore non avviene senza tensioni e discussioni all’interno della Chiesa primitiva. Il punto di contrasto in questo caso è il seguente: è necessario farsi circoncidere, dunque assumere il segno di appartenenza al popolo di Israele, per essere salvi in Gesù Cristo, come sostengono i cristiani di stretta osservanza farisaica, oppure è sufficiente la fede in Lui, come sostengono Paolo e Barnaba? La questione viene risolta con il ritorno alla Chiesa Madre di Gerusalemme, secondo la cui decisione finale ai pagani è richiesta solamente l’osservanza delle norme di purità ritual e.
Negli anni 50-52, via terra va verso nord per visitare le comunità fondate durante il primo viaggio. Giunge alle coste occidentali della Turchia, al porto di Troade; poi va a Filippi, città della provinc ia macedone. In terra di Grecia, la prima comunità cri stiana è Filippi. Qui è costretto ad accettare l’ospitalità di una neoconvertita, Lidia. A Filippi fu accolto molto bene. I Filippesi gli aprirono un conto. Lo sostennero durante la prigionia ad Efeso.
Le tappe successive del secondo viaggio missionario sono Tessalonica, Atene e infine Corinto. A Tessalonica, Paolo usava recarsi nella sinagoga dei giudei e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture. Ad Atene, nonostante il rifiuto e il fallimento dell’Areopago, si convertirono Dionigi, membro dell’Areopago, una donna di nome Dà maris e altri con loro.
A Corinto Paolo resta circa una anno e mezzo, per poi ritornare ad Antiochia da dove riparte due anni dopo.
Negli anni 54-57 compie il terzo viaggio missionario. Il terzo viaggio segue parzialmente l’itinerario del secondo: visita le comunità della Galazia e della Frigia fondate durante i viaggi precedenti. Per oltre due anni rimase ad Efeso, capitale della provincia romana dell’Asia, da dove prosegue a Mileto. In questa città, nel 58, convoca ti gli anziani della chiesa di Efeso, dà loro le ultime raccomandazioni, sapendo che non avrebbero più rivisto il suo volto. Costeggiando il Mar Egeo, si reca in Macedonia e in Acaia. Visita nuovamente Filippi e Corinto. Per mare, ritorna a Cesarea, dove riceve il primo annuncio del suo martirio.
Gerusalemme sarà per Paolo il punto di partenza per un nuovo viaggio missionario. Come i suoi precedenti viaggi iniziavano e finivano ad Antiocha, così dalla Città santa inizierà il viaggio che si concluderà nella capitale dell’Impero. Da Cesarea s ale a Gerusalemme, dove viene riconosciuto e trascinato fuori dal tempio per essere ucciso. Viene salvato dal tribuno della coorte che lo arresta e lo conduce alla fortezza Antonia. Di qui chiede di portare la propria difesa ai fratelli e padri ebrei. Siccome la ragione della rivolta dei Giudei contro Paolo è prettamente religiosa, il tribuno pensa di affidare la causa al tribunale del sinedrio.
La ragione della disputa sono le parole di Paolo circa la risurrezione. Anche per il mondo giudaico, infatti, come lo fu per il mondo pagano, la risurrezione è uno scandalo. Negli anni 58-60, informato di un complotto per uccidere Paolo, cittadino romano per nascita, il tribuno dà ordine di condurlo sano e salvo a Cesarea. Vi rimane due anni in prigione.
Poiché Paolo si è appellato a Cesare, il nuovo governatore Festo lo invia a Roma. Durante il viaggio la nave naufraga sull’isola di Malta. Siamo negli anni 60-61.
Dopo tre mesi riprende il viaggio. Fa scalo a Siracusa e a Reggio Calabria. Infine sbarca a Pozzuoli, dove rimane una settimana. Parte poi per Roma. Qui vive per due anni in una casa con un soldato di guardia.
Anno 67. “Paolo nel quattordicesimo anno di Nerone fu decapitato a causa di Cristo e fu sepolto nella via Ostiense, il ventesimo anno dopo la passione di nostro Signore” (S. Girolamo).
“Durante il regno di Nerone Paolo fu decapitato pro prio a Roma e Pietro vi fu crocifisso: il racconto è confermato dal nome di Pietro e di Paolo che è ancor oggi conservato sui loro sepolcri in quella città” (Eusebio di Cesarea).

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