PAOLO – UN SANTO SULLE FRONTIERE DELLA CULTURA (2008) – Intervista a Ravasi
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PAOLO – UN SANTO SULLE FRONTIERE DELLA CULTURA (2008)
di Giovanni Ferrò
Secondo alcuni, è stato «l’inventore» del cristianesimo, perché avrebbe trasformato una piccola setta ebraica in una nuova, contagiosa, religione. Altri preferiscono definirlo «l’apostolo delle genti», perché ha dato respiro missionario alla Chiesa nascente, ancora ripiegata su se stessa. A duemila anni dalla sua nascita, Paolo di Tarso resta una delle figure più emblematiche e, a tratti, persino misteriose del Nuovo Testamento. Di certo, è stato un grande pastore, in grado di fondare comunità cristiane ovunque mettesse piede; ma anche un robusto teorico, l’uomo che ha prodotto un’originale sintesi tra la radice religiosa ebraica e la cultura greca, all’interno della cornice istituzionale della civitas latina. Per ricordare la figura e l’opera di questo santo, senza di cui il cristianesimo non sarebbe forse ciò che è, Benedetto XVI ha indetto, a partire dal giugno 2008, uno speciale Anno Paolino. Ma qual è stato lo stile di Paolo? Quale il suo insegnamento? E in che modo è possibile, oggi, tentare una nuova sintesi culturale, facendo i conti con un mondo diventato «adulto» e che cambia così rapidamente, prendendo a modello l’esempio di san Paolo? Siamo andati a chiederlo a monsignor Gianfranco Ravasi, biblista raffinato, per 18 anni prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, e soprattutto – da alcuni mesi – nuovo presidente del Pontificio Consiglio per la cultura, il dicastero vaticano che più di tutti ha il dovere di confrontarsi con l’universo del pensiero laico. Di seguito, l’intervista che monsignor Ravasi ci ha rilasciato..
L’intelligenza e l’amore di un uomo capace di rischiare Nei nobili corridoi della Biblioteca Ambrosiana, monsignor Gianfranco Ravasi si muove con la leggerezza e l’agio di chi si sente a casa. Nominato presidente del Pontificio Consiglio per la cultura il 3 settembre scorso, il più famoso biblista d’Italia ha lasciato l’incarico di prefetto di questa autorevole istituzione culturale milanese, fondata dal cardinale Federico Borromeo, e si è trasferito, armi e bagagli, in Vaticano. Però alla guida dell’Ambrosiana ha trascorso 18 anni. Comprensibile, dunque, che tra le « sue » mura tappezzate di libri antichi torni volentieri e con un pizzico di nostalgia. Per parlare di san Paolo, « teorico del cristianesimo » e santo del dialogo tra le culture, nonché delle sfide che la cultura contemporanea pone oggi alla Chiesa, siamo dunque venuti qui all’Ambrosiana, in piazza Pio XI, a due passi dal Duomo, dove monsignor Ravasi ci accoglie in un’enorme sala con piccoli banchi di legno che la rendono simile allo scriptorium di un antico monastero benedettino. Le coste di migliaia di volumi preziosi che raggiungono il soffitto e i ritratti di austeri personaggi alle pareti inducono una soggezione che il neoarcivescovo, con eleganza casual e colta bonomia, provvede subito a dissipare. Cosa vuol dire fare cultura per un’istituzione come la Santa Sede? «Prima di tutto c’è la questione piuttosto ardua di riuscire a definire che cosa è « cultura ». Indubbiamente, dopo un lungo periodo razionalistico che pensava alla cultura solo come a un fenomeno accademico, adesso sempre di più la si considera come una sorta di grande anima cosciente e coerente che attraversa tutto l’agire umano. Per questo motivo il Pontificio Consiglio ha un orizzonte vastissimo davanti a sé, che interseca anche il lavoro di altre strutture ecclesiali. Faccio qualche esempio: prendiamo il problema « scienza e fede », oppure il tema dei linguaggi, che personalmente ritengo capitale; o ancora il rapporto tra etica ed economia, un ambito su cui vorrei incrementare l’impegno del dicastero: l’economia non è soltanto un fenomeno tecnico-finanziario, è invece – come dice Amartya Sen – una scienza umanistica. Altro capitolo: il dialogo interreligioso, per il quale esiste un dicastero specifico, ma che presuppone una riflessione di matrice culturale. In questo senso, il Consiglio per la cultura è più un dicastero di prospettiva che non un organismo operativo in senso stretto. Fare cultura nella Chiesa diventa, insomma, una componente costante che attraversa, orienta e interpreta tutte le scelte pastorali». Di questi tempi si parla moltissimo di dialogo tra le fedi, ma anche – al contrario – di scontro tra culture e tra civiltà. Qual è il suo giudizio su questo quadro, tratteggiato così spesso a tinte fosche? «Nel dialogo tra le culture ci sono sempre state, nella storia, delle oscillazioni. Ci sono periodi in cui è quasi istintivo lo scontro, pensiamo per esempio alle guerre mondiali; e altri – magari immediatamente successivi – in cui prevale il desiderio di dialogo, il sogno dell’unità: è il caso della nascita dell’Onu nel 1945. Oggi siamo indubbiamente in un periodo di « caduta » nello scontro, ma mi pare si intraveda uno slancio verso la ripresa del dialogo. Comunque, non bisogna mai rassegnarsi ai meccanismi della storia. Credo quindi che la registrazione che ha fatto Huntington parlando di « scontro di civiltà », alla fine, è solo una sorta di accettazione dello status quo, non una proposta per affrontarlo o superarlo. Tanto è vero che il suo libro è stato molto apprezzato dai fondamentalisti islamici. La mera registrazione del fenomeno non è fare cultura. Per questo credo non ci si debba rassegnare alla logica dello scontro. E si debbano offrire proposte alternative di dialogo. Purtroppo, per quanto riguarda il campo religioso, il dialogo oggi è diventato difficile. Se guardiamo all’Ottocento, notiamo che il confronto-scontro avveniva tra grandi sistemi di pensiero. Il marxismo era una vera e propria Weltanschauung, così come il cristianesimo e il liberalismo. Si trattava di veri scontri tra opposte visioni dell’uomo, con pensatori di livello eccelso sui diversi fronti. Oggi invece, per via della modesta temperie culturale in cui viviamo, lo scontro avviene sul piano dell’ironia, del sarcasmo, dello sbeffeggio da una parte; e dall’altra, con insorgenze altrettanto modeste di tipo fondamentalista-apologetico. Questa è l’altra malattia che si aggiunge alla sindrome dello scontro: non è più uno scontro nobile e alto, è quasi un gioco di società». Il dialogo con il mondo della cultura è sempre più dialogo con un mondo laico, aconfessionale, distante dalla fede e dalla Chiesa. Come si fa a entrare in dialogo oggi con il mondo laico? «Uno dei capitoli su cui vorrei impegnarmi di più, come presidente del Pontificio Consiglio per la cultura, è quello che un tempo era la stessa ragion d’essere del dicastero, il cui nome originale era « Consiglio per il dialogo con i non credenti ». Il confronto con la laicità è quindi un tema da rinverdire e da riportare a un livello nobile. Su questo abbiamo tanta strada da fare. Ho alcune idee e progetti, però sarà un lavoro arduo e molto lento. Il problema, infatti, è che il nostro orizzonte non può e non deve essere soltanto il mondo europeo o occidentale, ma deve abbracciare tutti i continenti. E qui lo scenario si fa complesso e diversificato. Si affacciano sullo scenario internazionale culture come quella cinese o indiana che sono molto caratterizzate. Per confrontarcisi, occorre un’elaborazione complessa. D’altra parte, anche queste culture così forti e tipizzate risentono del processo di globalizzazione trionfante che investe l’intero pianeta. Bisogna quindi trovare un modello di confronto con la cultura « globale » dominante che però non penalizzi le identità particolari, che non possono essere semplicemente ignorate: perché, come si vede bene, le identità risorgono. Insomma, è fondamentale l’impegno al confronto con la laicità e la non credenza, ma con una laicità che oggi è il mondo intero». Di questo dialogo con la laicità, qui a Milano, è stato maestro il cardinale Martini. Quello stile dell’ex suo arcivescovo che cosa le ha insegnato? «La « Cattedra dei non credenti » è stata un’esperienza molto importante ma è stata figlia di un periodo particolare. A mio parere, ha insegnato una cosa fondamentale: l’ascolto dell’altro. E non è una cosa banale: ascoltare è un’attività che costa tanto quanto il parlare. Vuol dire non scegliersi l’interlocutore compiacente, vuol dire anche lasciarsi ferire dalle domande che vengono poste. Questo è un atteggiamento importantissimo. D’altro canto, la Cattedra ha avuto anche un punto debole, a causa del quale quell’esperienza alla fine è morta: è stato un evento che, sostanzialmente, non è entrato in un programma pastorale effettivo». Quanto sarà complicato introdurre uno stile del genere in una struttura come il Pontificio Consiglio? «Non sarà facile. È facile organizzare grandi incontri e grandi convegni a livello internazionale. Di questi ce ne sono tanti. La cosa più complicata è invece elaborare delle visioni, dei progetti, dei percorsi, che poi vanno verificati nella realtà concreta, a livello locale». Un disegno di san Paolo realizzato su pergamena, risalente al X secolo e conservato alla Biblioteca capitolare di Vercelli. Benedetto XVI ha indetto per il 2008 uno speciale Anno Paolino. Perché san Paolo è così importante nella Chiesa primitiva, e dunque nel farsi stesso della comunità cristiana? «Il discorso che abbiamo fatto finora va proprio a confluire su Paolo: intanto, Paolo è sì un pastore, ma è anche un grande teorico. Non è il « Lenin del cristianesimo », come lo definiva Gramsci. Però, certo, è colui che ha un grande progetto ermeneutico. Paolo vuole dare una interpretazione coerente del cristianesimo, un’interpretazione che sia interculturale, anzi inculturata: con lui inizia la grande operazione di trasmissione della fede con le categorie del pensiero greco, che durerà per 4-5 secoli e che culmina nei grandi Concili di Nicea e Costantinopoli. Paolo intuisce insomma che, se il cristianesimo non vuole essere una setta, deve riuscire a fare i conti con la cultura del proprio tempo: da qui la scelta di riscrivere – senza perderla – la propria radice ebraica. Infine, Paolo è anche un pastore: costruisce delle Chiese e le modella secondo paradigmi diversi. Noi abbiamo sicuramente almeno 3-4 modelli diversi di « Chiesa paolina ». Paolo d’altronde è stato un uomo di tre culture: quella ebraica, greca e romana. Quindi è vissuto in continuo ascolto e attenzione a questi mondi». Paolo, dunque, rompe le catene che rischiavano di rinchiudere la prima comunità nell’ambito angusto di una piccola setta ebraica e apre al cristianesimo un orizzonte universale? «Sì, rompe le catene di un cristianesimo solo giudaico. Però non rinuncia mai all’eredità ebraica, la considera una delle componenti insostituibili. Certo, non teme il confronto con la laicità, che allora voleva dire il paganesimo. E mette in conto il rischio dello scacco. È il caso emblematico dell’Areopago di Atene: un tentativo di dialogo e di incontro con un mondo del tutto « altro », usando lo stesso linguaggio e la stessa strumentazione culturale dell’ »altro ». Poi però Paolo si accorge dell’ »eccedenza » del messaggio cristiano, si accorge che non è possibile giungere a un accordo sulla base del semplice sincretismo. Se non è accettabile il fanatismo che « nega » l’altro, non è neppure sufficiente il sincretismo. E questo è un altro problema fondamentale del dialogo con il mondo laico: il confronto deve essere sempre civile, però alla fine c’è una « eccedenza » della fede che non posso non riconoscere». Che cosa intende con « eccedenza »? «L’eccedenza ha a che fare con la tutela della specificità della teologia. Altrimenti è una filosofia. In questo senso, per me, il libro fondamentale è Giobbe: un libro che è un continuo atto d’accusa contro gli « amici », cioè contro i sistemi di pensiero onnicomprensivi, anche quelli che difendono Dio. Tanto è vero che Giobbe alla fine abbandona la via del luogo comune, del sentito dire, e prende la via della visione. Questa è l’eccedenza. A questo dovremmo educare un po’ anche i nostri fedeli: bisogna ricordare che la fede non è spiegare o imparare poche cose, e non è praticare poche cose. È sempre un di più, molto di più. Come la salvezza è molto di più che la semplice « sanazione » del limite». Ultimamente, con il Motu proprio sull’antica liturgia, la lingua latina è tornata d’attualità. Indubbiamente, il latino ha svolto un ruolo fondamentale nella storia della Chiesa. Ma oggi è ancora vitale? «A mio parere, bisogna evitare in tutti i modi una delle grandi malattie del nostro tempo: la smemoratezza. In questa chiave, al di là della questione del suo ruolo nella liturgia, il latino – come stendardo – è importante: a livello generale, pensiamo cosa ha significato per l’elaborazione delle categorie teologiche, e del pensiero in generale, occidentali. Nella liturgia, poi, recuperare il latino significa recuperare anche la possibilità di comprensione di tutto il patrimonio musicale. Il punto ovviamente non è ripetere, ma comprendere e far vivere il passato. Coltivare la memoria del latino deve essere, in qualche modo, un’operazione innovativa». San Paolo è stato un grandissimo comunicatore. Oggi che viviamo nella società delle comunicazioni, perché invece la Chiesa fa così fatica a parlare al mondo? «Un tempo il mondo era mosso dalla Chiesa. A partire dall’Ottocento, ha preso a muoversi da solo, è diventato « adulto », come dice Bonhoeffer. E la Chiesa si è trovata a inseguirlo. Il problema centrale è quello del linguaggio: in passato i linguaggi erano coniati all’interno della Chiesa. Pensiamo al linguaggio artistico, musicale, alla stessa letteratura. Oggi non è più così. E la Chiesa, per tutelare la sua identità, si è aggrappata alle formulazioni che già conosceva. Oppure le ha rielaborate, cercando di restare al passo: è il caso, ad esempio, dei catechismi. Ma nel frattempo il mondo era già andato avanti, era passato oltre. Il punto è che, quando si muta il linguaggio, si muta la struttura del pensiero. In questo caso, dunque, la soluzione non sta nel rincorrere il medium, con un semplice aggiornamento tecnico: l’homo telematicus non è solo colui che è capace di usare il computer, è proprio un fenotipo antropologico differente. E la comunicazione telematica non è soltanto un fenomeno tecnico, è un fenomeno esistenziale. Questa realtà non si può soltanto deprecarla, rimanendo aggrappati al passato. Il punto è riuscire a « comunicare » in questo mondo, riuscire a parlare a questo uomo contemporaneo, senza però rassegnarsi all’esito che l’uomo contemporaneo ha raggiunto». In sintesi, qual è il segreto di un evangelizzatore così grande come Paolo? «Il segreto mi sembra questo: per annunciare in maniera autentica bisogna saper coniugare l’intelligenza e l’amore. Non basta solo l’intellettualismo, come non basta solo la partecipazione passionale. Le due cose si devono sposare. E Paolo, in questo senso, è stato un maestro. Bisogna quindi recuperare l’idea di una Chiesa « calda », ma al tempo stesso non perdere il rigore intellettuale. Talvolta oggi, invece, la teologia se ne va per suo conto, la catechesi è affidata alla buona volontà, mentre certa pastorale – in particolare nei movimenti – esalta solo la dimensione spiritualistica. Un’ultima cosa che ci insegna Paolo è la necessità di porsi sulle frontiere, anche le più difficili: non accontentarsi dei propri orti, ma affrontare anche il mare aperto, gli spazi apparentemente più ostili. E, in questo apostolato di frontiera, non temere di adottare tutti i mezzi e gli stili a disposizione, anche i più moderni e « alieni ». Però, senza perdere l’anima, cioè il radicamento indiscutibile nella grandezza di un messaggio. Cosa di cui non sono consapevoli, tante volte, i cristiani». E dove è oggi Paolo, nella Chiesa? In quale luogo ecclesiale è più vicino il suo spirito? Nei movimenti? Nei monasteri? Nelle piccole parrocchie? «Ci sono due frasi di Paolo significative a questo proposito. Una è « esaminate tutto, tenete ciò che è buono ». E l’altra: « Io mi sono fatto tutto per tutti ». Voglio dire: la concezione di Chiesa propria di Paolo – una Chiesa non monolitica e non anarchica, ma vivente, « somatica » – ci fa capire che il modello cristiano è quello della molteplicità, della diversità nell’unità. Nessuno può dire: « Questo è l’unico, vero cristiano ». Il cristianesimo nasce nella sua ecclesialità, nel suo essere tutti partecipi, pronti a prendere dall’altro gli aspetti positivi, in una continua osmosi. Per questo non bisogna avere mai disprezzo di qualsiasi tipo di esperienza ecclesiale. Però bisogna condannarla quando diventa integralista, arrogante, autosufficiente e pretende di affermare di essere l’unica: l’unità vitale del Corpo di Cristo è decisiva, ma può esistere solo nell’efficacia e nell’armonia dei suoi membri, dal capo ai piedi, come ricorda Paolo ai Corinzi».
Giovanni Ferrò