Archive pour la catégorie 'Paolo – approfondimenti sulla sua persona'

SAN PAOLO, L’APPASSIONATO, IL FOLLE DI CRISTO

 

dal sito:

http://www.dieu-parmi-nous.com/NIC/Conversion.de.Paul.pdf 

 

SAN PAOLO, L’APPASSIONATO, IL FOLLE DI CRISTO 

 

Conversione di San Paolo, 25 gennaio

ARTICLE DE RAYMOND BEAUGRAND-CHAMPAGNE (gesuita) POUR LE NIC;

 

traduzione mia; è un testo di spiritualità e, quindi, particolarmente difficile da tradurre, ma è bello e ho provato, anche se non è una traduzione perfetta ne vale la pena ; 

 

 

La conversione di Paolo di Tarso, questo ebreo convinto, fervente discepolo di Mosè e dei grandi servi di Dio in seno al giudaismo, è un modello per ciascuno di noi, anche se era necessario che cadesse dal suo cavallo quando perseguitava i cristiani! 

La sua conversione è talmente importante che si festeggia appositamente il 25 gennaio. Questa festa si colloca, esattamente un mese dopo il Natale, giorno dopo giorno, come una celebrazione rinnovata del Dio fatto uomo. La vera festa di San Paolo è alla fine del mese di giugno. L’adesione di Paolo a Cristo è, in effetti, talmente ricca e profonda che raggruppa (oggi) tutti i cristiani durante la Settimana annuale della preghiera per l’Unità che ha luogo ogni anno alla fine del mese di gennaio, per onorare questa conversione esemplare e straordinaria alla fede. (NOTA 1) 

I cristiani si radunano da un secolo (NOTA 2) per domandare a Dio di arrivare, un giorno, ad d essere tutti uniti come ha tanto desiderato Gesù stesso. Ed è quello che ci ricorda nel suo vangelo San Giacomo in una delle più belle pagine della storia umana. 

Il Figlio di Dio si rivolge al Padre alla vigilia della sua Passione: « Non prego solo per questi, ma anche per quelli che  per la loro parola crederanno in me; perché tutti sia una cosa sola. Come tu Padre sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola,  perché il mondo creda che tu mi hai mandato » (Gv 17, 20,21). 

È terribile quello che ci accade a noi cristiani da molti secoli nonostante questa ammirabile preghiera di Gesù. Noi siamo talmente divisi che io ho sentito dire che ci sono, oggi, più di 32.000 Chiese cristiane differenti e separate. 

Ma, felicemente, la nostra Chiesa cattolica, quanto ad essa, dall’inizio senza interruzioni, che abbia provato, resti unita.  Essa comprende circa una ventina di chiese unite al Papa, il Vescovo di Roma, successore di Pietro. Queste Chiese conservano, per così dire, la loro autonomia sotto la giurisdizione di un patriarca. Questi patriarchi sono talvolta nominati cardinali. Noi non ci pensiamo molto e quasi tutto il mondo l’ignora. 

Io vi ricordo, dunque alcune di queste Chiese, sarebbe bene andare ogni tanto per partecipare (NOTA 3), noi latini, con questi nostri fratelli uniti. La Chiesa Caldea cattolica d’Irak, La Chiesa Maronita e la Chiesa Melkita del Medio Oriente, la Chiesa Armena cattolica, le Chiese Siro- Malabar e Siro-Malankar  dell’India, e molte Chiese importanti come la Chiesa Ucraina cattolica di rito bizantino. Queste Chiese, unite alla nostra Chiesa latina prefigurano, con tutte le Chiese unite intorno al Vescovo di Roma,  l’unione che deve (può, o verrà) delle antiche chiese apostoliche con la grande Chiesa Ortodossa. 

Non dimentichiamo mai che i nostri fratelli ortodossi non uniti a Roma rimangono sempre uniti tra loro; le loro Chiese detto autocefale, o nazionali, sono fedeli le une alle altre, fedeli ad una tradizione completamente analoga a quella dei cattolici e che si esprime in particolare per il loro attaccamento al Patriarca ecumenico che ha sede nel cuore della Grande Ortodossia, a Costantinopoli, città oggi musulmana dal XV secolo sotto il nome di Istanbul, in questo paese divenuto musulmano per circa il 99%. 

Noi formiamo, noi cattolici, più della metà dei cattolici del mondo. Ciò che ci unisce è soprattutto, evidentemente, Cristo stesso. Ma noi attribuiamo molta importanza alle parole di Gesù all’Apostolo Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16,18 traduzione CEI). 

Per noi Pietro è, e rimane, il primo Pastore della Chiesa universale, il primo Papa, colui al quale Gesù ha detto: “Pasci le mie pecorelle” (ho tradotto l’originale con Gv 21,17). I nostri cuori dei cristiani è ancora segnato da vedere tutti i nostri fratelli, spesso così ferventi e ardenti che non sanno quanto li amiamo e quanto vorremmo essere tutti uniti, insieme, uguali e fraterni come Gesù l’ha desiderato. 

La Settimana di Preghiera per l’unità, fondata in Francia da l’Abate Paul Coutrier, permette agli uni e agli altri di conoscersi meglio pregando insieme, come Gesù l’ha chiesto a suo Padre da circa 200 anni. Non dimentichiamo mai che una conoscenza appassionata produce l’amore reciproco. 

San Paolo ha parlato in modo ammirabile del’unità al capitolo 4 della sua bellissima lettera indirizzata agli abitanti della città di Efeso. Si sente, in San Paolo, tutto il fuoco che Cristo è venuto a portare sulla terra. La sua anima è ardente di questo fuoco che ancora ci muove dopo due millenni: “Noi arriveremo tutti insieme alla’unità della nostra fede ed alla conoscenza del Figlio di Dio. Noi diventeremo adulti quando il nostro sviluppo arriverà alla piena, perfetta,  statura di Cristo. Allora noi non saremo più dei bambini portati via dalle onde e spinti qua e là da qualsiasi vento di dottrina diffuso da uomini ingannatori, che conducono gli altri in errore attraverso le astuzie che inventano. Al contrario, proclamando la verità con l’amore cresceremo in Cristo che il Capo. È grazie a lui che le differenti parti del corpo, sono solidamente unite così che il corpo intero è ben unito attraverso le articolazioni di cui è provvisto. Così quando ogni parte agisce come dovrebbe, il corpo intero cresce e si sviluppa nell’amore”. (NOTA) 

Come tutti coloro che amano San Paolo l’hanno detto e ripetuto, la persona di questo grande santo, i suoi insegnamenti e il suo desiderio straordinario di trasmettere la sua fede, sono estremamente appassionanti. Tutti noi siamo meravigliati  di questo ebreo miracolosamente convertito. È San Luca che ci racconta negli Atti degli Apostoli questa conversione straordinaria che si ritrova anche nella vita di altri numerosi cristiani nel corso dei secoli. Sono delle conversioni improvvise come quelle di Alfonso di Ratisbona nel XIX secolo, Andrea Frossard nel XX secolo. 

Il racconto della conversione si trova nel capitolo 9 degli Atti degli Apostoli. È talmente straordinaria che, come dice bene Joseph Holzner nel suo ammirabile “Paolo di Tarso”, a pagina 47: “La critica, ostile al soprannaturale, prova di spiegare la conversione di San Paolo e la sua nuova concezione di Cristo in maniera esclusivamente psicologica”. 

Holzner, dopo aver contraddetto questa opinione riduttrice, riprende in maniera magistrale il racconto di San Luca negli Atti e scrive: “Da se stesso San Paolo non sarebbe mai divenuto cristiano”. 

Paolo si stava avvicinando a Damasco dove doveva commettere un nuovo crimine. Ma l’ora della sua trasformazione era vicina. Gli occhi di Saulo cominciavano a fargli male…è allora che è avvenuto l’impensabile, che nessuna persona potrà mai spiegare. Improvvisamente un luce celeste splende attorno a lui.. I cavalli si impennano, si gettano su di un lato…l’arco, la luce, infiammato, si chiude su di lui. In questa apparizione di fuoco egli vede un volto, quella di un “uomo celeste” (1Cor 15,49). 

Uno sguardo si posa su di lui, uno sguardo dall’eternità, dove si mescolano severità e tristezza, la nobiltà e la dolcezza. Sotto questo sguardo di fuoco, tuta la resistenza svanisce. E una voce parla nella lingua dei suoi Padri (Atti 26, 14): “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” Come in un flash egli comprende: La mia causa è perduta! “Chi sei, o Signore?” Ecco che arriva la parola liberatrice: “Io sono Gesù!” e poi, come dolce rimprovero: “Che tu perseguiti!” In quel momento il viso trasfigurato di Cristo gli appare come coperto di sangue e di ferite, solcato di linee rosse. Il sangue dei martiri che egli aveva sparso scendeva da quel viso goccia a goccia…Allora scaturì dal più profondo del suo essere una sorgente, i suoi flutti inondarono la sua anima di quella luce : “Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo”. (2Cor 4,6). 

La luce della fede risplendeva in lui. Una forza misteriosa faceva irruzione nella sua anima; una vita nuova cominciava. Egli entrava in un mondo superiore. (…)  San Paolo non avrà mai il minimo dubbio su ciò che ha vissuto in questi pochi istanti. La sua incrollabile convinzione rimane: che aveva effettivamente visto il Risorto e gli aveva parlato. … Quando Paolo si alza, egli è il discepolo di Gesù, per sempre. Da questa bontà di Cristo verso di lui, Paolo tirerà immediatamente una conclusione: ciò che conta non dipende dal volere o dal correre, ma da Dio che usa misericordia Rm 9, 16)… Il fatto che il Cristo Risorto gli sia apparso, non sotto i tratti di colui che punisce e vendica, ma con un volto pieno di misericordia e di bontà (Tt 3,5) conferma San Paolo nell’idea che la collera di Dio contro l’uomo si è trasformata in amore, grazie al Crocifisso.” 

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Sources : J. Holzner, « Paul de Tarse », Alsatia, réédité par Pierre Téqui, 1997. 

 

M. Villain, « L’abbé Paul Couturier », Casterman, 1964.

 

 

dal sito:

http://www.novaramissio.it/EditorialiMario/SanPaolo.htm

SAN PAOLO: UN MISSIONARIO PIU’ ATTUALE CHE MAI

Per ogni missionario è difficile sottrarsi al fascino e alla personalità di San Paolo, per chi ha l’orizzonte dell’uomo e i confini del mondo piantati nel cuore, difficilmente riesce a non misurarsi con la figura di Paolo. Nell’immaginario collettivo della grande famiglia missionaria, Paolo è il primo vero autentico missionario, colui che sfruttando le maestose strade imperiali dell’antica Roma seppe portare il Vangelo da una delle province più periferiche nel cuore stesso dell’Urbe, allora « Caput Mundi »; i chilometri fatti a piedi, a cavallo e le miglia marittime percorse sulle trireme del tempo sorpassano ogni nostra immaginazione. Paolo, toccato nell’intimo della sua coscienza dall’incontro con Cristo sulla via di Damasco, dedicò tutta la sua vita a portare il Vangelo nel tessuto sociale delle città pulsanti dell’Impero dove si elaborava e si costruiva la vita ed il pensiero di popoli assai diversi tra di loro. Ma se colpisce l’ansia missionaria che portò Paolo a compiere diversi viaggi e ad inoltrarsi in lande sconosciute, sorprende ancora di più il coraggio con cui egli seppe guardare a viso aperto uomini e problemi del suo tempo e confrontarsi alla luce dell’insegnamento di Cristo sul destino dell’uomo.
Paolo, compiacente spettatore della lapidazione di Stefano e accanito persecutore dei primi cristiani, dopo l’incontro con Gesú di Nazareth (un incontro che possiamo definire un autentico mistero di fede) diventa egli stesso un Apostolo capace di suscitare nel cuore di molte persone il desiderio sincero di conoscere e seguire il Cristo.
Il Nuovo Testamento nel suo insieme ci presenta molto di più della vita di Paolo che non di quella di Gesù, le sue lettere che proclamiamo ed ascoltiamo nelle nostre Eucaristie domenicali, dimostrano quanta passione e quanto fuoco gli ardeva in cuore, le comunità da lui fondate e alle quali si rivolgeva sperimentano sulla loro pelle, allo stesso tempo rimproveri e tenerezza, correzione fraterna ed affettuosità. Paolo è un uomo eccezionale, pieno di passione e di vigore, di luce e di fuoco, in lui orgoglio ed umiltà, fascino e fortezza sono un’unica cosa. Ebreo osservante, esecutore zelante della legge di Mosè, diventa l’intrepido annunciatore del Vangelo che libera dalla legge facendo scoprire ad ogni uomo che egli è salvo, reso giusto non in virtù di vuoti ritualismi e precetti osservati scrupolosamente, ma per la gratuità sconfinata della Croce di Cristo; la fede nel Maestro rende giusto il peccatore e lo fa partecipe di quel mistero di Grazia in cui ciascuno si sente amato da Dio. Se il messaggio di Gesù imperniato sull’amore a Dio e al prossimo, che aveva come cardine il perdono da offrire anche al malvagio, era rivolto a tutti, nessuno escluso, anzi proprio coloro che erano i reietti, i peccatori, gli emarginati per eccellenza in una parola i « piccoli », si trovano ad essere i depositari privilegiati di quest’annuncio, che dà loro una dignità ed una coscienza di se stessi che nessun filosofo aveva mai osato affermare, questa tenerezza che fa del’ultimo degli schiavi un figlio prediletto di Dio e lo pone sullo stesso piano del più nobile tra gli aristocratici del tempo e dello stesso Imperatore, sarà vista come un messaggio pericolosissimo da bloccare con qualunque mezzo al fine di non scardinare un sistema di potere basato sulla schiavitù, sul dominio e sull’oppressione. Paolo porterà questo messaggio là dove era necessario che esso fosse conosciuto, inquietando in tal modo i governatori e gli imperatori di turno, ma egli non defletterà neanche di una virgola da questo compito che gli era stato affidato. Pur essendo l’ultimo arrivato tra gli Apostoli sarà quello che si opporrà anche a Pietro a viso aperto, ritenendo la sua apertura alle genti, autenticamente vicina al messaggio del Maestro.
Un personaggio così, che cosa può dire al cristiano d’oggi ed in modo particolare a chi ne ricalca le orme sui sentieri della missione? La risposta sta nello stile e nel modo di presentare il Vangelo tipico di Paolo: avere il coraggio di andare oltre, sempre! Senza fermarsi al dato acquisito o alla comunità calda, accogliente e gratificante che suadente ti invita a … restare! In secondo luogo guardare negli occhi – come Paolo – uomini e problemi che ti stanno davanti, le Agorà di oggi non sono meno problematiche ed inquietanti di quelle di allora, la grande tentazione per i cristiani di ogni tempo è di rinchiudersi in ovili protetti scantonando quelle che sono le sfide più crude che il mondo continuamente ti getta in faccia. Inoltre, la franchezza del linguaggio paolino, resta un valore oggi come ieri, anche se il modo di parlare paludato e « curiale » di certi ambienti ecclesiastici stride in maniera costante con il modo di fare di Paolo. Non ultimo la tenerezza che Paolo avvertì dentro di se dopo l’incontro con Gesù e che riversò abbondantemente sulle persone che incontrò e le comunità con le quali ebbe a che fare, ci ricordano come la buona notizia di Gesù di Nazareth è innanzi tutto amore sconfinato verso chi il mondo ignora, emargina o disprezza. Nell’anno Paolino voluto da Papa Ratzinger, riscoprire questi aspetti squisitamente missionari, ci aiuterebbe a recuperare quell’afflato paolino che certamente alberga in ciascuno di noi, un compito al quale non possiamo sottrarci.

Paolo: un aborto convertito alla Vita

dal sito:

http://www.zenit.org/article-16923?l=italian

Paolo: un aborto convertito alla Vita

III Domenica del Tempo Ordinario e Festa della Conversione di san Paolo

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 23 gennaio 2009 (ZENIT.org).- “Colui che una volta ci perseguitava, ora va annunciando la fede che un tempo voleva distruggere” (Gal 1,23).

La conversione di Saulo in Paolo è un evento che Dio può rinnovare in qualunque tempo e momento, poiché la Sua misericordia è sempre in grado di volgere il male al bene, in modo che la cattiva notizia della persecuzione e dell’avversione al Vangelo, sia trasformata nella buona novella del Vangelo stesso.

Paolo era un nemico acerrimo del Vangelo, perché ai suoi occhi rappresentava il crollo e non il compimento dell’antica Legge, cosa che il suo zelo religioso non poteva tollerare, in nome del Dio di Israele.

E’ lui stesso a raccontarlo oggi: “Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne […] per esservi puniti” (At 22,4-5).

Sembra la confessione a Norimberga di un ufficiale della Gestapo!

Il terrore che il nome di Saulo suscitava nella comunità cristiana, ci permette di presupporre che, a Damasco, la notizia del suo imminente arrivo fosse giunta prima della sua caduta a terra sulla via: una notizia cattiva quanto un annuncio di morte. Chi poteva pensare che Saulo stava invece per giungere a Damasco “guidato per mano”? (At 22,11).

E’ lo stile di Dio e l’essenza stessa dell’evento pasquale, poter suscitare la vita dalla morte, ciò che è bene da ciò che è male, l’impensabile positivo dal suo opposto negativo, come il Risorto ricorda ai discepoli in cammino verso Emmaus: “Stolti e lenti di cuore a credere […] non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,25).

La notizia della crocifissione e morte del Signore Gesù li aveva abbattuti, perché, apparentemente, dava ragione agli stolti descritti dal salmo 14/13, del re Davide: “Lo stolto pensa: ‘Dio non c’è’. Sono corrotti,  fanno cose abominevoli: non c’è chi agisca bene” (v. 1).

Questo salmo, quanto mai attuale, viene intitolato “Il canto dell’ateo”, intendendo con questo termine non tanto colui che nega teoricamente l’esistenza di Dio, quanto piuttosto chi Lo ritiene lontano e indifferente nei confronti dell’uomo e della storia.

Leggo da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi: “Protagonista di questo salmo, che ha il tono di un’invettiva profetica, è l’ ‘ateo’. Il vocabolo ebraico che lo definisce è nabal, il cui significato comprende un ventaglio di possibilità: persona incosciente, irresponsabile,  folle, malvagia, stolta, immorale, assurda. E’ una follia radicale che si misura anche a livello morale […] Il nostro nabal dichiara che è irrilevante per l’uomo che Dio esista o non esista, dato che in ogni caso non interverrà nella nostra storia”

Al tempo di Davide non esistevano gli autobus, ma gli “stolti” circolavano come oggi.

Il messaggio lanciato nel mondo dall’ “Unione atei e agnostici razionalisti” (Uaar) per mezzo degli autobus cittadini,  dimostra tale stoltezza. 

Dice: “La cattiva notizia è che, probabilmente Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno”. E’ questa la versione italiana di uno slogan tradotto da quello inglese: “There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life= probabilmente Dio non esiste; smettila di preoccuparti e goditi la vita”. Questo “probabilmente”, serve a far capire che, anche se Dio esistesse, non avrebbe comunque nulla a che fare con la vicenda umana, sarebbe un “Motore immobile”, un Dio muto, impersonale.

Ma l’iniziativa dei bus atei, io credo, è destinata ad avere l’esito della missione di Paolo in viaggio per Damasco.

Leggiamone il racconto:

“Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me, caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? […] Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti” (22,6-8). Ecco: in un attimo il persecutore trasformato in apostolo.

Ironia della sorte? No, disegno provvidenziale di Dio! Saulo voleva spegnere l’Emittente divina e mettere in carcere gli ascoltatori-ripetitori, ma fu ammutolito e divenne il più formidabile araldo di quella notizia che voleva soffocare ed annientare, la buona notizia del  Vangelo.

Ciò non costituì, tuttavia, una interruzione della sua vita, un’inversione di marcia paragonabile ad uno che dovendo andare da Bologna a Bolzano, si rende finalmente conto di aver imboccato l’autostrada per Bari. Paolo lo afferma chiaramente altrove: “Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia” (Gal 1, 15-16).

Egli fa risalire il piano divino del “blitz” di Damasco (“sono stato afferrato da Cristo Gesù” – Fil 3,12b) all’inizio stesso della sua vita nel grembo materno. In effetti, se la sua fosse stata una “conversione” sarebbe tornato indietro verso Gerusalemme, come nell’esempio autostradale; invece proseguì, accettando di lasciarsi guidare per mano. Damasco, per Paolo, fu anzitutto rivelazione della sua nativa vocazione e missione; il contesto, tuttavia, rende chiaro che nello stesso tempo si trattò di un cambiamento radicale dell’orientamento della sua vita.

Potrei ancora spiegare così, estendendolo ad ognuno di noi: come non esiste soluzione di continuità tra l’inizio della vita umana nel concepimento e il suo termine alla morte, così la vocazione e missione personale che Dio assegna ad ogni uomo (quello di Paolo è un esempio paradigmatico per tutti, anche se il suo caso fu del tutto eccezionale), è una Parola già detta da Dio all’alba dell’esistenza, quando: “ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro” (Sal 139,16). Crescendo, l’uomo deve solo scoprirla, comprenderla e metterla in pratica, alla luce e con la forza della fede.

A questo punto sorge una domanda su Paolo, una domanda ineludibile anche e soprattutto se, a partire da lui, ci si interroga poi sull’iniziativa dei bus-atei: come si spiega, in profondità, l’accanimento con cui Saulo infieriva contro i cristiani? Ovverosia: come si spiega il successo dell’idea dei bus atei, che dalla British Humanist Association è stata ripresa negli U.S.A., in Australia, in Spagna ed ora approda anche in Italia?

Ecco una risposta verosimile, data sul piano delle naturali dinamiche psicologiche, che nulla toglie tuttavia al primato assoluto dell’iniziativa divina, ma anzi lo riconosce radicalmente: “C.G. Jung cercò di spiegare la conversione di Paolo con i suoi termini e concetti psicologici, e scrisse: ‘Saulo era già da tempo un cristiano, ma lo era inconsciamente: così si spiega il suo odio fanatico per i cristiani; perché il fanatismo è sempre presente in coloro che debbono soffocare un dubbio interiore […] Quello che non è in noi, non ci eccita neppure” (Anselm Grun, “Paolo e l’esperienza religiosa cristiana”, p. 22ss).

A sostegno di tale interpretazione, Grun cita la testimonianza resa dallo stesso Paolo: “Nel suo secondo discorso sull’esperienza della conversione, tenuto davanti al re giudeo Agrippa […] Paolo aggiunge queste parole di Gesù: ‘E’ duro per te rivoltarti contro il pungolo’ (At 26,14). Gesù gli spiega in maniera psicologica la persecuzione da lui intrapresa. Paolo non combatte solamente contro Gesù, bensì anche contro la propria convinzione. Nel suo intimo più profondo Saulo sa che cosa è la verità, ma non ne vuole prendere atto. Però a lungo andare non può andare contro il proprio essere. La fede cristiana, così ci dice Luca con questa frase, corrisponde all’essenza dell’uomo spirituale. Nessun uomo che cerca sinceramente, può, a lungo andare, imperversare contro il Cristo in lui presente” (pp. 25-6).

Il “pungolo” citato indica il bastone appuntito utilizzato per spingere il bestiame nella direzione voluta, ed è un modo di dire per significare la forza irresistibile del pungolo della misericordia di Cristo nei confronti del Suo persecutore, predestinato a diventare apostolo. Un pungolo che si vale anche dei meccanismi dell’inconscio. Un pungolo che rappresenta efficacemente la forza sempre vincente dell’Amore e della Vita. Colui che voleva sopprimere Cristo dichiarerà: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).

Al riguardo, in 1 Cor 15,8-9, Paolo narra la grazia di Damasco in termini  insoliti: “Ultimo fra tutti (Cristo) apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio”.

Definendosi un aborto, Paolo non manifesta solamente un senso di indegnità, per la quale Dio avrebbe dovuto scartarlo piuttosto che sceglierlo; egli tocca qui il mistero della vita e della morte, mistero che sta nelle mani di Dio solo, “Autore della vita” (At 3,15a).

Per definizione “aborto” è un cadavere, il corpo morto che viene espulso dal grembo. Paolo si definisce aborto perché egli era morto spiritualmente quando Gesù gli apparve; un aborto al quale il Pungolo divino restituì la vita quando lo afferrò e lo ghermì irresistibilmente sulla via di Damasco, dopo averlo tallonato fin dal grembo di sua madre.

Questa immagine dell’Amore instancabile e seducente di Dio, per contrasto, ne richiama una di segno opposto, suscitata inevitabilmente dalla parola “aborto”. Ha l’aspetto anch’essa di un pungolo, un pungolo di materia plastica tagliato a becco di flauto, un pungolo assassino che va a cercare nel grembo un uomo che tenta disperatamente di sfuggire alla morte. Alla fine lo raggiunge, ed egli muore lanciando un grido che nessuno può udire.

Ogni anno decine di milioni di esseri umani vengono fatti a pezzi così, da medici “persecutori” della Vita. Molti di loro, però, come Saulo, un giorno non hanno potuto più rivoltarsi contro il pungolo della Vita, al punto che ne sono diventati apostoli, e il loro annuncio risuona ancora oggi nel mondo intero.

L’Amore è un’onda più alta della morte, perché è l’onda insopprimibile e divina della Vita, dal concepimento all’eternità. Poiché l’Amore si è fatto carne in Gesù, che è risorto, la Vita ha vinto definitivamente la morte, per Sé e per tutti coloro che credono nel suo nome.  E’ questa la buona notizia che sta circolando da duemila anni, anche sugli autobus atei.

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* Padre Angelo, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

RITRATTO INTERIORE DI PAOLO di Biguzzi G. (2002)

 dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2002/articolo6_4.asp#_ednref1

RITRATTO INTERIORE DI PAOLO di Biguzzi G. (2002)

Un ritratto interiore di Paolo deve distinguersi sia da quello fisico, sia da quello che si potrebbe chiamare storico. Cominciamo da questi. Il ritratto fisico di Paolo è tratteggiato in un apocrifo: «Piccolo di statura, testa calva, gambe curve, corpo ben formato, sopracciglia congiunte, naso un po sporgente, pieno di bontà. Alle volte sembrava un uomo, alle volte aveva la faccia dun angelo».[1] Non è male come si dice colloquialmente , ma è certamente frutto di fantasia. Il ritratto storico di Paolo, poi, fondamentalmente fa leva su tre titoli: anzitutto il titolo di «grande convertito» che sulla via di Damasco cadde a terra folgorato dal Cristo, e poi il titolo di «principe degli apostoli» dato a Paolo in coppia con Pietro nella festa del 29 giugno, e infine quello di «autore delle grandi lettere» che la domenica si leggono al secondo posto, tra lAntico Testamento e il Vangelo.
Il ritratto interiore dev
essere, da un lato, più introspettivo e, dallaltro, più problematico e più
critico.

1. Un uomo segnato da esperienze contrastanti

Il ritratto storico di Paolo insiste giustamente sulla grandezza dellapostolo, e di essa deve parlare anche il ritratto interiore perché nelle sue lettere Paolo stesso è consapevole delle grandi cose che Dio va compiendo attraverso di lui. Scrivendo ai corinzi, per esempio, non ha paura di affermare: «Io ho lavorato più di tutti gli apostoli» (1Cor 15,10). Anche se subito aggiunge: «Non io però, ma la grazia di Dio in me», è evidente che già intorno allanno 65 d.C. Paolo sa di avere fatto un grande, impareggiabile lavoro apostolico. In effetti, mandato dalla Chiesa di Antiochia di Siria, insieme con Barnaba ha già attraversato longitudinalmente tutta lisola di Cipro da Salamina a Pafo, e si è poi inoltrato nellaltopiano della penisola anatolica fondando Chiese ad Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe. Di iniziativa propria ha poi percorso di nuovo lAnatolia in tutte le direzioni ed è passato in Macedonia piantando la fede a Filippi, Tessalonica e Berea, ed è sceso ad Atene, Corinto e Cencre, in Acaia. Mentre scrive è a Efeso e attraverso i suoi discepoli e collaboratori il vangelo sta raggiungendo, per esempio, Colosse, Laodicea e Gerapoli: 200 chilometri nellentroterra. Nessun altro apostolo, neanche Pietro o Giovanni, stava facendo altrettanto.
Il primo a meravigliarsi di questa messe apostolica cos
ì abbondante è Paolo stesso. La sua meraviglia viene dal fatto che ogni giorno, insieme all
esperienza di un sorprendente successo del vangelo, egli fa anche quella contrastante della propria debolezza.

2. Il superamento del contrasto

Paolo sa bene che in nessun ambiente è facile proporre una nuova fede. Tanto meno la fede in un condannato alla morte e alla vergognosa morte di croce sulla quale morivano schiavi, traditori dello stato e fuorilegge. E sa che ci vogliono mesi e anni per mettere in piedi una comunità, e che è difficile ottenere ladesione alla fede e la perseveranza di chi è vissuto tutta una vita nel politeismo, nel lassismo etico e anzitutto in quello sessuale. Non di questo Paolo si meraviglia, ma del fatto che ladesione delle genti al vangelo debba essere pagata con lamara moneta dellumiliazione e della sconfitta personale dellapostolo.
Paolo fa allora l
elenco dei pericoli fisici che continuamente corre, delle fatiche e dei travagli, dellostilità da parte di giudei, pagani e falsi fratelli cristiani, dellaccanimento giudiziario contro di lui di sinagoghe e tribunali, e delle sanzioni corporali decretate ed eseguite nei suoi confronti (2Cor 11,23-27). Ma soprattutto poi dice di sentirsi trattato come un demente o come un condannato a morte, e di essere ogni giorno esposto alla fame, alla sete o alla nudità, insultato, schiaffeggiato, perseguitato, calunniato, ridotto a spazzatura e a oggetto di derisione per il mondo intero (1Cor 4,9-13). In una confessione che saccende e si spegne improvvisa come un lampo, Paolo dice di sé: «Battaglie fuori, paure dentro» (2Cor 7,5). E se è comprensibile che nella sua attività apostolica Paolo si trovasse a battagliare, ci aspetteremmo che il suo animo fosse nella più profonda serenità
. Era invece attraversato da paure, al plurale! Da mille paure.
Pi
ù oltre egli fa una confessione ancora più inquietante. Dice che gli è stata messa una spina nella carne, e che addirittura per ben tre volte ha chiesto di essere liberato e sollevato da quel tormento. Non sappiamo di che cosa si trattasse: forse di una qualche malattia o forse dellostacolo continuo che gli veniva dai giudei o dai falsi fratelli cristiani (che subentrando a lui nelle sue comunità devastavano il suo lavoro). In ogni caso, la grazia non gli è stata concessa, ed egli ha dovuto tenersi il bruciore ininterrotto di quella ferita. «Ti basta la mia grazia», gli è
stato risposto (2Cor 12,7-9).
In tutto questo travaglio Paolo si sente come salvato all
ultimo istante o allultimo centimetro, da una potenza misteriosa che egli non nomina e che è evidentemente quella di Dio: «In ogni cosa siamo messi sotto pressione ma non schiacciati, ridotti sempre a vicoli ciechi ma non senza che poi si apra una via duscita, perseguitati ma non mai derelitti, buttati a terra ma senza mai essere fatti perire» (2Cor 4,7-9). Paolo supera questo stridente contrasto tra successo apostolico e continua sconfitta personale nella convinzione che il primo non può venire senza la seconda. Paolo dice, per esempio, ai corinzi che la vita è generata in loro dal suo continuo morire. La soluzione è dunque nella dialettica pasquale tra morte e vita. Per questo Paolo può parlare di «tesoro» (il vangelo e lincarico apostolico) «in vasi di creta» (la tartassata e sofferente umanità dell
apostolo) (2Cor 4,7.12).

3. La rivelazione di Damasco e il viaggio interiore

Tutti dicono che per Paolo ogni inizio fu a Damasco, e giustamente. Con minore esattezza si dice che a Damasco Paolo fu convertito. Se proprio si vuol parlare di conversione, infatti, bisogna precisare che non si convertì da una vita di peccato perché in Fil 3,6 egli stesso dice di essere irreprensibile nellosservanza della legge. Né si convertì da una religione ad unaltra. Al contrario, egli sentiva che a Damasco la sua fede giudaica era giunta alla meta raggiungendo il Messia delle Scritture e delle profezie. Si può tuttal più dire che si era convertito dalla legge mosaica al Cristo. Sulla via di Damasco, infatti, Dio gli rivelò il suo Figlio (Gal 1,16) e in lui lèschaton, il mondo nuovo e ultimo che sostituirà quello attuale. La sublime conoscenza del Cristo e della potenza della sua risurrezione ha in tal modo rivoluzionato la vita di Paolo, azzerando in lui ogni altro motivo di vanto così che dopo Damasco egli considera perdita e sterco i privilegi del giudaismo e ogni cosa (Fil 3,7-8).
Per capire l
impatto di Damasco sulla psicologia di Paolo il paragone meno inadatto è quello dellinnamoramento il quale fa passare da tutto un giro di pensieri, interessi e affetti, alla ricerca totalizzante della sola persona amata, divenuta dimprovviso centro della propria esistenza. Ma la rivelazione di Damasco non riguarda il solo Paolo. Il suo incontro con il Risorto comporta, infatti, almeno due affermazioni inaudite per lintera umanità. La prima: «Qualcuno il Cristo ha vinto la morte per sé e per tutti». La seconda: «Questo mondo è oramai superato perché ha avuto inizio la nuova creazione, e il Cristo ne è la prima pietra, la pietra fondante». Poiché ogni essere umano ha il diritto di sentirsi annunciare queste due notizie di rilevanza assoluta per lantropologia e per la cosmologia, oramai a Paolo sarà impossibile tacere: «Lannuncio evangelico è per me una necessità. Guai a me se non evangelizzassi!» (1Cor 9,16). Selezionato fin dal seno di sua madre come il profeta Geremia e come il Servo di Adonai (Gal 1,15; cf. Ger 1,5; Is 49,1), a differenza di loro egli è profeta e apostolo dei tempi escatologici e della rivelazione definitiva. Per questo si sente debitore del vangelo a giudei e non giudei, a greci e barbari (1Cor 9,19-23; Rm 1,14), anche se poi concorderà
con Giacomo e Pietro una suddivisione del campo apostolico, lasciando ad essi il mondo della circoncisione e facendosi volentieri carico del mondo della nongcirconcisione (Gal 2,7-8).
È così che da Damasco cominciò landirivieni di Paolo sulle rotte marine e sulle vie di terraferma del vasto impero romano. Ma il suo viaggio fu anzitutto un viaggio interiore. Egli seppe uscire dai privilegi del giudaismo di cui andava fiero e dai diritti che aveva come apostolo, per farsi tutto a tutti. Sua patria non furono più né Tarso né Gerusalemme, ma l
intero mondo dei popoli.

4. Viaggio interiore nella mezzaluna mediterranea

Dopo Damasco Paolo si mosse in direzione dellArabia (Gal 1,17). C’è chi pensa che là abbia cercato una pausa di riflessione, ma i ritiri spirituali si inseriscono con difficoltà nel ritratto interiore di Paolo. Egli era bensì uomo di preghiera, come si vedrà, ma lo era nel mezzo del tumulto apostolico, non nelle oasi dello spirito. Se dunque andò in Arabia, nel regno dei Nabatei, vi andò con ogni probabilità come apostolo. Poiché si faceva sempre guidare dalle Scritture, cominciò di lì forse perché le Scritture dicevano che la luce di Gerusalemme avrebbe brillato per i cammelli di Madian e di Efa, per gli abitanti di Saba e per le regioni dei Nabatei (Is 60,6-7), prima che per le navi di Tarsis (vv. 8-9), e cioè prima che per larea mediterranea.[2]
Da 2Cor 11,32 si apprende che Areta, etnarca dei Nabatei, cercava di mettere le mani su Paolo: fu probabilmente per questo che egli dovette lasciare lArabia. Trovando sbarrata la via dellOriente, Paolo si volse allora verso lOccidente, muovendosi «a cerchio da Gerusalemme allIllirico», lAlbania attuale, come egli dice in Rm 15,19. Poi, non trovando più spazio apostolico in quelle regioni, mira oramai alla Spagna (Rm 15,24.28). Pensa, dunque, di allungare il suo cerchio apostolico occidentale per percorrere lintera mezzaluna mediterranea. In tal modo il suo viaggio spirituale si amplia, perché dovrà imparare il latino e farsi condizionare da una visione del mondo molto diversa dalla sua. In quel tempo la Spagna dava a Roma personaggi come Seneca, Lucano e Marziale. Almeno in potenza, anchessi erano meta del suo viaggio interiore.
Non
è fuori luogo, poi, chiedersi quali regioni, dopo la Spagna, avrebbero potuto entrare nella sua agenda apostolica. Infatti, in Spagna non si sarebbe fermato come non si era fermato a Corinto o a Efeso dove pure aveva trascorso 18 mesi e, rispettivamente, 2 anni (At 18,11; 19,10). Non è impossibile che avesse nei suoi progetti un ritorno a Gerusalemme lungo la costa africana, le cui numerose colonie giudaiche rendevano agevole il primo approccio apostolico.[3]
Scenari missionari così vasti dicono comera vasto il suo orizzonte interiore.

5. La preghiera incessante

La preghiera è componente fondamentale di ogni ritratto interiore, e Paolo era un uomo di preghiera, lui che invitò i Tessalonicesi a pregare «incessantemente» (1Ts 5,17). Si è già detto, per esempio, che per tre volte chiese di essere liberato dalla spina nella carne e che, evidentemente nella preghiera, accettò poi di tenersi quella ininterrotta sofferenza. La preghiera è per lui «una lotta presso Dio» (Rm 15,30), una lotta con luomo vecchio che ognuno porta in sé, oltre che con Satana e con gli ostacoli da lui opposti allannuncio evangelico (1Tes 2,18). Lasciano intravedere come egli pregava anche le formule che egli tramanda. Lesclamazione «Abba, Padre» dice come egli facesse suoi lo spirito di figliolanza e la sottomissione alla volontà di Dio, che erano stati di Gesù (Gal 4,6; Rm 8,15; cf. Mc 14,36). Il «credere nel cuore e dire con le labbra: Gesù è Signore”» di Rm 10,10 rivela il cristocentrismo della sua vita e della preghiera. Il «Marana tha Vieni Signore!» di 1Cor 16,22 dice come la sua preghiera fosse nutrita di ardente speranza. Le molte citazioni che egli trae dai Salmi dicono poi che le preghiere dIsraele, con tutta la varietà dei loro temi, alimentavano le sue suppliche, le sue lodi, le sue riflessioni sulla storia, le sue invettive e imprecazioni.
Il pi
ù delle volte la preghiera di Paolo è per le Chiese cui scrive: aprendo le lettere egli invoca su di esse grazia e pace, e poi benedice o ringrazia Dio a motivo dei frutti che Dio in esse suscita, o chiede che si approfondisca la loro conoscenza del mistero del Cristo, o prega per la loro perseveranza nelle difficoltà. Altre volte chiede che si preghi per lui. Lo fa, per esempio, quando, sul punto di partire per Gerusalemme, ha due timori: che i giudei arrestino definitivamente la sua corsa apostolica e che la Chiesa di Gerusalemme non accetti la colletta fatta in Macedonia e Acaia (Rm 15,30-31). E questo rivela che, come la sua vita, così
anche la sua preghiera era abitata e dominata dalla missione.

6. Riserve giustificate e riserve ingiuste

Paolo ha nemici anche oggi. Qualcuno, che ha cercato di psicanalizzarlo a partire dai suoi scritti, ne fa un disturbato psicologicamente e un misogino, che non trova dentro di sé la capacità di dedicare una sola menzione a sua madre. Laccusa è ingiusta perché della sua famiglia non ricorda né la sorella (cf. invece At 23,16) né il padre, ma ricorda invece la madre proprio mentre rievoca levento di Damasco (Gal 1,15). Anzi, in Rm 16,13 chiama «madre mia» la madre di un certo Rufo. È stato poi accusato di antifemminismo e di aver imposto il silenzio alle donne nelle assemblee, mentre egli mette la profezia femminile (ovviamente nelle assemblee) sullo stesso piano di quella maschile (1Cor 11,4-5),[4] lui che scrive: «In Cristo non c’è maschio o femmina» (Gal 3,28), e che si circonda di collaboratrici come Prisca, Febe, Evodia e Sintiche, ecc. Per aver scritto: «Mi sono fatto tutto a tutti pur di conquistare qualcuno», è stato infine accusato di essere un opportunista, che per avere successo è pronto a compromettere la purezza del vangelo. Ma ciò che in quel testo Paolo dice di avere messo a repentaglio non è il vangelo, bensì sé stesso, la propria libertà e i diritti di cui potrebbe avvalersi: «Tutto io faccio per amore del vangelo» (1Cor 9,19-23).
Bisogna, invece, riconoscere che Paolo aveva una dose eccessiva di protagonismo: a Cipro scipp
ò a Barnaba, proprio nella sua terra, la leadership
della spedizione apostolica (At 13,5-13). In secondo luogo, lui lautore dellelogio alla carità (1Cor 13) di essa non sempre è modello ed esempio: egli che schiaffeggia altri annunciatori del vangelo con i termini offensivi di «cani», «cattivi operai», «castrati» (Fil 3,2), «falsi apostoli», «operai fraudolenti mascherati da apostoli di Cristo, ma in realtà ministri di Satana» e, con sarcasmo mordace, «super apostoli» (2Cor 11,13-15).
L
’«egomania», la propensione alla violenza verbale, allepiteto che ferisce, al sarcasmo, alla litigiosità, al vedere nemici dappertutto, ecc., anche tutto questo fa parte del ritratto interiore di Paolo. Senza quella natura un po tanto aggressiva, però, Paolo non solo non sarebbe stato il persecutore della Chiesa e del Cristo di cui parlano Gal 1,13 e At 9,6, ma neanche il convertito e lapostolo di cui parla tutta la storia.

[1] Atti di Paolo 2,3; Asia Minore, 190 d.C. circa.
[2]
R. Bauckham, «What if Paul had Travelled East rather than West», in Novum Testamentum 8 (2000) 171-184.
[3]
J. Knox, «Rom 15,14-33 and Pauls Conception of Apostolic Mission», in Journal of Biblical Literature 83 (1964), 1-11; G. Biguzzi, Paolo comunicatore, Paoline, Milano 1999.
[4]
Cf. G. Biguzzi, Velo e Silenzio. Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-26, EDB, Bologna 2001.

PAOLO, UN’AUTOBIOGRAFIA IN GAL 1,11-24

PAOLO, UN’AUTOBIOGRAFIA IN GAL 1,11-24

 

questo è il titolo che la BJ edizione italiana da a questa parte della lettera ai Galati, l’interpretazione di questa lettera non è facile, a detta anche di Mons. Ravasi – sto leggendo il suo commento ai Galati – quello che mi interroga è proprio questa presentazione molto personale, questo annuncio del vangelo che Paolo fa in questa parte della lettera; ho in mano una, abbastanza breve, spiegazione di Mons. Ravasi, la propongo, stralciandola dall’intero commento alla lettera paolina, perché sembra una sorta di autobiografia che Paolo fa, una autobiografia nella quale il protagonista non è più Paolo con la sua storia: la nascita gli studi, la conversione ecc., i luoghi dove è nato, cresciuto, ma una biografia che parte da Gesù, il primo personaggio di questa non è più Paolo stesso, ma Gesù il primo protagonista, Paolo non si mette al centro della sua storia, ma mette Gesù Cristo al centro della sua storia, e questo a me sembra un passaggio particolarmente importante, sia delle lettere, sia della persona di Paolo, della sua fede; come un indicare a chi ascolta la sua parola, legge le sue lettere, chi è veramente al centro della vita dell’uomo; questo il mio pensiero, ora ascoltiamo ciò che dice Ravasi:

 

un breve passaggio dall’ introduzione a questa parte:

 

« Teniamo… presente che Paolo, come apostolo e pastore, è profondamente coinvolto nel messaggio che annuncia e che da noi viene richiesta l’apertura del cuore, perchè tocchiamo le radici del nostro credere cristiano, perché diventi anche in noi efficace e non rimanga « 

 

commento a Gal 1,11-24, il commento prosegue fino a 2,14 considerando un’unica unità, ma io mi fermo a questo breve, ma intenso scritto, la parola a Mons. Ravasi:

 

« IL VANGELO ANNUNCIATO DA PAOLO (Gal 1,11-2,14 – lettura solo di 1,11-24)

… che con la parola Paolo non intende il testo scritto, ma la persona stessa di Gesù Cristo che è tutt’uno con il suo messaggio. Sappiamo anche che Paolo ripete che non esiste altro vangelo al di fuori di quello da lui annunciato.

a) Origine del vangelo annunciato da Paolo

Paolo puntualizza l’origine, la genesi del vangelo. Vediamo come egli esprime ciò nella lingua greca, usufruendo della potenzialità espressiva di tre preposizioni che nella traduzione italiana va un po’ perduta. In 1,11-12 egli scrive:

<Vi dichiaro, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo>

Innanzitutto l’espressione è una parafrasi; in greco c’è semplicemente Katà ànthropon, , .

Dice poi: , in greco parà anthrópou,cioè non l’ha ricevuto , per derivazione (parà) umana. Da una lato quindi un vangelo che non è fondato su ragionamenti umani, dall’altro la sua trasmissione che non è avvenuta attraverso la comunicazione normale da uomo a uomo, il dialogo intraumano.

Infine Paolo dice: , in greco: dià apokalýpseos, che Gesù Cristo ha fatto.

Il movimento indicato delle tre proposizioni originali è comprensibile anche a chi non sappia il greco: si parte dal basso con katà in riferimento alla fondazione non umana; parà esprime lo scorrimento orizzontale, il canale umano; ambedue le cose vengono escluse; infine dià indica la vera mediazione, che è verticale, viene dall’alto, è rivelazione.

Usando ora il linguaggio teologico possiamo dire che Paolo sottolinea il carattere trascendente del vangelo da lui predicato: non sboccia da terreno umano, ma scende dal cielo di Dio.

b) Forza dell’evangelo

Dopo averne esposto l’origine, Paolo passa a considerare la forza del vangelo, realtà divina efficacie, potente, che non nasce da semplici meccanismi o dinamismi umani, che non è prodotto del nostro volere, della nostra esperienza, del nostro desiderio, ma si compie come dono dall’alto. Lui stesso, Paolo, ne è una prova, un testimone: il vangelo ha distrutto ogni sua opposizione istantaneamente con un’irruzione dall’esterno. In questo contesto, Paolo riprende la parola apokálypsis, che aveva usato poco prima, e specifica , . Paolo racconta in prima persona con poche pennellate la sua conversione, narrata anche negli Atti degli apostoli, con gli interventi stilistici tipici di luca, per ben tre volte (c. 9, 22 e 26). Qui vi è messa alla radice la forza stessa del vangelo, il messaggio di salvezza del Cristo.

<Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri> (1,11-15)

È il passato di Paolo, l’orizzonte lascito alle spalle dopo esservi stato profondamente immerso, avvolto in esso come in una ragnatela che lo possedeva integralmente.

<Ma (ecco il ‘ma’ delle grandi svolte) quando colui che mi scelse fin dal senso di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me (in greco abbiamo en emòi, quindi non ‘a me’, ma ‘dentro di me’ ) suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare uomo...> (1, 16-17).

Le poche volte in cui Paolo accenna alla sua conversione, alla chiamata e all’ in lui del Cristo, usa lo schema: ; al centro si inserisce la lama che trafisse la sua esistenza.

c) Sviluppo nella biografia di Paolo del vangelo da lui annunciato

Qui Paolo si lascia prendere dal filo autobiografico che lentamente si configura come elemento teologico. Ci interesseremo, ora, di una questione storica, cioè della vicenda personale di Paolo, perché essa ha continui riverberi, connotati e qualità di tipo teologico. È il messaggio che dobbiamo con attenzione scoprire e non la semplice informazione storica.

1) IL RITIRO NEL DESERTO

Paolo dice: . È un breve cenno autobiografico nei vv. 16-17:

<...senza consultare nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco.>

Dopo l’evento sulla via di Damasco, la conversione, egli non va a Gerusalemme, si ritira in Arabia. Col termine Arabia si indicava una regione sterminata, Paolo intende probabilmente la zona meridionale dell’attuale Giordania, L’Arabia Nabatea, dove passavano le carovane dei famosi mercanti nabatei che diedero origine a quella singolare, unica e stupenda città che è Petra. »

 

il testo di Ravasi prosegue da 2,1 quando Paolo, in seguito va a Gerusalemme.

Mons. Gianfranco Ravasi: San Paolo figlio di tre culture (presentazione di Paolo, Rm)

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2005/132005.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI

SAN PAOLO, FIGLIO DI TRE CULTURE (presentazione di Paolo, Rm)

Non ho mai avuto il coraggio di proporre san Paolo nella nostra galleria di ritratti perché ero consapevole di disegnare solo uno sgorbio, avendo a disposizione soltanto poche righe: si pensi che una delle ultime biografie paoline, la Vita di Paolo di Jerome Murphy O’Connor (Paideia 2003), si sviluppa per ben 472 fittissime pagine.

In questa domenica pasquale ho pensato di evocarlo per accostarlo all’apostolo protagonista della pagina evangelica che la liturgia propone, Tommaso. Il tema, infatti, che li unisce (o divide?) è quello della fede, uno dei nodi capitali del pensiero paolino.
Non traccerò, perciò, un profilo di questo apostolo straordinario, figlio di tre culture, l’ebraica della sua genesi umana e spirituale, la greca per la sua lingua, la romana per la sua identità civile, essendo nato nella colonia imperiale di Tarso in Cilicia, nell’attuale Turchia meridionale. Né cercherò di presentare quell’epistolario che è entrato nel Nuovo Testamento e che quasi ogni domenica èletto nella liturgia cristiana. Vorrei, invece, fermarmi proprio nel cuore della sua teologia che ha la sua splendida formulazione soprattutto nella Lettera ai Romani.

E proprio questa teologia che ha imposto a Saulo-Paolo (ricordiamo che Saul era il nome del primo re di Israele, appartenente – come l’Apostolo – alla tribù di Beniamino) una definizione ambigua, quella di « secondo fondatore del cristianesimo », quasi niettendolo in alternativa a Gesù. In realtà trascrive per un nuovo orizzonte socio-culturale un messaggio che aveva la sua radice nella Pasqua di Cristo. Ebbene, egli intreccia nella sua rappresentazione della salvezza due parole greche decisive, clufris e pistis.

La prima, charis (che è alla base dei nostri « caro », « carezza », « carità »), è la « grazia », ossia l’amore di Dio che per primo si mette sulla strada dell’umanità ferita dal peccato. Scriveva Paolo, citando Isaia: « Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non mi invocavano » (Romani 10,20). In principio c’è, dunque, la luce divina che brilla nell’oscurità della « carne » peccatrice della persona umana. È questo il senso del famoso grido finale del Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos: « Tutto è grazia! ».

Ma ecco apparire l’altra parola, pistis, « fede ». Essa è simile a braccia aperte che accolgono la chàris, la grazia donata da Dio in Cristo. Illuminato dal Signore, l’uomo deve rispondere con la sua libertà di adesione o di rifiuto. Egli può afferrare la mano divina che si tende a lui per sollevarlo fuori dalle sabbie mobili del peccato. Da questo abbraccio nasce quello che Paolo chiama l’uomo « giustificato », ossia salvato, pervaso dallo stesso spirito divino per cui egli si rivolge a Dio invocandolo come abba, ossia « babbo, padre » (Romani 8,15).

Lasciamo, così, l’Apostolo per eccellenza, immaginandolo in uno dei tanti ritratti a lui dedicati dalla storia dell’arte, spesso in compagnia dell’altro apostolo per antonomasia, Pietro. Proprio come ha fatto il pittore EI Greco (1541-1614) in una celebre tela con gli indimenticabili profili allampanati di questi due testimoni di Cristo, tela ora conservata al Museo nazionale di Stoccolma.

Mons. Gianfranco Ravasi: La santa radice d’Israele

dal sito: 

http://www.novena.it/ravasi/ravasi13.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI 

LA SANTA RADICE DI ISRAELE 

Il testo apocrifo cristiano della fine del II secolo intitolato Atti di Paolo e Tecla ci offre questo curioso e realistico ritratto di Paolo: «Era un uomo di bassa statura, la testa calva, le gambe arcuate, il corpo vigoroso, le sopracciglia congiunte, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità: a volte aveva le sembianze di un uomo, a volte l’aspetto di un angelo».
Al di là della finale un po’ “aureolata”, questo profilo rivela i tratti di un uomo dell’Oriente.
Egli, infatti, pur proclamando con orgoglio la cittadinanza romana che gli derivava dall’essere nato a Tarso, una colonia romana dell’attuale Turchia, non esitava a marcare le sue radici ebraiche.
«Sono un ebreo di Tarso in Cilicia», dichiarava al tribunale romano che gli chiedeva le generalità al momento dell’arresto a Gerusalemme (Atti 21,39).
In polemica coi suoi detrattori ebrei di Corinto rivendicava le sue origini: «Sono essi ebrei? Lo sono anch’io! Sono israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io!» (2 Corinzi 11,22).
Agli amati cristiani greci di Filippi ribadiva vigorosamente di essere «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo secondo la legge (Filippesi 3,5).
Ebbene, nella lettera ai Romani che ci ha accompagnato nelle nostre puntate durante questa Quaresima ci sono ben tre capitoli – dal 9 all’11 – dedicati proprio al popolo ebraico.
Essi si aprono con questa appassionata dichiarazione:
«Vorrei essere io stesso maledetto, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono israeliti e a loro appartengono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi.
Da essi proviene Cristo secondo la carne» (9,3-5).
Pur ribadendo che gli Ebrei come i pagani hanno bisogno di essere salvati in Cristo dal loro peccato, Paolo ne esalta la grandezza e il destino di gloria.
La Chiesa, che comprende anche i non-ebrei, deve sentirsi innestata alla “santa radice” di quell’olivo che è Israele.
L’immagine vegetale e agricola dell’olivo è usata però dall’Apostolo in modo paradossale:
l’innesto lo si compie su un albero selvatico con un pollone fruttifero:
nella storia della Chiesa è avvenuto il contrario.
Infatti sull’olivo, che è Israele, è stato innestato un oleastro che «partecipa della radice e della linfa dell’olivo», cioè i pagani convertiti al cristianesimo (11,16-24).
E anche se gli Israeliti si sono ridotti a essere rami e polloni piantati altrove, essi potranno sempre riconnettersi alla loro radice e al loro tronco sano.
Conclude, infatti, Paolo la sua parabola dell’olivo così:
«Se tu, pagano, sei stato reciso dal tuo oleastro per essere innestato — sia pure contro natura — su un olivo buono, quanto più essi (gli Ebrei) potranno essere di nuovo innestati sul proprio olivo secondo la loro natura! » (11,24).

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