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« Paolo Diamante di Dio » (è la lettera scritta dal Vescovo Mons. Bregantini agli studenti del Molise) (23 novembre 2008)

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« Paolo Diamante di Dio »

(è la lettera scritta dal Vescovo Mons. Bregantini agli studenti del Molise)

23 novembre 2008

Carissimi,
alcuni giorni fa, lungo le strade di una grande città, ho notato questo messaggio pubblicitario, ben scelto, che mi è subito piaciuto:
la vita ha il sapore che le dai!

Mi è piaciuto perché sento che la vita è il grande talento che la grazia ci ha posto in mano. Che è unico. Che è immenso. Che è tutto.
Un’espressione che mi ha suggerito quanto la vita sia chiamata all’incontro con lo stupore, in quel sapore immenso che abbraccia tutto ciò che è e che sarà.
La vita, che tu hai in mano, questa stessa vita, dipende anche da te, richiede tutto te stesso, coi difetti e virtù. Comprendi allora come il sapore che tu le dai trae origine dai tuoi sogni, dai tuoi aneliti, dalla tua stessa identità, da ciò che conosci, speri, ami, preghi. Proprio come ci ricorda un filosofo: sei ciò che gusti, perché il sapore è sapere.
Assapora la vita. E dalle sapore. Poiché più la assapori, più la conosci; più la gusti e più la ami. Perché il sapore è l’essenza della vita, la sua dolcezza o amarezza.
Il suo cuore.
Per questo, mi sembra di poter dire che la vita va riempita, come un’anfora alla fonte, come un programma di computer. Altrimenti, resta vuoto.
Hai l’hardware, ma non il software.
Hai il cuore, ma non hai l’amore.
Hai la rosa, ma non hai il profumo.
Hai gli occhi, ma non cogli la bellezza!
Così è la vita. Come … Altri esempi, bellissimi, li puoi tu stesso creare.
Magari con una poesia, fatta in classe, sul gusto della vita.
Da gustare poi insieme…
Perché quel sapore dipende da te. Tu le dai il gusto che vuoi.

Proprio per questo, intendo, carissimi,
inviare a ciascuno e a tutti voi,
all’inizio di questo nuovo anno scolastico,
un messaggio di augurio e di riflessione,
tratto dalla sapienza antica per farne spunto
per il cammino di oggi.
E’ infatti bello abituarsi, nella scuola e nella vita, al confronto, a leggere la storia dell’altro, a capire le differenze, sempre però in un clima di grande verità e chiarezza.
Saluto perciò con affetto tutti voi, carissimi bambini, fanciulli, ragazzi e giovani, cioè tutti gli studenti delle quattro fasce della scuola: infanzia, scuola primaria, media e  secondaria.
E con voi, saluto e ringrazio tutti i vostri dirigenti e docenti, con un pensiero di particolare gratitudine al personale ausiliario, preziosissimo.
Ai maestri e docenti, il mio pensiero di santa invidia. Fate un lavoro impegnativo, certo, specie oggi,  ma decisivo, poiché voi non plasmate cose, ma coscienze; non create prodotti, ma costruite uomini e donne nuove, capaci di sfidare il futuro.
Ciò che insegnate e trasmettete oggi, sappiate che la società lo ritroverà germogliato dopo. Seminate quindi con larghezza in queste coscienze che formate, seminatevi ciò che è vero, giusto, amabile, puro, alto e profondo e che può durare anche per il domani, per il bene di tutti. In una responsabilità che coinvolge il presente e il futuro.
Questo che avete in mano è il PRIMO MESSAGGIO che rivolgo alle Scuole dopo il mio arrivo in terra Molisana. E lo faccio con molta gratitudine, perché devo affermare di essere stato invitato con affetto ed accolto con gioia in tante scuole. In tante sono già stato. Nelle altre, attendo il vostro cortese invito e vi verrò con gioia. Come del resto, so che faceva volentieri il mio predecessore, mons. Armando Dini, cui va la mia gratitudine per un mucchio di cose belle che ho trovato e che spero di poter continuare.
Grazie del dialogo che è scaturito nelle classi. Grazie della cordialità manifestata. Ma grazie soprattutto delle incisive domande che mi avete posto,  perché sento che in esse c’è il vostro sogno sul mistero e sul fascino della vita. Sogno e mistero che è sempre bello condividere, perché non è solo vostro. E’ di chi ve l’ha posto nel cuore, quel Padre che nei cieli vi ha pensato e che oggi corre e cammina con voi lungo le strade, spesso incerte e precarie della vita.

Con questo mio messaggio intendo entrare nelle vostre scuole,
affacciarmi nelle aule con molto rispetto e semplicità,
prendere il gesso e scrivere sulla lavagna un titolo:
« a confronto con il giovane Paolo, diamante di Dio… ».

Vorrei infatti che questo mio messaggio non sia solo formale, un semplice augurio. Ma una riflessione fatta insieme, dalla quale poi possiate trarre tutta una serie di indicazioni pratiche, nel cammino educativo che state compiendo, tra gioie e fatiche. Nel cuore vostro e sui banchi di scuola. Nelle vostre famiglie, che saluto rispettosamente, con vera gratitudine e nelle strade e nei luoghi del gioco e dello svago. Ed anche nella vita sociale, alla quale vi state affacciando con molta trepidazione e tenerezza.
In questa dimensione, ecco la figura di san Paolo. Ve lo presento, perché sento che è un personaggio estremamente stimolante e vivace. Non è scontato. Non è uno scocciatore, che sta lì a farvi sbadigliare mentre vi fa una « pesante » lezione di vita. San Paolo viene a scommettere con voi! Viene affettuosamente a colorare i vostri sforzi, a puntare con voi verso l’alto. E a ciascuno chiede un confronto intenso e chiaro.
Così, in quest’anno dedicato a san Paolo, anche noi ci metteremo a leggerne le lettere, a sentirne quasi la voce, a ripercorrere gli itinerari sulle navi romane, a seguirne le orme tra le montagne della attuale Turchia, lungo i fiumi, nelle città greche, fino al martirio, alle porte di Roma, in un giorno di estrema solitudine, verso il 67 dopo Cristo.
Ma con voi, carissimi ragazzi e giovani, vorrei soprattutto dialogare sul come Saulo, un ragazzetto di una bella città antica, Tarso, sia potuto divenire Paolo. Di Paolo giovane, ecco, vorrei parlarvi. Presentarvelo con le sue ansie, le sue fatiche, i suoi sogni, il suo carattere, la sua spinta in avanti, il suo cuore appassionato.
Perché Paolo?
PERCHÉ LUI SÌ CHE HA SAPUTO DARE UN SAPORE PIENO ALLA SUA VITA! Perché l’ha riempita di un volto, di un cuore: il cuore ed il volto di Gesù di Nazaret.
Ed insegnerà anche a noi, perciò, a dare alla nostra vita un sapore vero, una gioia piena, una corsa compiuta, una meta raggiunta. Tutte espressioni che lui stesso ha coniato e sviluppato. Belle perché vere. Vere perché nel cuore mio e tuo.
Non so se ci riuscirò. Se l’intento andrà a buon fine, eccomi a dialogare con voi, per un riscontro nelle aule scolastiche, ogni volta che ne sarò invitato con la già sperimentata cordialità. Potremo così anche chiarire eventuali passaggi difficili o questioni non ben affrontate. E leggeremo insieme altre pagine della sua vita, qui non presenti.
Buon cammino, dunque … per tutti, ragazzi e giovani. Ed anche per i vostri docenti, cui auguro la stessa passione educativa che aveva Paolo. Specie per i docenti di Religione cattolica, che ringrazio di vero cuore e seguo con affetto particolare. E’ in modo speciale a loro che affido questo messaggio, perché con voi, carissimi, lo possano condividere, spiegare, attualizzare dentro il vissuto della classe, sentendone domande e offrendo spiegazioni, in un continuo approfondimento, di lezione in lezione. In simbiosi con gli altri docenti. Magari creando un recital od un momento teatrale, su certi passaggi della vita di questo santo.
  
E comincerei proprio così, come tutte le grandi storie, perchè, nella sua famiglia ebrea, rigidamente osservante della Legge dei padri,  a quel piccolo bimbo viene dato un nome molto bello, tanto amato: Saul, che viene poi reso, familiarmente, Saulo.
E’ un nome che ricorda un grande Re d’Israele, che ha cambiato la storia dei suo popolo. Un uomo forte, vigoroso, deciso. Ma anche interiormente inquieto, alla ricerca di spazi sempre nuovi.
E così sarà Saulo: forte di carattere, non alto di statura come il re antico, ma coraggioso e tenace come lui. Anzi, più ostinato e più deciso ancora. E’ un uomo passionale, dall’indole fiera ed impavida, che non teme di esprimere con tono il suo sentire. E’ un emotivo, che vive ed affronta tutto di petto, un tipo che non si arrende di fronte agli ostacoli. Ama la concretezza e aborrisce tutto ciò che è finto, ambiguo; parla senza mezzi termini, non tentenna, non rifugge. Ama le sfide della vita, fermo, dotato di fantasia accesa, di un’intelligenza acutissima, capace di gesti profondi e coraggiosi, ma bisognoso di comunicare i propri ideali. Un giovane appunto, che dà pieno sapore alla sua vita
Ma tiene nel cuore suo una spina di inquietudine, che lo mette sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di inedito, di più spazioso. Sperimenta così anche il suo fallimento e con chiarezza lo ammette, perché inconsapevolmente sente che qualcuno lo aspetta, oltre lo steccato della sua intrepidezza. E chiede affetto, comprensione, incoraggiamento; qualcuno che gli dica, anche a lui: non avere paura, vai avanti…! ». Come avviene per noi, grati di ogni gesto di dolcezza e di tenerezza degli amici.

In famiglia Saulo cresce con la LINGUA E LA CULTURA EBRAICA. E’ una famiglia seria, osservante, molto attenta alla tradizione. Fa circoncidere il piccolino dopo otto giorni, innestandolo così nella tribù di Beniamino, proprio quella di Saul. Era gente impegnata, obbediente alla legge di Mosè con lo scrupolo del fariseo, cioè di chi sa che osservando fedelmente la legge ne ottiene riconoscimenti e gratificazioni. Da Dio e dagli uomini.
Cresce così: chiaro, forte, tenace, deciso e preciso. Di tempra e di cuore.
Dicevamo di Tarso. E’ la città natale, dove Saulo corre lungo le strade e dove va a scuola nei suoi primi anni di vita. Ma Tarso, com’è noto, non è in Palestina. E’ nel sud di quella immensa provincia romana, che allora si chiamava Asia. Per noi, oggi, è il sud della Turchia, che ne conserva gelosamente il ricordo.
Tarso è una cittadina universitaria. Un po’ come tante delle nostre cittadine interne. Le sue scuole rivaleggiano con le grandi accademie di Atene e di Alessandria.
Tarso è un incrocio di civiltà. Vi insegna Atenodoro, il maestro e amico di Augusto e, un secolo prima, Cicerone fu governatore della provincia. Vi scorre il fiume Cnido, che quasi costò la vita al giovane Alessandro Magno, quando, madido di sudore, vi volle fare il bagno.  Il giovane Re rimase a Tarso il tempo necessario per guarire, ma la civiltà ellenica vi si impiantò saldamente.
Vi si parla GRECO come in tutto il Medio Oriente, una lingua che Saulo apprende nelle strade e a scuola e maneggia con facilità. E’ la « koinè », cioè il greco comune, pratico, chiaro, facile e bello. Anche la Bibbia in quel periodo fu tradotta dall’ebraico al greco nella stessa parlata della koinè, per renderla comprensibile a tutti.
Una parola che corre, un cuore che vibra, una mente che guarda lontano.  Così è il giovane Saulo.
Il porto di Tarso, infatti, guarda all’Egitto con Cleopatra, è aperto alla Grecia, a Roma, commercia anche con Marsiglia…
Ma Tarso resta sempre (e non lo dimenticherà mai!) una città semita, segnata da secoli di storia antica. Ruvida ed intensa.

E poi, Saulo entra, progressivamente, anche nella civiltà romana che domina Tarso da diversi decenni. E’ un mondo già globalizzato, quello romano, di forte socializzazione e di intensa urbanizzazione. L’impero romano con le sue agevoli strade terrestri e marine ne dà l’impronta: commercio, incontri, città nuove, scambi di idee, benessere.
E’ la realtà della città che caratterizza l’impero romano.
E per di più, Saulo è cittadino romano già dalla nascita. Per un privilegio molto raro. Che altri dovranno acquistare a caro prezzo. Lui, invece, lo è già nella culla. Mastica così anche una terza lingua: il latino. Forse non come le altre. Ma di certo la capisce. E sa usarla bene, quando occorre difendersi, affermando con fierezza, davanti ai capi militari: « Civis Romanus sum ».
Così Saulo è cittadino di tre mondi, di tre culture: ebraica, greca e romana. Proprio per questo cambierà il suo nome, per renderlo ancora più universale e comprensibile a tutti, DA SAULO A PAOLO. Perchè anche con questo stile, quel ragazzo e quel giovane aveva imparato che bisognava farsi tutto a tutti. (cfr. Atti 21, 37-40).
Potremmo dire, oggi, che veramente è stato preparato dal cielo alla sua nuova grande missione. Si è fatto tutto a tutti, per poter entrare nel cuore di ciascuno di noi, ieri ed oggi…(Cfr l Corinzi 9, 19-23).

Ma intanto, eccolo correre lungo le strade della sua città. Perché sente che la città è tutto: è incrocio di tutte e tre le sue culture. La città, infatti, è greca nella lingua, è ebraica per i suoi abitanti fieri e forti, è romana nelle istituzioni.
Paolo non è un rurale. Lo è invece Gesù, che prenderà tutte le sue immagini proprio dalla vita rurale, dal paese, dalla campagna e ne farà icone di rara bellezza e di immensi, dolcissimi orizzonti.
Saulo invece è figlio della città, dello sport, della lotta. Gesù è nato nell’ambiente dei « poveri ». Paolo è figlio di un rabbino benestante. Il primo era operaio rurale, il secondo teologo. E se lavora anche le tende, tessendole con fatica, lo fa con una dignità particolare. Non da schiavo, ma da artigiano, da maestro…da mastro.
PAOLO È COSÌ FIGLIO DELLA CITTÀ! Egli ne ha lo schema, la replica facile, l’abitudine alle folle. Ne conserva lo spirito disinvolto, aperto, pronto al confronto. Ne osserva abitudini e stile e, passando lungo le larghe vie romane, coglie sempre spunti nuovi, come fece un giorno ad Atene, capitale della cultura antica, dove notò subito un altare dedicato al « Dio Ignoto ». Lo vide, ne trasse ispirazione, ne fece il cuore del suo intervento, proclamando una frase bellissima ed immensa, tanto che nella mia vita di giovane, al Liceo, la scrissi subito sul mio diario e sui testi di filosofia: « Noi cerchiamo Dio e ci sforziamo di trovarlo, anche a tentoni, per poterlo trovare, benché non sia lontano da ciascuno di noi…! ».
La bellezza di Saulo-Paolo è proprio questa: ha sempre cercato, ha sempre amato, ha sempre desiderato.
Potrei ripetere anche a voi, nel leggere san Paolo, quella frase di un grande poeta francese, incisa a caratteri d’oro all’ingresso di un museo: « non entrare qui senza desiderio! ».
Paolo dunque appartiene a tre mondi e a tre culture, come dicevamo: ebraica, greca e romana. Tuttavia emerge da ciascuna di esse con il vigore della sua personalità. Non le cancella, ma le valorizza. Non le elude, ma le perfeziona. Non le racchiude in un livellamento piatto e ottuso. Ma lascia ciascuna con il suo colore, con la sua forza, con la sua ricchezza storica e propositiva.
Tutto questo, non per la sua sola preparazione, ma perché, sulla via di Damasco, ha incontrato il Cristo, luminoso ed esigente. Che lo ha gettato nella polvere, ma insieme lo ha ricostruito dentro.
Così l’incontro diretto con Cristo, oltre a cambiargli la vita, gli ha permesso di uscire dalle culture alle quali apparteneva, ma senza rinnegarle. Anzi, rivalorizzandole. Torneremo sull’incontro di Damasco. Perché quel momento è la strettoia attraverso la quale tutti dobbiamo, prima o dopo, passare.

Per intanto, colgo il primo immediato messaggio che san Paolo ci lascia. Il nostro è, oggi, un mondo che deve fare i conti con una società a più voci, una società dall’evidente pluralismo religioso. Ebbene, in questo contesto culturale e sociale, rischiamo di cadere in due estremismi opposti. Entrambi negativi e dannosi, per il cuore e per la mente.
IL PRIMO INGANNO È L’ESTREMISMO RELIGIOSO, il fondamentalismo, la difesa assoluta delle tradizioni dei padri. Lo stesso errore che ha fatto Saulo quando, furente, camminava verso Damasco per incatenare i suoi nemici religiosi, quella setta dei Cristiani che egli sentiva come una minaccia terribile. Poiché sono diversi – pensava – sono pericolosi e quindi vanno eliminati. Questo è l’estremismo religioso, che oggi serpeggia in molte religioni, anche tra di noi. A tratti, anche nel mondo cattolico…
L’ALTRO ERRORE, opposto, di fronte al pluralismo delle fedi, è quello di cadere in un RELATIVISMO DI PENSIERO E DI SPERANZA. E’ la nebbia dell’indifferenza. E’ il grigiore delle culture. E’ la scelta di eliminare tutti i simboli delle diverse fedi, per costruire un orizzonte senza identità. Tutti ammassati, tutti annullati, tutti omologati. Errore che la Francia ha fatto in diverse scelte, con conseguenze terribili. Perché le mancate identità creano poi rabbia e ribellione.
La sintesi, la via media, sta in un cuore nuovo. Non frutto di compromessi, di mediazioni diplomatiche esterne. No. Ma sta nel saper accogliere tutti e saper valorizzare tutti. E’ proprio quella strada  che san Paolo ci insegna: la strada del dialogo e dell’incontro. E’ di certo una strada difficile, richiede tempo, ha bisogno di molta pazienza, si riveste di attese e di sospiri. Ma crea coscienze vere. Perché non impone, ma propone. Non vince, ma convince. Non giudica, ma analizza.
Tre stili di vita che troviamo ed impariamo proprio dall’Apostolo Paolo, pur dentro un carattere difficile qual era il suo!

- Mi chiedo: siamo capaci oggi di dialogare?
Rispettiamo chi la pensa diversamente da noi?
Sono pronto al confronto?
Valorizzo il dialogo o elimino il mio avversario?

- E la scuola che frequentiamo, ci sta abituando
ad avere questo cuore nuovo?
Ci stimola ad allargare i nostri orizzonti?
Vedo nello studio delle lingue, della geografia e della storia
un prezioso aiuto per questa nuova cultura d’accoglienza?

L’università, Saulo la fa a Gerusalemme. Ritorna così, da Tarso, alle radici del suo popolo, nel cuore della Palestina. E’ quasi un master, un corso di perfezionamento. E gli è maestro un uomo molto saggio, un uomo dalla lunga barba, che tanto ha pregato, tanto ha studiato e tanto ha pensato: Gamaliele.
Sa valutare bene tutte le cose. Non ama prendere decisioni affrettate, sa calcolare con mitezza gli eventi. E lo è ancor di più di fronte ad un discepolo irruente com’era il giovane Saulo…
Rimase celebre la sua riflessione davanti ai discepoli del Cristo, che già operavano cose grandi, prodigi in mezzo al popolo. I capi ebrei li volevano eliminare. Erano troppo pericolosi. Allora Gamaliele si alzò e pronunziò questa sentenza, che resta luminosa ancora oggi, criterio di verità in molte questioni anche per me e per voi.
Disse: « Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine solamente umana, verrà distrutta, scomparirà da sè; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerla, perché Dio è dalla loro parte. Non correte il rischio di combattere contro Dio! » (Atti 5,34-39).
Con Dio non si scherza. La lezione della storia è chiarissima. Tanti che hanno perseguitato i cristiani o schiacciato i diritti umani, sono finiti nel nulla. Tante dittature che si credevano imbattibili, sono miseramente crollate. Tanti che pensavano di aver ragione e di poter fare i furbi, umiliando i poveri o imbrogliando, sono poi stati smascherati, con vergogna immensa.

Ma Saulo non ascolta molto il suo maestro. Purtroppo. Perché nell’impatto con la nuova fede, la fede dei discepoli di Gesù il Cristo, il Galileo, lui non la pensa come Gamaliele. Non sa aspettare.
Saulo è un fondamentalista. Un irruente. Vuole difendere la verità e la tradizione dei padri. Non sa dialogare. Ha paura. Perciò elimina l’avversario. Non lo vuol incontrare. Ma lo distrugge in modo implacabile.
C’è un episodio che lo definisce bene, nel suo carattere. Ma insieme lo segnerà profondamente. Perché è la storia che ci ammaestra sempre, specie quando non riusciamo ad ascoltare più i nostri maestri…e professori…
Un giorno fu condannato a morte un giovane cristiano, di nome Stefano (Atti 7,54-8,1). Mite e forte nella sua fede. Schietto e leale. Ma la sua luminosità faceva ombra a tanti, in Gerusalemme. Non si riusciva a resistere alla sua sapienza.
E venne condannato a morte, innocente, per lapidazione. I più grandi in età gli tirarono contro tanti di quei sassi da farlo morire. Schiacciato da una violenza inaudita.
Ma per avere le braccia libere, tutti quegli uomini maturi posarono i mantelli ai piedi di Saulo, perché ne facesse buona custodia. Lui non tirò i sassi, ma era complice di quel gesto di morte. Anzi, l’approvava in pieno.
Però restò conquistato dal volto sereno di Stefano, suo coetaneo, giovane come lui. Nel morire, non invocò vendetta. Anzi, chiese a Dio di perdonare i suoi uccisori. Pur morendo ingiustamente, non chiese giustizia contro di loro.
Saulo non capì. Non riuscì a darsi una spiegazione di quell’evidente eroismo.
Ma il volto di quel giovane gli resterà impresso per tutta la vita. La luce del Cristo, vincitore del male e della morte, si era riflessa su Stefano. Da Stefano a Saulo. Passando di volto in volto, di cuore in cuore.
E sarà quel volto a porre nel cuore di Saulo la prima scintilla di luce nuova nel buio della sua vita.

Perché, anche per noi, oggi, chi sa perdonare diviene un esempio immenso. Decisivo. Conquista, attrae. Non si dimentica mai una parola di scusa…chi chiede perdono ha sempre un volto luminoso. Chi offre le sue scuse, apre sempre feritoie di dolcezza nel nostro cuore. E’ il mite che conquista la terra, come dicono le Beatitudini (Matteo 5, 5).
Saulo si impegna a fondo contro la setta dei cristiani. con una decisione implacabile. Eccolo ora nei pressi di Damasco, pronto a ricondurre a Gerusalemme, in catene, i cristiani di quella città.
Ma è proprio lì che il Cristo l’attende…
Vi invito a leggere il racconto, che Paolo stesso fa di questo evento decisivo, nel capitolo 22 degli Atti. E’ vivacissimo, sembra di esservi presente, camminando con lui, abbagliati anche noi da quella luce immensa che lo fa cadere nella polvere. Lui, il perfetto, lui il sicuro, lui il persecutore, eccolo nella polvere.
Una domanda secca: « Ma chi sei? »
Ed una voce che cambia la sua vita: « Io sono Gesù di Nazaret, quello che tu stai perseguitando! ». E da quel cuore che odiava, ora esce una espressione commovente: « Signore, che vuoi che io faccia? ».
E la risposta, che guida ogni cammino di fede: Alzati, entra in Damasco: là qualcuno di dirà quello che Dio vuole da te! ».

Ecco i TRE PASSAGGI, che anche per me e per voi caratterizzano ogni cambiamento:
scendere da cavallo ed entrare nella polvere:
prendere cioè consapevolezza dei nostri limiti e difetti;
ammettere i nostri fallimenti; riconoscere di essere fragili e limitati…

Chi sei, Signore? cioè interrogarsi con lealtà su quella voce che nel nostro cuore e nella nostra coscienza ci morde, ci inquieta, ci pone domande nuove, ci stringe dentro, non ci lascia in pace, non ti fa dormire la notte…Voce che ti avvolge nei fatti che vivi, nelle parole dei genitori, di un prete, di un docente, o di un amico o di un’amica che ti legge dentro, di una poesia che ti affascina o di un tramonto  o di un bacio che t’incanta…
« Che vuoi che io faccia? »: cioè interrogarsi con chiarezza sulle scelte da fare, scelte tue, non imposte, ma maturate da te, solo da te. Fatte però non in modo capriccioso, ma leggendo nel cuore e nella tua storia, per riuscire a capire il tuo futuro.
E’ l’avventura più bella delle scuole superiori…!

E Saulo diviene Paolo.
Sperimenta vitalmente, a Damasco, la potenza della Parola di Dio. Inizia in città, con Ananìa che lo illumina. Poi, nel deserto, per lunghi anni, proseguirà la sua ricerca della Verità. Vede con chiarezza quanto la Parola di Dio ha compiuto nella sua vita. Era infatti un peccatore ed Essa lo ha purificato; era perduto ed Essa lo ha salvato; era un nemico di Dio ed Essa lo ha riconciliato; era morto nel peccato ed Essa lo ha risvegliato!
Cambia i suoi punti di riferimento. La valutazione delle sue cose. Quello che prima era prezioso, diviene ora vile e disprezzato. Quello invece che era da buttar via, ora si fa oro raffinato.
E’ il risveglio dell’Amore, in un mondo che sta morendo per mancanza d’Amore.
E’ l’incontro con Gesù, l’Amore!
Paolo ci svela così il segreto della vita, di ogni vita: solo nell’amore l’uomo si conquista alla sua piena esistenza personale, solo nell’amore egli attualizza la totale pienezza della sua essenza, della sua dignità. L’uomo è affermato nella sua irriducibilità di persona, interamente, solo se è PERSONALMENTE amato da Dio.
E Paolo lo  è stato! Ha visto e sentito un Dio che lo ama personalmente, che lo salva dalla perdita di se stesso, dalla perdita di ciò che in lui è. Paolo viene afferrato dal Mistero dell’amore che Dio ha mostrato di avere per tutti gli uomini in Cristo Gesù, morto e risorto. La sua fede è amore per Cristo Gesù. E l’amore rafforza la sua fede. Così tutto il suo cammino si farà speranza attualizzata.

 » Il resto della sua vita lo potrete seguire in altri testi.
O nelle lezioni di vita
durante il cammino scolastico….

A me, come vescovo, interessava ora darvi un assaggio. E l’abbiamo fatto, vedendo come Saulo è stato preparato per la sua missione. Come la sua famiglia, la sua città, la sua patria gli siano state cattedre di vita. Nelle tre lingue che lui parlava: ebraico, greco e latino. Nelle culture di cui egli era impregnato.
Ma tutto questo ha avuto in lui pienezza, perché Saulo ha incontrato, sulla via di Damasco, il Cristo Gesù, l’Amore della sua vita.

E la sua esistenza è cambiata. La sua vita ha ora un sapore preciso, inconfondibile: quello della carità e dell’amore gratuito. Le tre culture che lo avvolgevano rifioriscono in una sintesi nuova. Entra in dialogo con Dio e perciò sa amare ed incontrare ogni uomo. Ogni cultura. Non la vede più da fondamentalista, cioè da chi vuole distruggere l’altro, considerato come nemico. Ma nell’avversario riconosce ora un fratello, segno visibile di quel Cristo che egli pensava di perseguitare.
E’ la dolcezza della conquista  e la conquista di sé. E’ la gioia di partire con…e non più contro qualcuno. Grato al Signore, capisce che fin dall’inizio il suo palpito pulsava nel misterioso abisso della Sua presenza!
il diverso è un dono, da valorizzare, non da eliminare. LA DIVERSITÀ È RICCHEZZA. Le lingue nuove sono un mosaico di luce, dai mille colori, come le foglie delle querce in autunno…
Né fondamentalismo né relativismo, ma dialogo e incontro!

ma è questo sole d’autunno, mite e dolce, che rende belli tutti i colori. Non basta l’educazione stradale o civica. Occorre un incontro, una luce superiore. Una Luce nuova fa vedere nuove tutte le cose. E’ il Cristo, che ti auguro di poter incontrare sulla tua strada. Magari anche cadendo da cavallo, cioè dalle tue presunte sicurezze. E’ capitato anche a me, nella mia vita. Quante volte mi sono ritrovato nella polvere, con una spina nel fianco. Ma proprio allora mi sono sentito amato da quell’Amore che fa nuove tutte le cose e ringiovanisce ogni cuore…Rialzato dalla sua mano, ho ripreso a correre.

Ed è proprio la corsa lo stile più bello di san Paolo. Quello più affascinante. Anche per me. In un momento amaro della mia vita, incerto sul mio futuro, aprii a caso le lettere di Paolo e mi capitò proprio questo brano: « Io non sono ancora arrivato al traguardo, non sono ancora perfetto. Continuo però la mia corsa, per tentare di afferrare il premio, PERCHÉ ANCH’IO SONO STATO AFFERRATO DA CRISTO GESÙ…dimentico del passato, proteso verso il futuro, corro verso la meta, per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù » (Filippesi 3,7-14). Capii che non ero io a scegliere. Ma che ero stato già scelto. Che non inseguivo il vuoto, ma ero attratto dietro il profumo di Colui che mi aveva già amato. Che mi afferra quando mi lancio nella vita. Niente paura. Niente rimpianti, niente rimorsi.
Allora, la fatica stessa nel cammino della vita viene valutata in modo diverso. Paolo paragona questa fatica al gemito. Il gemito del nascituro. Perché la vita non è uno sfascio, ma un parto, una rigenerazione. Geme anche la creazione, quando è violata, quando la inquiniamo, quando è bruciata. Avvolti dal fuoco anche i vecchi ulivi pare che emettano un forte gemito! Ma geme anche il tuo cuore, quando non ce la fai ad essere migliore, quando « scopri in te il desiderio del bene, ma non la capacità di compierlo. Perché non compi il bene che vuoi, ma ti ritrovi a fare il male che non vuoi »! (cfr Lettera ai Romani capitoli 7 e 8). Ma tutti e tre i gemiti (della vita, della creazione e del cuore) sono ascoltati dalla voce dello Spirito, che sa leggere nei nostri gemiti e li sa trasformare in poesia, in preghiera, in cuore attento, in fiducia, in Amore.

Ecco perché chiudo con una delle pagine più belle di san Paolo, che ha conquistato il cuore di tutti, lungo la storia. E’ la pagina sull’amore, che egli detta alla chiesa di Corinto (capitolo 13):

Chi ama, è paziente e premuroso.
Chi ama, non è geloso,
non si vanta,
non si gonfia d’orgoglio.

Chi ama, è rispettoso,
non va in cerca del proprio interesse,
non conosce la collera,
dimentica i torti.

Chi ama, rifiuta l’ingiustizia,
la verità è la sua gioia.
Chi ama, tutto scusa,
di tutti ha fiducia, tutto sopporta,
non perde mai la speranza

La scienza ci dice che il carbonio può trasformarsi o nel nero carbone, pesante e rozzo, oppure, per un particolare processo di calore, in un magnifico diamante. Carbone e diamante hanno la stessa composizione chimica. Cambia solo la loro relazione di particelle. La loro finalizzazione.
Così è stato san Paolo: poteva essere un carbone scuro e cattivo, che sporca ed inquina. Ma con il calore dell’Amore di Dio, lui è divenuto un diamante purissimo e luminosissimo.
La vita veramente dipende da te. Ha il sapore che le dai.
Fanne un diamante, che riluce di bellezza immensa, perché anche tu, come Saulo, hai incontrato la Luce… 
Buon cammino, sulle strade del Molise,

tuo affezionatissimo  + padre GianCarlo, Vescovo

Prof. Barbaglio: La laicità del credente, Il rapporto con il mondo nell’evangelo di Gesù e di Paolo (uno studio importante, bellissimo)

dal sito:

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana14.pdf

La laicità del credente

Il rapporto con il mondo nell’evangelo di Gesù e di Paolo

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 11 febbraio 2006

Ho scritto vent’anni fa un libretto sulla laicità del credente: se oggi dovessi tornare sull’argomento, eviterei il termine « laicità », troppo polisemico e ambiguo, sostituendolo con un termine più in sintonia con le testimonianze bibliche, quello di « mondanità ». L’esperienza dei credenti, dei cristiani nel mondo, è un’esperienza « mondana ». Il termine « mondanità », più che quello di « laicità » è in sintonia con le testimonianze bibliche. I testi di Paolo su questo tema, sono abbastanza difficili, ma se letti un po’ attentamente, risultano stimolanti anche per noi.

il « mondo » per Paolo

Innanzitutto, Paolo per « mondo » usa due vocaboli che derivano dal giudaismo greco, non dalla
tradizione ebraica più antica, che parla di Mondo come creazione di Dio. Anzitutto « kosmos »: il
mondo come realtà bella e ordinata e poi « aion », cioè « il mondo nella sua durata », noi diremmo « le generazioni del mondo che si succedono ». Soprattutto in Gesù e Paolo, il problema del mondo non è tanto sapere che cos’è il mondo, che cos’è il tempo, ma il rapporto tra noi e mondo. O, in altra prospettiva, che cosa vuol dire il tempo, il mondo per noi. Nel corso di quest’anno voi analizzate soprattutto il versante dei credenti nel mondo, cioè la presenza dei credenti nella politica e nella società. Io ho scelto dei testi un po’ difficili e anche a prima vista ambigui in Paolo, per riuscire a dire qualche cosa su questo argomento così complesso.
Sono testi difficili, ma che bisogna avere il coraggio di affrontare, perché sono anche molto
importanti. Certo, Paolo non è l’unico, ma è una presenza abbastanza significativa delle scritture cristiane.

1 Corinzi 5,9-11: la comunità dei credenti dentro la storia

« Vi scrissi nella mia lettera di non mescolarvi con i debosciati, ma non intendevo in ogni caso
riferirmi ai debosciati di questo mondo o agli avari, ladri, idolatri. Altrimenti dovreste uscire dal
mondo. Vi scrissi invece di non mescolarvi con chi portando il nome di fratello è debosciato o
avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro: non mangiate neppure insieme a tale persona. »

1 Corinti è una lettera inviata alla chiesa che Paolo aveva fondato a Corinto. Corinto era una città portuale, allora molto importante. La Corinto greca era stata distrutta dai Romani nel 150 circa prima di Cristo, ma poi nel 49 Giulio Cesare l’aveva rifondata come colonia romana. Corinto rappresentava l’incontro di due culture, la greca e la romana. Qui confluivano vari gruppi sociali. Mentre Atene in quel periodo era in crisi, Corinto era la grande città, dove si tenevano anche i giochi panellenici (non solo ad Olimpia!). In quel mondo culturale molto vivo e variegato assistiamo al primo incontro, o scontro per qualche verso, di una comunità cristiana nel mondo, in una città a cultura metropolitana.
In una prima lettera andata perduta alla comunità di Corinto, che Paolo aveva fondato nel 50 circa, vi era questa sorprendente esortazione: « Voi dovete evitare l’incontro con i pornoi ». I pornoi erano i debosciati. Però la parola pornos non vuol dire solo il debosciato sessuale, ma anche, secondo la polemica giudaica, l’idolatra. Gli Ebrei chiamavano « immorali » i pagani che adoravano le divinità. Poiché però Corinto era anche una città eticamente molto corrotta, il significato di questa parola ondeggia tra « idolatria » e « licenziosità etico-morale, sessuale ».
Allora i credenti di Corinto hanno risposto a Paolo, chiedendogli come fosse possibile per loro, che erano un piccolo gruppo di 40-50 persone al massimo in una città che poteva avere trecento-quattrocentomila abitanti, evitare l’incontro con gli idolatri, con i debosciati, con i pagani. E Paolo nella risposta torna sulla sua esortazione precedente e chiarisce che c’è stato un equivoco, un’incomprensione, affermando che non si riferiva ai debosciati di questo mondo, ma ai debosciati che sono fratelli, che appartengono alla comunità. Se i credenti infatti non dovessero mischiarsi con la società, dovrebbero uscire dal mondo. Paolo afferma quindi chiaramente che l’esistenza della comunità cristiana è un’esistenza « nella » società, « nel » mondo. È un’esperienza di chi « fa parte » di questa società, di questa città, del mondo. L’esistenza cristiana non è un’esistenza che si deve vivere in uno spazio separato, al di sopra della società, ma dentro la società, assumendo la rete dei rapporti, assumendo la mescolanza. In Italia si è discusso e si discute sui « meticci », sul « meticciato ». Appena ne ho sentito parlare, ho pensato che l’esempio più chiaro di meticciato è Gesù! Gesù è un meticcio: figlio di Dio e figlio dell’uomo!

la lettera ai Galati: liberi dal mondo idolatrico
e dalla legge mosaica

Il secondo testo molto più impegnativo e problematico comprende vari brani della lettera ai Galati. Si tratta di una lettera enciclica, perché inviata a diverse comunità della Galazia. La regione galata era stata abitata dal 200 circa a.C. dai Galli, dai Celti, che, venuti dalla Francia, si erano sedentarizzati al centro della penisola anatolica, dando vita ad un regno. Nel 25, con la morte dell’ultimo re dei Galati, Aminta, il regno passò ai Romani, i quali hanno poi costituito con le regioni più vicine la famosa provincia di Galazia, con capitale Ancyra, l’attuale Ankara. Paolo
aveva fondato alcune comunità in questa regione, comunità che poi avevano ricevuto la visita di missionari giudeo-cristiani tradizionalisti, o addirittura reazionari. Questi missionari affermavano che il vangelo della libertà di Paolo era un vangelo annacquato, presentato così per avere più facilmente l’adesione dei Galati, mentre il vangelo vero di Gesù Cristo esigeva anche la circoncisione (si rivolgevano a dei pagani) e quindi l’osservanza della legge mosaica.
Paolo scrive a questi Galati, che godevano della libertà di cristiani, cercando di parare la loro
ricaduta nella religione mosaica, in cui Cristo era soltanto un’aggiunta. Cristo, in questa concezione, veniva inserito dentro uno schema che riservava la salvezza esclusivamente a coloro che avevano la circoncisione, che cioè osservavano la legge mosaica.
All’inizio di questo testo molto difficile, e anche ambiguo, dice:

« Io Paolo… alle chiese della Galazia. Grazie a voi e pace da Dio, nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo, il quale ha dato se stesso per i nostri peccati… » (Gal 1,4). In questa affermazione appare una fede cristiana « prepaolina », propria dei giudeo-cristiani, convinti che i sacrifici di espiazione del tempio di Gerusalemme non fossero più il sacramento del perdono, perché sostituiti dalla morte di Gesù, il nuovo sacramento del perdono. I tradizionalisti giudeo-
cristiani ritenevano però che Gesù dovesse essere coordinato con la religione mosaica, mentre Paolo vedeva in questo coordinamento una diminuzione della forza salvifica di Cristo. Per Paolo la salvezza non sta nel perdono dei peccati, non dipende dalla conversione, ma è qualcosa di molto più radicale. Infatti il perdono dei peccati risolve solo sul momento la situazione. E allora Paolo, iniziando la sua lettera, per persuadere i suoi ascoltatori della propria fedeltà alla tradizione, nonostante tutta la sua radicalità, riporta anzitutto la formula tradizionale protocristiana della morte di Cristo come sacramento del perdono dei peccati al posto dei sacrifici del tempio, ma per dire subito dopo dove sta esattamente l’azione di Cristo:
« affinché Egli ci riscatti da questo mondo malvagio ». La salvezza quindi non sta tanto nel perdono dei peccati ma in un evento di liberazione e di riscatto da « questo mondo malvagio ». L’espressione « questo mondo » è abbastanza ambigua e in Paolo di solito ha valore deteriore, peggiorativo. Non indica il mondo nella sua fisicità, ma nel suo rapporto con gli uomini e quindi si riferisce alla storia, alla società. Che cosa sia questo mondo malvagio Paolo lo precisa nel capitolo quarto della lettera: questo mondo è una realtà negativa anzitutto perché è un mondo idolatrico. Le piccole comunità cristiane come quella di Corinto o come quelle presenti nell’impero romano erano a contatto con un’umanità idolatrica, un’umanità che piegava le ginocchia davanti a realtà create, come se fossero Dio. Allora in Galati 4, riferendosi a questi credenti di Galazia, che si erano convertiti alla sua predicazione, Paolo dice: « Un tempo voi che non conoscevate (qui conoscere significa riconoscere, non è un atto di conoscenza intellettuale) il Dio creatore eravate schiavi di dei che non sono tali per natura » (Gal 4,8)
L’ambiente in cui Paolo comunica con le sue comunità è idolatrico, è un mondo schiavo di queste divinità, che in realtà sono delle nullità, e che hanno consistenza solo per quelli che le riconoscono. Abbiamo un testo parallelo in 1Corinti, 8, 5-6, in cui Paolo dice: « Anche se ci sono dei cosiddetti dei sia in cielo che in terra – come di fatto c’è una quantità di dei e signori -, per noi invece esiste un solo Dio, il Padre… e c’è un solo Signore, Gesù Cristo ». Ci sono molti dei e molti signori riconosciuti, adorati, venerati, a cui si serve, ma noi credenti in Cristo riconosciamo un solo Dio, il Padre, e un solo signore, Gesù Cristo. Allora gli dei erano i capi
delle nazioni, gli imperatori, i signori, che avevano il potere di vita e di morte su tutti.
« Lui ci ha riscattati, liberati da questo mondo malvagio » vuol dire allora che Cristo ci ha liberati da un mondo in quanto espressione idolatrica, in quanto ambiente in cui si piegano le ginocchia
davanti a realtà umane, create come se fossero degli dei, da un mondo schiavizzato.
Oggi il mondo idolatrico si manifesta in forme nuove, per esempio nel grande feticcio del mercato. Si parla delle « leggi del mercato » del « libero mercato » come se fossero il decalogo! È un mondo idolatrico, dove si adora il mondo, dove le persone sono sacrificate al mondo, dove le persone si inginocchiano davanti alle leggi del mondo. E Paolo ci dice: « Cristo ci ha riscattati da questo mondo idolatrico » Questa è la prima caratteristica. Una seconda caratteristica riguarda la circoncisione e la legge mosaica. Paolo scrive ai credenti di Galazia, i quali volevano farsi circoncidere, perché i predicatori giudeo-cristiani avversari di Paolo, dicevano che se non si fossero fatti circoncidere, essi non avrebbero avuto la salvezza. Cristo non basta, si deve osservare anche la legge mosaica. Paolo pone un’equivalenza tra l’idolatria del mondo pagano (« quelli che non conoscono Dio perché sono schiavi di divinità che non sono realmente tali ») e l’adorazione della legge propria del mondo giudaico. La legge mosaica è qui considerata non nella sua derivazione divina, ma in quanto elemento che costituisce il centro dell’esistenza delle persone. I predicatori giudeo-cristiani infatti sostenevano che senza circoncisione, cioè senza l’assunzione della legge mosaica, non c’è salvezza. In questo modo, la legge, e quindi la religione mosaica, viene eretta a dio di questo mondo (gli uomini si definiscono in rapporto al possesso o alla privazione della legge mosaica). La legge mosaica, la circoncisione, era per natura sua un elemento discriminante, perché quelli che avevano la legge e la osservavano, erano accolti da Dio, erano sulla via della salvezza, mentre quelli che non avevano la legge mosaica, i gentili, i pagani, erano ipso facto considerati peccatori. Lo dice Paolo stesso in Galati 2, quando si rivolge a Pietro, in seguito alla scissione della comunità di Antiochia. Antiochia era una comunità mista, dove le regole della dietetica e della tradizione ebraica non erano osservate, e tutti i credenti mangiavano insieme nella libertà cristiana. Poi erano arrivati alcuni da Gerusalemme, mandati da Giacomo, fratello del Signore Gesù, che sostenevano che non si dovesse mangiare insieme, perché c’erano le regole da rispettare. Pietro aveva ceduto e si
era ritirato con quei giudeo-cristiani circoncisi che mangiavano secondo le regole, lasciando soli i poveri pagani convertiti, causando così una scissione nella comunità. Paolo afferma di avere contrastato Pietro a viso aperto, perché il suo comportamento era meritevole di condanna e fonte di scandalo. Così rimprovera Pietro: « Noi giudei che per natura siamo tali e per condizione naturale non siamo dei peccatori provenienti dal mondo dei gentili. » (Gal 2,15)
Mentre i gentili erano nella situazione di essere peccatori (non perché commettessero dei peccati, ne commettevano anche i giudei), i giudei, all’interno del sistema mosaico, avevano i mezzi per ottenere il perdono attraverso il pentimento e i sacrifici espiatori.
Possiamo così comprendere ora pienamente il « Lui ci ha liberati da questo mondo malvagio »:
Cristo ci ha liberato da questo mondo idolatrico, in cui impera l’idolatria, l’adorazione delle cose, delle persone, dei capi, delle creature, Cristo ci ha liberato da questo mondo dove vige la regola della discriminazione prodotta dalla legge mosaica, da questo mondo dove si adora la religione. Altro che la religione civile! Paolo dice che Gesù ci ha riscattati da questo mondo in cui la religione mosaica, (patto sinaitico, riti di espiazione) era discriminante nei confronti di coloro che erano per condizione degli esclusi. L’evento liberante di Cristo è pertanto un evento liberante dal mondo dell’idolatria e dal mondo delle religioni (anche della religione cattolica!), intendendo per religioni un insieme di credenze, un insieme di riti, di espressioni sociali che sono separanti, escludenti.
In realtà, il mondo giudaico aveva un respiro universalista, che implicava però l’assimilazione dei diversi. I giudei cioè non sostenevano che il loro Dio salvasse solo loro. La salvezza riguardava tutti, anche i gentili, a condizione che i gentili si facessero ebrei, cioè accettassero la circoncisione, come dicevano gli avversari di Paolo, perdendo così la propria identità culturale e diventando altri. Paolo rappresenta un universalismo qualitativo, e cioè un universalismo che mette sullo stesso piano gli uni e gli altri, gli ebrei che avevano una tradizione monoteistica, la legge, il patto, la circoncisione, il tempio, il culto, e i gentili che non l’avevano. Davanti al Dio di Gesù Cristo, l’uomo delle religioni e l’uomo che non ha nessuna religione, sono parificati.

Galati 3,27-28: liberi in Cristo dalle diversità identitarie

In Galati 3, 27-28, abbiamo quel testo straordinario di Paolo, che bisognerebbe che fosse
pronunciato ogni giorno, soprattutto oggi: « Sì, quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è giudeo, né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete un solo essere in Cristo Gesù. »
3,27: « Sì, quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo… »
L’immagine del vestito era un’immagine tradizionale utilizzata anche nei misteri greci dove si
indossava un abito nuovo, come segno di una novità della vita: si chiude una porta alle spalle, al passato, e si apre una porta sul futuro, sulla novità. « Non c’è giudeo né greco » (era la grande divisione del mondo di allora, monoteisti – politeisti), « non c’è schiavo né libero » (era la grande frattura di tipo sociale, di tipo politico: nelle assemblee delle città greche lì dove si decideva della res pubblica, non potevano prender parte tutti coloro che abitavano nella città, ma solo coloro che avevano il diritto di cittadinanza. Le minoranze etniche, per esempio, erano prive di questo diritto), « non c’è maschio né femmina ». Non c’è « poiché tutti voi siete un solo essere in Cristo Gesù », avete ricevuto una nuova identità. Se noi avessimo chiesto a Paolo chi fosse lui, prima di Damasco, avrebbe risposto con molto orgoglio di essere un ebreo, un monoteista, un circonciso, al di dentro del patto di Dio e della sua legge. Se glielo avessimo chiesto dopo, avrebbe risposto di essere « un essere in Cristo ». Paolo è un mistico, non è un moralista. Essere cristiano per Paolo è essere coinvolto dentro il Risorto. Il Risorto è lo Spirito di Dio, è Gesù di Nazareth trasformato, Gesù di Nazareth che ha subito una metamorfosi nella resurrezione, divenendo Spirito che dà la vita. L’identità cristiana si colloca dentro questo spazio nuovo di vita, che è la signoria di Cristo e che è lo Spirito di Dio.
Allora quando Paolo dice che non c’è giudeo, greco, schiavo, libero, maschio femmina, certamente non vuol dire che queste diversità non esistono più, ma che queste diversità non sono più identitarie, cioè non costituiscono più l’identità della persona. La persona non si definisce più in rapporto a Cristo come ebreo o gentile, schiavo, libero, maschio e femmina: si definisce come uno che è in Cristo, che è dentro questo spazio delle forze nuove della vita di Cristo. Noi viviamo oggi in Europa e nel mondo un forte ritorno alle affermazioni delle identità. Dopo la caduta dell’impero sovietico abbiamo assistito ad una moltiplicazione di stati in Europa, anche di piccoli stati: la Cecoslovacchia si è divisa in due stati, e poi la Jugoslavia si è frantumata, con la Bosnia, ecc.. C’è una corsa all’identità nazionale o localistica: nel nord dell’Italia all’identità padana. Cristo ci ha liberato dalle identità culturali, dalle identità religiose, dalle identità sociali, dalle identità di genere. Per Paolo quindi Cristo ci ha liberato dal mondo in quanto idolatrico e da un mondo delle religioni in quanto grandezze separanti e discriminanti. Cristo ci ha liberato dalle diversità identitarie. Le diversità restano, ma non sono più l’identità vera, sono solo delle varianti culturali, religiose, morali, ecc. perché l’identità è un’altra.

Galati 5,1-2;13: chiamati alla libertà

La liberazione da questo mondo idolatrico e delle religioni discriminanti e identitarie, è il vangelo, la lieta novella. Cristo vi ha liberati: il cristianesimo non è un appello all’autoliberazione, ma è un evento di liberazione, un evento di grazia. Però questo evento di liberazione, che è un dono, è anche un compito, affidato alla nostra responsabilità. L’evento di liberazione non è una situazione data una volta per sempre, ma sollecita il nostro impegno responsabile. Abbiamo due testi, sempre in Galati, che ripetono la stessa idea: « Cristo ci ha liberati per una vita di libertà ». (Gal 5,1) E poiché noi siamo stati liberati per la libertà, Paolo esorta: « state saldi dunque ». Ecco la responsabilità: la saldezza nella libertà. Stare saldi vuol dire « non sottoponetevi di nuovo al giogo della schiavitù » (Gal 5,1), che sappiamo essere
la schiavitù del mondo idolatrico e del mondo delle religioni separanti. E in Galati 5, 13 Paolo ripete: « voi infatti, fratelli, siete stati chiamati alla libertà ». Cioè voi siete stati chiamati (da Dio) a poggiare la vostra vita sulla libertà, « soltanto che poi questa libertà non diventi un « aformèn », una base di lancio per la carne. » In questo caso « carne » in Paolo un’esistenza dominata da un dinamismo egocentrico, dall’ego. « Ma al contrario, mediante l’agape, mediante l’amore, siate schiavi gli uni degli altri ». Mediante l’agape, l’amore, che è frutto dello Spirito del Risorto, siamo chiamati e resi capaci di prenderci reciprocamente cura, di farci schiavi gli uni degli altri. La libertà cristiana è una libertà responsabile, solidale, del prendersi reciprocamente cura. È
una libertà che consiste in una reciproca schiavitù. Paolo in questi testi emerge come l’apostolo di un cristianesimo radicale, di un cristianesimo di confine, di un cristianesimo mistico, di un cristianesimo della libertà da un mondo idolatrico, dal mondo delle religioni discriminanti e identitarie.

Galati 6,11.14-15: un mondo nuovo

In Galati, 6, 11-15, in conclusione della lettera, Paolo parla in prima persona, scrivendo di proprio pugno. Afferma:
« Guardate con che caratteri grossi io scrivo di mia mano » e tra le cose bellissime che dice, afferma al v. 14: « Per me non avvenga mai che io mi vanti » (per vantarsi non si intende il vantarsi davanti agli uomini ma il vantarsi davanti a Dio, cioè accampare dei diritti, delle pretese, nei confronti di Dio), « io mi posso vantare solo di una cosa: della croce del Signore nostro Gesù Cristo ». La croce per Paolo non è solo la morte, ma è morte e risurrezione. La croce è un simbolo che esprime per un verso il lato tragico e cioè la morte orrenda del crocifisso, la tortura riservata agli schiavi e ai traditori. Il servile supplicium di cui parla Seneca. Per un altro verso la croce è il simbolo della resurrezione dai morti. Dio ha risuscitato non un sant’uomo, ma il crocifisso, cioè il maledetto, « maledetto colui che pende dal legno » (Deut 21, 23). Questa maledizione Paolo la riporta in Galati 3, capovolgendola: il maledetto è la fonte di benedizione per tutte le genti. Paolo dice « mi vanto soltanto della croce di Cristo ». Io direi: mi vanto solo di Dio che ha risuscitato il Crocifisso. Questo è il simbolo della croce. Dice: « Mediante la quale croce, questo evento di Dio che ha risuscitato il crocifisso, il mondo è stato ed è crocefisso per me e io sono morto per il mondo ». Il mondo di cui parla è sempre il mondo idolatrico, di mondo delle religioni discriminanti, dell’adorazione degli idoli. Paolo in questo testo non dice che il mondo idolatrico, delle religioni discriminanti, delle identità separanti, è morto, non conta più, che noi siamo liberi. No, per Paolo il mondo idolatrico e il mondo delle religioni separanti non hanno alcun influsso su di me. Questo testo bellissimo riesce anche a farci capire esattamente in che senso Paolo dice che mediante Cristo siamo stati riscattati da questo mondo. Quello che è riscattato è il rapporto, è la dipendenza: non siamo più dipendenti da questo mondo idolatrico, da questo mondo delle religioni discriminanti.
Al versetto 15 dice: « Infatti né la circoncisione, né l’incirconcisione, che erano i due mondi, vale
qualche cosa. » Paolo riconosce che ci sono i circoncisi, ma questo non ha più valore, non è più l’identità delle persone, perché quello che vale è un mondo nuovo, è una creazione nuova.
La nuova creazione è un mondo in cui non c’è più la dipendenza delle persone dall’idolatria e dalla discriminazione. Là dove le persone si liberano dalla schiavitù degli idoli e si liberano dalle
religioni discriminanti, lì nasce il nuovo mondo. Il profeta Isaia aveva parlato di « cieli nuovi e terra nuova », noi diremmo di una società nuova. Noi siamo nel mondo, dice Paolo, ma non siamo succubi del mondo idolatrico e del mondo delle religioni discriminanti.

2 Corinti 5,14-15: morire con Cristo alla vita egocentrica

Nella seconda lettera ai Corinti, 5,14 Paolo afferma che noi siamo mossi dall’amore di Cristo, cioè che l’amore che Cristo ha per noi ci muove nella vita.
« L’agape di Cristo ci sollecita, ci spinge, spinge noi che giudichiamo questo fatto: uno solo è morto, a favore di tutti. » Nella liturgia eucaristica abbiamo una traduzione che a mio avviso è non solo infelice, ma è un po’ furbastra. Il testo originale è: « Questo è il mio corpo, (vuol dire: questo sono io) « uper umon » c’è nel testo biblico. Nella messa si dice: « questo è il mio corpo dato in sacrificio per voi ». Il significato greco è: questo sono io che ho dato me stesso a favore vostro, per il bene vostro. L’inserimento subdolo della parola « sacrificio » avvalora la tradizionale visione cattolica della messa, della cena del Signore, come sacrificio. Ora Paolo è contrario alla concezione sacrificale ed espiatoria della morte in croce di Gesù, concezione che traspare solo in Romani 3, 24-25, e poi in 1Corinti 5, 7. Paolo qualche volta per ingraziarsi i suoi ascoltatori ripete alcune espressioni tradizionali, per poi però correggerle. La morte di Gesù non è un sacrificio espiatorio, ma un atto di amore per noi: Gesù è morto a favore nostro, per il bene nostro. Poi Paolo prosegue: « uno solo è morto per tutti, dunque tutti sono morti ».
Questa consequenzialità ci sconcerta, perché noi avremmo detto più logicamente che poiché uno è morto per tutti, noi otteniamo la vita attraverso la sua morte, e non che « morto uno, morti tutti! » Alla base del versetto c’è la concezione mistica di Paolo, per il quale l’esperienza cristiana è l’esperienza di chi viene inserito dentro il Cristo risorto, di chi entra in comunione col Cristo risorto. La mistica di Paolo non è teocentrica, ma cristocentrica, cioè riguarda l’unione col Cristo risorto. Allora se uno è morto per tutti, tutti quelli che sono in Cristo sono coinvolti nell’evento della sua morte. Questo è il senso. Cristo non è un individuo isolato, ma ha un valore rappresentativo, che ci coinvolge. Quello che capita a Lui capita ai credenti, perché i credenti sono inseriti in Lui e l’evento suo diventa evento nostro, dei credenti. Lui è morto a favore di tutti, dunque tutti sono morti. In che senso sono morti?
Naturalmente il versetto 15: « Ed egli è morto per tutti, affinché quelli che vivono, i viventi, gli uomini non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto ed è risuscitato per loro ».
La morte di cui si parla è la morte all’ego: non vivono più per se stessi, ma vivono per Cristo e per gli altri. La conseguenza è: « cosicché noi d’ora in poi non conosciamo più nessuno secondo un giudizio umano, carnale, e se anche noi prima avessimo conosciuto Cristo in modo carnale, d’ora in poi non lo conosciamo più così », il rapporto con lui è un nuovo rapporto. « Di conseguenza se uno è in Cristo, è dentro Cristo, è coinvolto dentro la sua vicenda (questa è la
mistica cristocentrica di Paolo), costituisce la cellula del nuovo mondo creato ».
È interessante il parallelismo tra la persona credente che entra nello spazio creato da Cristo e dal suo Spirito e il mondo. « il vecchio se ne è andato, ecco sorto il nuovo ». La novità portata da Cristo è esattamente questa: non vivere più centrati nell’ego (introflessione), ma vivere per colui che è morto e risuscitato per noi (estroflessione). Paolo è partito dalla morte di estroflessione di Cristo: Cristo è morto a favore di tutti, a favore nostro, non a favore di se stesso. E nella sua morte a favore nostro, Lui ha coinvolto noi che moriamo al vivere per noi stessi, in modo da vivere per Lui. Quindi c’è questa partecipazione del credente alla vita di oblatività del Cristo. La novità non sta nell’assetto fisico del mondo, nelle istituzioni, ma la novità concerne l’esistenza, il rapporto.

Romani 8,18-25: solidarietà tra credenti e mondo

In Romani 8, 18-25, Paolo mette in parallelismo noi e il mondo creato: da una parte noi credenti che abbiamo la primizia dello Spirito il cui frutto è l’agape, la forza con cui si diventa schiavi gli uni degli altri, e dall’altra il mondo creato, con tutta probabilità inanimato. Paolo dopo aver detto che il credente è stato riscattato da questo mondo malvagio, che è morto con Cristo alla sua vita egocentrica e quindi ha ricevuto questa vita di altruismo e di amore, che è libera, ecc., alla fine afferma la comunanza di condizione tra noi e il mondo. Noi gemiamo e il mondo geme, noi aspettiamo e il mondo aspetta. « Noi » e il mondo, la totalità, sono accomunati nell’attesa e nel gemito. Il gemito di cui parla Paolo indica i dolori del parto, le sofferenze che preparano la nuova nascita, non i rantoli della morte. La comunità dei credenti non sta al di fuori del gemito del mondo, del gemito che è sofferenza, ed anche strazio, ma che prelude ad una nuova nascita. « Non solo: noi gemiamo in attesa del riscatto del nostro corpo ». Per Paolo noi non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo, siamo corporeità. E corporeità significa relazionalità. L’uomo è per essenza relazionalità: relazionalità a Dio, la creatura che riconosce il creatore, e quindi non adora le creature; relazionalità nei confronti degli altri, in questa schiavitù di
amore reciproco; relazionalità verso il mondo, cioè noi siamo esseri essenzialmente mondani, per cui la sorte dei credenti, degli uomini è la sorte del mondo. Allora il mondo geme in attesa di essere liberato dalla vacuità dell’essere. Quando leggo questo testo mi viene in mente la vacuità di molte espressioni della nostra vita, l’inconsistenza, la stupidità, il non essere insomma. Il mondo liberato dalla vacuità è l’uomo liberato nella sua relazionalità essenziale a Dio, agli altri e al mondo. Gemiamo noi, geme il mondo creato e geme lo Spirito, con gemiti, dice, inenarrabili. Lo Spirito di Dio, che per Paolo abita nei credenti, è presente nel mondo, ed è presente come principio della trasformazione, della liberazione. E Lui stesso geme in attesa. È straordinario! La comunità dei credenti non sta sopra, non è in una condizione diversa rispetto agli altri, cioè ai credenti non è risparmiato niente che non sia risparmiato agli altri. L’esistenza dei credenti è un’esistenza nel gemito, nella sofferenza, propria di chi non è arrivato ancora, in un cammino faticoso. In un testo della seconda Corinti Paolo dice: « io porto sempre in giro (Paolo era un missionario) la necrosi di Gesù », il morire di Gesù. Paolo avverte che la sua esistenza di apostolo, ma anche quella dell’insieme di tutti i credenti, è un processo intaccato dalla morte. Per Paolo la morte non è quella che arriva alla fine. La morte è un processo che rende la vita dell’uomo caduca, minacciata, precaria, sofferente, addolorata. Allora ai credenti non è risparmiato niente che non sia risparmiato ad altri. I credenti vivono in questo mondo, i credenti sono stati liberati da Cristo dal mondo idolatrico, dal mondo delle religioni discriminanti. I credenti cioè hanno la primizia dello Spirito ma non sono degli arrivati.

Romani 12,1-2: il culto dei credenti

Paolo, dopo aver esposto il suo vangelo ai Romani nei primi undici capitoli, conclude con
un’esortazione: « Io vi esorto ». Paolo, di regola, non comanda, ma esorta. L’esortare è
l’atteggiamento del padre nei confronti dei figli, non di un padre padrone. Paolo sollecita, prega,
esorta, come un padre esorta i figli. Vi prego dunque fratelli (adelfòi in questo caso andrebbe tradotto con « fratelli e sorelle »). Per inciso, Paolo non dice mai « figli miei », o quasi mai. Usa « figli miei » solo in due-tre testi, dove dice: io sono padre in quanto vi ho generati attraverso il vangelo. Quindi è il vangelo l’elemento generativo. Paolo si presenta come un fratello. Quindi, la comunità cristiana per Paolo è una fraternità. Nel mondo greco l’amore tra fratelli era maggiormente considerato, ancor più dell’amore tra marito e moglie. Non è paolina la concezione della chiesa come « popolo di Dio », introdotta dal concilio su sollecitazione soprattutto di Congar e della scuola francese dei domenicani di Le Saulchoir, che
giustamente volevano sottolineare che la comunità dei credenti è in cammino nella storia.
Per Paolo la comunità è una fraternità, una famiglia. Una famiglia non nel suo aspetto di paternità e figliolanza, ma di fraternità. La cosa è talmente interessante, che quando si passa alle lettere pastorali, cioè alle lettere di Tito e di Timoteo, che sono della tradizione paolina, anche lì si trova l’affermazione che la chiesa è famiglia di Dio. Però la famiglia di Dio di cui si parla è costituita dai padri e dai figli, in cui il padre è il grande capo nella famiglia. Tant’è vero che l’autore di queste lettere pastorali sostiene che il presbitero deve saper comandare, tenere sotto controllo i figli e le mogli… La stessa metafora della famiglia viene usata in modo non solo diverso, ma addirittura contrapposto.
Vi esorto dunque fratelli e sorelle mediante i gesti di misericordia di Dio. O ancor più fedelmente: per le viscere materne di Dio. Quello che diventa sollecitante per i credenti sono le viscere materne di Dio, e Paolo è il comunicatore di questi gesti di « visceralità », di « amore viscerale » di Dio. Vi esorto a mettere davanti all’altare, non le offerte sacrificali, ma la vostra esistenza mondana quale vittima sacrificale. Ancora una volta Paolo utilizza in modo non rituale concetti cultuali. Quello che Dio gradisce come offerta viva e santa, come dono è l’esistenza mondana dei credenti, è la loro mondanità, la loro corporeità. E questo è il culto intellettuale. L’offerta che gli uomini fanno a Dio deve essere un’offerta adeguata alla loro natura di esseri intelligenti, di esseri logici, che hanno il logos, la mente, l’intelligenza, il pensiero. Le offerte animali, di esseri che non hanno il pensiero, non sono adeguate alla natura umana. « Non siate conformisti nei confronti di questo mondo (to aiòni) », di questo mondo idolatrico, di questo mondo che adora le religioni discriminanti. Non siate conformisti, ma
dovete operare la metamorfosi che renda nuova la vostra mente, il vostro modo di vedere le cose, in modo che voi possiate discriminare e conoscere quello che è la volontà di Dio, quello che è il bene, quello che piace a Lui ed è perfetto.
È un testo molto pregnante. Essere anticonformisti vuol dire trasformare il modo di guardare il
mondo perché corrisponda al volere di Dio. Paolo non dice che dobbiamo seguire la volontà di Dio comunicataci da qualcuno che ritiene di conoscerla a perfezione al posto nostro, ma che « noi » dobbiamo trasformare il nostro modo di vedere, dobbiamo rinnovare la luce della nostra mente in modo da corrispondere a quello che Dio vuole da noi.

dibattito

Paolo, Gesù e i non credenti

Paolo parla solo dei credenti e probabilmente non si è mai posto il problema dei non credenti. È uno spazio vuoto che lui non ha riempito. Chiediamo a lui solo quello di cui si è interessato.
La seconda osservazione da fare è che Paolo quando dice « il credente in Cristo », il Cristo di cui
parla è il Risorto. Ecco perché Paolo non ha nessuna attenzione per il Gesù di Nazareth, per il Gesù biografico. Il Gesù risorto è il Gesù di Nazareth, non è un altro, però il Gesù biografico non gli interessa minimamente. Tant’è vero che di tutte le parole dette da Gesù secondo la tradizione Paolo ne cita espressamente solo due, che non hanno grande peso: « Quelli che sono ministri dell’annuncio devono vivere secondo l’annuncio », e poi la parola di Gesù sull’indissolubilità matrimoniale. Tutta la teologia di Paolo ruota sulla morte e risurrezione di Gesù. Il resto non gli interessa. Probabilmente Paolo ha trascurato del tutto quello che Gesù ha detto e fatto perché il Gesù delle parole e dei fatti era stato brandito dai suoi avversari, che avevano inserito Gesù dentro il sistema mosaico, come sostenitore dell’osservanza della legge mosaica. C’è qualche cosa di vero in questo. Però il vero problema per Paolo è la liberazione dal mondo idolatrico, per la quale i gesti e le parole di Gesù non sono efficaci. Paolo ritiene che il cuore dell’uomo non cambia sostanzialmente con i buoni esempi, con le buone parole. La schiavitù del mondo idolatrico, del mondo delle religioni discriminanti è qualcosa di così profondo da non essere scalfita dalle parole e dagli esempi. È necessario il grande gesto liberante di Cristo, del Cristo Risorto. Il Cristo Risorto è molto più potente del Gesù di Nazareth, che aveva a disposizione per influire solo le sue parole e il suo esempio. Nient’altro. Invece il Cristo Risorto ha in mano la potenza dello Spirito, lo Spirito di Dio, lo Spirito creatore.
Essere nel Cristo Risorto, è essere nello Spirito. In Paolo c’è questo parallelismo: noi siamo in
Cristo e noi siamo nello Spirito di Cristo, nello Spirito di Dio. Se le cose stanno così, noi potremmo dire allora che per Paolo i credenti non sono quelli che conoscono Gesù di Nazareth, le sue parole, i suoi esempi, ma quelli che sono dentro lo Spirito, quelli che sono animati dallo Spirito. E lo Spirito e il Cristo Risorto non sono una presenza locale, ma universale. Il Gesù di Nazareth poteva influire con la parola e con l’esempio solo su quelli che incontrava in Palestina, mentre per Paolo il Cristo Risorto e lo Spirito possono influire sull’universalità degli uomini. Il Gesù di Nazareth è una grandezza particolare culturalmente situata. Invece il Cristo Risorto che in qualche modo si identifica con lo Spirito è una grandezza universale, è una grandezza che può influire su tutti. Allora, bisogna distinguere tra quello che vuol dire « essere in Cristo » e la confessione cristiana, la credenza cristiana, i sacramenti, la vita associata cristiana. L’essere in Cristo non equivale alla vita associata cristiana. Ecco perché Paolo è radicale, annuncia un cristianesimo di frontiera, un cristianesimo che è possibile anche per quelli che non sono dentro la Chiesa. Così Paolo, che non si è mai posto il problema dei non credenti con la sua concezione dell’essere nel Cristo Risorto, nello Spirito, propugna un cristianesimo che travalica l’aspetto confessionale.

Paolo e la teologia del sacrificio espiatorio

Se noi intendiamo per sacrificio quella oblatività per cui uno dà la sua vita per amore dell’altro, non esistono problemi. Però nella teologia del sacrificio, il sacrificio è un atto religioso, un atto cioè che coinvolge Dio. Finché noi diciamo che Dio ha dato la sua vita a favore nostro per un atto di amore estremo per noi, d’accordo. Ma se usiamo la parola sacrificio, per dire che Gesù offre la sua vita per il perdono dei nostri peccati, facciamo riferimento alla concezione arcaica di un Dio, che ha bisogno del sangue, della vittima sacrificale. Voglio dire che l’Eucarestia, come la morte di Gesù, secondo Paolo, è al di fuori di questo schema vittimario, delle vittime e dei sacrificatori, dei sacrifici nel senso religioso.
Nel brano della lettera ai Romani Paolo esorta ad offrire le nostre esistenze come sacrificio vivo, non ad offrire vittime sacrificali. La nostra vita mondana è quello che Dio vuole da noi, non le vittime. Se ci sono le vittime, ci sono anche i sacrificatori, i sacrificatori provvidenziali.
So che è una battaglia perduta, però… chissà che grazie ad un concilio si possa tradurre
letteralmente durante la Cena del Signore: « Questo sono io che ho dato la mia vita per amore
vostro ». Questa è la traduzione corretta. Ecco perché dico che quella traduzione (« offerto in
sacrificio per voi ») per un verso non è esatta e per un altro verso è un po’ furba, in quanto inserisce la visione sacrificale dentro il testo. La critica al culto sacrificale è presente già nella linea profetica. In Isaia si dice: Quando voi venite al tempio e calpestate i miei pavimenti, io volgo la faccia dall’altra parte. Andate fuori, quello che io voglio è giustizia. Simili i testi di Amos. Qui la critica è alla dissociazione tra culto e vita. Paolo introduce un nuovo elemento: non critica la dissociazione ma vuole una sostituzione: l’unica offerta che piace a Dio è la vita mondana, cioè un culto non rituale. Per culto intendiamo un dono, un atto di benevolenza verso Dio, e allora questo atto di benevolenza non è più costituito da riti, ma è costituito dalla vita mondana, dalla vita profana.

religioni discriminanti e fede universale

Paolo polemizza contro la religione mosaica, perché è discriminante, perché discrimina tra quelli che sono dentro e quelli che sono fuori, tra gli inclusi e gli esclusi. Quando Paolo afferma che dobbiamo uscire dalla religione mosaica, perché la legge, la circoncisione, ecc., sono discriminanti, non vuole rinunciare all’ebraismo e aderire ad un’altra religione. Paolo sostiene che si debba risalire all’indietro, oltre Mosè, perché la vera identità ebraica da mantenere è quella di Abramo, quella di una figura universale: « in te saranno benedette tutte le tribù della terra ». Al tempo di Gesù il giudaismo aveva « mosaizzato » Abramo, sostenendo che Abramo avesse osservato la legge ancora prima che fosse promulgata (ci sono dei testi molto chiari da questo punto di vista), inserendo quindi l’abramismo dentro il mosaismo. Paolo toglie Abramo dal mosaismo, ritornando all’origine, alla figura abramica, che è figura universale. Per cui le promesse abramitiche, patriarcali, per Paolo, mantengono il loro valore, non solo per i discendenti carnali, gli ebrei, ma per tutti, come era originariamente. La legge non può abrogare la promessa. L’immagine che Paolo ha di Dio non è quella del Dio legislatore (quello del Sinai), e quindi del Dio sanzionatore, che sanziona il bene e il male con il premio e il castigo, ma quella del Dio promettente, del Dio che promette. E la promessa, dice Paolo, è come un testamento, che è del tutto gratuito: è il padre che dona al figlio un’eredità. Allora, il Dio che Paolo ha vissuto, alla luce di Cristo naturalmente, (grande convergenza in questo tra Gesù e Paolo) è il Dio della promessa, della promessa unilaterale, della promessa incondizionata, della promessa a tutti, agli Ebrei e ai gentili, agli schiavi e ai liberi, ai maschi e alle femmine, agli omosessuali e agli eterosessuali, agli islamici e ai cattolici…
Qui sta la attualità di Paolo, che ha combattuto una battaglia estrema contro una religione che
discriminava con la legge e con la circoncisione. Oggi le religioni sono discriminanti con altri
fattori. La lotta di Paolo per la liberazione dalla religione mosaica è una lotta di liberazione da tutte le religioni, in quanto e nella misura in cui sono discriminanti. Qui permane l’attualità della
distinzione tra fede e religione: Abramo è il padre dei credenti, non dei religiosi. E la fede, a
differenza della legge, è una grandezza transculturale, cioè potenzialmente aperta a tutti, a tutti che restano diversi perché il giudeo credente resta giudeo, il gentile credente resta gentile, il maschio maschio e la femmina femmina, ecc. Al posto del Dio legislatore e sanzionatore, al posto delle religioni discriminanti, il Dio abramico della promessa.

la morte ultimo nemico

Paolo considera la morte non come un fatto fisico, ma come l’ultimo nemico di Cristo e dell’uomo. Alcuni possono accusare Paolo di essere un uomo che non sa accettare la morte, di avere un atteggiamento un po’ infantile di ribellione di fronte ad un fato ineluttabile. In Paolo la morte non è la morte beata di San Francesco, la morte di chi vuole ricongiungersi col suo Signore, quindi la sorella morte. Neppure è il destino nudo e crudo dell’uomo che non può infantilmente rifiutare. Per Paolo la morte è una violenza all’uomo. La morte per lui non è l’ultimo istante della vita, ma ciò che mortifica la nostra vita. C’è questa spina dentro l’esistenza umana, esposta ogni giorno alla morte: noi portiamo in giro sempre la necrosi di Gesù, e cioè questo processo progressivo che intacca la vita del credente e del non credente, per cui Paolo dice che la morte è il signore del mondo. Questo signore del mondo deve essere detronizzato, in quanto entra in collisione con la signoria di Cristo. È un motivo cristologico. Cristo ha vinto la morte in sé, ma se non vince la morte in noi lui non è più il nostro signore, il nostro signore è la morte. Di fatto in 1 Corinti 15 Paolo riporta l’affermazione dei salmi
« finché lui abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi ». L’ultimo nemico, quello più trememdo, quello più spaventoso, è la morte. Paolo ha una concezione alta della vita e del Dio della vita. Questo Dio della vita deve dire l’ultima parola sui viventi, e non la morte. La risurrezione vuol dire proprio questo. Non per niente al cap. 15 di 1Cor Paolo termina con due citazioni dell’antico testamento: Dov’è o morte il tuo pungiglione? Dov’è o morte la tua vittoria? La morte è stata ingoiata dalla vittoria di Cristo. Paolo in Romani 5 afferma: « Mediante un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e tramite il peccato la morte… » Noi dobbiamo essere riscattati dal peccato e dalla morte, che sono i due signori che sono entrati nel mondo. Il riscatto dal peccato, dal male oscuro che è l’idolatria, avviene attraverso la morte e la risurrezione di Cristo. Ma la liberazione dal peccato non è ancora la liberazione dalla morte. Paolo ha collegato peccato e morte, entrati tutti e due nel mondo, ma nella liberazione, allo stato attuale, noi siamo stati liberati solo dal peccato, da questa potenza condizionante a cui possiamo resistere, ma non ancora dalla morte. L’azione liberatrice di Cristo è stata distinta da Paolo in due fasi: la liberazione dal peccato e la liberazione dalla morte. Dal punto di vista antropologico uno può accusare Paolo di un sogno infantile, non tanto di non morire, ma di
ritenere che tutta la vita è sotto il segno tenebroso della morte. La morte minaccia ed estenua la vita nelle sofferenze, nei disagi, ma la speranza è la vittoria sulla morte perché Paolo prende sul serio la risurrezione di Cristo e la solidarietà nostra con Cristo. Non basta la vittoria di Gesù sulla sua morte, ma è necessario la vittoria di Gesù sulla nostra morte, se noi siamo identificati con Lui. È la mistica cristocentrica paolina
.

In missione con san Paolo

dal sito:

http://www.popoli.info/index.html

In missione con san Paolo

Si chiude il 29 giugno l’anno dedicato all’Apostolo delle genti. In queste pagine una riflessione sulla sua eredità per chi è impegnato nell’annuncio del Vangelo al mondo di oggi

Davide Magni S.I.
 
San Paolo apostolo (1975), olio su tavola di Mario Venzo, artista gesuita (1900-1989)
Fra i molti stimoli che l’Anno paolino ha offerto alla Chiesa, uno tra i più significativi è stato l’invito a riflettere sull’atteggiamento che i cristiani devono avere nella relazione con le varie religioni. Al termine dell’anno dedicato al bimillenario della nascita del santo vorremmo riproporre questo stimolo attraverso la proposta di un «esercizio missiologico» per incontrare il Paolo missionario e «missionologo».
Oggi tendiamo a dare per scontato che, poiché ogni religione presenta differenze e particolarità specifiche, il cristiano si debba riferire a ciascuna di esse in maniera differenziata. In realtà, il primo a rendersi conto di questo, e a maturare tale modalità di approccio, fu proprio san Paolo. Egli, partendo dall’esperienza di Cristo che aveva segnato la sua vita e la sua visione del mondo, legge le realtà che incontra ed elabora una riflessione teologica. Questa teologia non è una costruzione astratta, non preesiste alla sua attività missionaria, viceversa ne è il ripensamento. Egli è anzitutto un missionario e poi un teologo.
Uno degli studiosi che hanno riflettuto in maniera particolare sulle forme del dialogo e della missione nell’Apostolo delle genti è stato Pietro Rossano (1923-1991), teologo, responsabile del Segretariato per i non credenti (l’attuale Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso) e rettore dell’Università Lateranense. Rossano spiega bene come, fin dalla prima generazione cristiana, si sia manifestata una pluralità e varietà di espressioni. Dovunque arriva, il messaggio cristiano ha la capacità di innestarsi sul patrimonio spirituale preesistente: questo perché i valori religiosi e umani presenti in ogni popolo vengono assunti, liberati ed elevati in Cristo. Rossano identifica così cinque differenti modelli di evangelizzazione sperimentati da Paolo: agli ebrei della sinagoga di Antiochia di Pisidia (At 13,15-41); ai seguaci del politeismo cosmico di Listra (At 14,1-18); ai filosofi stoici ed epicurei di Atene (At 17,18-31); agli gnostici dell’Asia minore (Efesini e Colossesi) e ai culti politeisti di Corinto (1Cor 10,19-22). Un buon esercizio potrebbe consistere anzitutto nella lettura dei brani appena citati.
Rimanendo ai suggerimenti bibliografici, raccomandiamo un altro teologo prematuramente scomparso, il sudafricano David Bosch (1929-1992). Nel suo testo fondamentale, La trasformazione della missione. Mutamento di paradigma in missiologia (Queriniana, Brescia 2000), traccia una sintesi della missione in Paolo di grande limpidezza e acume. Estrapoliamo qui solo due aspetti di questa stimolante lettura che Bosch propone sulla teologia e la prassi missionaria di Paolo: le «motivazioni» e lo «scopo» della sua missione.

LE MOTIVAZIONI DI PAOLO

Nel più profondo della motivazione missionaria di Paolo c’è l’esperienza che egli ha fatto dell’amore di Dio in Cristo Gesù. Se va fino alle estremità della terra è perché è stato conquistato da Lui: «Il Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). L’amore di Dio costituisce il vero movente della missione: «Avendo conosciuto (…) cerchiamo di convincere gli uomini» (5,11); «l’amore di Cristo ci spinge» (5,14).
Se, dunque, Paolo proclama il Vangelo a tutti, non è in primo luogo perché vuole salvare chi è perduto o perché ne sente l’obbligo. Il motivo di fondo è che ha coscienza che gli è stato fatto un privilegio: «ha ricevuto la grazia di essere apostolo» (Rm 1,5; 15,15). Privilegio, grazia, riconoscenza sono i concetti che Paolo usa quando parla del suo compito missionario. La coscienza di sapersi debitore si traduce immediatamente in un sentimento di riconoscenza. È facendosi missionario presso i giudei e i pagani, che Paolo esprime la sua riconoscenza per l’amore di Dio manifestato in Cristo. Un amore che «ci ha riconciliati con Dio mentre ancora gli eravamo nemici» (Rm 5,10): è questo amore incredibile e senza misura che Paolo e le sue comunità hanno scoperto e raccontano.
San Paolo ha una preoccupazione che lo spinge. Fuori di Cristo l’umanità perde assolutamente ogni speranza, è votata alla perdizione (1Cor 1,18; 2Cor 2,15). Essa ha un bisogno urgente di salvezza (Ef 2,12). Per tale ragione, deve essere proclamato a tutti che «Gesù ci libera dalla collera che viene». Si sente ambasciatore di Cristo: «In nome di Dio, ve ne supplichiamo, lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Tuttavia la sua grande motivazione non è predicare questa «collera che viene», ma il messaggio positivo: la salvezza che viene attraverso Cristo e il trionfo imminente di Dio. Il Vangelo è una buona notizia, rivolta a gente che ha peccato volontariamente, che è senza scuse e che merita il giudizio di Dio (Rm 1,20-25), ma a cui Dio, nella sua bontà, offre la possibilità di pentirsi (Rm 2,4). La salvezza, per Paolo, è l’esperienza di una liberazione immeritata, grazie all’incontro con il Dio unico, Padre di Gesù Cristo. Paolo ha la missione di condurre gli uomini alla salvezza in Cristo. Ma il suo obiettivo finale non è centrato sull’uomo: è preparare il mondo in vista della gloria di Dio che viene (1Tess 1,9) e per il giorno in cui tutto l’universo lo loderà, nella comunione piena di vita con lui.
Secondo Bosch, per cogliere come Paolo sentiva la responsabilità missionaria è utile richiamare quanto egli scrive a proposito del comportamento dei credenti verso «quelli di fuori»: devono anzitutto prendere coscienza di costituire una comunità di natura speciale, differente. Egli definisce i cristiani «scelti», «amati», «santi» (cioè, «messi da parte per»), conosciuti da Dio. Inoltre, ricorda continuamente che la testimonianza verso «quelli di fuori» esige una condotta esemplare: una condotta di rispetto (1Tess 4,11) e di amore concreto verso tutti (1Tess 3,12), una condotta che non solo attiri stima e ammirazione, ma addirittura inviti a entrare nella comunità.
In altre parole, la caratteristica delle prime comunità cristiane è il comportamento missionario. Esso si esprime non tanto con un’attività missionaria specifica, quanto con lo stile di vita «attrattivo» delle piccole comunità in cui le relazioni umane sono trasformate. Sono relazioni reciproche di attenzione, solidarietà, ospitalità, intense e ricche di emotività, di integrazione sociale tra ricchi e poveri: esse mostrano l’opera di riconciliazione realizzata da Cristo; sono «un segno precursore» dell’alba del mondo nuovo.

LO SCOPO DELLA MISSIONE

Sulla base di queste ragioni che lo spingono, qual è dunque il fine dell’andare alle genti? Nelle prime righe della Lettera ai Romani, Paolo riassume l’obiettivo del suo apostolato. È stato «scelto per annunciare il Vangelo» e incaricato di proclamare che Dio ha effettuato la riconciliazione del mondo con Lui e anche fra di noi. Per questo percorre tutta l’area mediterranea. Dove arriva, fonda Chiese: saranno, spera, manifestazioni della nuova creazione, capaci di resistere alle potenze di questo mondo.
La missione di Paolo si fonda non su promesse incerte, ma su un dato di fatto: la salvezza è già offerta da Dio all’umanità. In retrospettiva, cioè alla luce dell’esperienza dell’amore senza condizioni di Dio, Paolo ha immaginato come sarebbe stata la sua vita senza Cristo: egli ha potuto rendersi conto del terribile abisso in cui sarebbe caduto.
Tuttavia, quando confessa di essere stato salvato grazie a Cristo, non pronuncia un verdetto su quelli che non credono. Paolo non si sofferma sulla sorte dei non credenti, preferisce insistere sulla liberazione che è già stata data. Ha fatto l’esperienza del Vangelo, dell’amore senza condizioni: il suo scopo, lo scopo della sua missione, è di proclamare la salvezza compiuta da Dio. Il suo Vangelo è un messaggio positivo.

EDUCAZIONE AL DISCERNIMENTO

Dicevamo all’inizio che questa «lettura spirituale» dei testi di Paolo diventa un esercizio missiologico. L’anno scorso papa Benedetto XVI ha ricordato ai gesuiti riuniti per la 35ª Congregazione generale che la loro missione si articola in quattro dimensioni: servizio della fede, promozione della giustizia, inculturazione del Vangelo, dialogo interreligioso. Questo, però, vale per tutti i cristiani. San Paolo è il modello di riferimento, o paradigma, fondamentale.
L’Apostolo ci aiuta a riflettere sull’obiettivo e le motivazioni della missione che noi abbiamo. Si tratta di un’educazione al discernimento delle modalità dell’annuncio del Vangelo nell’attuale contesto delle religioni e delle culture. La Chiesa, ricordava mons. Rossano, consapevole dei limiti e delle imperfezioni che hanno offuscato nella storia l’efficacia della sua testimonianza, si sforza di presentare il messaggio evangelico in tutta la sua pienezza e nella sua potenza liberatrice. Per essere il più vicino possibile allo spirito di Cristo e alle esigenze dell’uomo contemporaneo, essa si trova sempre impegnata in un rinnovamento interiore.
Se il Concilio Vaticano II ha rappresentato il massimo sforzo compiuto dalla Chiesa nei tempi moderni per rendersi più adatta a svolgere la missione che Cristo le ha affidato per tutti gli uomini, l’anno paolino ha senza dubbio reso evidenti alcuni bisogni e desideri. Ad esempio il bisogno di ritrovare la piena unità con i cristiani separati dell’Oriente e dell’Occidente, il desiderio di avere uno sguardo d’amore e fiducia verso i non cristiani, per i quali la Chiesa sa di dover essere come il lievito e il sale.
Pochi mesi prima dell’apertura dell’anno paolino, il 3 dicembre 2007, la Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, pubblicata dalla Congregazione per la dottrina della fede, ha sollecitato i cristiani a una riflessione non scontata. La Nota induce a prendere consapevolezza di dove ci smarriamo nel nostro andare alle genti. Allo stesso tempo suggerisce che cosa possiamo migliorare, correggere, cambiare e ulteriormente fare nel nostro modo di annunciare (cioè vivere) il Vangelo. La Nota parla innanzitutto delle implicazioni antropologiche dell’evangelizzazione: è la dimensione del servizio, della carità vissuta nell’impegno per la giustizia e la pace, la salvaguardia del creato. Proseguendo, espone le implicazioni ecclesiologiche: ciò richiama la Chiesa a essere luogo di comunione, ovvero a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra i popoli e le culture; la comunità è luogo accogliente e riconciliante, attraente perché ci si sente amati e rispettati nella carità. Infine, richiama la dimensione ecumenica dell’evangelizzazione: c’è bisogno della testimonianza dei cristiani adulti nella vita secondo lo Spirito, pronti al dialogo e alla condivisione di doni che promuovono una più profonda conversione a Cristo; l’incontro tra le fedi, insomma.
Dall’incontro con san Paolo e raccogliendo le sollecitazioni della Nota possiamo capire che a nulla o a poco servono l’irrigidimento delle strutture ecclesiali o i discorsi sulla pastorale di tipo tattico-strategico, se si dimentica che il centro ispiratore di ogni azione è Gesù Cristo. Priva di grandi risorse umane, la Chiesa sa che deve contare unicamente sulla presenza di Cristo, il quale prima di congedarsi visibilmente dagli apostoli ha assicurato loro: «Ecco io sarò con voi fino alla fine dei secoli».

ESPERIENZE ANGELICHE NELLA VITA DI PAOLO

io sinceramente non ci capisco niente riguardo le esperienze angeliche di Paolo, ho letto questo studio e lo propongo, dal sito:

http://www.pontifex.roma.it/index.php/opinioni/consacrati/797-esperienze-angeliche-nella-vita-di-paolo

ESPERIENZE ANGELICHE NELLA VITA DI PAOLO
    
Lunedì 01 Dicembre 2008 01:00

Come nella vita di San Pietro, non manca l’intervento di qualche angelo nella missione di San Paolo, non poche volte egli  parla degli angeli nelle sue lettere e li nomina con molta frequenza. Paolo già prima della sua conversione credeva nell’esistenza degli Angeli, sia per le sue grandi conoscenze delle Sacre Scritture acquisite alla scuola di Gabaele sia per la sua appartenenza alla setta dei farisei i quali, al contrario dei sadducei, erano totalmente convinti della realtà angelica. Paolo si vanta di ciò davanti al sinedrio, come si osserva negli Atti degli Apostoli: Paolo, posti gli occhi al sinedrio disse: “Fratelli fino a oggi mi sono comportato davanti a Dio con tutta la rettitudine di coscienza” […] Paolo, sapendo che molti erano sadducei e altri farisei, gridò nel Sinedrio:”Fratelli io sono fariseo e figlio di farisei. Per la speranza nella resurrezione dei morti mi si giudichi”. E mentre diceva questo si generò uno scompiglio tra …

… i farisei e i sadducei e l’assemblea si divise. Mentre i sadducei negavano la resurrezione e l’esistenza degli angeli e degli spiriti; i farisei professavano l’una e l’altra. Nel mezzo di un grande schiamazzo, si alzarono alcuni dottori della setta dei farisei che discutevano violentemente e dicevano: “Non troviamo nessuna colpa in quest’uomo. Gli ha parlato uno Spirito o un Angelo?” Il tumulto si accrebbe e il tribuno, temendo che Paolo venisse straziato da loro, ordinò ai soldati di scendere, di allontanare Paolo da loro e di condurlo in caserma. Il giorno dopo durante la notte gli apparve il Signore che gli disse: « Coraggio, perché come hai dato testimonianza di me a Gerusalemme, così devi darla a Roma ».
Negli Atti degli Apostoli troviamo anche un’esperienza mistica di Paolo, che alcuni biblisti considerano come un a apparizione di essere angelico: « Durante la notte Paolo ebbe una visione: un macedone stava in piedi supplicandolo: « Passa per la Macedonia e aiutaci ». Immediatamente dopo una visione essi tentarono di passare per la Macedonia, persuasi che Dio li avesse chiamati per “evangelizzarli « .
È possibile che Dio abbia chiamato Paolo tramite un Angelo, che si potrebbe definire « Angelo della Macedonia ». Tuttavia non abbiamo prove certe. Gli angeli sono capaci di trasmettere una chiamata di Dio in visione, ed è probabile che fu un Angelo, ma il testo non lo dice espressamente e chiaramente.
Più chiaro è l’intervento di un Angelo, che Paolo sperimentò nel suo avventuroso viaggio per mare a Roma per dare lì testimonianza di Cristo e soffrire il martirio fino alla morte. In effetti, quando la barca sulla quale egli era prigioniero venne sorpresa vicino Malta da una terribile tempesta e la situazione senza speranza generò un’atmosfera di disperazione, né la nave venne preservata dalla distruzione da un Angelo, né Paolo venne liberato dai suoi nemici – come era successo a Pietro a Gerusalemme in due occasioni – ma gli si presentò un Angelo che gli annunciò: « Non temere Paolo; comparirai davanti a Cesare e Dio ti farà la grazia insieme a tutti coloro che navigano con te ».
Nei giorni successivi, l’equipaggio e i soldati non vennero liberati dall’orrore del naufragio né dall’ammutinamento sulla nave, per quanto riguarda Paolo solo la fede nella promessa dell’angelo gli permise di affrontare queste situazioni critiche, assumendo un atteggiamento di superiorità al quale si sottomise persino il centurione della guardia romana. Durante la tempesta Paolo esortava i suoi compagni: « Risollevate gli animi, amici, perché io confido in Dio che così accadrà come mi ha detto (l’angelo) ». Alla fine la nave naufragò davanti all’isola di Malta e il racconto degli Atti degli Apostoli si conclude con l’affermazione: « tutti giunsero a terra sani e salvi ».

INSEGNAMENTI DI SAN PAOLO SUGLI ANGELI

In quanto alle affermazioni sugli Angeli che risultano dalle lettere di San Paolo, vogliamo evidenziare che l’apostolo conosce un mondo che sta fra Dio e gli uomini; parla di « esseri angelici » sotto nomi distinti. San Paolo è pienamente convinto (non solo dell’esistenza dei santi angeli, ma anche) dell’esistenza e dell’efficacia di Satana in quest’eone  (tempo). Però per San Paolo è anche valido il concetto in generale che: « E il Dio della pace presso schiaccerà Satana sotto i vostri piedi ».
La tradizione della fede apostolica si esprime in San Paolo attraverso gli inni della comunità. In primo luogo menzioniamo l’inno della creazione nella lettera ai Colossesi: « In lui furono create tutte le cose… ». Probabilmente precedente è l’inno dei Fil. 2, 9 dove si descrive la redenzione: « … Dio lo esaltò e gli diede il nome che è di sopra di ogni altro nome, affinché nel nome di Gesù si sottometta tutto ciò che è in cielo, sulla terra e negli abissi ». Fra i primi inni a Cristo c’è n’è un altro espresso in un modo molto poetico in Timoteo 3,16 « Il Cristo si manifestò in carne, venne giustificandolo in spirito, contemplato dagli angeli, proclamato ai pagani, creduto nel mondo ed elevato alla gloria ». Inoltre la lettera dice: « Davanti a Dio, a Gesù Cristo e ai suoi angeli eletti, ti ordino di osservare queste indicazioni… ». (1 Tim 5, 21).
Gli angeli vivono nella comunità terrena e umana delle quali sono custodi e testimoni. Paolo arrivò in Galizia colpito da un’infermità fisica, nonostante ciò, i fratelli di fede non lo trattano male, al contrario, viene ricevuto « come un Angelo di Dio, come Gesù Cristo ». (Galati, 4, 14). Lo stesso Paolo afferma di se stesso: « Siamo arrivati ad essere uno spettacolo per il mondo, per gli angeli e gli uomini » (1 Corinzi 4, 9). Nella 1 Corinzi 11, 2-16 Paolo descrive il banchetto eucaristico nella comunità. In quest’occasione le donne devono portare il velo sulla testa. Ciò probabilmente era un’abitudine nella sinagoga. Paolo allega distinte ragioni per questo precetto, tra le quali: « Le donne devono portare in testa un segno di assoggettamento, per rispetto degli angeli » (v. 10). Anche gli angeli sono presenti nel banchetto del Signore, si prendono cura dell’ordine della comunità e proteggono anche le donne. Il cielo è il luogo degli angeli, chiamati anche angeli della potestà di Cristo; e Cristo, nel giorno del giudizio, comparirà insieme a loro (cf. 2 Tes 1, 7).

LE ATTIVITÀ DEGLI ANGELI

In Paolo incontriamo anche espressioni sugli angeli che sono un riflesso e un ritorno alla tradizione rabbinica che parla degli angeli buoni e malvagi. Paolo riceve la tradizione giudaica sugli angeli che consegnano la legge a Mosè sul monte Sinai. Mentre Israele intendeva quella consegna per mano degli angeli come un segno di distinzione, Paolo la interpreta come segno di minor valore alla legge stessa: « Allora perché la legge? Essa fu aggiunta per moltiplicare le trasgressioni fino al momento dell’arrivo del discendente di Abramo, a cui era destinata la promessa; e fu promulgata dagli angeli attraverso un mediatore » (Galati 3, 19). Il figlio di Dio, in cambio, agisce direttamente.
Non essendo completa, la legge si trasformò in un debito. Gli angeli non possono arrivare ad essere forze minacciose per l’uomo: »… né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né futuro, né potenze, né altezze, né profondità, né nessuna creatura potrà separarci dall’amore di Dio, in Gesù Cristo Nostro Signore »  (Rm. 8,38). Paolo vuole indicare qui probabilmente che le forze della natura possono separarsi dal Creatore e diventare autonome e quindi divenire un pericolo per l’umanità.
Nel descrivere il ritorno di Cristo, San Paolo prende un’immagine tradizionale: « Perché al segnale dato dalla voce dell’Arcangelo e al tocco della tomba di Dio, lo stesso Signore discenderà dal cielo ». (1 Tess 4, 16).
Certamente è importante considerare che la prima lettera ai Tessalonicesi è la prima nell’ordine temporale, fra quelle che ci rimangono di Paolo, ed è a sua volta il primo scritto del Nuovo Testamento, e pertanto è molto vicino alla prima tradizione apostolica. Quando Paolo afferma che: « Quello che annunciamo è una saggezza di Dio… quella che nessuno dei dominatori di questo mondo arrivò a conoscere, perché se l’avessero conosciuto non avrebbero crocifisso il Signore della gloria » (1 Cor 2, 7-8), dà un giudizio severo sulla realtà manifesta e occulta di questo mondo. L’ingratitudine non servirà come scusa alle potestà diaboliche, giacché con la crocifissione esse sono state vinte.
La vita sorta dall’amore, così come la proclama il Vangelo, è superiore al parlare con il linguaggio degli angeli. “Se parlo le lingue degli uomini e anche quelle degli angeli, però non ho la carità,  sono solo come un bronzo che tintinna o un cembalo che risuona a vuoto” (1 Cor 13,1).
Come apostolo di Cristo, Paolo è consapevole di essere superiore a tutto il potere possibile e immaginabile: « Però se noialtri o un Angelo del cielo vi annuncia  un Vangelo diverso da quello che abbiamo annunciato, che venga espulso dalla comunità! » (Gal 1, 8). Paolo parla con impeto in questo dibattito. Considera un’assurdità che tanto lui come un angelo non annuncino più il vero Vangelo.

LA GERARCHIA CELESTIALE: POTESTÀ E VIRTÙ

La lettera ai Colossesi fu scritta da Paolo dalla prigione mentre si trovava a Cesarea o a Roma, verso l’anno 60. La lingua e le idee di questa lettera abbastanza originali rispetto a quelle delle altre hanno fatto pensare alla presenza di un autore diverso, per esempio a un collaboratore di Paolo. Tuttavia un grande numero di studiosi ritiene che esse si possano spiegare con la particolare situazione esistenziale dell’apostolo. A motivo di alcune sorprendenti coincidenze di pensiero e di espressione, è probabile che la lettera agli Efesini sia stata scritta tenendo presente il testo di quella ai Colossesi.  Paolo parla in modo distinto degli angeli che furono creati in Cristo, il Signore preesistente, incarnato, crocifisso ed esaltato. Così nella lettera evidenzia: « In Cristo furono create tutte le cose del cielo e della terra, visibili e invisibili, i Troni, le Dominazioni, i Principati, le Potestà: tutto fu creato da Lui e per Lui. Egli viene prima di tutto, e tutto sussiste in Lui… perché Dio volle che in Lui risiedesse tutta la Pienezza. Per Lui volle riconciliare con sé tutto ciò che esiste sulla terra e in cielo, ristabilendo la pace con il sangue della sua croce » (Col. 1, 16. 19-20). Cristo ha saldato il debito (cf. Galati 3, 13) con la redenzione in quanto ai Principati e alle Potestà, “li spogliò e li esibì pubblicamente, incorporandoli al suo corteo trionfale” (Col 2,15). L’autore della lettera conosce l’esistenza di una falsa venerazione degli angeli, da parte degli eretici gnostici, quando scrive: “Niente li privi del premio, sotto il pretesto dell’umiltà e del culto degli angeli. Questa gente corre dietro alle visioni e si gonfia di vanagloria nell’orgoglio della sua debole mentalità carnale » (Col. 2, 18).
Una difficoltà si presenta nel classificare questi cori superiori, perché alcune volte si parla dei poteri caduti, in altre occasioni dei buoni e in altre occasioni di entrambe le due categorie. Ciò dipende sempre dal contesto.

 IL POTERE DEL MALE

Le lettere paoline pongono l’accento anche sugli angeli del male. Il mondo di Dio è la luce, di Satana sono le tenebre. Però quest’ultimo si maschera di luce, così come i falsi maestri si travestono da servitori della giustizia (cf. 2 Cor 11, 14). Quando arriverà il regno di Dio alla fine dei tempi, i dominatori di questo mondo e di questo tempo saranno privati dei loro poteri (1 Cor. 15, 24). Paolo voleva visitare una o due volte la comunità di Tessalonica: « però Satana glielo impedì » (1 Tess 2, 18).
È insistente il doloroso lamento dell’apostolo: « Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza ».(2 Cor. 12, 7-9). Paolo deve sopportare una grande sofferenza. Lui la interpreta come una prova che gli manda Dio, e descrive il dolore come un fatto naturale, sebbene si serva di immagini per riferirsi ad esso. La sofferenza è come una spina nella carne o come un bastone, giacché il supplizio dell’impalamento è una pena particolarmente crudele. Però Paolo interpreta la sua malattia come se un angelo di Satana lo schiaffeggiasse. Satana e i suoi aiutanti cercano di impedire la sua missione. Si tratta di principati e potestà di questo mondo (cf. 1 Cor. 15, 24). Satana causa anche malattie (cf. Giobbe 2, 6). Lo stesso Gesù parla di una donna che Satana aveva paralizzato da quando aveva diciott’anni (cf. Lc 13, 11). Dio è il creatore della vita. Il nemico di Dio la distrugge.
Paolo ricorda tre momenti di lotta spirituale, nella preghiera in cui ha invocato la liberazione dal potere di Satana. La risposta del Signore è la promessa di grazia e forza divina. Paolo si sente liberato grazie alla  comunione con  Dio e delle potenze del cielo, che sono sempre presenti. Egli è in condizione di profetizzare « Il Dio della pace schiaccerà molto presto Satana, vincendo su di lui » (Rom. 16, 20). Dio è il Signore della pace, per contrasto Satana provoca discordia e suscita false dottrine e divisioni (cf. Rom 16, 17). Con una severa avvertenza, l’apostolo parla già della prossima apostasia in cui incorre “dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio…il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca…” (2 Tess 2, 3. 4.8).

 IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE

Se questi poteri angelici tenebrosi sono sotto il dominio del Signore, è ovvio che la sua forza – pur grande che sia – non è sufficiente per separare da Cristo chi è radicato nel suo amore e incorporato in Lui: « Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore”. (Rom 8, 38).
Tuttavia il cristiano deve curare e fortificare la sua fede ed è chiamato al combattimento spirituale.
La lettera agli Efesini presenta un discorso cristiano più ampio del solito, che abbracci le dimensioni del cosmo ed esorta a resistere al male. « Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo”. (Ef 6, 10). L’odio e l’ira sono occasioni che provoca il demonio. Ef 6, 12: “ Infatti noi non dobbiamo lottare contro creature umane, ma contro spiriti maligni del mondo invisibile, contro autorità e potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso”, poteva riferirsi alla tradizione delle potestà maligne che sarebbero presenti anche in cielo, come appariva in Giobbe 1,6: “ Un giorno le creature celesti si presentarono davanti al Signore. In mezzo a loro c’era anche Satana”.

 L’ESALTAZIONE DI CRISTO SUGLI ANGELI

La lettera agli Efesini sarà relazionata anche al tema dell’ordine esistente fra le potestà spirituali. Cristo è al di sopra del mondo delle potestà: “Lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi…” (Ef. 1, 20-22). La lettera descrive le gerarchie delle creature celesti. Le potestà possono essere sia buone (cf Ef. 3, 10) che cattive (cf. Ef. 4, 7; 6, 12). Quando la lettera descrive la maestà di Cristo e la dignità inferiore degli angeli, probabilmente è da intendersi come un rifiuto alle dottrine gnostiche, che promuovevano un culto esagerato degli angeli (cf. Col. 2, 16-20). Si enumerano in modo particolare i cori degli angeli sui quali Cristo si trova « al di sopra », in modo simile a come avviene in altri passaggi delle sue epistole (cf Ef. 3, 1; Col 1, 16).
Poiché gli angeli sono uniti a Cristo, San Paolo aggiunge una indicazione e cioè che essi compariranno con Lui nella Parusia: “… mentre a voi, che ora siete tribolati, darà sollievo, come a noi. Questo accadrà quando il Signore Gesù verrà dal cielo e apparirà con i suoi angeli potenti. Allora con fuoco ardente punirà quelli che non accolgono il messaggio di Gesù nostro Signore. Essi saranno condannati a una rovina eterna, lontani dalla faccia del Signore, lontani dalla sua gloriosa potenza. In quel giorno, egli verrà per essere accolto da tutti quelli che sono suoi, per essere riconosciuto e ammirato da tutti quelli che credono in lui. E anche voi ci sarete, perché anche voi avete creduto a ciò che vi ho annunziato.” (2 Ts 1, 7-10).
Però non solo nella Parusia arriveranno gli angeli con il Signore, essi già sono presenti fra di noi, principalmente nel servizio liturgico a Dio.
Colui che presiede ogni comunità è ammonito per un compimento perfetto dei suoi doveri ministeriali, fra le altre formule, con questa indicazione ai santi angeli:  » Ti scongiuro davanti a Dio, a Cristo Gesù e agli angeli eletti, di osservare queste norme con imparzialità e di non far mai nulla per favoritismo”. (1 Tm 5, 21).
Allo stesso modo nella lettera agli Ebrei si elevano in maniera molto speciale le affermazioni di San Paolo sulla dignità di Cristo, il figlio di Dio incarnato: “E a quale degli angeli dico: Siediti alla mia destra mentre pongo i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi?” La lettera riflette sulla relazione tra Cristo e gli angeli: « Di poco l’hai fatto inferiore agli angeli, di gloria e di onore l’hai coronato » (Eb 2, 7). Il Figlio, al contrario: è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato” (Eb 1, 4) « Non certo a degli angeli egli ha assoggettato il mondo futuro, del quale parliamo… e hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi » (Eb 2, 5.8) L’Antico Testamento è « la parola trasmessa per mezzo degli angeli » (Ebrei 2, 2). « Non sono essi tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono ereditare la salvezza? (Eb 1, 14)
Noi,  esseri umani, siamo stati distinti, per integrare la comunità della Chiesa celeste alla quale appartengono anche i santi angeli; perciò dobbiamo camminare con rispetto davanti a Dio, come esorta chiaramente l’autore della lettera agli Ebrei, secondo lo spirito di San Paolo: « Voi vi siete invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli […]Guardatevi perciò di non rifiutare colui che vi parla.  » (Eb 12, 22-25). Il servizio divino nella Chiesa è celebrato in relazione con il servizio divino che si svolge nella comunità degli angeli (cf Eb 7, 24; 8, 1; 9, 4).
La lettera scritta da un profondo conoscitore dell’Antico Testamento, esprime anche questo avvertimento: « Non si dimentichino di praticare l’ospitalità, perché grazie ad essa, alcuni senza saperlo hanno ospitato degli angeli » (Eb13, 2). L’autore vuole evidentemente ricordare la visita dei tre « uomini » (angeli) ad Abramo (cf Gn 18) e degli altri due con Lot (cf. Gn 19).

CHIARIMENTO DEI CONCETTI

Per poter capire la dottrina di San Paolo, è necessario prima di tutto avere chiarimenti sui concetti che lui sta applicando, e considerare il senso e il contesto che egli sta utilizzando.
Nell’uso dei concetti sugli angeli e i demoni, incontriamo lievi differenze fra San Paolo e gli altri scrittori del Nuovo Testamento. Grazie alle lettere di San Paolo possiamo conoscere alcuni gruppi o cori superiori degli angeli con i loro nomi, ossia avere qualche idea della gerarchia angelica.
Un grande problema è stato per la esegesi il fatto evidente che alcune dominazioni si utilizzano in diversi sensi, e ciò fu una delle cause principali per cui alcuni teologi moderni arrivarono a negare l’esistenza degli angeli. Un esempio tipico: la parola greca exousia può significare un’autorità pubblica, oppure significa un potere che viene dal cielo, non necessariamente si deve intendere qui un essere spirituale personale. In quanto lo traduciamo « virtù » può significare un angelo buono oppure un angelo cattivo. Anche la parola greca ponerou si può intendere in senso neutro o in senso maschile. Nel primo caso sarebbe il « male » come astratto, nel secondo caso sarebbe il « maligno », cioè il diavolo.
Premetto qui alcune considerazioni di base sugli angeli per poi meglio comprendere il pensiero paolino a riguardo:
Angelo/ angeli: La parola « angelo » nell’uso di San Paolo sembra si riferisca sempre a una creatura spirituale e mai ad una persona umana o ad un altro messaggero di origine terrestre.
Spirito: La parola « spirito » San Paolo non la utilizza mai per disegnare un angelo. Lo « spirito » poteva significare per esempio una qualità morale di un essere umano. Uno « spirito » poteva designare anche un’anima umana dopo la morte. Per esempio, negli Atti degli Apostoli 23, 8 si ha tale distinzione: “I sadducei affermano che non c’è risurrezione, né angeli, né spiriti”.
Per gli angeli caduti incontriamo denominazioni come Satana, diavolo, Beliar, demoni, che tratterò in un capitolo a parte.
Incontriamo anche denominazioni in forma di attributi, che designano alcune funzioni dell’angelo buono o cattivo:
Il distruttore (1 Cor 10, 10): con questa parola intendiamo un angelo castigatore che esegue un ordine di Dio.
Il tentatore (1 Ts 3, 5): designa un angelo cattivo oppure Satana, perché un angelo buono ovviamente non tenta al male.
Il serpente – che San Paolo menziona in 2 Cor. 11, 3, lo identifichiamo con il tentatore o angelo caduto, come lo definisce anche la Sacra Scrittura. Nell’Apocalisse 12, 9.15; e 20,2 si parla dell’antico serpente: “Prese il drago il serpente antico, che è il diavolo e Satana.” Alcuni esegeti si rifiutarono di identificare il serpente con il diavolo.
Il Dio di questo mondo (2 Cor 4,3) è un appellativo paolino molto duro che chiaramente mostra l’influenza che il diavolo purtroppo sta esercitando su tante realtà umane.
Il principe del male si riferisce al demonio.
Anche l’ “accusatore” o il “dragone” hanno queste caratteristiche, però non li troviamo nel vocabolario di San Paolo.
Altri concetti problematici sarebbero i seguenti termini greci e la loro rispettiva traduzione, che non sempre è unanime da parte dei biblisti:
Dynameos (Potestà): (significa: forza, abilità) designa una forza o una qualità che una persona possiede. Può essere la sua forza fisica o anche la sua intelligenza brillante o altra abilità o talento.
Arché (Principati): sono esseri angelici, però intendiamo anche « principi umani ».
Exousia (Virtù): significa un’ « autorità », un titolo, un potere che una persona riceve. per quanto riguarda la « forza » (dynameos), una persona la possiede in se stessa o dal di dentro. Un’autorità (exousia) è innanzitutto un potere che si riceve dall’altro.
Il problema è di solito un problema di traduzione, perché in molte versioni della Bibbia « exousia » si traduce con la parola « potestà ». Qui traduciamo la parola exousia, in quanto si tratta di angeli appartenenti al coro delle « virtù » .
Ho katechon: San Paolo parla in 2 Ts 2, 6. 7 di una forza o un potere che detiene il potere maligno riguardo al mistero dell’iniquità. Tuttavia non lascia intendere con chiarezza se si tratta di un essere angelico oppure no.
In altre occasioni si utilizzano concetti che si riferiscono agli esseri umani e non agli angeli. Sono questi per esempio:
L’avversario (1 Tim 5, 14; Tito 2, 8): sono gli increduli, che insultano i fedeli e li criticano per il loro cattivo comportamento, dunque si tratta di nemici umani. San Paolo non relaziona questa parola con il diavolo, invece in 1 Pietro 5, 8: “il vostro avversario, il diavolo », incontriamo questa relazione con l’angelo delle tenebre.
Così anche il termine « nemico », San Paolo lo applica agli esseri umani (Rom 12, 20) e lo utilizza il modo astratto (1 Cor 15, 26). Al contrario nella parabola di Matteo 16, 39 lo identifica con il diavolo.
Altro personaggio è l’anticristo, che può essere anche un essere umano. Si relaziona  ai giudei, agli increduli pagani, o semplicemente con « quelli di fuori », come anche i falsi dottori o falsi profeti. Tutti questi diversi nemici hanno in comune che dietro di loro c’è Satana con la sua influenza nociva, che trasmette in  loro il suo potere diabolico.
San Paolo parla anche dei « poteri di questo mondo », che non dobbiamo identificare con gli angeli bensì con gli esseri umani.
Dai concetti di San Paolo, che si riferiscono agli angeli, oppure agli angeli caduti, dobbiamo distinguere sia gli « idoli » (1 Cor 8, 4; 10, 19) o i « cosiddetti dei  » (1 Cor 8, 5), quelli che in verità non esistono come tali, e per questo non possono semplicemente essere identificati con i demoni.

di Don Marcello Stanzione 

PAOLO APOSTOLO E TESSITORE DI TENDE, LA BOTTEGA COME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

dal sito:

http://www.saverianibrescia.com/missione_oggi.php?centro_missionario=archivio_rivista&rivista=&id_r=44&sezione=alla_luce_della_parola_&articolo=paolo_apostolo_e_tessitore_di_tende&id_a=1301

PAOLO APOSTOLO E TESSITORE DI TENDE

LA BOTTEGA COME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

A CURA DELLA REDAZIONE 

L’articolo è tratto liberamente da una riflessione di Ronald F. Hock in The Social Context of Paul’s Ministry: Tentmaking and Apostleship, Philadelphia, Fortress 1980.

In uno dei suoi trattati politici, Plutarco critica alcuni filosofi perché rifiutavano di conversare con le autorità nel timore di essere considerati ambiziosi o troppo ossequienti. Per evitare il diffondersi di una tale situazione, Plutarco suggerisce che l’unica alternativa per l’uomo dalla mente aperta e desideroso di praticare la filosofia è fare l’artigiano, per esempio, il calzolaio, in modo da avere l’opportunità di conversare nella bottega, come Simone il calzolaio aveva fatto con Socrate. Questo suggerimento di Plutarco, che la bottega fosse un luogo che potesse ospitare discorsi intellettuali, è interessante e fa sorgere l’interrogativo se altre botteghe, specialmente quelle usate ai suoi tempi da Paolo, il tessitore di tende, nei suoi viaggi missionari, siano state utilizzate allo stesso modo nelle città della Grecia orientale. Questa tesi, pur avanzata dagli studiosi, non è mai stata studiata a fondo. Questo articolo è un tentativo di approfondire l’esame dei contesti sociali in cui si sono svolti la predicazione e l’insegnamento dei primi cristiani.

È noto che Paolo era un tessitore di tende. Questo suo lavoro è sempre stato considerato come un’eredità della sua tradizione ebraica. L’attività lavorativa di Paolo è considerata come un residuo della sua vita di fariseo ed è spiegata nei termini di un ideale rabbinico che cerca di associare lo studio della Torah con la pratica di un mestiere. Vorremmo ora portare il dibattito al di là dell’aspetto strettamente ebraico. 

LA BOTTEGA DI PAOLO 

Per una discussione sull’uso missionario della bottega da parte di Paolo, si deve sottolineare l’evidenza che lo colloca nelle botteghe delle città da lui visitate. Luca indica che  Paolo aveva lavorato come tessitore di tende solo in Corinto e Efeso (At 18,3; 20,34); ma le Lettere di Paolo aggiungono Tessalonica (1 Ts 2,9) e – più importante – afferma che in generale la pratica missionaria era di lavorare per potersi mantenere (1 Cor 9,15 – 18). E allora, il riferimento di Paolo al lavoro di Barnaba per sostenere se stesso (1 Cor 9,6) dovrebbe coprire i cosiddetti primi viaggi missionari e la sua permanenza in Antiochia (At 13,1 – 14,25; 14,26-28; 15,30-35), il tempo in cui Luca pone Barnaba come suo compagno di viaggio. Il riferimento di Paolo al suo lavoro a Tessalonica (1 Ts 2,9) e la sua conferma dell’affermazione di Luca riguardante Corinto (1 Cor 4,12) si applicherebbe anche al secondo viaggio missionario (At 16,1 – 18,22). Il riferimento al suo lavoro in Efeso (cfr. 1 Cor 4,11: « fino ad ora »), di nuovo conferma il ritratto di Luca e la sua insistenza nel mantenersi economicamente, durante un futuro viaggio a Corinto (2 Co 12,14), confermerebbe questa pratica anche nel terzo viaggio missionario (At 18,23 – 21,16). In At 28,30 vediamo Paolo presumibilmente lavorare in seguito anche a Roma. In breve, le Lettere e gli Atti mettono in evidenza l’Apostolo nelle botteghe dove predicava e insegnava. Ma che cosa faceva Paolo nella bottega, oltre al suo lavoro di tessitura? Di cosa parlava? Sfruttava l’occasione per una predicazione missionaria?

Una risposta affermativa sembra verosimile, dato il suo impegno nella predicazione del Vangelo. Però né le Lettere, né gli Atti dicono esplicitamente che Paolo utilizzava la bottega per la predicazione. Il silenzio delle Lettere in proposito non è un problema, perché Paolo è di solito silenzioso o vago sulle circostanze della sua predicazione missionaria (cfr. per esempio 1 Cor 2,1-5). Con gli Atti tuttavia la situazione è diversa. 

Il silenzio di Luca negli Atti può essere parzialmente spiegato perché l’evangelista era interessato a raccontare le esperienze di Paolo nella sinagoga. Solo in Atene, il centro della cultura greca e della filosofia, questo interesse è lasciato da parte in deferenza alle esperienze di Paolo al mercato (At 17,17) e specificatamente alle sue conversazioni con i filosofi stoici ed epicurei (ver.18) che portarono al discorso dell’Apostolo  all’Aeropago (22-31). Qui Luca si avvicina molto nel menzionare le conversazioni della bottega, ma non lo fa, poiché le discussioni con i filosofi sono probabilmente da collocarsi sotto i portici della città, forse la Stoà di Attalos ad Atene.

La possibilità di fare conversazioni in bottega è intuibile da un brano delle Lettere di Paolo: il sommario dettagliato dell’attività missionaria dell’Apostolo nella città di Tessalonica (1 Ts 2,1-12). Al versetto 9, il lavoro e la predicazione sono accennati insieme: « Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il Vangelo di Dio ».

L’ATTIVITÀ MISSIONARIA

Se questi sei passi scelti dagli Atti e dalle Lettere parlano di Paolo che utilizzava le botteghe come contesti sociali per la sua predicazione missionaria, bisogna interpretare questi contesti come entità a sé, oppure confrontarli con la vita intellettuale delle città che egli ha visitato. Se la bottega è stata un contesto sociale dell’attività missionaria, per Luca questa era solo uno dei tanti luoghi in cui l’Apostolo predicava. Più frequentemente egli indica la sinagoga. Paolo predica nelle sinagoghe di Damasco (At 9,20), Gerusalemme (At 9,29), Salamide (At 13,5), Antiochia di Pisidia (At 13, 14, 44), Iconio (At 14,1), Tessalonica (At 17,1), Berea (At 17,10), Atene (At 17,17), Corinto (At 18,4) e Efeso (At 18,19; 19,8). Un altro contesto missionario importante è la casa, specialmente quelle di Lidia a Filippi (At 16,15, 40), di Tizio Giusto a Corinto (18,7) e di un cristiano non identificato a Triade (20,7-11) e di parecchie persone a Efeso (20, 20). Altre case devono essere incluse, anche se Luca non vi fa menzione di attività missionaria: la casa di Giasone a Tessalonica (17, 5-6), di Aquila e Priscilla a Corinto (18, 3), di Filippo a Cesarea (21, 8), di Mnasone di Cipro, presumibilmente a Gerusalemme (21, 16-17) e forse quelle di parecchi altri (cfr. 16,34; 21, 3-5, 7).

Ulteriori segni che indicano la varietà dei contesti sociali nella missione di Paolo sono la residenza del proconsole di Cipro, Sergio Paolo  (13, 6-12), la porta della città in Listra (14, 7, 15-18), la scuola di Tiranno a Efeso (19, 9-10) e il pretorio a Cesarea (24, 24-26; 25, 23-27). Insomma, se la bottega era un contesto sociale per l’attività missionaria di Paolo, era solo uno dei tanti. 

IL PULPITO, LA PIAZZA E LA BOTTEGA  

La pratica dei filosofi sopra descritta può aiutarci a capire anche ciò che avveniva nella bottega di Paolo. Lo possiamo immaginare nelle lunghe ore al tavolo di lavoro mentre taglia e cuce le pelli per fare tende. Egli si rende autonomo economicamente, ma ha anche possibilità di portare avanti il suo impegno missionario (cfr. 1 Ts 2, 9). Seduti nella sua bottega troviamo i suoi compagni di lavoro o qualche visitatore, clienti e forse qualche curioso che aveva sentito parlare di questo « filosofo » tessitore di tende appena arrivato in città. In ogni caso sono tutti là ad ascoltare e a discutere con lui, che porta il discorso sugli dei ed esorta i presenti ad abbandonare gli idoli e a servire il Dio dei viventi (1, 9-10). In questo modo, certamente qualcuno degli ascoltatori, un compagno di lavoro, un cliente, un giovane aristocratico o forse anche un filosofo cinico, sarebbe stato curioso di sapere di più di Paolo, delle sue chiese, del suo Signore e sarebbe tornato per  un colloquio privato (2, 11-12). Da queste conversazioni di bottega alcuni avrebbero accolto le sue parole come Parola di Dio (2, 13).

Per Paolo, il missionario, quindi, il pulpito della sinagoga non bastava, ma usciva anche in piazza ed entrava nella sua bottega. « Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16).       

A CURA DELLA REDAZIONE

Il contesto storico 

Esaminiamo la pratica paolina nel contesto della vita intellettuale della Grecia orientale dei suoi tempi. Ad Atene, nel quinto e quarto secolo a. C., alcuni contesti specifici, inclusa la bottega, erano diventati normali per l’attività intellettuale ed ancora esistevano ai tempi di Paolo. Senofonte descrive Socrate mentre discute di filosofia in varie botteghe, tra cui quelle di un pittore, di uno scultore, di un fabbricante di armature. Platone menziona le bancarelle del mercato come abituale ritrovo di Socrate. Naturalmente la bottega non era il suo solo ritrovo: lo si poteva trovare in altre parti del mercato, come la stoà o altri edifici pubblici, nel ginnasio o nelle case di amici. In un certo senso la pratica di Socrate era tipica dei suoi giorni, data l’abitudine della gente di frequentare i negozi e i banchi del mercato. Ma, in un altro senso, l’abitudine di Socrate era molto atipica, non solo a causa dell’alto contenuto intellettuale delle sue conversazioni, ma anche per l’effetto limitato che questa sua pratica ebbe sui filosofi che lo seguirono. A giudicare da quanto riferisce Diogene Laerzio, i discepoli di Socrate non discutevano di filosofia nella bottega, anche se alcuni di essi da studenti lo avevano accompagnato, per esempio, alla bottega del sellaio. 

I seguaci di Socrate, scegliendo il ginnasio o altri edifici, praticavano una filosofia meno pubblica rispetto al loro maestro. Il numero delle persone che partecipava a queste discussioni nelle botteghe non poteva essere grande. Spesso erano solo in due, Socrate con Simone e Crate con Filisco. Gli argomenti trattati erano molti: dalle discussioni che riguardavano i commerci degli artigiani a temi più interessanti: gli dei, la giustizia, la virtù, il coraggio, la legge, l’amore, la musica, ecc.

Paolo, una vita offerta (traduzione, dal sito: Bible-Service)

dal sito:

http://www.bible-service.net/site/556.html

traduzione mia; questo studio l’ho sicuramente già letto in precedenza, non mi sembra di averlo già tradotto, cerco di tenere degli indici, ma non ci riesco, sono un po’ impasticciati;
per la traduzione ho utilizzato la Bibbia CEI, la versione francese della Bibbia è un po’ differente, forse il biblista ha fatto un traduzione lui o ne ha utilizzata una abbastanza diversa,  naturalmente il senso è lo stesso;

Paolo, una vita offerta

Non c’è alcun dubbio che l’incontro di Cristo sulla via di Damasco ha sconvolto la vita di Paolo. Attraverso il Cristo che egli perseguitava, e che si offriva (si presentava) a lui, Paolo ha scoperto in effetti, il vero viso di Dio che egli aveva sempre cercato. Riconoscendosi amato e salvato da quello stesso che egli perseguitava, egli ha fatto, come nessun altro, l’esperienza della grazia di Dio.

Da questa esperienza scaturirà l’attaccamento di Paolo alla persona di Cristo e un cambiamento radicale di vita. Lui, il fariseo zelante e il persecutore della fede cristiana, abbandonerà le sue certezze e le sue ricerche passate per afferrare colui che un giorno l’aveva preso: Gesù il Cristo. Perché niente altro conterà più oramai per lui (cfr Fil 3, 8-9). Perché egli è stato raggiunto sulla sua strada dall’amore redentore di Dio (Gal 2,20), egli ha scoperto che tutto ciò che considerava fino ad allora come un vantaggio (nascita nel popolo della promessa, appartenenza alla corrente farisaica, conoscenza ed osservanza dei precetti della Legge, ecc.), non era niente in confronto alla conoscenza di Gesù Cristo morto e risorto. Allora egli correva dietro ad una salvezza incerta, alla misura dei suoi sforzi e del suo orgoglio, egli ha compreso che la Legge di Mosè non poteva più essere il primo referente della sua esistenza. Egli ha anche compreso che Dio, risuscitando Gesù, aveva avuto ragione dell’uso che si faceva della Legge. In breve, il Dio di cui aveva fatto esperienza sul cammino di Damasco non era più il Dio della Legge, ma il Dio del Crocifisso.

Questo rovesciamento dell’immagine di Dio chiarisce la comprensione che Paolo aveva oramai della croce, come uno dei luoghi più importanti della Rivelazione divina (cfr. 1Cor 1,18-31). Alla luce della croce Paolo comprenderà in effetti che la onnipotenza di Dio si mostra nella fragilità più estrema. Meglio, egli comprenderà che lontano dall’essere tirannico e solitario, Dio si fa solidale a ciascun essere umano, accogliendolo e amandolo per se stesso, indipendentemente dai meriti o dai peccati della appartenenza etnica o dal sesso, del ruolo nella società o nella comunità religiosa.

Trasformato sulla via di Damasco

Di tutti gli avvenimenti della sua vita movimentata  Paolo conserverà come fondamentale quello del suo incontro con il Cristo sulla via di Damasco.

Sulle circostanze precise di questo incontro con il Cristo, Paolo, a differenza di Luca, (cfr At 9, 22; 26) è molto discreto. Egli evoca nella 1Cor 15, 8-10 una apparizione personale del risuscitato, ma ne fa il racconto solamente nella Lettera ai Galati. Paolo invia questa lettera verso l’anno 56 o 57. Egli viene a sapere che i Galati, popolazione dell’Asia Minore, avevano abbandonato il Vangelo che egli aveva loro annunciato e che erano ritornati alle loro pratiche passate. Peggio, spinti dai giudaizzanti, essi sembrano mettere in causa la sua autorità apostolica. Davanti alla gravità della situazione Paolo scrive. Egli racconta come, sul cammino di Damasco, da fariseo-persecutore della Chiesa, egli è diventato apostolo di Cristo: « Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di e, mi recai in Arabia… » (Gal 1, 13-17).

« Si compiacque di rivelare a me suo Figlio »
(nella versione francese, ossia nel titolo, più esattamente: « Egli ha giudicato bene di rivelare in me suo Figlio »)

Una parola è da sottolineare: rivelare. Più che la parola conversione, essa riassume bene la natura profonda dell’incontro di Paolo con il Cristo: è una rivelazione che proviene dalla libera scelta di Dio. Per lui: « Dio ha tolto il velo che gli impediva di vedere la sua gloria (di Dio) sul volto di Gesù » (P. Bony). Gli ha donato di comprendere che colui che egli perseguitava non era, come egli credeva, maledetto da Dio, ma era suo Figlio, un Figlio perfettamente obbediente che ha elevato al rango di Signore dell’Universo (cfr. Fil 2, 8-11).

Incontrando il Cristo sulla via di Damasco Paolo si è visto rivelare il senso profondo della croce come luogo dell’amore estremo di Dio e manifestazione della sua onnipotenza. In questo incontro con Colui che: « mi ha amato e ha dato e stesso per me » (Gal 2,20), egli ha compreso che la Legge di Mosè non poteva dargli la salvezza alla quale egli aspirava con tutte le sue energie. Egli ha preso coscienza della vacuità di tutto quello che cercava fino a che: « Tutto quello che poteva essere un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di cristo » (Fil 3,7). Infine, poiché a lui era stato rivelato che la Passione era l’espressione perfetta dell’amore del Cristo per suo padre e per l’umanità, in questa egli ha deciso che non cercherà mai di cercare:  » Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso. » (1Cor 2, 2 cfr. Gal 2,20).

« Perché lo annunziassi in mezzo ai pagani » (Gal 1,16)

Alla grazia della rivelazione sul cammino di Damasco se ne aggiunge una seconda: quella dell’annunzio. Paolo stesso lo riconosce: attraverso la sua grazia, Dio l’ha messo a parte, dal seno di sua madre, per inviarlo ad annunziare suo Figlio (cfr. Gal 1,16). Se Paolo è divenuto credente ed apostolo lo deve, dunque, alla pura e gratuita iniziativa di Dio che gli ha rivelato suo Figlio e l’ha chiamato a testimoniare, l’lui l’ « aborto » (1Cor 15, 8). La missione che gli è stata affidata non è legata né ad una sua decisione personale, né a qualunque iniziativa umana, ed ancora meno alla sua formazione o al suo comportamento. Essa è un dono gratuito di Dio. Di questo dono Paolo non cesserà mai di meravigliarsi: « Io infatti sono l’infimo degli apostoli e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. » (1Cor 15, 9-10).

Una volta ancora è bene notare l’insistenza di Paolo sulla grazia, tre volte nominata in questi tre versetti. Perché questa esperienza fondatrice della grazia divina totalmente immeritata è all’origine della maniera nella quale Paolo percepisce il suo ministero apostolico: è un dono di Dio nel quale la potenza divina – quella stessa che aveva risuscitato Gesù Cristo – si è mostrata comunicandogli una forza che lo rende oramai capace di tutte le audacie. Tutta la vita di Paolo sarà attraversata da questa tensione tra la grandezza della missione che gli è stata conferita e la sua debolezza che non cesserà mai di esperimentare, nel tesoro prezioso che egli ha ricevuto e il « vaso di argilla » che egli è (2Cor 4,7).

Questa tensione, come egli scriverà spesso, gli eviterà di inorgoglirsi. Essa lo condurrà ad approfondire il mistero della potenza di Dio che offre (in francese più esattamente: evidenzia) la sua misura nella debolezza dei suoi ministri: « Ed egli mi ha detto : < Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza>…perché dimori in me la potenza di Cristo » (2Cor 12,9)

PER COMPRENDERE LA TEOLOGIA DELL’APOSTOLO PAOLO: II. GERUSALEMME (GLI STUDI E LA PREGHIERA)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/jeremias_comprendere_paolo2.htm

JOACHIM JEREMIAS


PER COMPRENDERE LA TEOLOGIA DELL’APOSTOLO PAOLO

MORCELLIANA 1973
Titolo originale dell’opera: Der Schlüssel zur Theologie des Apostels Paulus
trad. di Guido Stella


II. GERUSALEMME (GLI STUDI E LA PREGHIERA)

I. TARSO     

(gli altri studi: III. ANTIOCHIA IV. DAMASCO)

Paolo proviene da una pia famiglia ebrea. Era un dovere per i genitori israeliti ammaestrare i loro figli fin dall’ età di cinque anni nella lettura della Sacra Scrittura (10). L’eccellente scienza biblica dell’ Apostolo, il quale (come occasionali divergenze dal tenore del testo fanno trasparire) ha attinto dalla memoria le sue numerose citazioni bibliche, rende molto probabile il fatto che suo padre abbia adempiuto al proprio dovere e lo abbia educato sin da piccolo nella lettura e nella conoscenza della Sacra Scrittura. Da ciò deriva anche un’ulteriore osservazione. Paolo cita l’A. T. il più delle volte secondo la traduzione greca (Settanta). Ciò è molto strano in quanto egli, nella sua comprensione della Scrittura, e principalmente (come possiamo accertarcene) nel suo metodo esegetico, era legato alla scuola scuola teologica palestinese, non a quella ellenistica.

Il prendere in considerazione solo la sua comunità che parlava il greco non spiega affatto la sua preferenza per i Settanta, perché la conoscenza d’essi per questo è in lui troppo profonda. La familiarità di Paolo con il testo greco della Bibbia dovette piuttosto essergli procurata fin da piccolo dalla famiglia e dalla Sinagoga ellenistica (11).
Benché i genitori appartenessero alla diaspora ebraica, essi si preoccuparono che il figlio, accanto alla lingua .greca, imparasse anche quella dei suoi antenati, l’ebraico; lo afferma espressamente Paolo quando si dichiara (Fil 3, 5): « ebreo, discendente da ebrei ». Concorda con ciò il fatto che le citazioni bibliche dell’ Apostolo fanno vedere come egli fosse in possesso di più lingue: accanto all’uso dei Settanta, esse rivelano spesso la conoscenza del testo originale.

Nella sua famiglia, si pregava. Egli menziona spesso la preghiera prima e dopo i pasti come qualcosa di assolutamente naturale per lui (1 Cor 10, 30; Rom 14, 6; 1 Tim 3, 4 s.). E quando assicura le sue comunità che egli « continuamente» ringrazia Dio a loro riguardo (1 Tess 1, 2; 2 Tess 1, 3; 2, 13; 1 Cor 1, 4; Filem 4; Col 1, 3; cfr. 2 Tess 1, 11; Rom 1, 10; Fil 1, 4), «incessantemente» facendo menzione di loro a Dio (1 Tess 1, 2 s.; 2, 13; Rom 1, 9), con questo non afferma, poniamo, (come occasionalmente si è frainteso) che tutta la sua vita è un’incessante intercessione, ma egli parla invece dell’intercessione che compie nelle sue preghiere regolari. Sin da piccoli, i ragazzi delle famiglie farisee venivano educati a recitare ,tre volte al giorno – al mattino dopo essersi alzati dal letto, nel pomeriggio alle tre, all’ora del sacrificio quotidiano nel tempio, ed alla sera prima di coricarsi – la grande preghiera di lode (chiamata in seguito la preghiera delle 18 benedizioni), che comincia con le parole: «Sii lodato, Signore, nostro Dio e Dio dei nostri padri, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe » e Paolo, anche da cristiano, con altissima probabilità, ha sottolineato la pratica dei tre momenti di preghiera. La « Dottrina degli Apostoli» (Didaché), un breve ordinamento della comunità primitiva cristiana che risale nel suo nucleo fondamentale al primo secolo, prescrive che sia recitato tre volte al giorno il Padre Nostro (Didaché, 8,3). Anche Paolo può essersi comportato cosi, immettendo un’ nuovo contenuto nell’uso antico.

L’educazione alla preghiera non fu la sola eredità spirituale di cui Paolo dovette ringraziare i suoi genitori. Sul piano religioso, Paolo ha ricevuto dalla sua famiglia la fede biblica in un Dio personale, la consapevolezza dell’onnipotenza sovrana di Dio (Rom 9-11), della serietà delle esigenze poste da lui e del suo giudizio (1, 18-3, 20), l’importanza fondamentale dell’ adorazione di Dio (4, 20), questa e molte altre cose.
Quando Paolo in Gerusalemme si aggregò ai Farisei (Fil 3, 5), su questa decisione aveva influito, accanto all’esempio del suo maestro Gamaliele, l’esempio della casa paterna; secondo gli Atti degli Apostoli (23, 6) già suo padre e il nonno erano stati Farisei. Questi ultimi costituivano una associazione di pii laici studiosi della Bibbia, i cui membri si impegnavano solennemente, alla fine di un periodo di prova, ad adempiere nel modo più scrupolo so il precetto delle decime e quello della purità legale, spesso trascurati dal popolo. Il loro numero, relativamente ristretto – 6000 secondo Giuseppe Flavio – fa comprendere che la severità degli impegni allontanava molti. Paolo invece è stato attratto ai Farisei proprio da essa; nessuno doveva superarlo in coscienziosità (Gal 1, 14).
Dopo aver scelto la sua strada, ciò che secondo noi avvenne nella sua prima giovinezza (12), Paolo si risolse per lo studio della teologia. Secondo la relazione degli Atti (22, 3), egli scelse il suo maestro nella persona di Gamaliele I, il quale «era amato da tutto il popolo» (At 5, 34) ed al quale i posteri elevarono un monumento ideale con questo giudizio: «Con la morte di Gamaliele venne meno la venerazione per la Sacra Scrittura, e vennero meno la purezza e la sobrietà» (13). Secondo la sua tendenza teologica, Gamaliele era discepolo di Hillel, il famoso dottore di teologia del tempo immediatamente prima di Cristo, il cui insegnamento si situa all’incirca vent’anni prima di Gesù, anche lui molto venerato dal popolo, perché il suo grande sapere si accompagnava ad una bontà e pazienza addirittura proverbiali.

La conclusione normale dello studio era l’ordinazione, che aveva luogo verso i 25-30 anni (14). Che Paolo fosse ordinato, lo precisano gli Atti, quando narrano che era stato inviato a Damasco con i pieni poteri del Sinedrio (9, 1 s; 22, 5; 26, 10); sappiamo che questi inviati con l’autorizzazione della più alta autorità giudaica erano persone di alto rango.

Le lettere dell’ Apostolo completano la testimonianze degli Atti sulla formazione e cultura teologica di Paolo. Mostrano come in esse la penna sia guidata da una persona che possiede in maniera sovrana il metodo esegetico della teologia giudaica di allora; nelle sue lettere troviamo così delle sottigliezze come « la collana di perle» (Rom 15, 9-12: abbiamo una serie di passi biblici sulla base di un termine di richiamo, in questo caso «pagani ») e la « spiegazione a catena» ( 15) (di Dt 30, 12-14 in Rom 10, 6-9), l’esegesi tipologica ( 16) (1 Cor 10, 1 ss.; Gal 4, 21-31; Rom 9, 13) e quella allegorica ( 17) (1 Cor 9, 9 s.) dell’Antico Testamento; inoltre il ricorso al silenzio della Scrittura (argumentum e silentio: per esempio, Rom 4, 6 sine operibus è aggiunto per il fatto che nella citazione del versetto 7 non si parla di opere) come pure anche l’argumentum e contrario,. il quale da un passo scritturistico fa emergere la proposizione antitetica. Ecco due esempi a questo riguardo:all’affermazione della Bibbia « ogni uomo è un mentitore» (Salmo 116, 11), Paolo contrappone la affermazione «Dio è veritiero» (Rom 3, 4); la parola del profeta Isaia che Dio parlerà « in altra lingua », senza trovare fede (ls 28, 11 s.), offre a Paolo la possibilità di affermare l’inverso: secondo la Scrittura, il dono delle lingue è un segno non per quelli che credono, ma per gli increduli; la profezia invece non è per gli increduli, ma per quelli che credono (1 Cor 14, 22), un aspro richiamo per gli entusiasti di Corinto a non sovraesaltare la glossolalia.
Le lettere dell’ Apostolo non fanno soltanto sapere che il loro autore possiede magistralmente il metodo dell’ esegesi biblica giudaica, ma anche che egli era formato nella teologia del rabbi Hillel; abbiamo qui una luminosa conferma dell’ affermazione contenuta negli Atti, che Gamaliele scolaro di Hillel era il suo maestro (At 22, 3). Dal numeroso materiale (18), ricaviamo soltanto un esempio: le norme esegetiche. L’importanza di Hillel consiste non per ultimo nel fatto che egli ha stabilito su di una nuova base tutta l’interpretazione della Bibbia, perché egli ha fissato sette norme per 1′esegesi. Queste norme godevano di tale considerazione che sono state accolte, aumentate a tredici (19), con tutta serietà in parecchi punti, nella preghiera quotidiana del mattino.

Di queste norme di Hillel, in Paolo ne troviamo non meno di cinque. Ricordo le prime due. La prima norma consisteva nell’argomentazione dal minore al maggiore (a minori ad maius), il cui uso a mo’ di formula fissa è ancora del tutto sconosciuto nell’Antico Testamento. Paolo se ne serve ripetutamente (Rom 5, 15.17; 11, 12; 2 Cor 3, 7 s. 9.11). Ma Hillel non aveva compreso sotto questa regola soltanto l’argomentazione a minori ad maius ma anche quella del passaggio a maiori ad minus. Ritroviamo anche questa in san Paolo: la sua argomentazione contenuta in Rom 5, 6-9.10; 8, 32; 11, 24; 1 Cor 6, 2 s. si comprende quando ci si rende conto che Paolo non segue il procedimento a minori ad maius, ma il contrario. Prendiamo l’esempio di Rom 5,6-10. Dio ci ha donato, afferma Paolo, un amore semplicemente incomprensibile: Cristo ha dato la sua vita per noi, sebbene fossimo dei peccatori e senza Dio. Non è forse una luminosa evidenza che noi, in quanto resi giusti e riconciliati con Dio, saremo salvati da Lui nell’ultimo giudizio?
La seconda norma consisteva nella deduzione per analogia. La regola si esprime così: quando un termine compare più volte nella Bibbia, allora un passo biblico illumina l’altro. In Rom 4, 1-2 Paolo si serve in un contesto importante della deduzione per analogia. Egli vuole dimostrare che la giustificazione dipende soltanto dalla fede e non ha nulla a che vedere con le opere e si richiama al passo di Gn 15,6: «Abramo credette a Jahvè che glielo imputò come giustizia ». Che cosa significa, domanda Paolo, «Dio imputa (a giustizia) la fede»? La risposta, afferma Paolo, deriva dal fatto che il termine «imputare» appare di nuovo in un altro contesto della Sacra Scrittura, nel Salmo 32, al versetto 1 ss.:

Felice quegli cui è rimessa la colpa,
coperto il peccato!
Felice l’uomo cui non imputa
Jahvé delitto.

In questa espressione del Salmo, il vocabolo « imputare» è usato nel senso di perdonare. La deduzione per analogia insegna in tal modo che « imputazione della fede» (Gn 15, 6) equivale a «non imputazione del peccato» (Salmo 32, 1 s.). In altri termini. giustificazione significa perdono, nient’ altro che perdono. Una nozione di fondamentale importanza, anche se raggiunta con l’ausilio di un metodo esegetico per noi inusitato.
Vediamo come la vita interiore di Paolo e tutta quanta la sua teologia siano profondamente radicate nella pietà e nella teologia giudaiche. È, evidente che non possiamo pensare a lui senza tener conto della sua appartenenza al giudaismo. Ma però anche Gerusalemme non è la chiave per la teologia paolina. Dopo tutto, Paolo era cristiano!

[10] «Con 5 anni per la (Sacra) Scrittura », Sentenze dei Padri (Pirqé Avoth) 5, 21.
[11] Le sinagoghe servivano anche come edifici scolastici. Inoltre era d’uso ed era titolo di merito il portare con sé i fanciulli ai servizi di culto della Sinagoga. Non solo nella Sinagoga di Tarso, ma anche a Gerusalemme, Paolo ha studiato i Settanta. Infatti, molto parla in favore dell’ipotesi che a Gerusalemme i genitori si siano aggregati alla Sinagoga ellenistica, ricordata dagli Atti (6,9) nel contesto della narrazione su Stefano, e le cui fondamenta, secondo la testimonianza di un’epigrafe in greco sono state trovate sull’Ofel, quindi a sud della piazza del tempio. Da un lato cioè sappiamo che i giudei della diaspora immigrati dalla Cilicia appartenevano a questa Sinagoga (At 6,9); dall’altro forse anche il passo di Atti 7,58 allude a rapporti di Paolo con questa Sinagoga che anche Stefano frequentava. H. LIETZMANN si esprime con molta fiducia: «Un uomo…, che apparteneva alla Sinagoga della Cilicia [in Gerusalemme] e che era cittadino romano, noi lo conosciamo: Paolo di Tarso» («Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft» 20, 1921, p. 172).
[12] «Con 10 anni per la Mishna (= per lo studio del diritto tradizionale), con 15 anni per il Talmud (= per la discussione sopra la Mishnà) », Sentenze dei Padri, 5, 21.
[13] Trattato della Mishna sull’adultera (Sota), 9, 15.
[14] Cosi era comunque per gli Esseni: «Giudice della comunità… nell’età dai 25 anni fino ai 60 anni» (Scritto di Damascò, 10, 4-7). «E quando ha raggiunto l’età di 30 anni, può accedere al tribunale, dirigere un processo e pronunciare sentenze e prendere posto… tra i giudici ed i capi del popolo »(I QSa 1, 13-15).
[15] Spiegazione continuata del testo.
[16] Interpretazione del testo che, negli avvenimenti della storia sacra, vede rappresentazioni anticipate Ci ciò che accadrà alla fine dei tempi. L’esegesi tipologica era praticata soprattutto in Palestina.
[17] Il significato letterale del passo biblico viene fatto retrocedere a favore di un significato più profondo. L’interpretazione allegorica, che era molto praticata nelle scuole giudeo ellenistiche, in Paolo ricorre solo in questo testo.
[18] Per una trattazione più vasta, cfr. J. JEREMIAS, Paulus als Hillelit, Neotestamentica et Semitica, Festschrift für M. Black, Edinburgh 1969, pp. 88-94.
[19] H. L. STRACK, Einleitung in Talmud und Midrasch, München 1921 (5), p. 99.

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