Archive pour la catégorie 'Paolo – approfondimenti sulla sua persona'

Il “Codex Pauli”, il più grande tributo all’Apostolo delle Genti

dal sito:

http://www.zenit.org/article-20938?l=italian

Il “Codex Pauli”, il più grande tributo all’Apostolo delle Genti

Verrà presentato in Campidoglio il 13 gennaio prossimo

ROMA, venerdì, 8 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Un’opera monumentale, unica nel suo genere, concepita sullo stile degli antichi codici monastici ed arricchita da una minuziosa selezione di fregi, miniature e illustrazioni, provenienti da manoscritti di datazione diversa dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura. Si tratta del “Codex Pauli”.

L’opera, un tomo unico di 424 pagine di alto valore ecumenico, è dedicata a Benedetto XVI, che ha indetto le celebrazioni per il bimillenario della nascita di san Paolo. La tiratura è limitata a 998 copie numerate.

Per il Codex Pauli è stato creato, inoltre, il font originale “Paulus 2008”, che rispecchia la grafia dell’amanuense della Bibbia Carolingia (IX sec.).

L’opera verrà presentata in Campidoglio, presso la Sala della Protomoteca, il 13 gennaio prossimo alle ore 17:30, in preparazione alla Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani (18-25 gennaio).

Saranno presenti, tra gli altri: il Cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, Arciprete emerito della Basilica di San Paolo fuori le Mura; l’Arcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura; l’Archimandrita Mtanios Haddad, Apocrisario di Sua Beatitudine Gregorios III Laham, Patriarca melkita d’Antiochia e di tutto l’Oriente; padre Edmund Power, Abate di San Paolo fuori le Mura; e il senatore Sandro Bondi, Ministro per i Beni e le Attività culturali. Modererà il giornalista responsabile di Rai Vaticano Giuseppe De Carli.

Il Codex Pauli ospita i contributi inediti, appositamente preparati, del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I; del Patriarca di Mosca e di Tutte le Russie, Kirill; di Gregorios III Laham; del dr. Rowan Williams, Primate della Comunione Anglicana; del dr. Eduard Lohse, Vescovo emerito della Chiesa Evangelica di Hannover; e di molti altri.

L’opera si apre con un’articolata parte introduttiva, organizzata secondo alcune sezioni.

Nella prima, Annus Pauli, viene ripercorsa l’avventura dell’Anno dedicato al bimillenario della nascita dell’Apostolo. Ne sono testimoni privilegiati i Cardinali Tarcisio Bertone, Ennio

Antonelli, Raffaele Martino, Jean Louis Tauran, Jozef Tomko, Antonio Rouco Varela, André Vingt-Trois e Walter Kasper.

Nella sezione Roma Pauli viene ripercorsa la ricca tradizione spirituale, liturgica e artistica dei monaci benedettini, che da tredici secoli custodiscono il sepolcro di san Paolo sulla via Ostiense.

Evangelium Pauli è il titolo della terza parte, che presenta la figura e il messaggio del grande Apostolo in dialogo con le culture e con la sensibilità dei nostri giorni. Il Cardinal Kasper legge san Paolo tra Est ed Ovest; il dottor Antonio Paolucci lo ricolloca tra le radici cristiane dell’Europa; il professor M.D. Nanos lo rapporta con l’ebraismo, il professor D.A. Madigan con l’Islam. Ma molti altri sono gli approfondimenti: san Paolo come cosmopolita, viaggiatore, missionario, apostolo, e modello di dialogo interreligioso.

Nell’ultima parte, Vita Pauli, si affronta l’interrogativo sull’identità di Saulo/Paolo dopo duemila anni di interpretazione, esaltazione, avversione, strumentalizzazione dell’Apostolo e del suo messaggio.

Sfogliando le pagine del Codex, il Paolo di ieri, presente con il testo originale greco, ci raggiunge attraverso la traduzione in lingua corrente. Accanto al corpus paulinum integrale, comprendente le tredici Lettere dell’Apostolo, l’opera offre anche il testo italiano-greco degli Atti degli Apostoli e della Lettera agli Ebrei.

Un’ultima sezione raccoglie un’accurata selezione dei poco conosciuti Apocrifi riguardanti Paolo (Atti di Paolo; Lettere di Paolo e dei Corinzi; Martirio del santo Apostolo Paolo; Atti di Paolo e Tecla; Lettera ai Laodicesi; Corrispondenza tra Paolo e Seneca; Apocalisse di Paolo).

Ogni singolo testo si apre con una presentazione curata dai più noti esegeti di san Paolo e si conclude con una pagina di Lectio divina, secondo la millenaria tradizione monastica.

La presentazione e le introduzioni agli scritti paolini sono di mons. Gianfranco Ravasi, affiancato da autorevoli studiosi, biblisti e teologi, quali il cardinale Carlo Maria Martini, Romano Penna, Rinaldo Fabris, Primo Gironi, Antonio Pitta, Stefano Romanello, Giuseppe Pulcinelli, Paolo Garuti e Marco Valerio Fabbri.

“Il Codex Pauli – spiega padre Edmund Power nella presentazione – è primariamente un atto di venerazione alla Parola di Dio. È la Parola che dà la vita. Questo libro trae la propria ispirazione dalla figura del Dottore delle Genti, figura complessa e spiccata, incapace di nascondersi: le sue Lettere, le sue parole, mostrano in maniera eloquente la sua personalità energica e dinamica”.

“Un uomo che sa essere ironico, perfino sarcastico, eppure mai privo di una parte affettuosa, ispirata, maestosa, che ci fa vedere in lui un uomo ‘ossessionato dal Cristo’ – spiega –. Così anche il corpus del Codex Pauli è un magma di creatività umana, da cui scaturiscono bellezza e amore”.

“Secondo la tradizione monastica, l’arte è lo sforzo d’incarnare una visione interiore ricorrendo alla forma espressiva di una Bellezza in se stessa inesprimibile – continua l’Abate di San Paolo fuori le Mura –. Non tutti riescono a percepirla chiaramente: ecco perché l’opera artistica cerca di spingere ciascun contemplante a orientarsi verso l’unico Dio, quale fonte di ogni bellezza”.

“Chi cerca e ama la bellezza mediante il linguaggio dell’arte si indirizza verso il Divino – sottolinea –. Quest’opera si propone lo stesso fine”.

[Per maggiori informazioni: www.codexpauli.itpaolo.pegoraro@codexpauli.it]

di Giuseppe Betori – Arcivescovo di Firenze: La figura di San Paolo nel libro degli Atti:

dal sito:

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/75/2009-05/30-32/09.22%20%20Clero%20toscano%20%20Nomadelfia%2021.05.09.doc

di Giuseppe Betori – Arcivescovo di Firenze

La figura di San Paolo nel libro degli Atti:
il convertito chiamato, l’evangelizzatore fondatore di Chiese, il testimone perseguitato

Nomadelfia, 21 maggio 2009
Incontro del clero toscano

0. Premessa

Mi è stata chiesta una riflessione su san Paolo e ho voluto limitarla al terreno biblico che ho più frequentato, cercando quindi di delineare la sua figura così come emerge dal libro degli Atti. È infatti ormai assodato che la figura di Paolo a noi consegnata dalla tradizione si compone di tre approcci, che corrispondono probabilmente a tre diverse situazioni ecclesiali legate all’eredità dell’apostolo. La prima linea è quella riflessa nel corpo delle lettere paoline e ci offre i suoi scritti come canone della sua dottrina in rapporto alla vita delle Chiese. La seconda è quella che trae dalla sua dottrina l’alimento per una riflessione teologica che si allarga alle nuove situazioni della Chiesa delle seconda generazione, ed è espressa nelle cosiddette lettere deuteropaoline, La terza linea, che in termine improprio si suole chiamare biografica, è quella attestata dagli Atti, dove è la figura stessa di Paolo che viene celebrata nella sua opera missionaria all’interno di una esposizione narrativa dell’identità della Chiesa che si misura con la sua vocazione evangelizzatrice, anche qui avendo come riferimento la situazione ecclesiale della seconda generazione cristiana.
Su questa terza linea concentreremo la nostra attenzione, nella consapevolezza che essa non esaurisce certamente la personalità di Paolo e il suo ruolo nella Chiesa dei primi tempi e, in secondo luogo, che essa è stata positivamente costruita prescindendo dalle altre due linee, non si sa se non conosciute o volutamente messe da parte in un’ottica alternativa, perché legata a condizioni ecclesiali diverse. La lettura che pertanto faremo del Paolo degli Atti non si avvarrà di quanto potrebbe essere aggiunto dalla letteratura paolina e deuteropaolina, perché così Luca ha voluto, chiedendoci implicitamente di considerare il suo approccio a Paolo nella cornice della sua opera in due volumi.
E qui emerge la necessità di vedere nella figura e nella vicenda di Paolo un tassello di un disegno più vasto che, come Luca stesso ci dice, ha lo scopo di dare « solidità » (asfàleia) – una certezza fidata che dà fondamento – alla fede dei cristiani, mediante un « resoconto ordinato », una narrazione coerente degli eventi riguardanti Gesù di Nazaret, nella sua vita tra noi e poi nella diffusione della Parola che lo testimonia mediante la Chiesa. Il tutto ha lo scopo di contribuire a costruire l’identità cristiana nel passaggio dal giudaismo, da cui la comunità delle origini proviene, al mondo romano in cui si sta creando il suo ambiente futuro. In una prospettiva ancora più interna, potremmo parlare anche del passaggio dalla « traditio apostolica » nel suo instaurarsi al tempo sub-paolino, tra prima e seconda generazione cristiana, a cui il libro di Luca si rivolge. E in questo la persona di Paolo viene assunta come figura emblematica, in quanto vettore attraverso il quale l’identità cristiana giunge al suo compimento.
Per questo l’attenzione di Luca si concentra dapprima sul fondamento della sua missione e cioè sull’evento della sua conversione-chiamata, poi sulla sua attività di fondatore di comunità in quello che potremmo definire il « nuovo mondo » del cristianesimo nascente, infine nella sua vicenda umana di testimone perseguitato, assimilato alla passione del suo Signore. Su questi tre registri in cui si articola la narrazione degli Atti soffermiamo in successione la nostra attenzione.

1. Paolo, il convertito-chiamato

L’importanza che l’evento della conversione-chiamata di Paolo ha per definire la sua identità secondo Luca è evidente fin dal fatto che esso viene narrato negli Atti per ben tre volte (At 9; 22; 26). La ricerca biblica classica era preoccupata essenzialmente di concordare tra loro, dal punto di vista storico, le diversità delle tre narrazioni. Se questo poteva rispondere a preoccupazioni di credibilità del testo scritturistico, di fatto però si impediva di valorizzare il contenuto teologico delle narrazioni. Su questo, per noi più importante, versante ci indirizza invece la recente critica narrativa, a cui ci affidiamo per trarre alcune considerazioni. Suo tramite infatti possiamo meglio cogliere le intenzionalità dell’autore degli Atti alla luce delle diversità delle tre narrazioni e del loro inserimento nella strategia narrativa dell’opera. Il racconto di At 9 presenta la vicenda nella successione di questi elementi: l’azione persecutoria di Saulo (vv. 1-2), la cristofania (vv. 3-9), la visione di Anania (vv. 10-19a), Saulo evangelizzatore perseguitato a Damasco e a Gerusalemme (vv. 19b-30). Rispetto a questa articolazione, la narrazione di At 22 offre queste variazioni: aggiunge l’autopresentazione di Paolo come giudeo (v. 3), si amplifica la sua azione persecutoria (vv. 4-5), la cristofania è ripetuta con leggere variazioni interne (vv. 6-11), è eliminata la visione di Anania, l’incontro di Paolo con Anania è ripetuto ma con significative variazioni (vv. 12-16), è aggiunta la visione di Paolo nel tempio in cui il preannuncio del rifiuto della testimonianza resa da Paolo sostituisce quanto nel primo racconto era detto a riguardo della sua attività di annunciatore perseguitato(vv. 17-21). E giungiamo al racconto di At 26, dove abbiamo nuove variazioni: un’ulteriore amplificazione del passato giudaico di Paolo rispetto a At 22 (vv. 4-6), l’aggiunta del motivo per cui ora Paolo è sottoposto a giudizio (vv. 6-8), l’ulteriore amplificazione della sua attività di persecutore (vv. 9-11), la ripetizione della cristofania con alcune variazioni (vv. 12-15), la cancellazione totale del ruolo di Anania e l’affidamento del mandato missionario direttamente da parte del Risorto (vv. 16-18), l’amplificazione rispetto ad At 9 dell’azione di annunciatore perseguitato (vv. 19-21), l’aggiunta della sua attuale testimonianza in conformità alle profezie messianiche (vv. 22-23). Alla luce di questo confronto è possibile far risaltare l’ottica di ciascuno dei tre racconti. Cominciando da quello di At 9, non è difficile scorgere in esso l’intenzione di presentare un resoconto obiettivo di quanto accaduto, sostenuta dalla posizione del narratore che si esprime in terza persona e si presenta come « onnisciente » a riguardo dei personaggi e delle azioni: egli domina eventi che accadono in luoghi distanti, ne conosce le motivazioni e le finalità, gli antecedenti rispetto agli stessi fatti che avvengono. Egli, pur presentandosi come un cristiano, si presenta al lettore con il massimo grado di credibilità e affidabilità circa ciò che narra, avendo quindi come scopo precipuo che il lettore prenda notizia dell’evento e sia certo che il persecutore è diventato evangelizzatore, ma anche che l’attuale evangelizzatore era prima un persecutore, e che il cambiamento è avvenuto in forza di un intervento divino, in cui però è stata fondamentale anche la mediazione ecclesiale, assicurata prima da Anania e poi da Barnaba. Il processo di conversione non è quindi il frutto della decisione umana di Saulo, ma l’esito di un’agire divino che ha manifestato in lui la sua potenza, capace di rendere nuove tutte le cose, anche di capovolgere il senso della vita di una persona. Altrettanto importante è tuttavia il fatto che quest’azione divina incrocia la collaborazione umana in esponenti rilevanti della comunità credente, per cui il pieno senso del cambiamento-vocazione si rivela a Paolo solo per la mediazione di Anania e giunge alla sua prima realizzazione solo con l’aiuto di Barnaba. Se dunque la chiamata di Paolo avviene per iniziativa e opera del Risorto, essa però si concretizza attraverso la mediazione della Chiesa. Potremmo anzi dire che proprio in una manifestazione così carismatica quale quella della conversione-vocazione di Paolo si evidenzia il ruolo insostituibile della Chiesa, come strumento di salvezza e luogo della testimonianza. La prospettiva cambia sensibilmente con At 22, già a partire dal fatto che ora il narratore della vicenda è Paolo stesso, quindi l’evento è proposto in un’ottica autobiografica e in uno sguardo retrospettivo. Non si insegue più l’oggettività del fatto, ma, essendo il narratore un attore dell’evento, qui si vuole comunicare la sua esperienza soggettiva. E, nel caso specifico di At 22, il contesto giudaico del discorso di difesa che Paolo sta facendo nel tempio, dove è stato arrestato, specifica ulteriormente questa soggettività, come il punto di vista di Paolo che vuole mostrarsi quale giudeo fedele, ora perseguitato proprio a causa della sua fedeltà alla religione giudaica. Lo scopo del racconto è presto detto: mostrare che non c’è soluzione di continuità tra il giudeo zelante e il testimone universale di Cristo. Se Saulo aveva potuto interpretare tale zelo come ostilità verso la comunità nata dal Risorto, non venendo meno a tale zelo, ma proprio in fedeltà ad esso, ha potuto cogliere con maggiore chiarezza la volontà di Dio e ora si trova ad annunciare ciò che prima aveva perseguitato. La fedeltà all’Israele biblico, che il Paolo degli Atti rivendica, si inserisce nella visione complessiva del rapporto tra Chiesa e Israele nell’ottica lucana, un rapporto in cui le ragioni della continuità sono fortemente sottolineate, così da escludere una concezione della Chiesa come il « nuovo » Israele che soppianterebbe l’antico, come pure quella della Chiesa come il « vero » Israele che si opporrebbe a un falso o falsificato popolo di Dio. La Chiesa in Luca si colloca piuttosto sulla linea dell’adempimento delle promesse messianiche di cui Israele resta depositario, quelle stesse promesse che preannunciavano l’apertura della salvezza a tutte le genti. La continuità non è ovviamente senza scarti, e lo scarto è costituito dalla persona di Gesù, in cui la Chiesa riconosce l’adempimento delle promesse e che non a caso costituisce la figura centrale della vicenda umana di Paolo, nella sua trasformazione da persecutore a annunciatore perseguitato.  Ancora diverso è l’orizzonte in cui si muove il racconto di At 26, dove pur restando la prospettiva autobiografica, lo sguardo si sposta però dalla radice, cioè dal rapporto di Paolo con quello che resta il suo popolo, al frutto, vale a dire agli esiti della sua missione. L’angolazione infatti in cui l’evento della conversione-chiamata è riletto in At 26 è quello di Paolo testimone universale del Risorto. Dalla strada di Damasco prende avvio, in tale ottica, un percorso che porta Paolo coerentemente verso i confini della terra, in adempimento a una parola del Signore che non solo si era rivelata a lui fin dalla chiamata – anticipando sulla via di Damasco contenuti che la narrazione di At 9 aveva messo in bocca ad Anania e At 22 aveva ribadito e aveva poi ripetuto nella successiva visione nel tempio -, ma che costituiva una parola affidata dallo stesso Risorto già agli apostoli prima della sua ascensione al cielo: « Riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra » (At 1,8), un programma missionario che trova per l’appunto il suo completo adempimento solo nell’azione di Paolo. Vocazione e missione in questo terzo racconto diventano un tutt’uno e il cambiamento della vita di Paolo si mostra proprio nella sua esistenza spesa perché il Vangelo raggiunga tutte le genti. Emerge da questa triplice lettura la ricchezza di significato che l’evento della via di Damasco racchiude in sé, come rivelazione del legame tra agire di Cristo e agire della Chiesa, come unità tra Israele e Chiesa segnata però della novità di Cristo, come proiezione della missionarietà oltre ogni confine umano per raggiungere l’uomo e l’umanità in tutte le sue latitudini.

2. Paolo, il missionario fondatore di Chiese

La seconda immagine che Luca ci offre di Paolo è quella del missionario, coraggioso annunciatore del Vangelo, fondatore di comunità cristiane nel mondo pagano. Questo volto appare ripartito in tre momenti o viaggi, che percorrono il libro degli Atti dal cap. 13 fino al cap. 19. Ma la predicazione della Chiesa, per gli Atti, non inizia con Paolo e quindi anche il suo ruolo missionario va compreso nella missione globale della Chiesa. Quella missione che inizia per mandato del Risorto ed è da questi affidata ai Dodici, che non a caso nell’opera lucana, assumono in esclusiva, o quasi, il titolo di apostoli. L’invio del Risorto, lo abbiamo già ricordato, specifica modalità ed estensione della missione, caratterizzandola come una testimonianza, affidandola alla potenza dello Spirito, e indicando un percorso che da Gerusalemme va fino ai confini della terra. In una duplice variante, sono parole che chiudono il vangelo di Luca e aprono gli Atti: « Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e la remissione dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto (Lc 24,46-49); « riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra » (At 1,8). Gli Atti sono la documentazione di questa promessa-mandato. Non appena infatti irrompe lo Spirito sulla Chiesa, il gruppo degli apostoli, con a capo Pietro, inizia ad annunciare il vangelo di Gesù, la sua persona e la sua Pasqua salvifica e la destinazione della salvezza a tutte le genti. I contenuti dell’annuncio sono sempre gli stessi, in tutte le pagine degli Atti, chiunque sia l’annunciatore. È qui una prima indicazione sulla fisionomia di Paolo missionario: il vangelo che egli annuncia non è suo, ma è il vangelo della Chiesa, quello che gli apostoli hanno tramandato e consegnato alle generazioni future. La coerenza dei contenuti della fede costituisce nell’ottica di Luca il presupposto imprescindibile dell’ecclesialità della missione paolina e quindi della missione di sempre. Ma questo carattere ecclesiale viene ribadito, nell’ottica di Luca, da un altro dato. Pur essendo il missionario per eccellenza della narrazione, a Paolo non viene riconosciuto il titolo di apostolo. Con questo termine è chiamato, insieme a Barnaba, solo in due passi (At 14,4.14), dove probabilmente Luca, riportando una fonte, usa la denominazione non come un titolo ma come indicazione di una funzione – l’essere inviato a predicare a nome di una Chiesa – secondo un uso più largo attestato anche altrove nel Nuovo Testamento. Gli apostoli – come titolo specifico – per Luca sono invece solo i Dodici, così chiamati da Gesù stesso (Lc 6,13), perché solo loro possono essere testimoni della continuità tra il ministero storico di Gesù e la sua morte e risurrezione e questo non come individui ma come gruppo, come collegio (At 1,21-22). Solo i Dodici, e insieme, possono infatti attestare che il Risorto è colui che è passato per le strade della Palestina ed è morto sulla croce. C’è qui un’esigenza di certezza della fede che non può prescindere dalla dimensione storica, contro ogni riduzione mitologica. Su questa testimonianza originaria si posa ogni annuncio, dai primi giorni fino ad oggi. Anche Paolo deve attingere a questa testimonianza apostolica per non rendere vano il suo vangelo (At 9,26-30; cf. Gal 2,2). E se anche Paolo, come d’altronde Stefano (così qualificato per bocca di Paolo in At 22,20), è definito « testimone » negli Atti (At 22,14-15; 26,16), egli non lo è in rapporto alla identità del Crocifisso-Risorto, bensì in riferimento al Cristo esaltato, colui che gli è apparso e lo ha chiamato alla missione, così come è il Cristo esaltato che appare a Stefano nel suo martirio e ne provoca la testimonianza. Questa testimonianza non è priva di valore e ad essa Paolo si affida per dare ragione della sua missione. Ma essa sarebbe inconsistente se prima e a suo fondamento non ci fosse la testimonianza apostolica a riguardo della identità storica del Cristo risorto, che costituisce pertanto la base di tutta la tradizione della Chiesa. Quanto alla testimonianza di Paolo essa, nel suo riferimento escatologico – egli vede il Signore esaltato, che lo chiama a testimoniare « quello che ha visto » -, illumina anche il senso della testimonianza odierna della Chiesa come un illuminare il presente a partire dal suo compimento ultimo nella parusia del Signore. Ma qualcosa va detto anche a riguardo della specificità dell’annuncio paolino, in quanto in esso Luca vede il compimento della missione che Cristo affida agli apostoli, il cui ministero non supera secondo gli Atti i confini della Palestina e si rivolge ai pagani solo nella forma simbolica del giorno di Pentecoste e in quella anticipatrice del battesimo di Cornelio a Cesarea ad opera di Pietro. Soltanto con Paolo l’annuncio diventa davvero universale, secondo una progressività di incontro con le culture che Luca mostra con attenzione. Paolo è il ponte tra le origini della Chiesa e la sua diffusione nel mondo. Nel cammino della missione Luca si preoccupa anzitutto di mostrare come Paolo non si muova secondo proprie scelte ma seguendo le indicazioni dello Spirito, che risulta così pertanto il vero motore della missione cristiana (dalla chiamata nella liturgia ad Antiochia, At 13,1-3, fino a orientare il tracciato geografico dell’itinerario paolino, At 16,6-10). Questa si sviluppa secondo un percorso che dapprima tocca le regioni orientali dell’Asia Minore, per poi volgersi ad occidente e quindi giungere in Europa, dalla Macedonia all’Acaia, per concludersi con la predicazione di Paolo a Roma. In questo percorso, più che l’articolazione geografica, conta come Paolo entri in contatto con la varietà delle forme culturali e religiose del mondo pagano. Si comincia da Cipro, dove il vangelo deve sfidare le arti divinatorie e magiche, per proseguire in Licaonia, dove la verità del vangelo si misura con le forme della religione politeistica tradizionale e popolare. L’ingresso in Europa comporta il primo confronto con le istituzioni dell’impero romano che ne deve riconoscere la legittimità, proseguendo poi verso Atene dove si entra in dialogo e in disputa con il pensiero filosofico del tempo, a cui ci si avvicina nella critica alla religiosità pagana ma da cui ci si distingue nel riferimento non ideologico ma storico della fede cristiana fondata sulla risurrezione di Cristo. La ammissibilità della fede cristiana per il diritto romano torna alla ribalta nelle due tappe di Corinto e di Efeso, dove riappare anche l’inconciliabilità della nuova fede con le idolatrie e i loro intrecci di affari. Accanto a questa lettura della predicazione paolina in rapporto all’ambiente pagano, occorre però riconoscere come gli Atti diano rilievo anche alle modalità con cui essa si pone di fronte al giudaismo, facendo emergere come la fede cristiana si ponga quale compimento delle promesse divine che il giudaismo ha ricevuto come eredità. Il vertice argomentativo di questo confronto è nella predicazione di Paolo ad Antiochia di Pisidia, (At 13,16-49). Paolo ripercorre la storia della salvezza e mostra come essa culmini in Gesù, sottolineando la tipologia Davide-Gesù al fine di proclamare la messianicità di quest’ultimo. Ma a partire dalla risurrezione di Gesù si apre una prospettiva nuova, che estende l’offerta escatologica della salvezza non solo ai giudei ma anche ai pagani. Ma questo universalismo della salvezza che dà compimento alle promesse fatte a Israele viene rifiutato dagli uditori giudei di Paolo. Sono i giudei che si chiudono all’annuncio e non questo, e Paolo con esso, a loro. Nonostante lo scontro di Antiochia, Paolo non cesserà di rivolgersi ovunque anzitutto ai giudei, possibilmente nelle sinagoghe, rispettando la loro priorità nel disegno storico-salvifico divino. Solo alla fine degli Atti, giunto a Roma e ricevuto l’ennesimo rifiuto, Paolo dichiarerà chiuso il tempo di questa priorità nella destinazione della predicazione, pur ribadendo che l’annuncio continua e continuerà ad essere rivolto anche a loro, sebbene il rifiuto da parte della maggioranza dei giudei oggi veda la Chiesa colmarsi della presenza di coloro che erano un tempo pagani (At 28,17-31). L’universalità della salvezza che la Pasqua di Cristo ha introdotto nel mondo trova quindi la sua attuazione nel tragitto della predicazione di Paolo che, aderendo alla tradizione apostolica, diventa lo « strumento [ che il Signore ha] scelto » (At 9,15) mediante il quale il vangelo raggiunge i confini della terra. Sul legame alla tradizione apostolica, cui abbiamo già accennato, merita tornare, per cogliere nel confronto tra i discorsi missionari di Pietro e di Paolo il nucleo cherygmatico che costituisce l’identità della fede e al quale anche oggi dobbiamo guardare nel compito missionario della Chiesa. Ci colpisce anzitutto che il cherygma viene sempre situato all’esordio dei discorsi in una situazione problematica che fa da contesto alla Parola che viene proclamata: la consapevolezza della situazione è un dato vincolante della missione; e per lo più si tratta di fatti concreti che si prestano a più letture e che il predicatore affronta demolendo le interpretazioni false o inadeguate per fare spazio alla vicenda di Gesù di Nazaret come fonte esplicativa della condizione umana. Di Gesù è illuminata la vicenda, la persona, soprattutto la morte e le responsabilità di quanti lo hanno condotto alla croce, essi però per primi chiamati alla salvezza; l’annuncio non si ferma però alla croce, ma tocca il suo vertice nella risurrezione di Gesù, di cui è esaltato il potere salvifico, in quanto essa ristabilisce la giustizia infranta dalla sua condanna; sarà poi l’ascensione-esaltazione a mostrare come dal Risorto nasce una novità di vita che vuole essere comunicata a tutti, giudei e pagani, ed è proiettata verso il futuro escatologico in cui il Signore tornerà ma di cui è possibile fare già esperienza nella Chiesa. In questa presentazione riassuntiva della predicazione petrina e paolina emerge da una parte il carattere radicalmente storico della fede cristiana, fede in un evento e fondamento di una storia nuova, dall’altra il suo radicamento nelle vicende umane di cui è compimento e interpretazione, eludendo ogni riduzione alienante, ideologica e mitologica. Su questi contenuti tradizionali si fonda poi anche una conduzione pastorale della Chiesa altrettanto ancorata alla tradizione. Ne è testimonianza l’annotazione di cronaca con cui si chiudono le tappe del percorso paolino, tutte culminanti nella creazione di una comunità di fede. Luca ci rende noto anche che Paolo torna a visitare le comunità da lui fondate per rafforzarne la fede, come pure si preoccupa di affidarle a delle guide pastorali. Ma del volto di queste comunità si fa interprete il Paolo di Luca in particolare nel discorso di Paolo agli anziani di Efeso a Mileto (At 20,18-35). La comunità che è sorta dall’annuncio ha bisogno non solo della memoria della Parola, ma anche del servizio di governo, che, nella generazione successiva a quella paolina, è nelle mani dei presbiteri. A loro si rivolge Paolo, non solo proponendo se stesso come modello della cura e della dedizione pastorale, ma anche richiamando al compito della vigilanza davanti ai futuri possibili pericoli per il gregge, quando la comparsa di falsi profeti metterà in pericolo la fedeltà alla dottrina e l’autenticità dell’esperienza cristiana e della comunione ecclesiale. Solo il riferimento all’integralità della tradizione apostolica potrà liberare dalle cadute. La dimensione pastorale diventa così in Paolo la continuità necessaria della dimensione missionaria, così come l’incisività storica della predicazione deve sempre misurarsi con la coerenza rispetto alla tradizione apostolica.

3. Paolo, il testimone perseguitato

La terza immagine che gli Atti ci offrono di Paolo è quella del testimone che soffre la persecuzione per la fedeltà a quel vangelo nel quale egli vede realizzata la « speranza d’Israele » e che, perciò, egli annuncia  come compimento escatologico della storia di salvezza. Questa dimensione di Paolo testimone perseguitato occupa l’ultimo tratto della narrazione degli Atti, a partire dal momento in cui, conclusa la sua attività di missionario, egli si congeda dalle Chiese e decide di avviarsi a Gerusalemme per andare incontro a quella che può essere letta come la sua passione (At 19,21). Di questa parte della vicenda del Paolo lucano, merita di essere sottolineato qualche tratto significativo.  Un aspetto certamente singolare sta nel fatto che Luca si è applicato a modellare questa « passione » di Paolo su quella di Gesù. Come il suo Maestro aveva deciso con coraggio e in libertà di salire a Gerusalemme per portare a compimento gli eventi salvifici (Lc 9,51), così l’apostolo decide, in fedeltà al disegno divino e nella forza dello Spirito, di recarsi nella città santa per affrontare il cammino della sua passione (At 19,21), che lo porterà a dare testimonianza a Roma (At 23,11). Se Gesù aveva predetto la sua morte in conformità alla parola profetica (Lc 18,31-33), anche Paolo viene a conoscere dalla parola dei profeti il suo destino di sofferenza (At 21,10-11): « lo Spirito Santo, di città in città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni » (At 20,23). Nella prospettiva della sua imminente dipartita, Gesù aveva lasciato agli apostoli il suo « testamento » donando l’eucarestia (Lc 22,14-20) e proponendo loro come modello la sua pro-esistenza: « io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,27); anche Paolo, mentre sta per distaccarsi dalle sue Chiese, affida loro il suo testamento lasciando in dono a Troade la sua parola apostolica e la frazione del pane, come realtà capaci di ridonare sempre ai credenti conforto e vita (At 20,7-11) e offrendo, nel discorso di Mileto, ai presbiteri, che guideranno le chiese nel tempo subapostolico, il modello della sua vita e della sua cura pastorale (At 20,18-35). Se nel  Getsemani Gesù aveva dovuto affrontare la sua ultima prova e l’aveva superata affidandosi alla volontà del Padre (Lc 22,42), anche Paolo è sottomesso alla prova dalle sue comunità che lo scongiurano di non salire a Gerusalemme (At 21,4.12), ma la sua fedeltà induce queste comunità ad affidarsi al disegno divino con parole simili a quelle della preghiera del Getsemani: « Sia fatta la volontà del Signore! » (At 21,14). È significativo, infine, che le accuse mosse all’apostolo, durante la fase processuale, siano del tutto simili a quelle formulate nel processo contro Gesù (cf. At 24,5 e Lc 23,2; At 24,5 e Lc 23,5; At 17,7 e Lc 23,2) e che, come era avvenuto per Gesù (Lc 23,4.15.22), anche per Paolo le autorità riconoscano e dichiarino per ben tre volte la sua innocenza (At 23,29; 25,25; 26,32). Ma, come per il giusto Gesù (Lc 23,18.21), anche per l’innocente Paolo la folla chiederà la pena di morte (At 21,36; 22,22). Conformato al suo Maestro nell’ultimo atto della sua passione; Paolo diventa in tal modo il modello del discepolo maturo: « Il discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro » (Lc 6,40). In una Chiesa che non ha più la presenza sensibile di Gesù, il Risorto continua a essere presente e visibile attraverso quei « modelli cristici », che sono i discepoli ben preparati e di cui Paolo è come un prototipo. Sembra di sentir risuonare, in questa visione lucana dell’apostolo, l’eco dell’appello fatto dal Paolo delle lettere autentiche: « Diventate miei imitatori, come io sono lo sono di Cristo » (1Cor 11,1). Sull’esempio di Paolo, i discepoli, conformati al Maestro Gesù nel modo di vivere e di patire, possono continuare a manifestare al mondo intero la presenza salvifica del loro Signore. Se, da una parte, nella sua passione Paolo è presentato come il discepolo « ben preparato », dall’altra, proprio nella difficile fase processuale, egli emerge come coraggioso difensore della legittimità dell’annuncio cristiano e poi testimone di Cristo e della salvezza che in lui è offerta a tutti i popoli. L’apostolo giunge al momento dell’arresto e del processo preceduto da una serie di azioni giudiziarie (Filippi: At 16,19-24.35-39; Tessalonica: 17,5-9; Corinto: 18,12-17) nelle quali la sua attività di evangelizzatore è stata dai pagani interpretata come propaganda di costumi non leciti ai romani (At 16,20-21) e dai giudei astutamente presentata come predicazione di un messianismo politico (At 17,7) e di una fede contraria all’ordinamento romano (At 18,13). Continuamente si tenta, di fronte alle autorità romane, di far passare il cristianesimo, da Paolo rappresentato, come una realtà che sconvolge l’assetto sociale e che crea turbativa nell’ordine pubblico. Ma il giudizio delle autorità evidenzia che l’evangelizzazione non è né un delitto né un’azione malvagia penalmente perseguibile (At 18,14) e lascia intendere che si può essere credenti ed evangelizzatori e al contempo buoni cittadini romani, a cui vanno riconosciuti i diritti di cittadinanza (vedi le scuse dei magistrati in At 16,39). Il cristianesimo, che Paolo simboleggia, non è dunque un pericoloso elemento di sovversione ma può godere del riconoscimento e della protezione del diritto romano. Durante il processo le accuse a Paolo si rinnovano. Di fronte all’uditorio giudaico (At 21,28) l’apostolo è presentato come trasgressore della legge e del costume giudaico, quindi come un apostata dalla religione giudaica. Di fronte all’autorità romana (At 24,5-6) egli è mostrato nuovamente come un fomentatore di rivolte e quindi come un sovversivo dell’ordine pubblico e della pax romana. Il lettore degli Atti, che ha seguito la vicenda paolina, sa che queste accuse sono false e sente vera l’affermazione di Paolo: « Non ho commesso colpa alcuna, né contro la Legge dei Giudei né contro il tempio né contro Cesare » (At 25,8). Una volta sgomberato il campo dalle accuse di apostasia dal giudaismo e di pericolosità per l’ordine romano, Paolo nell’ultima solenne apologia di fronte ad Agrippa (At 26) risolve la sua difesa in una testimonianza a Cristo. Se egli è sotto processo è perché egli ha visto realizzarsi nell’evento della risurrezione di Cristo la « speranza d’Israele » in quel Dio che risuscita i morti e, sulla base delle profezie messianiche, ha costantemente testimoniato che in lui « la luce » della salvezza doveva essere annunciata a tutti, a Israele ed anche ai pagani (At 26,22-23). La sua esperienza di fariseo persecutore, trasformato dal Risorto e da lui mandato a evangelizzare le genti, è la garanzia della veridicità della sua testimonianza. Il motivo vero per cui Paolo è sotto processo è dunque la sua qualità di testimone del Risorto e dell’offerta universale di salvezza: la sua autentica difesa non può risolversi che in una rinnovata testimonianza a lui e alla « luce » che il Risorto offre ad ogni uomo. L’accusato a motivo di Cristo si difende testimoniando Cristo e trasforma – secondo la parola stessa di Gesù (Lc 21,13) – la difficile situazione giudiziale in « occasione di dare testimonianza ». Ma testimoniando in tal modo, Paolo, l’accusato, rovescia le parti: sono gli accusatori adesso a diventare accusati. Sono essi a essere posti sotto giudizio, perché non hanno riconosciuto e accolto il compimento della loro speranza e la salvezza, che è loro offerta in Cristo. La figura di Paolo perseguitato che si difende argomentando e testimoniando può diventare paradigmatica anche per i credenti di oggi. In condizioni di incomprensione e talora di tacita ostilità, determinate non da loro carenze o da miopie storiche ma dall’annuncio che essi portano, ai credenti non rimane come difesa che il linguaggio della testimonianza, il linguaggio di una vita profondamente trasformata dal vangelo che proclamano e di un’argomentazione che ne fa risplendere le ragioni. È questa esistenza rinnovata, garanzia di credibilità dell’annuncio, che può giungere ad interrogare chi è in ricerca e a fargli dire – come è successo ad Agrippa di fronte a Paolo -: « Ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano! » (At 26,28). Essa può anche suscitare atteggiamenti di difesa in chi non vuole assolutamente cambiare fino a fargli pronunciare giudizi simili a quello di Festo: « Sei pazzo Paolo » (At 26,24). In ogni caso l’azione testimoniale, che garantisce con l’autenticità della vita e con la forza della parola, non può lasciare nell’indifferenza: essa edifica, interroga e inquieta anche chi è inizialmente ostile. Su di essa si è incentrata, fin dalle difficili situazioni degli inizi, la parenesi cristiana: « Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli » (Mt 5,16); « Tenete una condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno della sua visita » (1Pt 2,12), e ancora: « Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo » (1Pt 3,14-16).

+ Giuseppe Betori
Arcivescovo di Firenze

Don Alberione e il suo carisma: « Afferrato » da san Paolo

dal sito:

http://www.sanpaolo.org/vita/0904vp/0904vp60.htm

Don Alberione e il suo carisma
« Afferrato » da san Paolo

di ELISEO SGARBOSSA     
 
    « San Paolo oggi vivente » è il filo conduttore dell’Anno dedicato all’Apostolo. È l’occasione favorevole per attualizzare il carisma alberioniano, che è un dono non soltanto per la Famiglia paolina, ma per la tutta Chiesa.
   
Nell’opuscolo autobiografico Abundantes divitiæ don Alberione racconta: «San Paolo: il santo dell’universalità. L’ammirazione e la divozione cominciarono specialmente dallo studio e dalla meditazione della Lettera ai Romani. Da allora la personalità [dell’Apostolo], la santità, il cuore, l’intimità con Gesù, la sua opera nella Dogmatica e nella Morale, l’impronta lasciata nell’organizzazione della Chiesa, il suo zelo per tutti i popoli, furono soggetti di meditazione. Gli parve veramente l’Apostolo: dunque ogni apostolo ed ogni apostolato potevano prendere da Lui. A san Paolo venne consacrata la Famiglia» (AD 64).

La Famiglia paolina esisteva allora soltanto nella mente del giovane seminarista, già consapevole della propria vocazione speciale fin dalla notte santa di fine secolo, quando «una particolare luce venne dall’Ostia santa, maggior comprensione dell’invito di Gesù « venite ad me omnes »; gli parve di comprendere il cuore del grande Papa [Leone XIII], gli inviti della Chiesa, la missione vera del Sacerdote [...], il dovere di essere gli Apostoli di oggi [...] Si sentì profondamente obbligato a prepararsi a far qualcosa per il Signore e gli uomini del nuovo secolo con cui sarebbe vissuto» (AD 15). In tale prospettiva il chierico Alberione orientò i suoi studi, privilegiando le ricerche storiche. E in questo percorso si incontrò con l’Apostolo. Era un primo incontro, che solo più tardi si sarebbe approfondito in una forte amicizia e in un totale coinvolgimento della vita.

Una diecina di anni dopo, nel 1914, don Alberione fu in grado di realizzare il suo sogno apostolico, con la fondazione della « Scuola tipografica », primo nucleo della congregazione maschile, e nel 1915, con l’avvio del « Laboratorio femminile », prima denominazione delle Figlie di San Paolo. Sette anni ancora, e il Fondatore nel 1921 può dire: «Finalmente [...] vi è un numero sufficiente di persone che si sono legate come in una società di anime, di volontà, di cuori, per l’opera della Stampa Buona. [...] Ora si deve cominciare. Perciò la Casa prende il suo vero nome: Pia Società San Paolo» (Unione Cooperatori Buona Stampa, 15 luglio 1921).

Santità e apostolato in Paolo

Ecco la novità: la « società di anime » consacrate per la buona stampa ha il nome dell’apostolo san Paolo. Ma è solo un nome convenzionale? Perché san Paolo e non altri? La spiegazione fu data in termini espliciti dallo stesso Fondatore: «Prima di mettere l’Istituto sotto la protezione di san Paolo apostolo si è pregato molto. Si voleva un Santo che eccellesse in santità e nello stesso tempo fosse esempio di apostolato. San Paolo ha unito in sé la santità e l’apostolato» (Pred. SP 302). Santità e apostolato. Prego di ricordare questo binomio, che costituisce il cuore del carisma alberioniano, come vedremo fra poco.

Un’altra domanda possiamo rivolgerci: di chi fu la scelta di Paolo come patrono dell’istituzione? Fu forse di don Alberione, o gli pervenne da altri? Essa in realtà fu un dono dall’alto, una ispirazione. «È stata una vera ispirazione mettere la Famiglia [paolina] sotto la protezione di san Paolo; in un istante; illuminazione» (Alle Pie Discepole, 1961). La figura dell’apostolo Paolo ha sempre ispirato il pensiero e l’azione apostolica del beato Giacomo Alberione: «Vivere e dare al mondo Gesù Cristo Via e Verità e Vita». E ancora: «Una grande grazia ci ha fatto il Signore nel darci per padre, maestro, modello, amico, protettore san Paolo. Egli è un miracolo di dottrina, un prodigio di zelo, un eroe in ogni virtù. Egli fu convertito per un favore straordinario, egli ha lavorato più di tutti gli altri apostoli, egli ha illuminato il mondo con lo splendore della sua dottrina e dei suoi esempi». Così in uno scritto del 1918 (Introduzione a Un mese a san Paolo).

Dunque fin dai primi tempi don Alberione intese come protagonista l’apostolo Paolo: padre, maestro, modello, amico, protettore per ogni paolino. Si tratta di una convinzione che ha accompagnato il Fondatore per tutta la vita, fino a fargli scrivere, nella « storia carismatica » (Abundantes divitiæ, 1954), le note parole testamentarie: «Questa seconda storia [della propria insufficienza] ha prodotto in lui una profonda persuasione, e ne fa viva preghiera: tutti devono considerare solo come padre, maestro, esemplare, fondatore san Paolo apostolo. Lo è, infatti. Per lui è nata [la Famiglia paolina], da lui fu alimentata e cresciuta, da lui ha preso lo spirito [...]» (AD 2).

Tale persuasione è confermata in un altro scritto del 1954, in cui don Alberione esprime gratitudine al Signore e ribadisce la certezza che il « vero Fondatore » è san Paolo: «La riconoscenza più viva va a Gesù, Maestro divino, nel suo Sacramento di luce e di amore; alla Regina Apostolorum, Madre nostra e di ogni apostolato; a san Paolo apostolo, che è il vero Fondatore dell’istituzione. Infatti egli ne è il padre, maestro, esemplare, protettore. Egli si è fatta questa famiglia con un intervento così fisico e spirituale che neppure ora, a rifletterci, si può intendere bene; e tanto meno spiegare.

«Tutto è suo. Di lui, il più completo interprete del Maestro divino, che applicò il Vangelo alle nazioni e chiamò le nazioni a Cristo. Di lui, la cui presenza nella teologia, nella morale, nell’organizzazione della Chiesa, nelle adattabilità dell’apostolato e dei suoi mezzi ai tempi è vivissima e sostanziale; e rimarrà tale sino alla fine dei secoli. Tutto mosse, tutto illuminò, tutto nutrì; ne fu la guida, l’economo, la difesa, il sostegno; ovunque la Famiglia paolina si è stabilita. Meritava la prima chiesa e la bella « gloria » che lo riproduce nel suo apostolato e nella sua paternità rispetto ai paolini. Non è avvenuto come quando si elegge un protettore per una persona, o istituzione. Non è che noi lo abbiamo eletto; è, invece, san Paolo che ha eletto noi. La Famiglia paolina deve essere san Paolo oggi vivente, secondo la mente del Maestro divino; operante sotto lo sguardo e con la grazia di Maria Regina Apostolorum» (San Paolo, luglio-agosto 1954).

Triplice funzione dell’Apostolo

Di più: a san Paolo viene ancora attribuita la triplice funzione di padre, maestro, protettore e, addirittura, mediatore sacramentale: «San Paolo apostolo è il nostro padre, maestro, protettore. Egli ha fatto tutto. Questa si chiama Opera di san Paolo; il senso è quello inteso come quando si dice: il giovane tale è di Pietro, cioè è figlio di Pietro [...] La vita della Famiglia paolina viene dall’eucaristia; ma comunicata da san Paolo» (San Paolo, agosto-settembre 1954). Con tale patrocinio non devono dunque spaventarci le nostre debolezze e insufficienze. Lo stesso san Paolo, afferma don Alberione, «descrisse con efficacia la deplorevole debolezza della condizione umana: « Io non faccio il bene che voglio e faccio il male che non voglio [...] » (cf Rm 7,19s.). Ma il rimedio sta nella grazia della redenzione, per cui la debolezza non impedisce la santità. Per san Paolo la santità è la maturità piena dell’uomo, l’uomo perfetto [...]» (San Paolo, settembre 1954).


Che farebbe oggi san Paolo?

Don Alberione, in un opuscolo del 1954, si pose la celebre domanda che fu dell’arcivescovo tedesco Wilhelm von Ketteler verso la metà dell’Ottocento: «Se San Paolo vivesse oggi [...] che farebbe?». E rispose allargando il discorso sull’intera Famiglia paolina: «Essa si propone di rappresentare e vivere san Paolo, oggi; pensando, zelando, pregando e santificandosi come farebbe san Paolo, se, oggi, vivesse. Egli visse i due precetti dell’amore verso Dio e verso il prossimo in una maniera così perfetta da mostrare in sé il Cristo stesso: « Vive in me Cristo » (Gal 2,20). Egli si è fatta la Società San Paolo, di cui è il fondatore. Non la Società San Paolo elesse lui, ma egli elesse noi; anzi ci generò: « Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo » (1Cor 4,15).

«Se san Paolo vivesse», prosegue don Alberione, «continuerebbe ad ardere di quella duplice fiamma, di un medesimo incendio, lo zelo per Dio ed il suo Cristo, e per gli uomini d’ogni paese. E per farsi sentire salirebbe sui pulpiti più elevati e moltiplicherebbe la sua parola con i mezzi del progresso attuale: stampa, cine, radio, televisione. Non sarebbe la sua dottrina fredda ed astratta. Quando egli arrivava, non compariva per una conferenza occasionale: ma si fermava e formava: ottenere il consenso dell’intelletto, persuadere, convertire, unire a Cristo, avviare ad una vita pienamente cristiana [...].

«Egli dice ai paolini: Conoscete, amate, seguite il Divino Maestro Gesù. « Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo! » (1Cor 11,1). Questo invito è generale, per tutti i fedeli e devoti suoi. Per noi vi è di più, giacché siamo figli. I figli hanno la vita dal padre; vivere perciò in lui, da lui, per lui, per vivere Gesù Cristo. Sono per noi appropriate le parole ai suoi figli di Tessalonica, ai quali ricorda di essersi fatto per loro forma: « Per darvi noi stessi come esempio da imitare ». Gesù Cristo è il perfetto originale; Paolo fu fatto e si fece per noi forma; onde in lui veniamo forgiati, per riprodurre Gesù Cristo. San Paolo forma non lo è per una riproduzione fisica di sembianze corporali, ma per comunicarci al massimo la sua personalità: mentalità, virtù, zelo, pietà [...] tutto. La Famiglia paolina, composta di molti membri sia Paolo vivente in un corpo sociale.

Un proposito per tutti

«Conoscere e meditare san Paolo nella vita, opere, lettere; onde pensare, ragionare, parlare, operare secondo lui; e invocare la sua paterna assistenza» (San Paolo, settembre 1954). Troviamo qui in sintesi tutti i motivi per cui san Paolo è divenuto, per grazia prima che per scelta, il patrono, il modello e l’ispiratore della Famiglia paolina. Possiamo aggiungere che l’Apostolo incarna per don Alberione il « carisma di fondazione » nel suo duplice versante: della spiritualità e dell’apostolato. Il documento Mutuæ Relationes tra vescovi e religiosi spiega: «Il carisma dei fondatori si rivela come una esperienza dello Spirito, trasmessa ai propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita». Tale esperienza dello Spirito costituisce come l’anima delle istituzioni e la loro « indole propria », la quale poi «comporta anche uno stile particolare di santificazione e di apostolato» (MR 11).

I due versanti del carisma

1. Il versante spirituale. Quando il giovane Alberione si pose ai piedi del tabernacolo, nella lunga adorazione notturna del 31 dicembre 1900, percepì il senso e i dati fondamentali della propria vocazione, così come li riassunse in Abundantes divitiae 13-21. Egli comprese la missione vera del sacerdote, il modo di esercitarla più efficacemente come « apostoli di oggi », e pregò che la Chiesa avesse un nuovo slancio missionario sullo stile di san Paolo. Questa la componente spirituale del carisma, che impronta innanzitutto lo « stile particolare » della santità.

2. Il versante apostolico. La seconda qualità del carisma alberioniano è la ri-attualizzazione della vita e della missione dell’apostolo Paolo. «La Famiglia paolina è suscitata da san Paolo per continuare la sua opera; è san Paolo, vivo, ma che oggi è composto di tanti membri [...] E se vivesse oggi, che farebbe? [...] Adopererebbe i più alti pulpiti eretti dal progresso odierno [...]: per il vangelo di Gesù Cristo» (Alle FSP, 1955). Dunque il carisma fondazionale non fu solo una scelta pastorale o solo un dono dello Spirito riguardante la sorgente interiore e le modalità dell’apostolato moderno; fu anzitutto un dono di comprensione del mondo moderno, della sua realtà drammatica dal punto di vista religioso e culturale. Non si dimentichi in qual misura il giovane Alberione aveva sperimentato la tragedia della cultura atea…

Fu allora che la coscienza straordinariamente vigile del « convertito » Giacomo ebbe la percezione della posta in gioco e delle enormi possibilità offerte dai mezzi moderni per la promozione di una cultura ispirata al Vangelo. E la certezza che la nuova cultura sarà tanto umana e salvifica nella misura in cui sarà « integralmente cristiana », cioè se attingerà tutti i valori del « Cristo integrale »: Via e Verità e Vita (Maestro di dottrina e guida morale, Modello e Mediatore, Sacerdote e liturgo universale). Il concetto di « integralità » è essenziale nella visione apostolica di don Alberione, e significa che tutto il mistero di Cristo dev’essere comunicato a tutto l’uomo, in tutte le sue componenti, con tutti i mezzi più aggiornati di ricerca e di trasmissione. Strumento tecnico e pastorale di questa impresa apostolica, ispirata a Paolo, il « Santo dell’universalità », è il sistema moderno dei media, assunti come veicoli sacramentali del Verbo eterno, secondo la teologia dell’Incarnazione e l’immagine esemplare di san Paolo.

Eliseo Sgarbossa
 

San Paolo, l’uomo della libertà

questa è sicuramente un’omelia, io ho trovato questo testo, ma non ho altri riferimenti, è bello lo stesso, dal sito:

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/s2magazine/objects/obj_14160/files/formazione/formazione_spiritualita_zani_03.doc

San Paolo, l’uomo della libertà

Nella prima lettura abbiamo sentito queste parole: « Quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto. Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà… Investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo… Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore… E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » (2Cor 3,16-17; 4,1.5-6)). Per cogliere meglio il senso delle parole di Paolo vale la pena vedere anzitutto come si svolge la sua argomentazione e poi cercare di capire che cosa ci dicono oggi nel tempo in cui noi viviamo.
I cristiani e soprattutto i missionari, dice Paolo, possono comportarsi e parlare con piena franchezza e apertura, perché mediante la conversione a Cristo vivono in un regime di libertà. Non hanno nulla da nascondere o da temere, perché fanno parte dell’alleanza nuova e definitiva. I giudei, invece, si richiamano al sistema legale e sono condizionati da un limite e da una oscurità insiti nella legge. Come il volto di Mosè quando usciva dall’incontro con Dio era velato, e perciò il riflesso della gloria divina era temporaneo, così la scrittura per gli ebrei non manifesta pienamente il progetto salvifico di Dio, perché sono incapaci di capirne il senso: il loro cuore, infatti è ricoperto da un velo. Manca ad essi la chiave della rivelazione, cioè della rimozione del velo, che si ha solo in Cristo. La scrittura stessa lo conferma là dove dice che il « velo viene tolto quando ci si converte al Signore » (Es 34,34). La conversione al Signore a sua volta fa spazio alla venuta dello Spirito, che è sempre Spirito di libertà. Dio ha affidato a Paolo il ministero di annunciare la libertà alla quale siamo chiamati in Cristo. A questa scoperta gioiosa egli è giunto nel momento della vocazione, che viene ricordato come se fosse per lui stato una creazione nuova.
Che cosa dice a noi oggi tutto questo? Per quanto riguarda la situazione odierna, possiamo costatare che fino a qualche tempo fa erano presenti, malgrado tutto, alcuni riferimenti di confronto: ci si confrontava con essi per consentirvi o per contestarli e magari calpestarli. C’era un complesso istituzionale di norme, di tradizioni, di consuetudini, di valori su cui la gente si confrontava, a prescindere dall’opzione precisa di fede o di pratica cristiana. Erano presenti anche limiti invalicabili per l’azione umana, stabiliti dai grandi fatti biologici, naturali, entro i quali si doveva vivere e operare. Il fatto tipico della nostra epoca è che l’uomo di oggi ha l’impressione che quasi tutto gli è possibile o gli sarà tecnicamente possibile e che i limiti sono o saranno superati. Egli avverte che sarà sempre più emancipato dal ritmo del giorno e della notte, dai ritmi e dai limiti dello spazio, grazie alla tecnologia e alle forme di trasporto velocissimo; la scienza sta travalicando le stesse leggi della generazione naturale, della procreazione, della eredità biologica. L’umanità pensa che potrà in avvenire fare tutto ciò che vuole sulla natura, sui modi di essere, sulla vita.
Di conseguenza, il fatto nuovo della storia umana è che mai come oggi si è accresciuto a dismisura il senso della libertà: la libertà dai condizionamenti naturali e biologici, libertà dalle leggi e dalle consuetudini. Mai l’uomo ha avuto tanta libertà, mai è stato più emancipato e disancorato da forme di riferimento che parevano ovvie, obbliganti, scontate, evidenti. Le norme, le regole, le tradizioni, le convenzioni di riferimento appaiono un valore relativo, non un dato assoluto che non si tocca; valgono nella misura in cui sono contrattabili in virtù di un utile, di un fine; tutto è negoziabile e opinabile, tutto può essere scelto, purché ci sia una ragione contingente. Un tale emergere del senso della libertà era sconosciuto nella storia umana.
Tuttavia, con questo crescere tumultuoso del senso prepotente della libertà (che avvince i ragazzi, i giovani, la gente semplice dei paesi e dei luoghi più remoti attraverso i messaggi che giungono dalla televisione, tesi a convincere che l’impossibile di oggi sarà possibile domani), dobbiamo constatare che la stessa libertà non è mai stata tanto manipolabile. I grandi strumenti del consenso sociale l’addormentano o la guidano mediante la tecnica applicata al controllo della vita di persone, mediante i mezzi informatici che permettono di seguire la gente in tutti gli atti più semplici dell’ambito privato. Tale controllo ci fa comprendere che la libertà cui l’uomo è assurto non è mai stata così grande e insieme così fragile.
Va inoltre ricordato che il luogo dove le tensioni della libertà e l’uscita dalle convenzioni si concentrano è la famiglia. La coppia nel matrimonio, la famiglia nella sua costituzione, nella sua durata, nella sua fecondità, viene invasa dall’opinabilità generale che non la ritiene soggetta a regole e norme da noi considerate proprie della famiglia tradizionale.
Questa situazione è vissuta da noi con atteggiamenti molto diversi.
Il primo è un atteggiamento sconsolato: stiamo andando verso la catastrofe, l’uomo non ha più regole, l’anomia crescerà. Soprattutto gli anziani manifestano un profondo disagio, un senso quasi di paura e di rabbia, una voglia di reagire oppure di nascondere la testa, rifugiandosi nel passato. Anche se si impegnano in iniziative settoriali, molti temono che si arrivi al peggio e non sanno come bloccare il male crescente.
Il secondo è l’atteggiamento di chi pensa di essere ancora in tempo a rimediare: urge ribadire le regole del vivere, rivalutarle, dal momento che la gente sbanda perché non le conosce; urge ribadire e richiamare continuamente i comandamenti. È spesso il nostro sforzo, quando pretendiamo di aiutare la gente che occorrono le regole, che l’arbitrarietà selvaggia induce alla noia della vita, a evasioni di ogni tipo, fino alle più pericolose di autodistruzione e di suicidio. Sottolineare i pericoli dell’anomia crescente e innegabile è certamente un modo di reagire.
Un terzo atteggiamento è caratterizzato dalla ricerca del « kairòs », della opportunità evangelica offerta dalla situazione globale odierna. Questo atteggiamento parte dalla intuizione che mai come oggi c’è stata così ampia possibilità di capire il messaggio evangelico, di cogliere che la libertà, nell’uomo, è imitazione di Dio, è dono di Dio, e che, attraverso una libertà tesa alla responsabilità, l’uomo può superare i pericoli di un arbitrio sfrenato, non con il ritorno al passato e la ripresa dei limiti naturali e tradizionali, bensì riscoprendo la sua vocazione di figlio di Dio, animato dallo Spirito, libero e chiamato a pienezza proprio mediante la presa di coscienza di tale libertà.
Paolo vive certamente in questo terzo atteggiamento. Per lui, se l’uomo vuole vivere nella libertà, deve convertirsi al Signore, cioè a Gesù risorto. Chi riconosce che Gesù è il Signore entra nello spazio della libertà cristiana, che ha la sua fonte interiore nel dono dello Spirito. Nel linguaggio corrente si usa spesso l’espressione « libertà di spirito »: si tratta di una dimensione interiore che qualifica l’uomo che è attivo e reattivo al punto da non lasciarsi condizionare dalla pressione dell’ambiente. A questo atteggiamento umano positivo Paolo dice che c’è un di più che dà una impronta nuova all’esistenza del credente in Cristo: la libertà nello Spirito. La libertà si trova dove è lo Spirito del Signore, lo Spirito di santificazione, lo Spirito Santo. Paolo afferma un legame di simultaneità tra lo Spirito e la libertà: se c’è lo Spirito di Cristo, c’è anche la libertà, dove è lo Spirito di Cristo vi è anche la libertà. Cristo ci ha liberati proprio in vista di una situazione di libertà vissuta.
La situazione cristiana di libertà è in contrasto con quella giudaica, detta da Paolo situazione di schiavitù, di chi è velato e impedito di vedere davanti a sé Dio. Se l’uomo si apre totalmente al dono di Cristo, si realizza in lui l’influsso liberante della sua morte e risurrezione. Per Paolo la libertà non è principalmente sociologica, politica, antropologica, ma è eminentemente trinitaria, teologica. La libertà è un dono di Dio, realizzato da Gesù Cristo, divenuto con la risurrezione Spirito datore di vita (1Cor 15,45). Questa libertà non viene da noi, dalle nostre opere; non è un diritto o la capacità di disporre di sé senza alcun condizionamento. La libertà è appartenenza a Cristo e l’uomo che aderisce a Gesù viene liberato dal peccato, dalla morte e dalla legge.
Il peccato è il primo tiranno dell’uomo (Rm 7,14). Esso non consiste in un atto sbagliato o in una catena di azioni sregolate. Le azioni sbagliate sono espressione, esteriorizzazione di una potenza negativa che agisce dentro di noi in opposizione radicale a Dio e al suo regno. Questa potenza da Paolo è chiamata peccato. Il peccato è un principio malefico, che quasi si confonde con satana, dal quale tuttavia è distinto: il peccato non è esteriore all’uomo, come satana, ma è dentro di lui e si esprime attraverso la sua condotta peccaminosa. La redenzione di Cristo non si limita alla remissione dei peccati, delle trasgressioni, ma in maniera più profonda demolisce la potenza negativa del mala e dona all’uomo un cuore nuovo, un principio interiore docile allo Spirito, che gli permette di essere fedele al Signore. Il dominio del peccato è distrutto dalla morte di Cristo (2Cor 5,21; Gal 3,13; Rm 8,2-3.15.20) e il battezzato è morto al peccato (Rm 6,10-11), è liberato dal peccato (Rm 6,18.22), è creatura nuova (Rm 6,5; 2Cor 5,17).
Strettamente congiunta al peccato è la morte: ne costituisce l’inevitabile conseguenza (Rm 5,12; 7,11), il salario (Rm 6,23), la prole. Il peccato è il pungiglione avvelenato della morte (1Cor 15,56), la morte è il frutto del peccato (Rm 7,5; Gal 6,8), la sua compagna immediata (Rm 5,12; 6,21.23). Anche la creazione ne è coinvolta a causa del peccato degli uomini. Non si può sfuggire alla schiavitù della morte senza eliminare il peccato. Ogni tentativo di evitarla è inutile. Anche accettarla stoicamente non è atteggiamento cristiano. Solo in Cristo, risuscitato dalla potenza del Padre, sono infrante le catene della morte (Rm 8,11). Siamo viventi grazie alla fede e al battesimo (Rm 6,13.17.18.22-23). La morte non ci può più separare da Dio e dalla sicura vittoria del suo amore (Rm 8,38-39). Gesù l’ha « transustanziata »: da castigo l’ha trasformata in atto di obbedienza, di fiducia, di amore; da severa pedagoga, che ci ricorda la transitorietà di tutte le cose, l’ha fatta diventare mistagoga, realtà che ci introduce pienamente nel mistero di Cristo. La piena liberazione dell’uomo dalla morte si avrà solo nella risurrezione finale con la completa redenzione del nostro corpo (Rm 8,23), quando la morte sarà annientata per sempre. Già ora però il cristiano è liberato dalla morte, perché sa che non muore da solo, ma che gli è data la grazia di morire in Cristo e con Cristo.
Cristo ci libera anche dalla legge. Nessuno più di Paolo ha percepito la differenza radicale tra chi è sotto la legge e chi è sotto la grazia, tra chi è sotto la lettera e chi è sotto lo Spirito. Paolo dice frequentemente che il cristiano è liberato dalla legge, da ogni legge che cerchi di esercitare su di lui una coercizione esteriore (Rm 6,14; 7,1-6). La legge ha la funzione poco desiderata del carceriere o del pedagogo, incaricato di condurre i bambini al loro maestro (Gal 3,23-24). La legge porta l’uomo al peccato e alla morte, è stata aggiunta in vista delle trasgressioni (Gal 3,19), serve solo a dare piena coscienza della caduta (Rm 3,20; 5,20; 1Cor 15,56). L’affrancazione dalla legge è un elemento essenziale della liberazione operata da Cristo: liberato dal peccato e dalla morte, il cristiano non sarebbe salvato se non fosse liberato anche dalla legge (Rm 6,14). Stare sotto la legge equivale a stare sotto il dominio del peccato.
Paolo insiste su questa liberazione dalla legge perché, a differenza di quanto l’uomo ritiene normalmente, essa non basta a conferire la vita, a cambiare il cuore. La legge in se stessa, anche se propone il più sublime degli ideali, non è capace di trasformare l’uomo in un essere spirituale che vive della stessa vita di Dio. La legge non ha la capacità di conferire la vita, cioè di distruggere nell’uomo la potenza di morte che è il peccato, o di reprimerla e di arginarla. La legge, anzi, permette al peccato di esercitare la sua virulenza. Pur essendo destinata a preservare la vita, la legge in realtà diventa causa almeno occasionale di morte. Il peccato si serve della legge e ci seduce.
La situazione di schiavitù opprimente è quella dell’Antico Testamento, o più esattamente quella determinata dalla legge così come era interpretata e vissuta in alcune correnti farisaiche al tempo di Paolo. Egli ne aveva fatto l’esperienza personale. Nato sotto il segno di una valorizzazione radicale della legge di Dio, mantenuta pura da tutti gli influssi dell’ambiente ellenizzato, il movimento farisaico, al quale Paolo apparteneva, era caduto nel perfezionismo. La legge, staccata di fatto da quel contatto vivo e vivificante con Dio che aveva avuto all’inizio, veniva ora analizzata dall’uomo in tutti gli aspetti possibili e veniva applicata con un’insistenza puntigliosa a tutti i dettagli della vita. L’uomo che fosse riuscito ad osservarla integralmente poteva sentirsi perfetto. Ma si trattava di una perfezione illusoria, di perfezionismo appunto. La legge donata da Dio era divenuta uno strumento nelle mani dell’uomo che se ne serviva per costruire un proprio progetto di se stesso e non poteva non restarne deluso. L’uomo, infatti, quanto più vi si impegna tanto più si sente legato in una infinità di minuzie che non gli lasciano tregua. E quando riesce ad osservarle sente il suo rapporto con Dio e con gli altri terribilmente appesantito, opprimente. L’uomo così non può sentirsi davvero realizzato: ha la sensazione di un peso che grava sulla sua vita e che gli toglie il respiro; ha la sensazione di essere in stato di schiavitù. Paolo porta per tutta la vita il segno di questa esperienza amara e dice che la legge di Dio, finita nelle mani dell’uomo è diventata « lettera che uccide » (2Cor 3,6).
Paolo ha capito che la giustizia, cioè il rapporto salvifico con Dio, sta nel convertirsi e legarsi a Gesù. Ora giunge a una valutazione nuova di tutte le cose. La giustizia fondata sulla legge non è autentica, perché in fondo è basata sui nostri sforzi, sulle nostre capacità e pretese. La legge mi dice quello che devo fare, io lo faccio e mi sento in regola. Questo sistema sembra giusto, ma in realtà non fa uscire la persona da se stessa, la lascia nel suo egocentrismo, nella sua superbia. Tutti i suoi sforzi servono a nutrire il suo orgoglio più o meno consapevole. Invece la vera giustizia viene gratuitamente da Dio, e l’uomo è invitato ad accoglierla mediante la fede: allora la persona esce da se stessa, riconosce di non poter andare avanti con le proprie forze, di aver bisogno di una relazione con un’altra Persona che la salverà. Quest’altra Persona è Gesù Cristo morto e risorto, che ci introduce nella relazione con la Trinità. Il punto essenziale della conversione è capire che il peccato consiste nel mettere la propria sicurezza in se stessi, nelle proprie opere, nel pensare bene di se stessi, nel pretendere di salvarsi con le proprie opere, con l’esecuzione fedele della legge.
Noi siamo liberati dal peccato, dalla morte e dalla legge, perché uniti a Cristo abbiamo dentro di noi una legge nuova: quella dello Spirito, quella che consiste nello Spirito, e lo Spirito è libertà. Parlando di legge dello Spirito, Paolo si richiama a due passi ben precisi dell’Antico Testamento, dove i profeti Geremia ed Ezechiele promettono un’alleanza nuova, che consiste nel dono di una legge interiore all’uomo, nel dono dello Spirito (Ger 31,31-33; Ez 36,26-27). Tramite Gesù siamo liberati dalla legge, perché abbiamo la legge dello Spirito: ci viene messa nel cuore una forza nuova, un dinamismo che consiste nell’azione Spirito stesso dentro di noi. Non si tratta più di una norma esterna, di un’indicazione magari più perfetta e più elevata di quelle contenute nell’Antico Testamento, ma di un dinamismo nuovo che ci viene dato, di un principio di azione che ci spinge ad agire spontaneamente. Lo Spirito Santo che ha agito in Gesù, rendendolo obbediente in tutto al Padre e solidale coi fratelli fino alla morte, ci viene donato perché agisca dentro di noi in maniera analoga: viene in noi, vive in noi e ci dà una connaturalità con Gesù; è lui che prega il Padre in noi, è lui che ama il Padre e i fratelli in noi. Quando lo Spirito agisce così in noi, siamo veramente liberi.
Lo Spirito ci permette di realizzare quello che Dio ci domanda. Siamo liberati dalla forza del peccato, dalla paura della morte, dalla costrizione delle norme esterne perché lo Spirito ci dona la capacità di lasciarci amare dal Padre, di fidarci costantemente di lui chiamandolo « Abbà » e dicendogli « amen », ci infonde la capacità di incarnare la fede nella carità, di amare Dio e di amare gli altri. Lo Spirito ci libera dal peccato, dalla morte, dalla costrizione della legge per vivere con un intuito interiore da figli di Dio e da fratelli tra noi, per vivere in alleanza con Dio e coi fratelli, per essere in pace con Dio e tra di noi: ci libera togliendo da noi la paura e la costrizione e infondendo in noi l’amore, che è la pienezza della legge. Animato dallo Spirito, l’uomo evita quasi d’istinto ciò che è carnale e in lui nasce invece il frutto dello Spirito che « è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé » (Gal 5,22).
A questa scoperta Paolo è arrivato nel momento della sua vocazione, sul quale riflette anche nel passo che oggi abbiamo sentito. Paolo ritorna frequentemente alla sua vocazione: ogni volta che le difficoltà lo circondano pensa a quel momento fondamentale della sua esistenza. Se non coltiviamo la consapevolezza della nostra chiamata alla fede e al ministero, a un certo punto le motivazioni del nostro agire si inaridiscono. Dovremmo perciò amare le difficoltà e le avversità che il ministero vissuto nella sua verità incontra. Sono proprio esse, se le viviamo come prova, a far crescere in noi la coscienza del senso di ciò che facciamo. Le cose facili, invece, inducono alla pigrizia e non ci aiutano a maturare il senso della chiamata. Paolo è convinto che la sua chiamata alla fede in Cristo e al ministero apostolico, come ogni vocazione, è anzitutto un’opera di Dio e non un fatto umano. La nostra vocazione al cristianesimo e al ministero presbiterale è opera di Dio, che dobbiamo riconoscere con stupore e riconoscenza.
La vocazione di Paolo fu umanamente inspiegabile. La sua strada normale era quella di continuare a vivere da fariseo, confidando nelle proprie opere, e a rifiutare Cristo, a ostacolarlo anche con la persecuzione violenta. Ma Dio intervenne e diede a Paolo una vocazione che andava esattamente in senso contrario. Dio ha chiamato una creatura peccatrice: questo è successo per Paolo, per Pietro, per tanti uomini e tante donne, per tutti noi. La spiegazione della chiamata non è mai nei meriti umani, ma nella generosità e nella misericordia straordinaria di Dio. La vocazione non è mai basata sulla nostra dignità precedente: occorre piuttosto dire che la vocazione ci conferisce gratuitamente la nostra dignità. La elezione di Dio è gratuita e precede ogni azione umana: è manifestazione della grazia e della misericordia di Dio e non ricompensa dei nostri sforzi: siamo tutti investiti del nostro ministero « per la misericordia di Dio » (2Cor 4,1). Dio si è degnato di mettersi in relazione con noi e di metterci in relazione personale con lui e per questo non possiamo mai perderci d’animo (cfr. 2Cor 4,1).
Paolo sa che Dio ha scelto un persecutore per farne un apostolo. In questo modo sa di essere chiamato a vivere la continuità tra dono battesimale e dono apostolico. Il ministero è lo sviluppo delle radici battesimali della nostra esistenza. Di conseguenza Paolo e ogni ministro non possono attribuire ai propri meriti la vocazione o la fecondità del loro ministero (1Cor 15,10; Gal 1,6). Paolo paragona la chiamata sulla via di Damasco con l’opera creatrice di Dio: il Dio che ha fatto risplendere la luce dalle tenebre, ha illuminato il suo cuore, dissolvendone le tenebre, per renderlo capace di far risplendere la gloria divina che rifulge sul volto di Cristo (2Cor 4,6). È Dio che opera in Paolo ed è ancora Dio che gli affida un compito. Questa è la grande lezione che Paolo ha imparato e ha insegnato a tutti.
Paolo è consapevole che questa iniziativa di Dio è stata preparata da lontano: Dio ha avuto un progetto su di lui fin dal seno materno (Gal 1,15). Dio si è rivolto a Paolo ritenendolo persona capace di sentire, di ascoltare, di capire, di rispondere. Dio non ha voluto fare tutto da sé, ma ha istituito un rapporto personale con Paolo: per questo gli ha parlato. In quella chiamata Paolo ha riconosciuto un fatto della grazia, della benevolenza gratuita di Dio. Da questo punto di vista, la vocazione di Paolo è prototipo di tutte le nostre vocazioni: ci fu data la grazia, per grazia siamo stati chiamati.
Questa grazia consiste nel poter conoscere il Figlio suo. Anche per Pietro è stato così (cfr. Mt 16,17). Ogni vocazione è un’azione del Padre che mette la persona chiamata in rapporto profondo col Figlio suo. Si tratta di venir chiamati a conoscere il cuore del Figlio di Dio fatto uomo. Dio non chiama per assegnare in primo luogo una funzione: la sua chiamata è anzitutto una grazia personale, dona la conoscenza intima di Gesù, Figlio di Dio. Paolo ormai impara a vedere se stesso nel Cristo che gli si fa incontro.
Questa conoscenza intima del Figlio viene data in vista di un annuncio: per far « risplendere la gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » (2Cor 4,6), per far conoscere il cuore di Cristo come via per capire il Padre, per far conoscere il suo amore a tutti. Paolo capisce che dall’esperienza di Damasco nasce il suo impegno missionario. L’amore che Dio gli rivela è universale, riguarda tutti. Paolo comprende che Dio lo chiama a diventare apostolo del suo amore a tutte le genti, comprende che ha ricevuto la splendida missione di annunciare tra le nazioni la meravigliosa novità: tutti sono da lui amati.
La chiamata di Dio ha comportato per Paolo un cambiare tutto l’orientamento della vita, tutto il sistema di valori cui era legato, di cui era orgoglioso, tutto ciò che costituiva la sua sicurezza spirituale. Sulla via di Damasco ha rigettato tutto questo sistema di valori non per abbracciare un nuovo sistema di valori, ma per seguire una persona: Gesù Cristo. Paolo ha ormai un solo tesoro: Gesù Cristo morto e risorto. Prima riteneva di essere giusto davanti a Dio con l’osservanza delle leggi, dei divieti e delle prescrizioni, cioè con le proprie prestazioni. Non si accorgeva che in tal modo al centro di tutto non poneva Dio, autore e origine di ogni bene, ma se stesso. Cercava la salvezza nelle proprie forze, sicuro di possedere la verità. Sulla via di Damasco è liberato dalla convinzione e dal peso di salvarsi con le sue possibilità: la salvezza non è realizzabile  con le sue sole forze, ma unicamente grazie alla forza interiore che viene dallo Spirito.
Paolo capisce che convertirsi è prendere l’adesione a Cristo come base di tutta la propria esistenza. Per raggiungere Cristo c’è un solo mezzo: entrare nel suo mistero pasquale, condividere la sua croce, la sua sofferenza, per condividere anche la sua gloria. Paolo ha imparato a mettere il suo vero io nel Cristo. Per questo userà di frequente le espressioni « in Cristo », « Cristo, mio Signore », diventando il primo mistico cristiano. In Cristo, Paolo vive, parla, lavora, soffre, è lieto, si prodiga, è debole, è forte, ama, è fiducioso. La nuova vita dell’apostolo prende inizio con la scoperta che in ogni momento è valida l’espressione: « Sono vostro servitore per amore di Gesù » (cfr. 2Cor 4,5).
Paolo capisce che il primo modo per esercitare questo servizio sacerdotale è offrire se stesso a Dio: Dio non lo si onora pensando di placarlo con alcune pratiche aggiunte alla vita, come i digiuni o le penitenze. Dio lo si onora quando, non per placarlo, ma in ringraziamento per i suoi doni e a riconoscimento della sua bontà gli offriamo, uniti con Gesù, la nostra vita concreta, con le sue gioie, le sue difficoltà, le sue tentazioni, le sue speranze (cfr. Rm 12,1-2). Certamente questa offerta di noi stessi comporta anche le opere buone, ma esse sono buone perché fatte senza insuperbirsi, perché sono riconosciute anzitutto come opere dello Spirito in noi, opere della grazia di Cristo, risposta al dono di Dio.
Siamo sempre chiamati a scegliere fra una vita solitaria di schiavitù e una vita di libertà nello Spirito che ci permette di amare. Chi vuole fondare il proprio valore personale sui suoi meriti, sulle sue attività e decisioni, rimane solo nella sua superbia più o meno consapevole: con tutti i suoi sforzi nutre il proprio orgoglio, anche compiendo atti in apparenza generosi. Invece chi accoglie in tutto la fede in Cristo, chi aspetta dal suo Spirito la forza per andare avanti, per vivere nell’amore, compie la conversione essenziale. Fare questa conversione è una liberazione, che ci fa uscire da noi stessi e ci dà una serenità straordinaria e anche una grande gioia, perché non c’è serenità e gioia più grande che vivere continuamente nell’amore suscitato in noi dallo Spirito di Cristo.
Comprendiamo ora perché la libertà per Paolo, più che antropologica o sociologica, è eminentemente teologica o trinitaria. In quanto buona novella del Figlio di Dio entrato nel tempo per dimorarvi e per accoglierlo in sé, Paolo sperimenta che il vangelo è originariamente vangelo della libertà. La libertà che esso proclama è anzitutto quella del Dio che è così originariamente libero da sé, da essere costitutivamente dono di sé all’altro, comunione di amore delle tre Persone e loro apertura verso la realtà creata dal nulla, creata cioè unicamente per una decisione di amore libero e gratuito. Questa apertura di Dio verso il creato si manifesta nell’atto della sua continua creazione e nella storia della redenzione e ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. Comunicando la sua vita, la Trinità partecipa questa libertà divina agli uomini. L’uomo è chiamato ad essere soprattutto a immagine del Figlio diletto, ad essere icona creata del Figlio, il quale nella Trinità è accoglienza increata. Nel mistero trinitario il Figlio è l’eternamente aperto ed accogliente davanti alla sorgente purissima dell’amore e della vita che è il Padre. Il Figlio è la capacità di una libera accoglienza dell’Altro: nella libertà sta eternamente davanti al Padre e da lui si lascia amare, si lascia generare nel processo eterno dell’Amore. Per l’uomo dimorare nella libertà donata significa unirsi al Figlio, mettersi alla sua sequela ed esprimersi nell’esercizio della libertà continuamente accolta e testimoniata, per appartenere incondizionatamente a Dio. Gesù ci ha liberati nella verità, che ci fa conoscere quale è la nostra vera patria e ci dà la forza di conseguirla nella pazienza del divenire. La libertà cristiana è pertanto l’incondizionato appartenere a Dio per mezzo di Cristo nello Spirito Santo, che si traduce nell’esistenza dell’uomo, il quale da un lato è liberato dalla schiavitù del peccato e dall’angoscia prodotta dal peccato, dalla morte e dalla legge, e dall’altro è reso libero per servire gli altri nella giustizia e nella carità. L’essere affrancato in Cristo diviene sorgente di una vita vissuta nella libertà e nel coraggio dell’amore.
Concludendo, due sono i pensieri di queste splendide righe scritte da Paolo e che oggi abbiamo sentito: la libertà che ha la sua fonte nello Spirito, dono di Gesù, Signore risorto, e la continua riscoperta della propria chiamata da parte di Dio. Incontrare il Signore risorto vuol dire anzitutto essere liberati dalle paure e dai pesi insiti in ogni sistema religioso basato unicamente sulla legge. Questa libertà non è anarchia, né spontaneismo emotivo, perché ha la sua fonte nello Spirito, ma è invece venire sottratti al regime del peccato, della morte e della legge, che si alimenta di egoismo e di angoscia, per fare spazio al dinamismo dell’amore, che fa maturare il progetto dell’uomo nuovo già realizzato in Gesù glorificato. È opportuno allora domandarci: dove poniamo il nostro valore personale? Sulle nostre opere, sui nostri sforzi, o unicamente sulla persona di Gesù e sulla sua grazia? C’è sempre il pericolo che altri tesori umani ci facciano perdere di vista l’unica cosa decisiva: la nostra relazione personale con Gesù, che ci ha chiamati, ci vuole liberi, ci vuole comunicare il suo amore, ci vuole partecipi del dinamismo della sua morte e della sua risurrezione. Pretendere di meritare la grazia della fede sarebbe chiudersi al dono di Dio. La base di tutta la vita spirituale è il dono di Dio: allora la nostra vita diventa libera. La conversione essenziale consiste nel riconoscere che non siamo in grado di porre noi le basi della nostra vita spirituale, ma che dobbiamo fondare tutto sull’amore di Cristo, sulla sua grazia. Chi è nel peccato in modo vistoso, riconosce più facilmente questa sua impotenza; chi non è nel peccato in modo vistoso, è tentato dallo spirito farisaico, che consiste nel credere di essere in grado di fabbricare la propria santità, nell’avere l’ambizione di salvarsi da soli. Paolo ha denunciato con forza questa illusione dell’uomo che si crede di essere l’artefice del proprio valore davanti a Dio e davanti agli uomini.
Incontrare il Signore risorto vuol dire, in secondo luogo, ritornare alle radici della nostra vocazione battesimale e presbiterale. Meditando la vocazione di Paolo siamo invitati a ringraziare Dio per il dono fatto a Paolo: la sua vocazione è diventata sorgente di grazia per tutta la chiesa. Poi possiamo ricordare la nostra vocazione personale, la nostra vocazione battesimale e quella al ministero sacerdotale; possiamo pensare alle grazie personali ricevute, alle difficoltà superate, alla conoscenza di Gesù che abbiamo ricevuto, alle persone alle quali l’abbiamo potuto annunciare. Possiamo riferire a Dio  l’iniziativa nella nostra vita: quella battesimale e quella apostolica. Egli rifulse nei nostri cuori, ha salvato la nostra esistenza dall’ambiguità del non senso, l’ha cristificata, l’ha divinizzata per un impegno missionario, per far rifulgere Cristo nel volto di ogni uomo che incontriamo.
Chiediamo a Paolo che ci sia vicino per conoscere la libertà dal peccato, dalla morte e dalla legge che ci è stata donata nel battesimo, per conoscere la vocazione ministeriale alla quale siamo stati chiamati, in modo che la nostra vita sia un « venir trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore » (2Cor 3,18), un venir trasformati in una gloria sempre maggiore, per essere simili a Cristo grazie all’azione dello Spirito del Signore, in modo che nella nostra vita acquistiamo la luminosità di Cristo. Questa qualità della vita, questa libertà viene da Gesù, che dà se stesso per noi, viene dall’eucaristia che stiamo celebrando: in essa incontriamo il Cristo morto e risorto, da essa viene la forza permanente della libertà per ogni cristiano e per ogni presbitero.

Andalo, 12 giugno 1997                                                                     don Lorenzo Zani

«La grazia di Dio salvatore: libera, bastevole, per noi necessaria» – Paolo VI (l’esperienza e il messaggio di Paolo)

 dal sito:

http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=21298
 
  DA 30 GIORNI –

«La grazia di Dio salvatore: libera, bastevole, per noi necessaria» (Paolo VI)

Con queste parole Giovanni Battista Montini, negli appunti scritti da giovane sacerdote sulle Lettere di san Paolo, indica l’esperienza e il messaggio dell’Apostolo

di don Giacomo Tantardini  
 
      Ringrazio chi mi ha invitato in questa bella città di Ortona dove, nella Cattedrale, è custodito il corpo dell’apostolo Tommaso. Ringrazio sua eccellenza monsignor Ghidelli per la sua presenza a questo incontro.
      Io non ho competenza specifica per parlare di san Paolo. Quello che conosco di Paolo nasce semplicemente dalla lettura delle sue Lettere, in particolare da quella lettura che ne viene fatta nella santa messa e nella preghiera del breviario, e credo che questa sia la cosa più importante. Paolo VI in un discorso tenuto in un convegno di esegeti sulla risurrezione di Gesù, citando sant’Agostino, diceva che per comprendere la Scrittura «praecipue et maxime orent ut intelligant», la cosa «più importante e principale è pregare per capire».
      Così nella preghiera può essere donato di intuire l’esperienza che ha fatto Paolo, l’esperienza di essere amato da Gesù. Iniziando l’Anno paolino, papa Benedetto XVI ha detto che Paolo è un nulla amato da Gesù Cristo. «Io sono un nulla», dice Paolo stesso al termine della seconda Lettera ai Corinzi (2Cor 12, 11) e nella Lettera ai Galati: «Ha amato me e ha dato sé stesso per me» (Gal 2, 20).
      Così anche a noi, nella distanza infinita dall’apostolo, può accadere la stessa esperienza, la stessa comunione di grazia, perché è reale la comunione dei santi. Ed è questa identità di esperienza, l’esperienza di essere gratuitamente amati da Gesù Cristo, che fa rivivere le parole dell’apostolo, che può rendere Paolo così vicino, così prossimo, così amico, così familiare.
      Vorrei iniziare leggendo alcune frasi pronunciate da papa Benedetto durante l’Angelus di domenica 25 gennaio. Quest’anno, la festa della conversione di san Paolo è caduta di domenica, e il Papa, spiegando l’incontro di Saulo con Gesù sulla via di Damasco (anche nella messa di oggi lo abbiamo letto dagli Atti degli apostoli), ha detto queste parole che mi hanno sorpreso e confortato, e che ho riletto tante volte: «In quel momento [quando ha incontrato Gesù: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9, 5)] Saulo comprese che la sua salvezza [possiamo anche dire la sua felicità, perché il riverbero umano della salvezza è la felicità, il riverbero umano della Sua grazia è il piacere della Sua grazia] non dipendeva dalle opere buone compiute secondo la legge [mi ha molto colpito l’aggettivo buone. Opere buone. Il Papa ha voluto sottolineare che la salvezza non dipende dalle opere buone, compiute secondo la legge, opere buone, come buona e santa è la legge (cfr. Rm 7, 12)], ma dal fatto che Gesù era morto anche per lui, il persecutore [«Ha amato me e ha dato sé stesso per me» (Gal 2, 20)], ed era, ed è, risorto». L’altra parola che mi ha colpito è stata quel verbo al presente: «Era, ed è, risorto».
      Benedetto XVI, quest’anno, ha tenuto venti meditazioni su san Paolo durante le udienze del mercoledì. Una di queste meditazioni, forse la più bella, l’undicesima, tratta della fede di Paolo nella risurrezione del Signore. Commentando il capitolo 15 della prima Lettera ai Corinzi, il Papa ha sottolineato che Paolo trasmette ciò che a sua volta ha ricevuto (cfr. 1Cor 15, 3), cioè «che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e che è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15, 3-5). La risurrezione di Gesù è un fatto accaduto in un momento preciso del tempo e Colui che è risuscitato, in quel preciso momento, è vivo ora, in questo momento. È risorto e quindi vivo nel presente.
      La conversione di Paolo, secondo il Papa, sta in questo passaggio. Il passaggio dal ritenere che la salvezza dipendeva dalle sue opere buone, compiute secondo la legge (la legge è la legge di Dio, la legge sono i dieci comandamenti di Dio), al riconoscere semplicemente che la salvezza era ed è la presenza di un Altro. Era ed è la presenza di Gesù.
      Sempre nell’Angelus di domenica 25 gennaio Benedetto XVI ha aggiunto (e la cosa mi ha colpito anche perché il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che stimo molto e che posso dire amico di 30Giorni, ha sottolineato questo accenno del Papa) che non si potrebbe propriamente parlare di conversione di Paolo, perché Paolo già credeva nel Dio unico e vero ed era «irreprensibile» per quanto riguarda la legge di Dio. Lo dice lui stesso nella Lettera ai Filippesi (3, 6).
      La conversione di Paolo (e qui permettetemi di riprendere le parole che sant’Agostino usa per indicare la propria conversione) è semplicemente il passaggio dalla sua dedizione a Dio al riconoscimento di quello che Dio ha compiuto e compie in Gesù.
      Agostino così descrive la propria conversione: «Quando ho letto l’apostolo Paolo [e subito dopo – perché non basta neppure leggere le Scritture – aggiunge:] e quando la Tua mano ha curato la tristezza del mio cuore, allora ho compreso la differenza inter praesumptionem et confessionem / tra la dedizione e il riconoscimento». Praesumptio non indica inizialmente una cosa cattiva. Alla lunga decade in presunzione cattiva; ma inizialmente indica il tentativo dell’uomo di voler raggiungere l’ideale buono intuìto. La conversione cristiana è il passaggio da questo tentativo dell’uomo di compiere il bene (le opere buone, diceva papa Benedetto) al semplice riconoscimento della presenza di Gesù. Dalla praesumptio, dedizione, alla confessio, riconoscimento. La confessio, riconoscimento, è come quando il bambino dice: «Mamma». Come quando la mamma viene incontro al bambino e lui le dice: «Mamma». 
 
      La conversione cristiana, per Agostino e per Paolo, è (permettetemi di usare questa immagine di don Giussani che, secondo me, non ha l’equivalente) il passaggio dall’entusiasmo della dedizione all’entusiasmo della bellezza; dall’entusiasmo della propria dedizione, che in sé è buono, all’entusiasmo destato da una presenza che attrae il cuore, una presenza che gratuitamente si fa incontro e gratuitamente si fa riconoscere. Paolo non ha fatto nulla per incontrarLo. Il Suo gratuito venire incontro attua il passaggio dalla nostra dedizione alla bellezza della Sua presenza che per attrattiva si fa riconoscere. E tra dedizione e riconoscimento non c’è contraddizione. Giussani dice semplicemente che «l’entusiasmo della dedizione è imparagonabile all’entusiasmo della bellezza». È lo stesso termine che usa sant’Agostino quando descrive il rapporto tra la virtù degli uomini e i primi piccoli passi di chi pone la speranza nella grazia e nella misericordia di Dio.
      Potremmo anche dire che, quando accade di vivere per grazia l’esperienza stessa che Paolo ha vissuto, l’identica sua esperienza, nell’infinita distanza da lui, è come se tutte le parole cristiane, la parola fede, la parola salvezza, la parola chiesa, fossero trasparenti dell’iniziativa di Gesù Cristo. È Lui che desta la fede. La fede è opera Sua. È Lui che salva. È Sua iniziativa il donare la salvezza. È Lui che costruisce la Sua chiesa. «Aedificabo ecclesiam meam» (Mt 16, 18). Aedificabo è un futuro: «Edificherò la mia chiesa» sulla professione di fede di Pietro, sulla grazia della fede donata a Pietro (cfr. Mt 16, 18). È Lui che edifica personalmente, nel presente, la Sua chiesa su un Suo dono.
      Come è bello dire le parole cristiane più semplici, la parola fede, la parola speranza, la parola carità, e accorgersi che queste parole indicano un’iniziativa Sua, fanno intravvedere un gesto Suo, il Suo agire. Come è accaduto a santa Teresina di Gesù Bambino: «Quando sono caritatevole, è solo Gesù che agisce in me».
      Noi sacerdoti, la seconda settimana dopo Pasqua, abbiamo letto nel breviario, dall’Apocalisse, le lettere che Gesù invia alle sette chiese. In una di queste lettere Gesù dice: «Non hai rinnegato la mia fede» (Ap 2, 13). La mia fede. È la fede di Gesù.
      «Gratia facit fidem». Come è semplice e bella questa espressione di san Tommaso d’Aquino! È la grazia che crea la fede. È Lui che si fa riconoscere. «Nessuno viene a me se non lo attira il Padre mio» (Gv 6, 44.65), dice Gesù. E sant’Agostino commenta: «Nemo venit nisi tractus / Nessuno viene [a Gesù], se non è attirato». È Sua iniziativa la fede. È Sua iniziativa la salvezza. È Sua iniziativa la Sua chiesa.
      Permettetemi di raccontarvi uno dei miei primi incontri con don Giussani. L’occasione mi è stata data dal fatto che a Venegono, nel mio seminario, ho conosciuto Angelo Scola, l’attuale patriarca di Venezia. È stato lui a farmi incontrare don Giussani. Ricordo ancora quell’incontro a Milano. Giussani parlava a un gruppo di giovani. A un certo punto chiese: «Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo? Che cosa, adesso, ci mette in rapporto con Gesù Cristo?». Alcuni risposero: «La chiesa», «la comunità», «la nostra amicizia», eccetera. Alla fine di tutti questi interventi, Giussani ripeté la domanda: «Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo?», e poi diede lui stesso la risposta: «Il fatto che è risorto». Questa cosa non la dimenticherò più! «Il fatto che è risorto». Perché se non fosse risorto, se non fosse vivo, la chiesa sarebbe un’istituzione meramente umana, come tante altre. Un peso in più. Tutte le cose meramente umane alla fine diventano un peso.
      «Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo? Il fatto che è risorto». La chiesa è la visibilità di Lui vivo. «La chiesa non ha altra vita», dice il Credo del popolo di Dio di Paolo VI, «se non quella della Sua grazia». Non ha altro inizio, momento per momento, che l’attrattiva Sua, l’attrattiva della Sua grazia. La chiesa è il termine visibile del gesto di Gesù vivo che incontra il cuore e lo attrae.
      Leggere san Paolo, vivendo per grazia quello che Paolo ha compreso (come dice il Papa) nella sua conversione, rende tutte le parole cristiane trasparenti di Lui, di Gesù Cristo, dona a tutte le parole cristiane questa leggerezza. Altrimenti diventano pesanti. Se la fede fosse un’iniziativa nostra, saremmo finiti. Siccome è un’iniziativa Sua, è possibile sempre il rinnovarsi del Suo dono. E quindi è possibile sempre ricominciare. È un’iniziativa Sua, in ogni istante. «Gratia facit fidem… quamdiu fides durat».
      È stata una cosa molto bella che nel 1999 la Commissione teologica di studio tra la Chiesa cattolica e i luterani, valorizzando proprio questa frase di san Tommaso d’Aquino, ha riconosciuto che tra la teologia di Lutero sulla giustificazione per la fede e aspetti essenziali della dottrina dogmatica del Concilio di Trento nel decreto De iustificatione c’è una sorprendente identità.
      San Tommaso d’Aquino dunque dice che «la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia, ma in ogni istante in cui dura». E aggiunge questa osservazione bellissima: ci vuole la stessa attrattiva di grazia, lo stesso tesoro di grazia, sia per far rimanere nella fede, adesso, noi che crediamo, sia per far passare una persona (se ci fosse qui uno che non crede) dalla non fede alla fede.
      Ho detto questo solo per dire che la conversione di Paolo, come di ogni cristiano, si attua nel passaggio dall’iniziativa dell’uomo all’iniziativa di Gesù, allo stupore dell’iniziativa di Gesù, alla confessio supplex. Com’era bello, nella messa in latino, quando, prima del Sanctus, si diceva sempre: «Supplici confessione / Con riconoscimento che domanda». Perché non si può riconoscere una presenza che ti ama se non domandando che essa continui a volerti bene.
      Ora, tre suggerimenti.  
 
      1. «… nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato…»
      Leggiamo Galati 1, 15 in cui Paolo stesso descrive il passaggio dalla sua iniziativa all’iniziativa di Dio.
      «Ma quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre… [c’è un mistero da cui nasce la grazia della fede ed è la scelta di Dio, l’elezione di Dio. Non possiamo giudicare noi questo mistero: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16)] … quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia [com’è bello questo mi chiamò con la sua grazia! Non basta la voce, neppure la voce di Gesù, se l’attrattiva di Gesù non tocca il cuore. È la Sua grazia, è la Sua attrattiva che commuove il cuore] si compiacque di rivelare a me suo Figlio…». Si degnò di mostrarmi Suo Figlio. Questa è la conversione di Paolo. Colui che mi ha scelto e mi ha chiamato con la Sua grazia mi ha fatto riconoscere Suo Figlio.
      Galati 2, 20: «Questa vita che vivo nella carne [nella condizione umana, segnata dal peccato originale, anche dopo il battesimo. Il battesimo toglie il peccato, ma lascia la fragilità che proviene dal peccato e che inclina al peccato], io la vivo nella fede del Figlio di Dio [nel riconoscimento del Figlio di Dio], che mi ha amato e ha dato sé stesso per me».
      Vi leggo come papa Benedetto XVI ha commentato questa frase: «La sua fede [la fede di Paolo] è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale […] Cristo ha affrontato la morte […] per amore di lui – di Paolo – e, come Risorto, lo ama tuttora. […] La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore».
      La fede nasce dall’impatto dell’amore di Gesù con il cuore di Paolo. La fede è l’iniziativa dell’amore di Gesù Cristo sul suo cuore.
      Permettetemi di leggervi una frase che ho scoperto andando a Cascia a pregare santa Rita (santa Rita era sposata e aveva due figli. Il marito viene ucciso e lei perdona pubblicamente l’assassino e domanda che i suoi due figli non vendichino il padre. Poi entra nel monastero delle monache agostiniane di Cascia). La frase che vi leggo è di un beato monaco agostiniano il cui scritto sulla passione di Gesù era conosciuto da santa Rita: «L’amicizia è una virtù, ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità». Mi sembra che queste parole indichino da dove provenga la carità e che cosa sia la carità. L’amicizia è una virtù, è il vertice delle virtù. San Tommaso d’Aquino dice che la carità è amicizia. Ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità. Viene prima l’essere amati (cfr. 1Gv 4, 19). Per amare bisogna prima essere amati. Bisogna prima essere contenti di essere amati.
      Sant’Agostino, in quel brano stupendo in cui, paragonando tra loro gli apostoli Pietro e Giovanni, si domanda chi sia più buono tra i due, risponde che più buono è Pietro, tanto è vero che a Gesù che gli domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?» (Gv 21, 15), Pietro risponde: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene» (Gv 21, 15). Quindi Pietro è più buono di Giovanni. Confrontando la condizione di Pietro, che vuole bene di più a Gesù, con la condizione di Giovanni, che è più amato da Gesù, Agostino dice: «Facile responderem meliorem Petrum, feliciorem Ioannem / È facile per me rispondere che Pietro è più buono [perché vuole più bene a Gesù] ma Giovanni è più felice [perché è amato di più da Gesù]». L’essere felice dipende dall’essere amato. Non dipende neppure dal nostro povero amore. Pietro è più buono perché vuole più bene a Gesù, ma Giovanni è più felice perché è più amato da Gesù.
      Il Papa dice che la fede di Paolo è l’impatto dell’amore di Gesù sul suo cuore e così questa stessa fede, proprio perché è l’impatto dell’amore di Gesù sul suo cuore, desta ed è anche il povero amore di Paolo a Gesù. Questa attrattiva amorosa di Gesù, rendendo lieto il cuore di Paolo, desta anche il povero amore di Paolo a Gesù, povero come quello di Pietro.
      Papa Benedetto, in un’udienza del mercoledì, commentando la domanda di Gesù a Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?», ha insistito sulla differenza dei verbi greci che Gesù e Pietro usano. Gesù usa un verbo che indica un amore totalizzante («… mi ami tu?»). Pietro usa un verbo che esprime il povero amore umano («tu sai che ti voglio bene»). «Ti voglio bene così come è possibile a un povero uomo». Allora, la terza volta (è bellissimo come il Papa descrive questo!), Gesù si adegua al povero amore umano di Pietro e gli chiede semplicemente se gli vuole bene, così come un povero uomo può volere bene.
      Leggo ora 1 Corinzi 15, 8 e seguenti. Anche qui Paolo descrive l’incontro con Gesù sulla via di Damasco: «In seguito, ultimo fra tutti…». Come è bello questo ultimo fra tutti! Nella liturgia ambrosiana il sacerdote che celebra la messa dice: «Nobis quoque minimis et peccatoribus». Nella liturgia romana dice solo: «Nobis quoque peccatoribus». Nella liturgia ambrosiana colui che celebra la santa messa, che sia il vescovo oppure l’ultimo prete, dice: «Anche a noi che siamo i più piccoli e peccatori». Così Paolo dice di essere l’ultimo, il più piccolo.
      «In seguito ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io, infatti, sono l’ultimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me». 
 
      2. Paolo è sempre sospeso all’iniziativa di Gesù
      Paolo è sempre sospeso all’iniziativa della grazia. E questa è una delle cose più impressionanti per chi legge le sue Lettere. Non solo l’inizio è grazia, non solo l’inizio è iniziativa di Gesù. Paolo è sempre sospeso all’iniziativa di Gesù, momento per momento. Come è nella realtà per ciascuno di noi. Ma l’esperienza di Paolo, da questo punto di vista, è di una drammaticità e di una bellezza uniche.
     
      Vi leggo un brano, che già nel mio seminario mi confortava tanto, dalla seconda Lettera ai Corinzi, 12, 7 e seguenti. Allora mi colpivano le parole, ora il cammino della vita, per Sua grazia e Sua rinnovata misericordia, ha donato realtà a quelle parole.
      La seconda Lettera ai Corinzi per me è la Lettera più bella perché è quella in cui Paolo – lo dice lui stesso – apre tutto il suo cuore (2Cor 6, 11). È la Lettera in cui Paolo di fronte alla «dolcezza e mitezza di Cristo» (2Cor 10, 1) descrive quello che lui è, l’inermità che lui è, la fragilità che lui è.
      «Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia [comunque si legga questa “spina nella carne”, questa fragilità, questa tentazione, Paolo dice così]. A causa di questo [a causa di questa sofferenza] per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me [che allontanasse questa sofferenza, questa tentazione, questa fragilità]. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”». La Sua forza si manifesta pienamente nella debolezza.
      Permettetemi di fare una piccola correzione a una frase che ho letto prima in un pannello della mostra su san Paolo. Non avrei scritto che Paolo è «orgoglioso della sua debolezza». Non si può essere orgogliosi della propria debolezza. Sant’Ireneo, commentando questo brano della seconda Lettera ai Corinzi, e avendo presente la gnosi (uno degli elementi essenziali dell’eresia gnostica è la non distinzione tra il bene e il male, fino a porre, ed Hegel lo teorizza, il male in Dio e da Dio), è attentissimo a distinguere la debolezza dalla grazia. La debolezza rende evidente la grazia. La debolezza, quando viene abbracciata, rende più evidente l’essere abbracciati. Ma il positivo è l’essere abbracciati, non la debolezza. Nella debolezza, che è la condizione umana, l’essere abbracciati gratuitamente da Gesù è più evidente. Quando un bambino è ammalato, la mamma e il papà è come se gli volessero più bene, ma non è un valore l’essere ammalato del bambino. È che quella debolezza rende più evidente l’essere amato. In un tempo in cui la gnosi culturalmente è egemone nella mentalità del mondo e tante volte anche nella Chiesa del Signore, come è importante questa distinzione! La debolezza non è in sé stessa un bene. La debolezza rende più evidente l’essere abbracciati quando si è abbracciati, l’essere amati quando si è amati. Rende più evidente la gratuità dell’essere amati. Il peccato è peccato e il peccato mortale merita l’inferno, come dice il Catechismo. Ma quando Gesù, dopo essere stato tradito, guardò Pietro (Lc 22, 61), quello sguardo rese più evidente l’amore di Gesù al povero Pietro.
      «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo». La debolezza è la condizione perché la Sua potenza si riveli con più evidenza a tutti.  
 
      3. Il Vangelo che Paolo trasmette
      Due brevi cenni sull’annuncio di Paolo.
      Che cosa annuncia Paolo? Innanzitutto quello che lui, a sua volta, ha ricevuto. Come è bello! Paolo non inventa nulla, annuncia quello che, a sua volta, ha ricevuto.
      Vi leggo 1 Corinzi 15, 1 e seguenti. Questi versetti racchiudono tutto l’annuncio di Paolo. Tutto l’annuncio di Gesù Cristo.
      «Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve lo ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici». Paolo annuncia la testimonianza di Gesù. «La testimonianza di Dio» (1Cor 2, 1). La testimonianza che Dio ha dato col risuscitare Gesù dai morti. La testimonianza che Gesù Cristo ha dato di essere risorto col mostrarsi ai discepoli. Fa parte dell’essenza dell’annuncio cristiano il rendersi visibile del Risorto ai testimoni che Lui sceglie. Se non si fosse reso visibile ai testimoni, se non avesse dato Lui stesso testimonianza di essere risorto, la testimonianza degli apostoli sarebbe stata una loro invenzione.
      Heinrich Schlier, che, secondo me, è il più grande esegeta che la Chiesa abbia avuto nel secolo scorso, come insiste su questo fatto! È Gesù che, rendendosi visibile, dà testimonianza di Sé stesso. È Gesù che, rendendosi visibile agli apostoli, facendosi toccare e mangiando con loro, testimonia della realtà della Sua risurrezione: «Tommaso, guarda e metti la tua mano» (cfr. Gv 20, 27). «Visus est, tactus est et manducavit. Ipse certe erat / Fu visto, fu toccato, mangiò. Era proprio Lui», dice sant’Agostino in un discorso contro gli gnostici, commentando l’apparizione di Gesù risorto agli apostoli dal Vangelo di Luca (Lc 24, 36-49).
      È Gesù che, rendendosi visibile, testimonia di essere risorto, di essere vivo. La testimonianza degli apostoli è un riflesso della Sua testimonianza. Com’è importante questo! La luce della Chiesa è solo una luce riflessa. «Lumen gentium cum sit Christus / È Cristo la luce delle genti». La Chiesa riflette questa Sua luce come in uno specchio. Una delle frasi più belle di Paolo, che mi è così cara, dice: «Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo, come in uno specchio, la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine [il riflesso di Gesù è efficace: cambia la vita], di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3, 18).
      Paolo annuncia ciò che ha ricevuto, ciò che Gesù Cristo stesso ha testimoniato ai Suoi apostoli.
      Un secondo cenno riguardo all’annuncio di Paolo. Anche questa cosa bellissima si legge nella prima Lettera ai Corinzi, 2, 1 e seguenti. L’annuncio di Gesù porta in sé la prova della sua verità. Non si tratta di dimostrare noi che Gesù è vivo. È Gesù stesso che mostrandosi, operando, dimostra di essere vivo. Altrimenti, aumentiamo il dubbio, nostro e degli altri. È Gesù che, agendo, e quindi mostrandosi, dimostra di essere vivo. La dimostrazione della verità del cristianesimo è l’agire e il mostrarsi di Gesù nel presente.
      Schlier dice questo con un’espressione bellissima: «Il kerygma e i doni, il kerygma e i miracoli formano un tutt’uno». E Paolo lo dice più semplicemente che non il grande esegeta: «Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio [la testimonianza che Dio ha donato] con sublimità di parola e di sapienza. Io ritenni, infatti, di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza [come è bello questo!] e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza [non voleva lui dimostrare che Gesù era reale], ma sulla manifestazione dello Spirito [cioè sul fatto che Gesù risorto si manifesta] e della sua potenza [sul Suo agire, sul Suo manifestarsi], perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2, 1-5).
      La fede può essere fondata solo sulla potenza di Dio, cioè sull’agire di Gesù, sul manifestarsi di Gesù. Non si vince la paura della morte (cfr. Eb 2, 15) con gli argomenti di sapienza, con i nostri discorsi. La paura della morte è vinta quando Gesù, agendo nel presente, si fa riconoscere vivo. Gesù si dimostra reale, vivo, quando si mostra. Quando mostra la Sua azione, quando mostra la Sua potenza. «Con una prova totalmente Sua», scrive Schlier, che si sperimenta «come realtà tangibile». 
     
      Termino con le parole di Giovanni Battista Montini, nei suoi appunti sulle Lettere di san Paolo, scritti a Roma quando era giovane sacerdote, tra il 1929 e il 1933: «Nessuno più di lui [Paolo] ha sentito l’insufficienza umana e ha riconosciuto ed esaltato l’azione libera, da sé sola bastevole, necessaria per noi, della grazia di Dio Salvatore». È bellissimo! Libera: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16). Da sé sola bastevole: «Ti basta la mia grazia» (2Cor 12, 9). Necessaria per noi: «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15, 5).
      E Montini aggiunge una frase, commovente se si pensa anche alle umiliazioni ricevute: «Egli [Paolo] ha sentito il fastidio della sua presenza “contemptibilis” [disprezzabile]».
      «Praesentia corporis infirma [scrive nella seconda Lettera ai Corinzi, 10, 10] / La presenza fisica è debole / et sermo contemptibilis / e la parola è da disprezzare».
      «Egli ha sentito il fastidio della sua presenza contemptibilis. Ha provato desolanti depressioni di spirito».
      Un’espressione di questa umanità così debole di Paolo si trova nella seconda Lettera ai Corinzi, 2, 12: «Giunto pertanto a Troade per annunciare il Vangelo di Cristo, sebbene la porta mi fosse aperta nel Signore [quindi gli era possibile annunciare il Vangelo di Cristo], non ebbi pace nello spirito perché non vi trovai Tito, mio fratello; perciò, congedandomi da loro, partii per la Macedonia». Paolo non ha neanche la forza di annunciare il Vangelo, se non ha il conforto della grazia del Signore che brilla riflessa sul volto di una persona cara. Cara semplicemente per questo riflesso di grazia.
      E poi continua (2Cor 7, 5 e seguenti): «Da quando siamo giunti in Macedonia, la nostra carne [la nostra debole umanità] non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori al di dentro».
      Com’è vero! «La Chiesa vive», dice la Lumen gentium, «tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio». Sant’Agostino, nel brano del De civitate Dei da cui è tratta questa frase, scrive che le persecuzioni del mondo provengono innanzitutto dall’interno della Chiesa. Anche perché le persecuzioni del mondo sono innanzitutto i nostri poveri peccati che fanno soffrire il cuore di chi è amato da Gesù e vuole bene a Gesù.
      Continua Paolo: «Ma Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito, e non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi». Paolo che a Troade non aveva avuto la forza di annunciare il Vangelo, quando arriva Tito è confortato anche perché Tito gli parla dell’affetto che le persone di Corinto hanno per lui.
      «A questa nostra consolazione si è aggiunta una gioia ben più grande per la letizia di Tito» (2Cor 7, 13). Perché non basta ricordare l’affetto di persone lontane, se chi ne parla non è lui stesso lieto, contento nel presente.      
      Quando vado a pregare sulla tomba di Paolo nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, a Roma, in ginocchio, ripeto sempre un inno: «Pressi malorum pondere, te, Paule, adimus supplices / Oppressi dal peso di tante contrarietà [innanzitutto dei nostri poveri peccati] veniamo a te, Paolo, supplici / […] quos insecutor oderas defensor inde amplecteris / [...] quelli che tu quando eri persecutore hai odiato, adesso come difensore li abbracci». In questo abbraccio, in questo essere amati da Gesù, anche attraverso gli amici di Gesù, possiamo ripetere: «L’amicizia è una virtù, ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità».
      Grazie. 

Ebraicità di Paolo (molto istruttivo, da leggere)…ossia…

questo studio mi sembra particolrmente istruttivo, interessante, e che risponda anche a diverse domande che ci si pone facilmente su Paolo; come sempre è un PDF, spostato su Text la grafica cambia, quindi potete leggerlo sull’originale, dal sito:

http://www.saenotizie.it/Convegni/Ebr_Paolo.pdf

Ebraicità di Paolo

di Daniele Fortuna

Se vogliamo capire cosa intendiamo per “ebraicità di Paolo”, dobbiamo innanzitutto precisare una cosa: di quale ebraismo parliamo?

La vita di Paolo è trascorsa in un periodo ben preciso, quello appena precedente la distruzione di Gerusalemme dell’anno 70 della nostra era. Di conseguenza l’ebraismo di cui parliamo è quello del GIUDAISMO PLURALE DEL SECONDO TEMPIO: esso abbraccia un arco di tempo di quasi sei secoli, che va dal 515 (inaugurazione del Tempio ricostruito dopo l’esilio) al 70 d.C., (sua definitiva distruzione). Più esattamente, la vita di Paolo si colloca alla fine di quel periodo ricco di fermenti, movimenti ed attese che prende le mosse dalla rivoluzione Maccabaica, la liberazione di Gerusalemme e la conseguente ridedicazione del Tempio nell’anno 164. Di conseguenza comprendere l’“ebraicità di Paolo” vuol dire cercare di capire la relazione dell’apostolo con le tradizioni del suo popolo, così come erano vissute all’interno delle molteplici sette, movimenti ed istituzioni religiose in cui si presentava il giudaismo della sua generazione. Che è diverso dall’ebraismo ortodosso quale oggi noi conosciamo (cfr. allegato).

Fatta questa premessa, ci poniamo cinque domande:

1. Chi era l’ebreo Saulo di Tarso prima dell’incontro con Cristo?
2. L’evento sulla via di Damasco è una “conversione al Cristianesimo”?
3. In che modo l’Apostolo di Cristo, reinterpreta le tradizioni di fede
d’Israele?
4. Il “cristiano” Paolo è ancora monoteista?
5. Qual è il suo sentire profondo verso l’“Israele di Dio” (Gal 6,16)?

1. IL FARISEO SAULO DI TARSO PRIMA DELL’INCONTRO CON CRISTO

Le notizie che possediamo sono di prima mano: le lettere autentiche dell’Apostolo, risalenti agli anni cinquanta e ricche di “confessioni” autobiografiche. Tali informazioni possono essere completate con racconti degli Atti degli Apostoli (opera scritta almeno una ventina d’anni dopo da Luca, discepolo di Paolo), tenendo conto, però, che quest’ultima rimane una testimonianza indiretta. Nella lettera ai Galati Paolo stesso ci riferisce l’atteggiamento di stupore e di lode a Dio delle chiese della Giudea nel sentir dire come: “Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunziando la fede che un tempo voleva distruggere” [1]. Ma chi era esattamente questo persecutore dei discepoli di Gesù? Nella lettera ai Filippesi (3,5-6) Paolo presenta la sua “perfezione” ebraica precedentemente raggiunta con un elenco di sette qualifiche. Le prime quattro hanno un carattere ereditario, le altre tre si fondano sul suo personale impegno:
1. “circonciso l’ottavo giorno
2. della stirpe di Israele
3. della tribù di Beniamino
4. ebreo da Ebrei
5. fariseo quanto alla legge
6. quanto a zelo persecutore della Chiesa
7. irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza
della legge”.
San Paolo va preso sul serio in quello che dice: era davvero divenuto un perfetto fariseo. E questo termine non va inteso in senso negativo, come fosse sinonimo di “ipocrita” o “legalista”. I Farisei, infatti, perseguivano un ideale di santità, quello di fare di ogni momento della propria vita un atto di obbedienza a Dio. Fiduciosi nel fatto che la volontà di Dio era stata rivelata nella legge di Mosè (la Torah scritta) e nella tradizione interpretativa dei grandi maestri (la Torah orale), essi non solo si impegnavano scrupolosamente ad osservarla nella loro vita, ma cercavano anche di insegnarla al popolo, perché tutti potessero diventare santi. Ora, Saulo di Tarso in tutto ciò superava gran parte dei suoi connazionali, ma esprimeva ancor di più il suo grande “zelo” nel perseguitare decisamente i discepoli di Gesù [2]. Come mai questo  accanimento? Da fine teologo fariseo, quale era, Saulo si è potuto accorgere ben presto di come la “nuova dottrina” dei discepoli di Gesù contraddiceva in radice quel sistema teologico e religioso nel quale si era identificato il “discepolo” del grande Gamaliele [3]. Tale “sistema dottrinale”, che può essere definito “nomismo attuale” [4], si riassume in questi elementi: “alleanza con Dio, osservanza della Legge, in particolare della circoncisione, penitenza e riti purificatori per ristabilire una fedeltà tradita con le trasgressioni, salvezza finale” [5].

I punti di contraddizione con i discepoli del Nazareno erano dunque i
seguenti:

• Cosa sta a fondamento della giustificazione: l’osservanza della Legge di Mosè o l’accoglienza del dono di Dio in Cristo Gesù?
• A chi è destinata la salvezza: al solo popolo d’Israele o anche ai gentili, senza richiederne necessariamente la circoncisione [6]?
• Come avviene il perdono dei peccati? Tramite i riti di espiazione del Tempio, o grazie alla morte di Cristo, che rende ormai superflui i sacrifici antichi?
• Di fatto, in questa “nuova dottrina” Gesù Cristo morto e risorto, e non più la Torah, diventa l’ambito definitivo di salvezza dato da Dio agli uomini. La Torah viene relativizzata, come “spodestata” da qualcuno che si pone al di sopra di essa, come Colui che la porta a compimento [7]: questo inquietante e sedicente Messia, creduto risorto, invocato come un Dio e chiamato Gesù di Nazaret! [8]
E così, dopo la lapidazione di Stefano [9], Saulo comincia a perseguitare i seguaci del Nazareno, come fosse una questione personale: lo zelo eccessivo e violento, di stampo fondamentalista, con il quale li faceva arrestare, rivela l’atteggiamento di chi si sente messo in crisi nelle sue
credenze più profonde, di chi ha timore che gli possa crollare quel mirabile edificio spirituale e dottrinale faticosamente costruito e tenacemente custodito come il proprio “tesoro geloso”[10]…

2. L’EVENTO SULLA VIA DI DAMASCO: È UNA CONVERSIONE?

Nell’immaginario collettivo sulla via di Damasco c’è stato un grande avvenimento, immortalato nel famoso quadro del Caravaggio: l’ebreo Saulo, accanito persecutore dei cristiani, è stato folgorato e atterrato da cavallo dal Cristo risorto. Così è passato dalla religione ebraica a quella
cristiana. Apostata per gli uni; primo fra i grandi convertiti per gli altri [11]. Ma le cose stanno esattamente così?
Innanzi tutto va precisato che, al tempo dell’incontro di Paolo col Risorto sulla via di Damasco, il “Cristianesimo” in quanto tale, come religione “distinta” dall’ebraismo, semplicemente non esisteva [12]. I seguaci di Gesù di Nazaret, infatti, erano considerati come uno dei movimenti o
sette che costituiva il variegato giudaismo di allora e loro stessi mai si sarebbero sognati di diventare qualcosa di diverso che “il vero Israele”o l’Israele escatologico, in continuità con l’autocomprensione del loro Maestro e Signore [13]. Paolo, invece, apparteneva ad un’altra setta giudaica, quella dei farisei. Dopo l’incontro col Risorto è avvenuta una trasformazione in lui, a seguito della quale il persecutore abbandona il fariseismo per aderire alla “nuova dottrina”, predicata dai discepoli di Gesù.

Ma questo passaggio può essere chiamato conversione?

A noi sembra scontato di sì, ma se leggiamo con attenzione ciò che Paolo dice di se stesso, ci accorgiamo di un fatto sorprendente: Quando l’Apostolo parla della svolta avvenuta nella sua vita grazie all’incontro con Cristo, non usa mai il termine “conversione”: piuttosto egli preferisce descrivere l’evento come una chiamata per la missione, una rivelazione o illuminazione, una nuova conoscenza o nuova creazione, addirittura afferma di “essere stato conquistato da Gesù Cristo”  [14]… Ma nulla nelle sue parole dà l’impressione che Paolo pensasse di aver abbandonato la religione dei suoi padri per “convertirsi” ad un’altra religione. Tanto è vero che, nella sua prima lettera apostolica, egli usa il termine “conversione” (riferito ai Tessalonicesi divenuti “cristiani”) in senso perfettamente ebraico, e cioè come un allontanarsi dagli idoli per servire il Dio vivo e vero [15].
In realtà Paolo è passato da un movimento giudaico del suo tempo ad un altro movimento giudaico; come oggi, per esempio, un ebreo che “da un movimento hassidico passasse ad un movimento riformato con idee
completamente opposte, ma rimanendo all’interno dello stesso ambito etnico e religioso” [16]. Più esattamente, possiamo dire che san Paolo “ha preso le distanze dal mosaismo, contrassegnato dalla Legge ed escludente il mondo dei gentili, ma per radicare la sua fede ebraica nella figura prototipica di Abramo, padre dei molti popoli (Gen 17,5; cfr. Rm 4,17) e segno di benedizione divina per tutte le tribù della terra (Gen 12,1-3; cfr. Gal 3,8)”17

3. COME L’APOSTOLO PAOLO REINTERPRETA LE TRADIZIONI D’ISRAELE

L’incontro con il Risorto aveva rivelato a Saulo di Tarso il limite della sua precedente impostazione di vita, basata su una salvezza ricercata e non trovata nell’osservanza della Legge [18], e gli aveva aperto orizzonti nuovi e universalistici. Egli aveva così riconosciuto in Gesù Cristo il compimento delle promesse fatte ai padri e del disegno misericordioso di Dio per la salvezza degli uomini. Agli occhi di Paolo, Cristo era dunque divenuto il “termine” (télos) della Legge [19]. Attorno a questa rivelazione l’Apostolo rielaborerà tutto il suo pensiero teologico, attingendo a piene mani da quel ricchissimo bagaglio di tradizioni ebraiche nel quale era cresciuto. E’ come se l’incontro col il Crocifisso-Risorto avesse fatto sgretolare quel complesso edificio dottrinale che Paolo si era faticosamente costruito, e poi l’Apostolo, questa volta ponendo Gesù Cristo come “pietra
angolare”, ne avesse ricostruito uno nuovo, utilizzando però gli stessi mattoni ebraici che erano serviti per costruire il primo [20]. In altre parole, ciò che è avvenuto nel suo cuore, grazie all’evento di Damasco, si può ben definire una “conversione ermeneutica” [21], “che produsse in Paolo un autentico ribaltamento nella sua comprensione delle antiche Scritture” [22]. E’ l’evento Cristo, atto definitivo di salvezza posto da Dio nella “pienezza del tempo”23, che aiuta a comprendere in senso pieno i precedenti atti di Dio nella storia della Salvezza; è il presente escatologico che conferisce una significatività nuova al passato d’Israele. E così, il ricorso alle scritture d’Israele non serve a “fondare” il kerigma della morte e risurrezione di Gesù, ma più semplicemente a farne risaltare la loro funzione di profezia/promessa e di preparazione al Vangelo di Cristo [24]. Premesso questo, possiamo ora vedere come Paolo abbia abbondantemente utilizzato le scritture d’Israele nelle sue lettere: esse hanno fornito all’Apostolo un eccellente materiale concettuale ed espressivo per annunziare il suo vangelo e per integrare con argomenti scritturistici i suoi insegnamenti [25].
Il testo biblico da lui utilizzato è la versione greca dei LXX, che viene citata in tre modi: o alla lettera [26]; o a memoria con una certa approssimazione; oppure cambiando intenzionalmente il testo per adattarlo al suo contesto [27].
Inoltre, Paolo si avvale con grande maestria delle tecniche interpretative del testo sacro utilizzate non solo dal rabbinismo palestinese, ma anche dal giudaismo ellenistico ed in Qumran.
• Per esempio: in Gal 3,16, giocando sul singolare collettivo della lettera del testo, interpreta le promesse fatte ad Abramo “e alla sua discendenza” in modo originale riferendole al solo Gesù: “(La Scrittura) non dice: «e ai discendenti», come (se fosse riferito) a molti, ma come a uno: «e alla tua discendenza», che è Cristo”[28].
• Un altro esempio lo troviamo in Rm 5,15-21: qui Paolo utilizza il paragone Adamo -Gesù per fare risaltare il “molto più” del “dono di grazia” in Cristo rispetto alla caduta del primo uomo. Per far questo utilizza “l’argomentazione a fortiori: dal minore (Adamo) al maggiore (Cristo)” [29] . E così può concludere dicendo: “laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia”.
• Infine va menzionato il famoso passo sulla “Nuova Alleanza” (2Cor 3,1-18), dove Paolo utilizza il metodo di accostare due o tre passi biblici che hanno fra loro un’affinità tematica e/o terminologica, considerandoli come fossero un complesso unitario. Ciò permette all’Apostolo di tratteggiare il glorioso ministero della
Nuova Alleanza, che è scritta dallo Spirito di Dio non più su tavole di pietra, ma su quelle di carne dei nostri cuori [30].
Non dimentichiamo, infine, che, oltre i 24 libri presenti nel canone ebraico [31], esisteva al tempo di Paolo una abbondante letteratura intertestamentaria, espressione di fermenti molto vitali del giudaismo di quella generazione. Per completare il quadro del rapporto di Paolo con le tradizioni di fede d’Israele andrebbero studiati approfonditamente quegli aspetti in cui il pensiero dell’Apostolo è vicino a tali tradizioni.
Ci basti qui menzionare alcune somiglianze con:
• gli scritti di matrice essena (per esempio Qumran): come la dottrina della radicale corruzione dell’uomo, il tema della conoscenza, la realizzazione nel presente di determinate profezie come quella della Nuova Alleanza [32], l’attesa escatologica…
• le opere giudeo-ellenistiche: per esempio, si può confrontare Sap 13,1-9 con Rm 1,19-21. Entrambi accusano il mancato riconoscimento di Dio da parte degli uomini, sebbene essi possano contemplare le sue perfezioni invisibili nelle opere da Lui create.
• gli scritti di Filone Alessandrino: sebbene non ci sia in Paolo nessuna citazione esplicita o implicita di questo grande esponente del giudaismo ellenistico, tuttavia si possono riscontrare alcuni tratti simili  [33].

4. IL “CRISTIANO” PAOLO È ANCORA MONOTEISTA? [34]
 
Alla base della fede monoteista ebraica c’è la preghiera dello

Šemàh: “Ascolta, Iasraele: il Signore nostro Dio è un Signore unico” [35]. Ora, anche Paolo, come gli altri cristiani della prima generazione, recitavano quotidianamente questa preghiera. Essi, tuttavia,
proclamavano Gesù Signore seduto alla destra del Padre? [36], ma non per questo si sentivano dei “politeisti”. Come si concilia tutto ciò? Restando all’esperienza di Paolo, dobbiamo ritornare alla cristofania di Damasco: cosa viene rivelato qui al giudeo Saulo? Che ad un uomo, proprio a quel “Gesù il Nazareno, che tu perseguiti”, è stato donato di essere partecipe della stessa gloria di Dio [37], dello stesso nome di “Signore” [38]. E come se questa rivelazione escatologica abbia permesso al rabbino ebreo di contemplare più da vicino il mistero
nascosto del Dio d’Israele, per cogliervi all’interno della sua unicità, una sorta di differenziazione interna, di sdoppiamento [39].
A tal proposito, un versetto della 1 Corinzi è particolarmente significativo: “per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale provengono tutte le cose e noi siamo per lui, e c’è un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale esistono tutte le cose e anche noi mediante lui” [40]. Così commenta questo versetto Romano Penna: “A monte di questa formulazione c’è sicuramente quella della tipica fede israelitica, detta Šemàh…Ebbene, ciò che sorprende nel testo paolino è la disgiunzione di ciò che là è strettamente unito, anzi sovrapposto come equivalente, cioè i due titoli di Dio (´Elohîm) e di Signore ( ´Adonay)” [41]. E così, senza nulla togliere alla Signoria [42] ed unicità di Dio, Paolo vi riconosce al suo interno una relazione unica, inimmaginabile e
meravigliosa, alla quale siamo chiamati per grazia a partecipare. Da ora in poi Dio ha un nuovo nome e si chiamerà: “Padre del Signore nostro Gesù Cristo” [43]. Il “solo Dio” non è dunque, nella sua realtà profonda, un “dio solo”, ma una relazione d’amore infinito, che chiama tutti noi alla comunione con sé.

Un’ultima domanda: se Paolo e gli altri cristiani non ritenevano di aver rinnegato la fede ebraica nell’unicità di Dio, cosa ne pensavano gli altri giudei loro contemporanei?

Anche qui riporto quanto osserva a tal proposito Romano Penna: “…il quadro israelitico del periodo delle origini cristiane…presenta una varietà di tipologie tanto diversificate da rendere pressoché impossibile
parlare di ortodossia dominante…Per quanto la recita quotidiana delloŠemàc ricordasse perennemente all’ebreo osservante l’articolo fondamentale dell’unicità di Dio, il monoteismo assunse modificazioni
interessanti…a livello di pensiero dotto, si tendeva a moltiplicare le figure degli intermediari divini, soprattutto sotto forma di attributi di Dio personificati (come la Parola, la Sapienza, lo Spirito) ma anche di patriarchi glorificati (come Enoch, Abramo, Melchisedec, Davide) o angeli particolari (soprattutto Michele, ma anche altri), mentre a livello di prassi religiosa popolare si faceva coesistere il culto tributato a Dio con quello prestato ad altre figure celesti, soprattutto angeliche. Perciò, almeno all’inizio e finché il movimento cristiano rimase geograficamente o culturalmente in ambito giudaico, la confessione della divinità di Gesù non venne percepita come un affronto al monoteismo di origine” [44]

5. QUAL È IL SUO SENTIRE PROFONDO VERSO L’ “ISRAELE DI DIO” (GAL 6,16)?

Che l’Apostolo Paolo si sia sempre considerato ebreo, non solo teologicamente, ma anche esistenzialmente, direi ancor di più, visceralmente, lo di può capire leggendo i capitoli 9-11 della lettera ai Romani. E’ questo un testo importantissimo, perché è stato scritto al tempo della maturità di Paolo (nell’anno 55), in un momento di grande sintesi teologica [45]. Qui san Paolo riflette profondamente sull’elezione di Israele in rapporto a Cristo ed usa l’immagine suggestiva della radice santa dell’albero di ulivo, con la sua linfa vitale che nutre anche i rami selvatici innestati in esso (cioè i pagani convertiti a Gesù). In questi capitoli Paolo si pone profondamente il problema della disobbedienza al Vangelo vissuta da “una parte di Israele”, e la inquadra nel disegno sapiente di Dio, che alla fine vuole racchiudere tutti nell’abbraccio della sua infinita misericordia. Quel mondo, che nella costitutiva visione ebraica di Paolo resta distinto in due grandi parti (il popolo d’Israele ed i pagani), viene definitivamente (o meglio “escatologicamente”) unificato in Cristo Gesù, perché a tutti, rinchiusi
precedentemente nella disobbedienza, sia data alla fine misericordia.

Vorrei concludere leggendovi in successione l’inizio e la conclusine di questa sezione della lettera ai Romani: tutto ciò che abbiamo fin qui detto sull’ebraicità di Paolo può trovare proprio in questi versetti come il suo suggello.

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“Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne da testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen” [46]. (Rm 9,1-5)
“O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio? Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen”. (Rm 11,33-36)
ALLEGATO
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Il giudaismo plurale del Secondo Tempio al tempo di Gesù e Paolo

“Affermare che il cristianesimo è nato dall’ebraismo da un certo punto di vista è vero, perché è vero che Gesù era ebreo, e che il cristianesimo è nato all’interno del mondo giudaico. Diventa invece un’affermazione impropria se noi la intendiamo nel senso che il cristianesimo sarebbe nato dall’ebraismo “ortodosso” quale oggi lo conosciamo. Il cristianesimo non si ottiene aggiungendo all’ebraismo ortodosso la fede in Gesù Cristo; né l’ebraismo ortodosso è un cristianesimo privato della figura di Gesù. L’ebraismo che oggi noi chiamiamo “ortodosso” è il frutto di una riforma parallela al cristianesimo, di un processo innovativo che gli studiosi definiscono come la “riforma rabbinica”, che iniziò dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nell’anno 70 d.C. […]. Questo evento segnò la fine del “giudaismo antico” e l’emergere sia del cristianesimo sia dell’ebraismo ortodosso. [Questo “giudaismo antico” detto anche] “giudaismo del Secondo Tempio”, nato e cresciuto dopo l’esilio babilonese, era diverso da quello che noi oggi comunemente intendiamo per ebraismo: era incentrato non sulla Torah, ma sul culto del Tempio di Gerusalemme, e riconosceva quale autorità suprema il sacerdozio, non i maestri della Torah”.
“Finché il Tempio rimase in piedi, il cristianesimo fu semplicemente uno dei gruppi giudaici del tempo. La separazione fra cristianesimo ed ebraismo avvenne soltanto dopo la distruzione del Secondo Tempio, e fu
una divisione all’interno del popolo ebraico, tra gruppi diversi di ebrei [i cristiani ed i farisei] e tra interpretazioni parallele e divergenti della comune eredità giudaica” […].
“Una delle prime conseguenze di quanto ho detto prima è che il rapporto fra ebrei e cristiani non è – come normalmente si pensa – una relazione tra “genitori” e “figli”…ebraismo e cristianesimo, quali oggi noi li conosciamo, sono nati insieme, allo stesso tempo, da una duplice riforma del giudaismo del Secondo Tempio, che è morto con la distruzione del Tempio stesso” […]. Allorché venne meno questo terreno comune, si dovette ripensare alla domanda sull’identità ebraica. Logicamente, a quel punto i cristiani dissero che l’identità ebraica era il riconoscimento di Gesù come Messia; i farisei, dal canto loro, affermarono che la principale identità ebraica era l’obbedienza alla tradizione dei padri ed alla Legge mosaica [47]”.
“Lo studioso ebreo-americano Alan Segal ha molto acutamente paragonato cristianesimo e giudaismo rabbinico ai due figli gemelli di Rebecca, Giacobbe ed Esaù. Nati dagli stessi genitori, hanno cominciato a
scalcialsi fin da quando erano nel ventre della madre e hanno poi per anni continuato a litigare per l’eredità paterna, l’eredità dei loro genitori” [48]
Volendo, dunque, parlare dell’ebraicità di Gesù e Paolo, dovremo prima di tutto guardare un po’ più da vicino come si configurava il giudaismo del Secondo Tempio prima della sua distruzione nel 70 d. C.
Innanzi tutto ci viene spontanea una domanda: perché questo periodo è chiamato così? Perché è proprio il Tempio di Gerusalemme che caratterizza la vita di Israele e segna le tappe fondamentali della sua storia.
Costruito nel X secolo a. C. dal re Salomone, per centralizzare il culto di JHWH a Gerusalemme , fu distrutto dal re di Babilonia Nabucodonosor nel 586 a.C. Dopo il ritorno dall’esilio, avvenuto nel 538 grazie al famoso editto di Ciro, re della Persia, si cominciarono i lavori per la sua ricostruzione. Finalmente nel 515 si è potuto inaugurare il nuovo tempio, insieme ad una nuova era per i Giudei, un’era che noi oggi chiamiamo appunto “Giudaismo del Secondo Tempio”. Ma un altro avvenimento che riguarda il Tempio di Gerusalemme risulta determinante per comprendere il giudaismo ai tempi di Gesù e Paolo: la rivoluzione maccabaica.
La Palestina sin dal 333 è sotto il dominio dei greci della dinastia dei Lagidi. Essi lasciano agli ebrei una larga autonomia nel rispetto delle loro tradizioni religiose. Ma, quando la Palestina passa sotto il dominio della
dinastia dei Seleucidi, le cose cambiano radicalmente. Il re Antioco IV, infatti, nel 167 a.C., vuole imporre forzatamente ai giudei la cultura e la religione dei greci, fino a proibire il Sabato e la circoncisione ed a
profanare il Tempio, facendovi erigere una statua di Zeus (il cosiddetto “abominio della desolazione”). Una famiglia ebraica, quella dei Maccabei, organizza la resistenza e una rivolta che porterà alla definitiva
liberazione di Gerusalemme nel 164 a. C. Il culto legittimo viene ristabilito ed una festa gioiosa commemorerà ogni anno nel periodo di Dicembre la riavvenuta Dedicazione del Tempio [49].
L’epoca storica dei Maccabei (II sec. a.C.), oltre a restituire la libertà ai giudei, ha dato origine ai tre principali “partiti” religiosi presenti in Israele al tempo di Gesù e Paolo: i Sadducei, i Farisei e gli Esseni [50].
• I Sadducei formavano quel gruppo dei sacerdoti che gestivano il Tempio e tutte le attività religiose, politiche ed economiche ad esso collegate. Considerando la centralità che aveva il Tempio per la vita di Israele, si può comprendere l’influenza che di fatto detenevano i Sadducei sulla nazione giudaica. Dapprima alleati con gli Asmonei, dopo il 63 (presa di Gerusalemme da parte di Pompeo) diventarono collaborazionisti dei Romani, difensori dello statu quo, preoccupati come erano di difendere il loro potere in tutti i modi. Questa aristocrazia sacerdotale, però, non va confusa con le 24 classi di sacerdoti e di leviti, che nel tempio avevano a turno dei
compiti subalterni a quelli dei sadducei, non godevano degli stessi privilegi e vivevano del loro lavoro. I Sadducei riconoscevano solo la Legge di Mosè (i primi 5 libri del Pentateuco), facendone un’interpretazione letterale; contrariamente ai farisei non credevano nella risurrezione dai morti (e quindi al giudizio finale) e
nell’esistenza degli angeli [51].. Ormai si sa per certo che loro, e non i farisei, sono i veri responsabili della condanna a morte di Gesù [52].
• I Farisei. Un gruppo di pii (hasidim in ebraico) sostennero Mattatia nella sua rivolta contro i Seleucidi53, ma quando poi la dinastia degli asmonei assunse al potere ed intraprese una politica di ellenizzazione, essi presero le distanze diventando un gruppo di opposizione. Se il loro ruolo politico andò progressivamente a
diminuire, il loro ascendente sulla popolazione crebbe sempre di più. Lo stesso nome “farisei” (dall’aramaico perishaia = separati), indicava l’ideale di santità che essi perseguivano. Profondamente religiosi, studiavano ed osservavano non solo la Legge scritta, ma anche la Tradizione orale, a cui attribuivano una pari autorità, in
quanto considerata da loro come proveniente da Mosè. Erano più a contatto con la gente rispetto ai Sadducei. Essi, tramite le sinagoghe e sostenuti dai loro scribi, cercavano di insegnare al popolo ad osservare la legge, convinti che la “santità” non fosse riservata ai soli sacerdoti ma a tutti i membri di Israele. Cercavano
anche di fare proseliti fra i pagani. Per quanto riguarda l’origine del male, consideravano l’uomo come unico responsabile e l’osservanza della legge come unico rimedio. Attendevano, inoltre, un messia per la fine dei tempi: “il Figlio di Davide”. . Al di là di quanto può apparire da alcuni testi dei vangeli, soprattutto di
Matteo e Giovanni, testi che sono frutto dell’aspra polemica dopo il 70 fra i due gruppi religiosi, Gesù aveva generalmente buone realazioni con i farisei, pur nella diversità di posizioni: loda alcuni dei loro scribi, viene invitato a cena da loro, addirittura sono i farisei ad avvertirlo che Erode lo vuole uccidere [54].
• Gli Esseni. Anch’essi provenienti dagli hasidim del tempo dei Maccabei, si distinguono dai farisei per la scelta di tenersi totalmente al di fuori dagli affari politici. Inoltre essi vivevano in comunità, dedicandosi specialmente alla preghiera, alla meditazione dei testi sacri e all’agricoltura. Condividevano i beni e i pasti, vivendo in modo frugale e preoccupati di osservare scrupolosamente le norme di purezza. Per lo più praticavano il celibato per dominare le proprie passioni e per proteggersi dalle “lascivie” delle donne. Alcuni, però erano sposati, per poter procreare e garantire così la continuità delle comunità. Nel 1947 furono scoperti i famosi manoscritti di Qumrân, località a nord ovest del Mar Morto, dove viveva una fiorente comunità essenica (fino a 200 persone). Questi, che si autodefinivano anche come “i figli di Sadoq”, erano probabilmente discendenti di un gruppo di sacerdoti separatisi dai Sadducei dopo la morte di Giuda Maccabeo,
quando suo fratello Gionata viene nominato sommo sacerdote [55]. Facevano un culto alternativo a quello del Tempio, persuasi dell’empietà dei sacerdoti che lì vi officiavano. Non offrivano sacrifici di animali, ma pasti sacri e preghiere. Oltre alle Scritture d’Israele avevano dei libri interni alla loro setta e delle regole date
dal loro Maestro di Giustizia: solo chi si atteneva ad esse faceva parte della comunità dell’Alleanza. Ritenevano che il male avesse un origine demoniaca ed attendevano, oltre al Messia davidico, anche un Messia di Aronne ( quindi di natura sacerdotale). . Condividevano con i farisei diverse credenze. Per altri aspetti si vede una maggiore vicinanza alla predicazione di Gesù ed al cristianesimo nascente [56]
Per completare il quadro dei partiti religiosi al tempo di Gesù e Paolo si potrebbe aggiungere quello dei rivoluzionari. Infatti, partendo da quello stesso “zelo” per al legge che già al tempo dei Maccabei aveva
originato una lotta armata, ci fu una progressiva crescita del nazionalismo in epoca romana. In particolare va ricordata la rivolta fomentata da Giuda il Galileo [57] in occasione del censimento del 6 d.C. fatto da Coponio e
Quirinio. Lo storiografo ebreo Giuseppe Flavio nelle sue Antichità giudaiche considera proprio Giuda il Galileo come l’istigatore di quello stato d’animo che nel tempo porterà alla insurrezione contro Roma ed alla
distruzione di Gerusalemme (66-70). Tuttavia, almeno al tempo di Gesù, più che un “partito” rivoluzionario ben strutturato, esisteva un forte sentimento nazionalista più o meno diffuso, spesso collegato ad attese
“messianiche”, che poteva anche sfociare in sporadiche sommosse.
Fatta questa suddivisione dell’ebraismo al tempo di Gesù nei suoi principali partiti religiosi, non dobbiamo illuderci di aver realizzato un quadro esaustivo dell’ambiente religioso nel quale ha vissuto e si è mosso
il Profeta di Nazaret. Esso, infatti, era attraversato da diversi fermenti, credenze, movimenti battisti58 (vedi Giovanni Battista) che rendono il quadro molto complesso e difficile da descrivere. Ci basti pensare al
fenomeno del messianismo, nel quale i diversi gruppi proiettavano le loro attese e le loro idee. C’era chi attendeva un Messia davidico (di natura politico-militare), chi un Messia di Aronne, chi attendeva il ritorno di Elia, o la risurrezione di qualcuno dei profeti come Geremia, chi attendeva la venuta del Profeta escatologico, chi coltivava una visione apocalittica, collegandosi alla visione del Figlio dell’uomo nel libro di Daniele 59.
Infine, vorrei concludere questa “premessa” citando un’ultima categoria di persone, generalmente non considerata dagli storici, ma che, secondo me, risulta determinante per completare il quadro. Saranno loro
in realtà i principali destinatari del Vangelo del Regno annunziato da Gesù. Mi riferisco agli anawim, quei “poveri del Signore”, che attendevano solo da Lui la salvezza. Il profeta Sofonia li definisce così:
“Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele” 60. Questa categoria non è un partito o una classe sociale, e neanche un gruppo religioso…E’ una categoria che
non viene definita in base a criteri sociologici in quanto è trasversale ad ogni catalogazione… ma può essere riconosciuta soltanto in base ad un atteggiamento spirituale, quello che rende capaci di accogliere il vangelo
del Regno, il dono di Dio. E così gli anawim li troviamo come mescolati fra la gente, disseminati nel Vangelo a partire dall’infanzia di Gesù: sono Maria e Giuseppe, Zaccaria ed Elisabetta, Simeone ed Anna, i pastori di
Betlemme, i malati e i poveri che credono in Gesù, il pubblicano della parabola e la peccatrice perdonata, Marta e Maria, Lazzaro e Zaccheo, la povera vedova che offre il suo obolo al Tempio, ma anche un membro del
sinedrio come Giuseppe di Arimatea e un fariseo come Nicodemo che seppelliscono Gesù…In una parola è il popolo delle beatitudini, quelli a cui è destinato il Regno di Dio.

Daniele Fortuna

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NOTE

1.Gal 1,23.
2 Cfr. Fil 3,6 e Gal 1,13-14. «Paolo allude qui allo zelo di Mattatia, detto Maccabeo, che nella prima metà del II secolo a.C. alzò la bandiera della difesa, spada in pugno, della fedeltà alla legge mosaica contro il tentativo dello straniero Antioco IV d’imporre una nuova cultura, quella d’impronta ellenistica. “Lungi dall’abbandonare la Legge e i comandamenti giusti (di Dio)! Non ascolteremo gli ordini del re, né devieremo dalla nostra religione» (1 Mac 2,21-22)”: G. Barbaglio, Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso – Confronto storico, EDB, Bologna 2006, p.89.
3.  Cfr At 22,3s.
4. La formula è di E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese, “Biblioteca teologica” 21, Paideia, Brescia 1986 (orig. inglese., London 1977).
5. Cfr. G. Barbaglio, Op. cit., p.90
6 Tale era la prassi seguita dai giudeo-cristiani di lingua greca.
7 Cfr. Mt 5,17.
8 Molto interessante, a tal proposito, il libro del rabbino ebreo Jacob Neusner: A Rabbi talks with Jesus. An Intermillenial Interfaith Exchange, Doubleday, New York 1993 (trad. it. Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù. Quale maestro seguire?, Piemme, Casale Monferrato 1996), che anche il papa Benedetto XVI nel suo libro Gesù di Nazaret cita abbondantemente per dimostrare la differenza fra la Torah di Mosè e la nuova Torah del Messia portata da Gesù. J. Neusner, da buon rabbino qual è, cerca un dialogo aperto e sincero con Gesù di Nazaret. E se da un lato rimane affascinato dalla grandezza delle sue parole, dall’altro si accorge subito
che con le sue pretese (così come vengono espresse per esempio nel Discorso della montagna), Gesù si pone in un piano superiore rispetto alla Torah di Mosè, addirittura allo stesso livello del Legislatore divino, cosa per lui inaccettabile. Come inaccettabile era
stata a suo tempo per il fariseo Paolo. Cfr J.Ratzinger, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, pp.125-156.
9 Cfr. Atti 8,1 e 22,20. Bisogna fare attenzione, però, che Paolo non dice di aver preso parte alla lapidazione di Stefano, ma soltanto di aver assistito ad essa ed aver approvato l’operato di quelli che lo uccidevano. Traspare, comunque, un sincero pentimento e forse anche una profonda gratitudine verso quel “testimone di Gesù”, che è morto come il maestro, perdonando i suoi carnefici.
10 E’ interessante cogliere il dinamismo opposto fra il cammino di “spoliazione” percorso da Gesù durante la sua esistenza terrena (così come viene descritto da Fil 2,6-8), e il cammino di “arricchimento” percorso invece da Paolo prima del suo incontro con Cristo
(descritto in Fil 3,5-6).Si veda, inoltre, la coppia di termini: “guadagno”/ “perdita”, con la quale Paolo esprime il suo nuovo giudizio di valutazione esistenziale, acquisito dopo l’incontro con Cristo (per es. in Fil 3,7-8).
11 Cfr. quanto dicono in proposito Lea Sestieri, “Gesù nei vangeli sinottici e nella storia ebraica”, e G. Boccaccini, “Paolo Ebreo?”, in Av.Vv., Ebrei e Cristiani – alle origini delle divisioni, Quaderni Amicizia Ebraico Cristiana di Torino n° 4, Pro manuscripto stampato in proprio, 2001, rispettivamente a p. 23 e p.43. Una piena rivalutazione della figura di Paolo in quanto Ebreo e della sua teologia è avvenuta recentemente da parte degli Ebrei Messianici: un movimento di Ebrei che, rimanendo tali, credono in Yeshua HaMashiach non solo come Messia, ma anche come Signore Dio. In particolare essi accolgono pienamente la prospettiva di Paolo in Rm 9-11 sulla situazione di Israele e sulla sua caduta che, nei piani di Dio, è stata a vantaggio della conversione dei Gentili. Inoltre, essi credono che quando un ebreo viene battezzato
ritorna alla casa del Padre, come il ramo spezzato che viene nuovamente innestato nell’albero di ulivo. Ciò non significa una conversione al “Cristianesimo”, bensì un autentico ritorno, in Cristo Primogenito, a far parte pienamente di questo albero domestico, di questa grande famiglia di Dio che è Israele. Una presentazione completa della loro dottrina la si può trovare negli scritti del Pastore Ebreo-messianico Benjamin Berger. Di questo autore la casa editrice Beth-lechem ha pubblicato in italiano: “Preparate la via al Signore”; “La comunità di Gesù negli ultimi tempi, il suo compito, la sua preparazione”.
12 I discepoli di Gesù furono per la prima volta chiamati “Cristiani” ad Antiochia, quando già Paolo vi predicava insieme con Barnaba; ma la designazione è esterna: provienine da pagani che intendono il gruppo dei discepoli di Gesù come una delle sette giudaiche. Cfr At 11,26 e 26,28. In realtà, è solo dopo il 70, con la distruzione del Tempio di Gerusalemme, che si verrà a creare quella profonda frattura fra la setta dei farisei ed i discepoli di Gesù (gli unici due movimenti rimasti a “contendersi” la comune l’eredità d’Israele) che porterà infine alla distinzione fra le due religioni: quella Ebraica e quella Cristiana. Per approfondire, si veda la
parte iniziale dell’allegato.
13 Riguardo all’autocomprensione di Gesù si veda Romano Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo – inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria. I. Gli inizi, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996, pp. 167-171.
14 Fil 3,12. Cfr. Gal 1,15; 2,19-20; 2 Cor 4,6; 5,16-17; Fil 3,7-11.
15 1 Ts 1,9. Cfr. Romano Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo – inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria. II. Gli sviluppi, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999, pp. 101-104.
16  G. Boccaccini, Op. cit., p.47
17  G. Barbaglio, Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso – Confronto storico, EDB, Bologna 2006, p.88.
18 Cfr. Gal 2,15-16. Pur riconoscendone il valore permanente come Scrittura (grafh va distinto da gramma, termine spesso usato in antitesi con pneuma: cfr. 2 Cor 3,6-8; Rm 7,6), la Legge agli occhi di Paolo perde la sua funzione come “istituzione salvifica”, per acquisirne una nuova: quella di testimoniare insieme ai profeti la giustizia di Dio mediante la fede di Gesù Cristo (Rm 3,21-22).
19 Cfr. Rm 10,4. Già in Galati 3 la legge veniva come “declassata” in diversi modi: non viene direttamente da Dio, ma è data a Mosè dagli angeli (attraverso un mediatore angelico); viene aggiunta successivamente alla promessa; è incapace di dare la vita; è paragonata ad un pedagogo. Cfr. A. Vanhoye, Lettera ai Galati, edizioni Paoline, Milano 2000, pp. 92-113.
20 L’immagine è in parte mutuata da G. Boccaccini, Op. cit., p.54.
21 La felice espressione è di S. Amsler, citato da Romano Penna, L’apostolo Paolo -Studi di esegesi e teologia, edizioni paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1991, p. 442. Per approfondire la tematica riguardante “l’atteggiamento di Paolo verso l’Antico Testamento” si leggano le pagine 436-469.
22 Romano Penna, L’apostolo Paolo, p.442.
23 Gal 4,4.
24 “Il Figlio di Dio, Gesù Cristo che abbiamo predicato tra voi, io, Silvano e Timoteo, non fu “sì” e “no”, ma in lui c’è stato il “sì”. E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute “sì” (2 Cor 1,19-20). Utilizzando una simpatica espressione di Woody Allen: “LA RISPOSTA È SÌ…MA QUAL’ERA ESATTAMENTE LA DOMANDA?”, possiamo dire che Paolo, una volta folgorato dal “Sì” di Dio, compiutosi nel suo Figlio Gesù, abbia poi fatto come un percorso a ritroso nell’AT per precisarne più esattamente…la “domanda”.
25 Solo alcuni esempi particolarmente significativi: Gen 15,6 (citato in Gal 3,6 e Rm 4,3.9.22) e Ab 2,4 (citato in Gal 3,11 e Rm 1,17) in riferimento al tema della giustificazione per fede; alcuni avvenimenti ed elementi dell’Esodo (nuvola, passaggio del mare, manna, acqua scaturita dalla roccia) a cui Paolo fa accenno in 1 Cor 10, 1-4, riletti e attualizzati in riferimento al Battesimo ed all’Eucarestia. Da notare, inoltre, quanto Paolo dice poco più avanti: “Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi” (1 Cor 10,11).
26 Il caso più lampante è Gal 4,27, che cita esattamente il lungo versetto di Is 54,1.
27 Per es. Rm 10,6-8, che cita Dt 30,11-14.
28 Cfr. A. Vanhoye, Op. cit., pp. 76 e 90-91. Questa apparente restrizione delle promesse ad un unico discendente, diventa funzionalead una reale apertura universalistica verso le moltitudini (come si vede, poco più avanti, in Gal 3,27-29).
29 Antonio Pitta, Lettera ai Romani, edizioni Paoline, Milano 2001, p. 237. Lo stesso autore, nella nota 102, riporta altri esempi nei quali Paolo utilizza questa tipica argomentazione rabbinica (chiamata qal wahomer): Rm 11,12.24; 1 Cor 6,16-17 e 2 Cor 3,7-8.9-11.
30 Questo procedimento è chiamato gezerah šawah. I testi che Paolo qui utilizza applicando tale metodo sono: Es 34,1-4.27-28; Ger 31 (LXX 38), 31-34 e Ez 36,25-28. Cfr. Alessandro Sacchi e collaboratori, Logos 6 -Lettere paoline ed altre lettere, ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino),1996, pp. 351-368.
31 Questo canone è stato stabilito solo nel 90 d.C. dal sinodo giudaico di Jamnia.
32 “Ma forse Paolo è più vicino a Qumran e alla tecnica del pešer…per il fatto che, a differenza del rabbinismo, sia Qumran che Paolointerpretano determinati testi biblici in rapporto al loro orientamento futurologico e alla loro avvenuta realizzazione nel presente”: Romano Penna, L’apostolo Paolo, p.441.
33 Si veda, per es., la comune “eresia” (dal punto di vista giudaico) di Filone e Paolo riguardo ai “due poteri in cielo”: Filone parla esplicitamente di un “secondo Dio che è il suo Logos”. Citato da Romano Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo – inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria. II. Gli sviluppi, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999, p. 102, nota 41. Cfr anche l’accenno alla dottrina di Filone il relazione al Logos giovanneo fatto da Xavier Lèon-Dufour, Lettura del Vangelo secondo Giovanni (cap 1-4),
ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1990, pp. 92-93.
34 Cfr. Romano Penna, il DNA del Cristianesimo – l’identità cristiana allo stato nascente, ed. San PaoloCinisello Balsamo (Milano), pp. 192-196.
35 Dt 6,4. La traduzione proposta è quella di Romano Penna
36 Cfr. Fil 2,9-11 e Rm 8,34.
37 Cfr. il titolo dato a Gesù: “Signore della gloria” (1 Cor 2,8) e l’espressione: “il corpo della sua gloria” (Fil 3,21).
38 At 22,8
39 Cfr., in un altro contesto, quanto dice X. Léon-Dufour riguardo al “Logos e Dio”: Op. cit., pp. 109-118.
40 1 Cor 8,6.
41 R. Penna, il DNA, p.194.
42 Mentre il termine Dio (qeoV) è quasi esclusivamente attribuito da Paolo a Dio Padre (ma si veda la significativa eccezione di Rm 9,5), il termine Signore (kurioV) è indifferentemente dato al Padre e al Figlio.
43 Rm 15,6; 2 Cor 1,3 e 11,31; quasta formula è presente anche nelle deuteropaoline Ef 1,3 e Col,3, nonché in 1 Pt 1,3.
44 Romano Penna, il DNA, p. 195
45 Rm 9-11 aiuta a ridimensionare moltissimo quanto si legge in 1 Ts 2,14-16, testo scritto in un momento di sofferenza e di forte polemica, purtroppo preso ingiustamente a base dell’antigiudaismo.
46 Rm 9,1-5.E’ la stesso stato d’animo di Mosè quando intercede per il suo popolo, dopo l’episodio del vitello d’oro. Cfr. Es 32,31-32.
47 Gabriele Boccaccini, Farisei: ipocriti o maestri?, in Ebrei e Cristiani – alle origini delle divisioni, Quaderni Amicizia Ebraico
Cristiana di Torino n° 4, Pro manuscripto stampato in proprio, 2001, pp.1-2 e 7.
48 Gabriele Boccaccini, Op. cit., p.44.
49 Questo Tempio sarà successivamente abbellito ed ingrandito dal re Erode e dai suoi successori a partire dal 19 a. C. fino al 64 d.C.;al tempo di Gesù la vista del Tempio doveva lasciare una forte impressione di meraviglia (cfr. Lc 21,5-6).Riguardo alla festa della Dedicazione, essa viene menzionata da Gv 10,22 in occasione di una delle diverse visite di Gesù al Tempio.
50 Per approfondire, si può consultare Pierre-Marie Beaude, per leggere GESU’ DI NAZARET, ed. borla, Città di Castello (PG), pp.
40-51); titolo originale Jésus de Nazareth.
51 Cfr. Mt 22,23 e At 23,8.
52 Al tempo di Gesù c’erano diversi gruppi di opposizione ai Sadducei, ma solo il profeta di Nazaret era apparso loro talmente sovversivo da portarli ad una decisione così estrema. Egli criticava il culto sacrificale che si svolgeva nel Tempio ed indicava un’altra via per ottenere il perdono divino. Con tutto ciò delegittimava di fatto il sistema creato dai Sadducei. Inoltre Gesù compie un gesto altamente provocatorio per la sua portata simbolica: la scacciata dei venditori dal tempio. E, tutto ciò, citando con autorità sorprendente i profeti Isaia e Geremia: “Non sta forse scritto: la mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi
invece ne avete fatto una spelonca di ladri!” (Mc 11,17). E ancora di più, in quell’occasione preannuncia addirittura la distruzione del Tempio, cosa che diventerà uno dei principali capi di accusa durante il processo giudaico (cfr.Mc 14,58 e 15,29).Non si può, infatti, impunemente toccare un centro nel quale il potere religioso, politico ed economico sono così strettamente intrecciati, senza pagarne le dure conseguenze. Sulla questione si veda la posizione di Giuseppe Segalla, Teologia biblica del Nuovo Testamento, Logos, corso di
studi biblici, 8/2, Elledici, Leumann (Torino), 2005, pp. 190-192.
53 Cfr. 1 Mac 2,42.
54 Cfr Mc 12,34; Lc 7,36-50; 14,1-24 e 13,31
55 Ciò avvenne nel 152 a. C.; cfr 1 Mac 10,18-21 e le note relative della Bibbia di Gerusalemme
56 Per esempio riguardo all’origine del male o nella visione apocalittica. Alcune scritture degli esseni vengono anche utilizzate dai primi cristiani (per esempio, la lettera di Giuda fa allusione al Libro di Enoc e all’Assunzione di Mosè).
57 Cfr. la citazione che ne fa Gamaliele in At 5,17.
58 “Esistevano movimenti profondi, popolari, veri e propri “risvegli religiosi” che focalizzavano un intenso desiderio di salvezza da parte del popolo. Tali furono i movimenti battisti, in margine ai grandi partiti, spesso contestatari delle istituzioni tradizionali di salvezza”: Pierre-Marie Beaude, Op.cit., p.52 Dn 7,9-14. La figura del Figlio dell’uomo viene ripresa nell’apocrifo “Libro delle parabole” (1 Enoc), scritto a cavallo del cambiamento di era. Leggendo con attenzione i vangeli, si possono cogliere facilmente queste attese presenti nelle parole delle varie
persone che si rivolgono a Gesù. Una buona presentazione dell’argomento si trova in P. Grelot, La speranza ebraica al tempo di Gesù, ed. Borla, Citta di Castello 1981, pp.141-149. Per un ulteriore e più aggiornato approfondimento si veda Romano Penna, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata, EDB, Bologna 1984, 19913.

Il Prigioniero del Signore – dell’Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

ancora una presentazione di Paolo, dall’Arcivescovo di una Diocesi, io non mi stanco mai di leggere queste presentazioni proposte dai Pastori delle nostre Diocesi, si coglie in esse, nella loro diversità, nell’unità dell’amore per Paolo, la grande ricchezza dell’Apostolo e della nostra Chiesa, dal sito:

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/96/2008-07/11-167/Il%20prigioniero%20del%20Signore%20(S.%20Paolo).pdf

Il Prigioniero del Signore 

di Giuseppe Molinari

Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

(11 luglio 2008, data presa dall’indirizzo web)

Introduzione
 

Queste brevi riflessioni (fatte soprattutto di citazioni degli Atti degli Apostoli e delle Lettere di S. Paolo) solo dei piccoli squarci sulla straordinaria avventura umana e cristiana di colui che qualcuno ha chiamato il secondo fondatore del Cristianesimo (W. Wrede). Sono anche un invito a riprendere in mano gli Atti degli Apostoli e le Lettere di S. Paolo per entrare sempre di più nel mistero di quest’uomo che ha consegnato tutto se stesso al Signore Gesù Cristo. Fino a diventare “prigioniero del Signore”, come egli stesso si autodefinisce nella lettera ai cristiani di Efeso (Ef, 4,1). S. Bernardino da Siena (il cui corpo riposa nell’omonima Basilica della città dell’Aquila) ha scritto: “Quando la bocca di Paolo predicava ai popoli, come per il fragore di un gran tuono, o per l’avvampare irruente di un incendio o per il sorgere luminoso del sole, l’infedeltà era distrutta, la falsità periva, la verità splendeva, come cera liquefatta dalle fiamme di un fuoco veemente”. Possa l’Anno Paolino (28 giugno 2008-29 giugno 2009) far rinascere in ognuno di noi il desiderio di conoscere sempre meglio l’Apostolo Paolo, per imitarlo, per sentirlo vivo in mezzo a noi, come modello e guida per il cammino della nostra santificazione e per inventare gli itinerari più efficaci per la nuova evangelizzazione. 

+ Giuseppe Molinari

Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

1. Il persecutore  

La prima notizia su Paolo nel Nuovo Testamento, la troviamo dopo il racconto della lapidazione di Stefano, il primo martire. Si dice che “i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane chiamato Saulo” (Atti 7,58). Successivamente si precisa che “Saulo era tra coloro che approvavano l’uccisone (di Stefano)” (Atti 8,1). Così all’inizio della sua storia Paolo viene presentato come il “persecutore”. Saulo (questo il nome con cui Paolo era conosciuto in mezzo agli Ebrei) è uno che ha perseguitato i cristiani. Lo confesserà egli stesso: “Ultimo fra tutti (Gesù) apparve anche a me come ad un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa” (1 Cor. 15,9).

Penso al mondo di oggi.

Penso alla gente di oggi.

Papa Benedetto XVI denuncia in modo vigoroso la dittatura del relativismo: non esistono più verità assolute, ogni uomo si crea la sua verità. e la conclusione è che aumentano gli uomini e le donne che non hanno una fede. Dilaga il relativismo e insieme l’indifferentismo. La fede non interessa più, Dio non interessa più; nasce quasi il rimpianto per i tempi in cui esistevano i cosiddetti “nemici della fede”. In verità ci sono ancora, e ci sono pure i persecutori. Ma sembra crescere in modo pauroso il numero di coloro che non si interrogano più sui problemi fondamentali dell’uomo. Sembra non esistano più coloro che combattano Dio e i cristiani, perché l’indifferenza ha bruciato nel cuore di tutti le domande più importanti. Saulo non era un indifferente. Credeva nel Dio d’Israele, nel Dio dei patriarchi e dei profeti. Nel Dio che aveva creato il cielo e la terra. e si era riservato un popolo, il popolo d’Israele, perché annunciasse le sue meraviglie tra le genti. Perché questo piccolo popolo ricordasse agli uomini di tutta la terra chi era il vero Dio. Racconta sempre il libro degli Atti degli Apostoli: “Saulo, frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al Sommo Sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati” (Atti 9,1-2). Saulo non è un uomo sanguinario, un sadico che gode di vedere i cristiani in galera. E’ un adoratore del vero Dio, il Dio d’Israele, quel Dio che non sopporta idoli. Come recita l’antica preghiera: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore Tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt. 6,4). Saulo, da perfetto israelita, viveva questa fede. Sapeva che il suo Dio era un Dio geloso, che non sopportava dai suoi adoratori altri amori verso altri dei, verso forme non autentiche di religiosità. E i discepoli di Gesù di Nazareth apparivano agli occhi di questo zelante ebreo come una pericolosa setta, che si allontanava dalla religione dei padri. Io credo che la disgrazia più grande dei nostri tempi è la schiera enorme di coloro che non credono più a nulla, non combattono più nessuna battaglia, non sono più capaci di opporsi a Dio, perché Dio per loro, è una parola vuota. Saulo non apparteneva a questa massa amorfa e triste. Egli credeva, amava, adorava il Dio d’Israele. E la sua fede ardente lo portava ad essere persecutore dei cristiani, gli “eretici”. Era un “fondamentalista”. Ma guai a chi non crede più a nulla, non lotta più per nessun ideale, si arrende alla cultura dell’indifferenza che regna nel mondo. Nell’Apocalisse c’è un giudizio terribile per chi è tiepido ed indifferente, per chi non sa decidersi: “All’angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: tu non sei né freddo né caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Apocalisse 3,14-16). Saulo non ha mai appartenuto alla categoria dei tiepidi, degli indifferenti. E’ stato un persecutore convinto. Uno zelo indicibile lo spingeva a perseguitare i cristiani. Credeva di essere sulla strada giusta e questa strada la percorreva con una passione ed una dedizione inarrivabili. Ma Qualcuno lo attendeva lungo la via di Damasco. Per rivelargli un’altra verità, un’altra luce, un’altra passione. Una passione che avrebbe trasformato radicalmente e per sempre la sua vita. 

2. Il convertito 

Sentiamo il racconto degli Atti degli Apostoli: «E avvenne che, mentre (Saulo) era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?” Rispose “chi sei o Signore?” e la voce: “Io sono Gesù che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”» (Atti 9,3-6). Poi si racconta dello stupore dei compagni di viaggio, della cecità che colpisce Saulo, e dell’arrivo a Damasco. Qui c’è l’incontro di Saulo con Anania, che il Signore aveva incaricato di aiutare il persecutore dei cristiani ad aprirsi alla vera fede. Anania, che conosce Saulo e il suo odio verso i cristiani, si mostra perplesso e timoroso. Ma il Signore lo incoraggia: “Va’, perché egli è per me uno strumento eletto, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele ed io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (Atti 9,15-16). Qualcuno ha scritto che dopo la risurrezione di Cristo la conversione di Saulo, che diventerà l’Apostolo Paolo, è il miracolo più grande che viene raccontato nel Nuovo Testamento. Umanamente parlando era impossibile che questo seguace dell’ebraismo diventasse cristiano. Gesù Risorto ha compiuto questo miracolo. Paolo sa che la sua conversione è puro dono di Dio. E lo riconosce chiaramente: “Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è in me” (1 Cor. 15,10). Scrivendo al giovane discepolo e vescovo Timoteo Paolo confessa con stupenda umiltà: “Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia, chiamandomi al ministero; io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, ad esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna” (1 Tm. 1,12-16). E’ bello e commovente sentire Paolo che fa queste confidenze. Ma, soprattutto, le sue parole sono una luce che porta chiarezza alla nostra vita. Il tema della conversione attraversa tutto il libro Sacro, la Bibbia. La conversione interessa ogni discepolo di Gesù. Con l’invito alla conversione si apre la predicazione di Gesù nel Vangelo. E viene spontaneo chiederci: ma noi siamo realmente convertiti? Per Paolo la conversione è stata una rinuncia totale al passato e un consegnarsi senza riserve nelle mani di Gesù Cristo: “Quello che poteva essere per
me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza del mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero una spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”. E ancora: “Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione: solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli io non ritengo di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil. 3,7-13).

Ma neppure per Paolo la conversione è stata facile.

Rileggiamo la Lettera ai Romani : “Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo al peccato (…). Infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto (…). Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene! C’è in me il desiderio del bene; ma non la capacità di attuarlo; infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (…) io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo alla legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,14-23). Ma ormai Paolo non ha più paura di questa lotta contro il male, per continuare a vivere ogni giorno la sua conversione. Infatti conclude con gioia: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rm 7, 24-25). E ancora: “Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono di Gesù Cristo. Poiché la legge dello spirito che dà la vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8,1-2). Paolo ci insegna che il nostro passato, anche se negativo, non può impedirci di aderire completamente a Cristo e al Suo Vangelo. Paolo ci insegna anche che convertirsi non significa essersi sottratti per sempre alla lotta spirituale contro il male. L’importante è credere con tutto il cuore che Gesù Cristo è dalla nostra parte e non ci lascerà soccombere. Soprattutto non permetterà che il nostro peccato ci appaia più importante e decisivo dell’amore di Dio per noi.

Convertirsi è avere trovato ciò che è più importante e decisivo.

Convertirsi è non volgersi più indietro.

Convertirsi è avere imparato ad amare e a sperare.

Convertirsi è sperimentare che ormai la nostra vita non ci appartiene più: dev’essere
donata totalmente a Dio e ai fratelli.

3. L’Apostolo 

Paolo, ormai “ghermito dal Signore” (Fil. 3,12), sente che la sua vita non gli appartiene più. Ma è una vita da donare completamente a Dio e ai fratelli. A questo del resto l’aveva chiaramente destinato lo stesso Gesù Risorto, che gli era apparso sulla via di Damasco. Abbiamo sentito ciò che il Signore risorto dice ad Anania: “Egli (Paolo) è per me uno strumento eletto, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele” (At. 9,15). Tutte le lettere di Paolo sono attraversate da questa ansia missionaria, da questo struggente desiderio di portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo: “Guai a me se non evangelizzo”. Paolo sa, però, che nella sua missione di evangelizzatore non deve e non può confidare in se stesso, ma solo nel Signore. Non può annunciare se stesso, ma solo Gesù Cristo Crocifisso: “Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunciarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di
sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1 Cor. 2,1-5). In una delle sue lettere, per rispondere ad alcune accuse dei suoi aversari, Paolo si vede costretto a….fare il proprio elogio di Apostolo. E’ un piccolo saggio (prezioso) per aprire uno squarcio sulla sua incredibile e multiforme attività missionaria. Scrive Paolo: “Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio,veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non frema? (…) A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani” (2 Cor. 11, 21-29.32-33). Paolo, malgrado le prove che il Signore permette anche nella sua vita di Apostolo, non si scoraggia. Continua imperterrito la sua corsa per annunciare il Vangelo a tutti. Così scrive infatti ai Corinzi: “Investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo; al contrario, rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza, al cospetto di Dio” (2 Cor. 4,1-2). E ancora: “Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi siamo i vostri servitori per amore di Gesù. E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor. 4,5-6). Paolo è consapevole che la missione affidatagli da Cristo è sublime. Ma non dimentica mai la sua piccolezza, il suo niente. E, soprattutto, non dimentica che questa vita sulla terra è solo un prepararci a quella vita che durerà per tutta l’eternità, accanto al Signore Risorto. Ecco perché l’Apostolo riesce a trovare sempre la forza e la gioia per andare avanti: “Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti noi che siamo vivi veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita. Animati, tuttavia, da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: “Ho creduto, perciò ho parlato”, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche voi con Gesù e ci porrà accanto a Lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perchè la grazia, ancor più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’inno di lode alla gloria di Dio. Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor. 4,7-18). Paolo è l’apostolo che può dichiarare con mite fermezza la sua purissima intenzione di essere al servizio di Dio e dei fratelli, con una dedizione immensa, una passione grande e una tenerezza incredibile: “Da parte nostra non siamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto” (2Cor. 6,3-10). Sono tantissime le testimonianze che ci rivelano la gigantesca statura spirituale e morale dell’Apostolo Paolo. Ma ci piace concludere queste brevissime annotazioni con una scena che desta sempre tanta commozione nel cuore di chi la rilegge nel libro degli Atti degli Apostoli: l’addio agli anziani di Efeso. Sono le pagine che ci mostrano quanto amore e quanta dedizione sincera accompagnavano Polo nei suoi viaggi missionari. E veniamo anche a scoprire quali legami profondi si creavano tra l’apostolo, i responsabili delle varie comunità e i fedeli che aveva incontrati. Paolo, come ogni vero apostolo si rivolgeva alle persone, non alle masse, conosceva i volti dei suoi, non era interessato al numero degli adepti. Ed ecco il racconto degli Atti: «Da Mileto (Paolo) mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: “Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà(…). Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi. Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l`eredità con tutti i santificati. Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere! ». Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave» (Atti 20,17-37). In quegli abbracci e in quei baci è custodita una ricchezza di incontri, di sentimenti, di legami unici tra l’Apostolo e tutti i fratelli e sorelle della comunità di Efeso. Una storia che possiamo solo intuire ma che, per quel poco che riusciamo ad immaginare, testimonia in modo luminoso l’autenticità, l’intensità, la profonda umanità e l’altissimo profilo spirituale dell’avventura apostolica di Paolo di Tarso.

4. Il Testimone 

Gli Atti degli Apostoli ci presentano almeno tre grandi viaggi missionari di Paolo. Ma è difficile circoscrivere tutta l’attività missionaria dell’Apostolo. Sappiamo che dopo questi viaggi si era recato a Gerusalemme per portare le collette raccolte soprattutto in Macedonia e in Acaia. Sappiamo che in occasione di questa visita a Gerusalemme ci fu un subbuglio provocato contro l’Apostolo da alcuni giudei della provincia d’Asia che accusavano Paolo di aver violato l’area sacra del Tempio e di aver tentato di introdurre nel luogo sacro alcuni gentili. Il tribuno della coorte romana lo sottrasse al linciaggio della folla dei giudei. Paolo si difese sia in pubblico, di fronte ai giudei della città, sia di fronte al Sinedrio. Si difese anche a Cesarea Marittima, di fronte al procuratore romano Antonio Felice e davanti al suo successore Porcio Festo. Fu proprio di fronte a quest’ultimo che Paolo, cittadino romano, si appellò all’Imperatore e fu perciò deferito a Roma. E’ bello rileggere direttamente negli Atti il viaggio di Paolo a Roma, pieno di pericoli e drammatici imprevisti. Un viaggio che fu ugualmente una continua evangelizzazione (Atti 27 e 28). Giunto a Roma, Paolo vi trascorre, sotto custodia militare, due anni, nella casa che aveva preso a pigione: “Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento”. Si conclude così il racconto degli Atti degli Apostoli. Si era negli anni tra il 58 e il 63 (dopo Cristo). Dopo questo momento non abbiamo date e notizie sicure. Sappiamo però che la morte di Paolo avvenne sicuramente a Roma, sotto l’Imperatore Nerone, e fu una morte violenta. Fu un martirio, con l’accusa, forse, di appartenere ad un gruppo sovversivo. Fu la morte di chi fino all’ultimo volle testimoniare la sua fede e il suo amore a Gesù Cristo. “Martirio”, secondo il termine greco da cui questa parola deriva, significa appunto testimonianza. Fino all’ultimo Paolo ha voluto testimoniare che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, è il Messia promesso dai Profeti, è l’unico Salvatore del mondo. Ma possiamo meditare su altri aspetti della straordinaria testimonianza dell’Apostolo. Paolo ci testimonia che l’essenza della vita cristiana è aver trovato Gesù, amarlo e vivere di Lui e per Lui. Lo scrive nella lettera ai Galati: “In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal. 2,19-20). Paolo ci testimonia e ci ricorda che la vita cristiana è tutta qui, nel poter ripetere come lui: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. Tutto il resto viene dopo. E nel resto c’è il cammino verso la santità, l’impegno personale nella vita spirituale, l’impegno sociale e politico, l’impegno per la pace, l’impegno nel custodire la creazione, l’impegno a fare di tutta l’umanità l’unica famiglia dei figlio di Dio. Un grande teologo del nostro tempo (Karl Rahner) ha scritto che il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà. Paolo lo aveva detto duemila anni fa. Paolo ci testimonia anche una fede rocciosa e sicura nel Cristo Risorto. Rileggiamo la lettera ai Corinzi: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor. 15,12-20). Paolo ci testimonia anche la certezza che nel messaggio di Gesù e nella vita cristiana ciò che conta veramente è la carità, l’amore. I cristiani di Corinto, gli stessi a cui Paolo ricorderà che senza la fede nella risurrezione tutto il cristianesimo crolla, non sapevano fare buon uso dei carismi, cioè dei vari doni che lo Spirito dà abbondantemente a ogni membro della Chiesa, per il bene di tutti, l’Apostolo ricorda che c’è una “via migliore di tutte”: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1Cor. 13,1-10). E Paolo conclude: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1Cor. 13,13). Ed infine Paolo ci testimonia che l’amore che Gesù ci ha rivelato è Egli stesso. E’ Cristo l’amore di Dio fattosi carne in mezzo a noi. e chi si affida totalmente a questo amore ha vinto ormai ogni paura. Quante paure, ogni giorno, vengono a turbare la nostra esistenza! Fra tutte la paura più brutta e pericolosa è quella che ci spinge a dubitare dell’amore di Dio. E’ anche la tentazione più terribile del cristiano. Paolo ci racconta come ha vinto questa paura: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall`amore di Cristo? Forse la tribolazione, l`angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun`altra creatura potrà mai separarci dall`amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm. 8,31-35.37-39). Non dimentichiamo mai questo grido gioioso di Paolo. E nessuno potrà mai rubarci la speranza e la salvezza. Nessuno potrà mai separarci da Gesù Cristo Signore nostro, che ci ha amati e ha dato se stesso per noi

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