Paolo di Tarso emigrante e geografo (PDF, troppo complicato estrapolarlo)
http://www.aiig.it/Rivista/Numeri/2008/n06/art_moscone.pdf
2008-2009 ANNO paolino
Paolo di Tarso emigrante e geografo:
una lettura alternativa dell’Aposto lo delle Genti

http://www.aiig.it/Rivista/Numeri/2008/n06/art_moscone.pdf
2008-2009 ANNO paolino
Paolo di Tarso emigrante e geografo:
una lettura alternativa dell’Aposto lo delle Genti
metto questo « articolo », è interessante, dal sito:
http://www.custodia.org/SBF-Taccuino-Paolo-era-un-giudeo.html
SBF Taccuino – Paolo era un giudeo? Tra pregiudizi e revisionismo
Messo on line il venerdì 26/02/2010 a 14h10 da Eugenio
Una nuova generazione di studiosi sostiene che Paolo, considerato per molto tempo il progenitore dell’anti-semitismo, non lasciò mai la sua religione.
Agli ebrei non piace l’apostolo Paolo. Essi possono accettare Gesù; questi era un rabbi magnanimo le cui parole furono fraintese per fargli dire cose che non intendeva dire. Il travisatore fu Paolo, e non può essere perdonato. Come un convertito zelante che ha messo in relazione la Torah con la morte, Paolo è considerato il padre dell’anti-giudaismo (la critica teologica del giudaismo come religione), l’antenato dell’anti-semitismo (l’odio contro il popolo ebreo), e l’inventore della teologia della croce (una scusa per molti massacri di ebrei). Perfino Friedrich Nietzsche, che non era amico degli ebrei, disse che Paolo falsificò la storia di Israele in modo che apparisse come un prologo della sua (di Paolo) missione, definendolo “il genio dell’odio, dal punto di vista dell’odio, e dell’inflessibile logica dell’odio”.
Sembra che oggi si possa parlare di Paolo come giudeo. Proprio come gli storici che, studiando Gesù, ne hanno scoperto una versione più ebraica nel corso degli ultimi cinquant’anni, provando a immaginarlo come un individuo nel suo proprio spazio e tempo (la Palestina del primo secolo in preda alla febbre apocalittica), così una nuova generazione di revisionisti paolini ha scoperto un Paolo più ebreo, un prodotto dello stesso spazio e tempo. Paolo Non Era Un Cristiano è il titolo di un libro pubblicato lo scorso autunno; ciò che egli era – e mai smise di essere – secondo la studiosa Pamela Eisenbaum e i revisionisti del Nuovo Testamento, era un giudeo rispettoso della legge. Egli non si convertì mai al cristianesimo, perchè non esisteva tale religione a quel tempo. (Paolo ci arrivò in breve dopo la morte di Gesù). Ciò che Paolo fece fu mutare il suo legame da una confessione ebraica a un’altra, dal farisaismo al gesuismo (Vietato parlare di cristianesimo).
Paolo non annullò la legge ebraica, come più tardi Lutero avrebbe sostenuto, non mise la grazia al di sopra delle opere o la giustificazione attraverso la fede al di sopra della giustificazione attraverso la legge. Anche se Paolo fece queste cose, non intendeva comunque farle per il mondo intero. Egli attaccò la legge ebraica solo nel contesto di un dibattito molto ristretto che imperversava nei primi decenni in cui era attivo il movimento di Gesù. Alcuni attivisti ebrei del movimento di Gesù riferirono che i loro accoliti pagani dovettero convertirsi al giudaismo prima di potersi unire al movimento. Paolo non fu d’accordo per niente. Egli sostenne che questi pagani dovevano seguire solo l’equivalente prerabbinico delle leggi noadiche – i sette editti contro idolatria, adulterio, ecc. che tutti i non ebrei ci si aspettasse seguissero. Dopo aver ascoltato la chiamata di Gesù – il primo e ancora il più grande revisionista, Krister Stendahl, afferma che Paolo visse una chiamata, nel modo di un pastore protestante, non ebbe una conversione – Paolo l’accolse per vagare (to roam) in Asia Minore e predicare il Vangelo ai pagani. Egli era talmente contrario al fatto che i pagani diventassero ebrei della Torah, che consacrò le sue Lettere contro quelli che volevano proprio questo. Costoro, se ne può dedurre, lo seguirono di città in città, raccontando a membri della sua comunità che sbagliava riguardo al giudaismo, cosa che naturalmente lo adirava (non erano gli altri ad essere adirati con lui, ndr.).
Se tutto ciò è vero, ne segue che quando Paolo condanna gli ebrei, sta lanciando la sua invettiva ai suoi intriganti compagni missionari di Cristo ebrei, non agli ebrei, un popolo che respinge duramente (italic nel testo). Quando egli dice che il giudaismo è stato sostituito, egli intende il giudaismo come stile di vita cui i pagani aspiravano (? ndr.), non il giudaismo praticato dagli ebrei. (Negli Atti gli ebrei perseguitano Paolo per la predicazione del Vangelo. Gli Atti non sono considerati una fonte per Paolo (una novità per l’adattatore ndr.), dal momento che l’autore che probabilmente li scrisse, Luca, visse quasi mezzo secolo dopo di lui, da quel momento il movimento di Gesù stava sopprimendo con impegno le sue radici ebraiche).
Se Paolo pensava di essere un giudeo, perchè combattè la conversione dei pagani?
Fu proprio il fatto di non volere che greci e romani adottassero lo stile di vita ebraico a rendere più difficile la sua evangelizzazione, tuttavia lo fece.
Far si che greci e romani adottassero l’impegnativo stile di vita ebraico rese più difficile la sua evangelizzazione, ma lo fece.
Il fatto era che Paolo aveva una sola teoria riguardo a Gesù e sui pagani. Se si fosse chiesto al revisionista Paolo cosa pensasse, avrebbe risposto: Quando viene il Giudizio (e Paolo pensava che fosse alle porte), Dio redimerà ancora gli ebrei che hanno obbedito ai suoi comandamenti. Cosa Gesù ha cambiato nel piano di Dio è per i non ebrei. Essi non saranno più esclusi dal Regno per essere giudicati della loro sregolatezza e idolatria e così via. Dio ha mandato loro Gesù che è morto per i loro (non di tutti! ndr.) peccati e adesso anche loro possono essere salvati, nella misura in cui lo accettano e vivono una vita cristiana giusta e onesta.
Si ritiene che Paolo sia il genio che superò il particolarismo ebraico e ideò un universalismo religioso, ma il “nuovo” Paolo non fece questo. Egli non credeva che il Dio ebreo (Jewish God) smise di essere ebreo (Jewish). Non pensò che Gesù sostituì l’impegno di Dio con il suo popolo prescelto. Ciò che Gesù fece principalmente fu morire per il goyim (pagani). Eisenbaum ha scritto che ciò che la Torah fa per gli ebrei, Gesù lo fa per i pagani.
Paolo deve essersi considerato giudeo. Dà un’immagine distorta pensare che Paolo si converta da ebreo con una approfondita cultura greco-romana in un cristiano anti-ebreo, che inveisce contro la legge ebraica alla pari di qualcuno che la incontra per la prima volta. Bisogna considerarlo ancora coinvolto nell’antisemitismo? Fu un giudeo, il cui messaggio è stato forse travisato dagli autori del Vangelo e dai primi padri della chiesa, o fu un demagogo che si lasciò andare a insulti che potevano essere travisati?
Questa è una domanda a cui è difficile rispondere. Paolo fu uno scrittore difficile e un pensatore non sistematico, che buttò giù lettere in risposta alle crisi nelle sue comunità piuttosto che esporre le sue idee in una forma ordinata. Dipende molto dal tono, se si è visti come critici benevoli o freddi, e perfino i migliori esperti, studiosi del primo secolo greco, non sono d’accordo nel definire il tono di Paolo.
Una possibilità inaspettata per gli ebrei e con cui dovranno misurarsi è che quello di Paolo può essere stato un Vangelo ebraico. Ciò suggerisce, alla fine, che forse è proprio dell’ebreo predicare ai non ebrei. Lo studioso ebreo Michael Wyschogrod, in un saggio su cosa Paolo significa per gli ebrei, sostiene che da Paolo si apprende che Israle ha la responsabilità di rendere possibile ai pagani di obbedire al suo Dio e di vivere in armonia con lui.
Quando Paolo scrive nella Lettera ai Romani: “… io non avrei conosciuto il peccato, se non per mezzo della legge; perché io non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non concupire”, egli comprendeva che quanto è proibito resta acutamente vivo e riprende vita proprio quando non può essere ottenuto. Sarebbe passato un millennio prima che i rabbini si lasciassero andare a una rivelazione in prima persona come questa.
Secondo i revisionisti questo Paolo tormentato non è mai esistito. Se esistette, non fu che un’utile finzione per persone come Agostino, che avevano bisogno di qualcuno per giustificare la loro propria conversione e la guerra contro il peccato. Se Paolo non rinnegò la Legge, allora non avrebbe potuto parlare delle sue proprie difficoltà nei suoi confronti. In nessun altro scritto fuorchè nella Letterea ai Romani Paolo definisce se stesso un giudeo mancato. Difatti ci sono passi in cui egli si vanta della sua eccellenza come fariseo.
Quindi perchè parla in prima persona? I revisionisti sostengono che usa una figura della retorica greca chiamata prosopopea, che sarebbe stata familiare ai suoi contemporanei ma non intesa dai lettori non educati ai modi del discorso ellenici. Egli finge di non pretendere che la sua argomentazione possa essere persuasiva. Paolo immagina che quanto scrive stia nella testa di un pagano che, per la prima volta, prova ad osservare la Legge, e scopre grazie ad essa di essere un peccatore inguaribile.
I revisionisti possono aver ragione quando affermano che Paolo deve aver recitato una parte, ma non è escluso che l’apostolo volesse intendere proprio quello che scrisse. Se Paolo fu un attore o un convertito che ripudiava il suo passato di giudeo, le sue parole hanno il peso di verità strappate a un corpo ostinato: “ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra”. Cristiano o giudeo, Paolo capì che ciò che Dio ha richiesto al suo popolo era estremamente difficile, e in qualche modo impossibile da conseguire. Parlare di Paolo come giudeo può anche significare di ammettere che tale ambivalenza è parte dell’esperienza giudea.
Adattamento: R.P.
Fonte: Judith Shulevitz, Tablet (11 novembre 2009)
ancora un bel commento sulla conversione di San Paolo, dal sito:
http://www.domenicanipistoia.it
Conversione dell’Apostolo Paolo
di Alessandro Cortesi op – 25 gennaio 2009
Pistoia – Italia
Festa della conversione di san Paolo – anno paolino
At 22,3-16; Sal 116; 1Cor 7,29-31; Mt 16,15-18
In quest’anno paolino la festa della conversione di san Paolo coincide con la domenica e si può essere celebrata l’Eucaristia con le letture della festa (mentre la seconda lettura è tratta dalla liturgia della III domenica del tempo ordinario).
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La figura di Paolo è affascinante e complessa. Tutta la sua vita trova un momento di svolta nell’evento descritto per tre volte in contesti diversi nel testo degli Atti degli apostoli (ai capitoli 9, 22 e 26) come accaduto sulla via di Damasco. Ma anche Paolo stesso fa riferimento, a suo modo, nella lettera ai Galati, al passaggio fondamentale della sua vita avvenuto a metà degli anni ’30 del I secolo. In questo testo Paolo parla della sua esperienza per affernare che il vangelo da lui annunziato non è ‘modellato sull’uomo’, cioè non è frutto di pensiero o di opera umana ma è un dono. Egli stesso l’ha ricevuto ‘per rivelazione di Gesù Cristo’. Paolo non dice come ciò avvenne, ma gli è chiaro il senso profondo di tale evento: « quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco » (Gal 1,15-17).
In queste poche righe dettate dalla sua voce, viene espressa l’esperienza unica e totalmente gratuita di sentirsi chiamato e oggetto di un dono di benevolenza. La ‘rivelazione’ riguarda non qualcosa, ma qualcuno: ‘colui che mi scelse fin dal seno di mia madre… si compiacque di rivelare a me suo Figlio’. C’è una centralità di Gesù Cristo, unita al dono di grazia del Padre che segnerà d’ora in poi la vita di Paolo: la bella notizia che dovrà annunziare proviene da Gesù Cristo. In altri testi Paolo dirà che il ‘vangelo’ è l’agire di Dio che ci ha amati gratuitamente, ci ha liberati dal peccato in Cristo e in lui siamo salvati per mezzo della fede (Rom 1,16; 3,21). E’ un rapporto con Gesù nella sua condizione di risorto, in vista di un compito che Paolo avverte inscindibilmente legato a questa chiamata. Da qui ha inizio una missione determinata: annunziare il Cristo in mezzo ai pagani. Paolo sottolinea l’autorità della chiamata e della scelta e con essa la gratuità. Non sente perciò la necessità di andare a Gerusalemme dagli apostoli.
Le pagine degli Atti degli apostoli riprendono questi dati assai sobri e ne offrono una narrazione ampliata: Paolo è presentato come fariseo zelante, in viaggio verso Damasco per ricercare i cristiani di costì – ‘coloro che erano della via’ – e per farli prigionieri. Due elementi segnano l’evento che accade sulla via: la voce e la luce. La voce, appello di Gesù a Paolo, genera un breve dialogo ed è percepita da Paolo solamente (in At 22,7, mentre in At 9,7 è udita anche dagli altri) mentre la luce è vista anche dai presenti: « Saulo Saulo perché mi perseguiti? » « chi sei Signore? ». Nella domanda di Paolo già è racchiusa la professione di fede nel Cristo come Signore, la voce risponde rinviando alla vicenda di Gesù di Nazareth ed al rapporto tra Gesù e i suoi discepoli: « io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti ». Compare qui la stretta identificazione tra Gesù e i suoi discepoli perseguitati. Inoltre in At 22 Paolo riceve il comando di recarsi a Damasco dove avrebbe poi ricevuto indicazioni: la narrazione accentua la cecità di Paolo, condotto per mano dai compagni fino a Damasco: lì l’incontro con il cristiano Anania gli fa riacquistare la vista. At 9 amplia questo momento e narra di una visione di Anania che recandosi da Paolo dice « mi ha mandato a te il Signore Gesù che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo » (At 9,17). Allora Paolo recuperò la vista e fu battezzato. La luce folgorante aveva causato la cecità, ora la presenza e la compagnia di Anania fa riacquistare la vista e il battesimo è presentato come ‘illuminazione’ e possibilità di sguardo nuovo.
Questi testi ci fanno entrare nell’intimo della vicenda di Paolo. La prima questione è se quella di Paolo fu una vera e propria ‘conversione’. Paolo era un convinto credente nel Dio di Abramo, della promessa e della legge: l’evento di Damasco gli rovescia il modo di considerare la religione e la vita stessa, ma gli fa percepire in modo più profondo la sua stessa tradizione di fede. Nella lettera ai Galati Paolo sottolinea il riferimento a Dio che lo scelse fin dal seno di sua madre: la sua fede rimane ancorata al Dio di Israele. Pur in tale continuità a Damasco irrompe una luce nuova, il Risorto lo investe della sua presenza e lo conduce a concepire in modo nuovo il rapporto con il Dio dei padri. Sta qui l’origine di quella tensione che Paolo vivrà nel sentirsi fratello e membro del popolo d’Israele, interrogandosi sul ruolo del suo popolo nella storia della salvezza, e contemporaneamente nell’avvertire la profonda novità dell’incontro personale con Gesù Cristo e l’apertura del vangelo a tutta l’umanità. Paolo vive la consapevolezza di essere stato chiamato gratuitamente, non per le sue opere, né per il suo zelo religioso, né per la sua cultura raffinata. Credere per lui diviene allora affidamento che sgorga dal sapersi toccato dalla gratuità di Dio senza alcun merito. Il vangelo che Paolo accoglie è la bella notizia del dono di presenza di Gesù il risorto. Tutto ormai nella sua vita ruoterà attorno all’essere ‘in Cristo’.
Da questo incontro deriva quanto Paolo scrive ai Corinzi: ‘il tempo ormai si è fatto breve’. Tutta la vita diviene momento di passaggio in cui stare dentro le situazioni, ma nel contempo guardare all’approdo finale, cioè all’incontro con Cristo. Vivere come se… non è una forma di estraneità e di disimpegno, piuttosto l’attuare una fedeltà al tempo ed alle situazioni con uno sguardo proteso all’orizzonte ultimo della vita che è l’incontro con Cristo che comunica la grazia del Padre.
Nella sua esperienza di essere stato scelto come apostolo (cfr Rom 1,1) Paolo ha compiuto il comando lasciato da Gesù ai suoi: « Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura’. Non solo gli ebrei, non solo coloro che appartengono ad una religione, non solamente una categoria particolare, ma ogni uomo e donna può aprirsi ad accogliere, nella fede, nella sua vita questo dono di grazia.
dal sito:
http://www.stpauls.it/vita/0909vp/0909vp32.htm
Il rapporto con la legge
Paolo era un vero fariseo
di PAOLO DE BENEDETTI
Tra gli articoli sull’Apostolo ci mancava il punto di vista di un cristiano di radici e fedeltà ebraiche come De Benedetti, che ci parla dell’autocoscienza ebraica di Paolo, dell’adesione alla corrente farisaica e della sua tensione messianica.
Che Paolo fosse e si sentisse ebreo, appare da diverse sue affermazioni, a cominciare dalla dichiarazione che, secondo Atti 22,3, fece sui gradini del tempio al momento dell’arresto: «Fratelli, io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi». E poco dopo, davanti al sinedrio: «Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti» (Atti 23,6). Da queste due dichiarazioni emerge non soltanto la sua autocoscienza ebraica, ma anche la sua adesione alla corrente farisaica (in cui, secondo alcuni studiosi moderni, si era formato Gesù): Gamaliele il Vecchio era nipote di Hillel, il grande maestro che, a differenza del contemporaneo Shammaj, era noto per la sua dolcezza e moderazione.
La tradizione farisaica non era compatta e omogenea. Una citazione talmudica distingue sette tipi di farisei: «Il fariseo shikmi (che, come il biblico personaggio Sichem, si converte per opportunismo); il fariseo niqpi (che cammina a piccoli passi per ostentare umiltà); il fariseo kizai (che per non vedere le donne cammina a testa bassa e quindi picchia contro i muri e si copre di sangue); il fariseo pestello (che cammina curvo come il pestello nel mortaio); il fariseo che grida sempre (qual è il mio dovere perché io lo possa compiere?); il fariseo per amore e il fariseo per timore» (Talmud babilonese, Sotah 22b).
Ma che cosa dice la Scrittura a proposito dei precetti? «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme perché tu viva» (Dt 30,15-16). Ascoltando tali precetti – dopo la rivelazione sinaitica – il popolo disse a Mosè: «Tutto ciò che il Signore ha parlato, eseguiremo e ascolteremo» (Es 24,7). Dove si deve notare la precedenza dell’ »eseguire » sull’ »ascoltare », della prassi sulla riflessione.
Il rapporto di Paolo con la legge
Qual è la posizione di Paolo sui precetti? «Quelli che si richiamano alle opere della legge, stanno sotto la maledizione [...] e che nessuno possa giustificarsi davanti a Dio per la legge, risulta dal fatto che il giusto vivrà in virtù della fede [...]. Cristo ci ha salvati dalla maledizione della legge» (Gal 3,10-11.13). A questa e altre numerose negazioni della legge, Paolo alterna valutazioni di altro senso (per esempio in Rm 7,7.14-16). Tutto ciò deriva, a mio parere, da un’esperienza giovanile turbata e forse traumatica dell’osservanza dei precetti, come quella esemplificata nella citazione talmudica proposta sopra. Mi pare evidente che nella sua giovanile presenza farisaica il rapporto di Paolo con la legge non sia stato quello del « fariseo per amore ».
La sua colpa (che ha avuto conseguenze gravissime nelle interpretazioni cristiane dell’ebraismo) sta nell’aver generalizzato ed esclusivizzato il modello del fariseo kizai, e nell’aver ignorato una tradizione orale che insiste su quello che potremmo chiamare il significato sacramentale del precetto: il precetto, come il sacramento, non ha il suo significato nell’atto o nella materia prescritti, ma nella « provenienza ». Ossia: il precetto, come il sacramento, è un memoriale, una memoria attiva ed efficace, della volontà di Dio. Quando mi astengo, per esempio, da cibi proibiti, il vero senso del precetto è che io mi ricordo di Dio. Mi sia consentito riprendere in proposito quanto ho scritto nella mia Introduzione al giudaismo (Morcelliana 1999, pp. 74 -75). La presenza,l’incarnazione della volontà di Dio – potremmo dire di Dio in quanto volontà – è la radice biblica della halakhà, « norma ». Come afferma E. Levinas, la halakhà è un accesso all’intellettuale – direi alla conoscenza di Dio – a partire dall’obbedienza.
Leggiamo uno dei precetti biblici più incompresi dai non ebrei: «Parla ai figli di Israele e di’ loro che si facciano delle frange agli angoli delle loro vesti, per tutte le loro generazioni, e mettano alla frangia di ogni angolo un filo di porpora azzurra. E della frangia avverrà che quando la guarderete vi ricorderete di tutti i comandi del Signore, e li eseguirete, e non devierete dietro il vostro cuore e dietro i vostri occhi, al seguito dei quali vi siete prostituiti» (Nm 15,38-39). Se Paolo non avesse sofferto una situazione psicologica disturbata come quella del fariseo kizai, avrebbe compreso che i due versetti sono il cuore della Torà, perché contengono tre elementi assolutamente fondamentali: un comando di Dio, un comando spoglio di senso etico, e un collegamento del comando al ricordo. Potremmo aggiungere: al ricordo di Dio come voce. Proprio perché il valore dei precetti sta nella provenienza, si capisce quel detto midrashico secondo cui «non bisogna soffermarsi a ponderare sul valore dei precetti».
Il grande rabbi Jochanan ben Zakkaj, contemporaneo di Paolo, diceva: «Né il morto contamina né l’acqua purifica [che sono due principi della Torà] ma è il decreto del Re dei re, come dice il Santo benedetto sia: « Ho decretato i miei decreti e ho prescritto le mie prescrizioni, né l’uomo può violare il mio decreto »» (Midrash Rabbà a Numeri 19,8).
E due secoli dopo Rav – altro grande maestro della tradizione orale – diceva a proposito delle regole di macellazione rituale: «Forse importa al Santo, benedetto sia, che chi scanna l’animale lo colpisca al collo o lo colpisca alla nuca? Così, i precetti non sono stati dati se non allo scopo di purificare le creature» (Midrash Rabbà 6,2). Questi precetti « punteggiano » l’esistenza quotidiana, indipendentemente dall’eventuale formazione teologica del singolo: potremmo dire perciò che in un certo senso sono un modo che Dio ha di arrivare all’uomo comune. Ecco perché è stato affermato che Dio sta nel precetto (e, aggiungiamo noi, non soltanto nella morale).
La posizione, o meglio l’alternanza di posizioni di Paolo sui precetti (che, lo ripetiamo, è responsabile di gravissimi fraintendimenti dell’ebraismo da parte dei cristiani) è tuttavia, paradossalmente, un fattore intra-giudaico. Infatti il giudaismo si è sempre nutrito di discussioni anche violente, di divergenze profonde, come quelle famose, nel primo secolo, tra la scuola di Hillel e quella di Shammaj. Se i cristiani leggessero più criticamente le discordanti asserzioni di Paolo sui precetti, forse anch’essi, come i discepoli dei due maestri, sentirebbero una voce dal cielo che afferma: «Queste e quelle sono parole del Dio vivente». Ma ci vuole ancora pazienza e libertà.
La sua tensione messianica
Se l’ebraicità di Paolo emerge anche dalle sue ossessioni, c’è un altro elemento ebraico del pensiero paolino, che lo pone tra le più grandi – se non la più grande – personalità del Nuovo Testamento. Mi riferisco alla sua tensione messianica, tipica del medio giudaismo e radice perenne del cristianesimo. Essa trova il suo culmine in un passo della lettera ai Romani che vorrei fosse riletto da ogni ebreo e da ogni cristiano ogni giorno: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa, e nutre la speranza di essere liberata dalla corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati» (Romani 8,19-24).
E non dimentichiamo che questa è anche la speranza messianica di Dio.
Paolo De Benedetti
DA: USMI (Unione Superiore Maggiori d’Italia), dal sito:
http://www.usminazionale.it/06-2001/castronuovo.htm
Le notti di Paolo
(6 giugno 2001)
di Filippa Castronuovo
Camminiamo nella fede non nella visione
«Camminiamo nella fede e non nella visione…» scrive Paolo (2Cor 5,7). Quest’espressione insinua, per caso, che la fede, più che essere luce nella notte profonda, è un’angosciosa certezza?
E’ un fatto: la vita di Paolo si svolge in una prolungata esperienza di notte, come fatica, incomprensione, oscurità o, come alcuni sostengono, la sua vita è stata una lunga e continuata Via Crucis1. Nella nostra riflessione seguiamo alcune indicazioni di Luca negli Atti degli apostoli2 e di Paolo stesso3. Punto di partenza per entrare nel mondo spirituale di Paolo è l’evento basilare della sua conversione4. Luca la narra tre volte. Ogni narrazione, incastonata nella vita di Paolo, aggiunge nuovi particolari, in un crescendo cristologico dell’avvenimento che lo ha investito.
Due domande e una risposta senza soluzione immediata caratterizzano l’incontro-scontro di Paolo con Gesù.
«Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?».
«Chi sei, tu, o Signore?».
«Entra in città e ti sarà detto…». Da chi? Come? Quando?
Paolo, reso cieco dalla luce abbagliante, entra in città e condotto per mano dai compagni, raggiunge la casa di un cristiano di nome Anania. Da questi riceve, e non da Gesù direttamente o da Pietro, orientamento per la sua vita. La cecità che lo colpisce non è da interpretare solamente in chiave cronicistica, è un’esperienza profonda di tenebre. A contatto con Dio, che è luce, l’uomo non può che vedersi tenebra. «Tu, Signore, rischiari le mie tenebre», prega il salmista (cf Sal 17,29).
I tre racconti lucani evidenziano l’oggettività dell’esperienza paolina. Vi sono dei testimoni: essi o vedono la luce o ascoltano la voce. La totalità dell’esperienza è solo di Paolo, l’unico che entra nella notte, come morte, ed esce nel giorno, come esperienza di vita nuova.
La prospettiva lucana, per la quale Dio dal buio trae la luce, è cara anche a Paolo. Egli stesso interpreta il suo incontro con Cristo, e la novità di vita da esso scaturita, in questi termini:
«Dio che disse “dalle tenebre la luce rifulga”, rifulse nei nostri cuori per l’illuminazione della conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo» (2Cor 4,6).
La luce che prese ad abitare nel cuore di Paolo è Cristo Gesù, splendore del Padre, che, a sua volta, egli dovrà comunicare.
1. Paolo strumento eletto
Nel primo racconto lucano, Gesù ad Anania, titubante e incredulo circa la resa di Paolo, dice:
«Và, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,6).
La missione di Paolo, in quanto vaso d’elezione e strumento eletto, si profila itinerante, costellata da prove e persecuzioni, dalla sofferenza per il nome di Gesù. Sarà un ‘cammino nella fede e non nella visione’ senza successi facili e immediati. La conversione di Paolo solitamente si colloca tra il 34-35 e la sua prima missione tra il 45-46. Tra la conversione e la prima missione intercorrono 10 anni. Dove è stato Paolo? L’apostolo non accenna a questo periodo. L’unico accenno è quello in 2Cor 11,31-33.
«Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani» (2Cor 11,31-33).
Luca colloca questo episodio subito dopo la conversione e il battesimo ricevuto dalle mani di Anania (At 9, 30). Di qui la domanda: che cosa sarà avvenuto nella prima fase cristiana di Paolo? Coscienti della difficoltà di ricostruire le tappe di questo primo periodo, possiamo ipotizzare che dopo la sua conversione, Paolo comincia a predicare, ma è rifiutato sia a Damasco che a Gerusalemme. Questi primi dieci anni, ricorda il cardinale Carlo Maria Martini5, sono stati anni di difficoltà, di scontri, di disagi… di solitudine, di silenzio, di sconforto. E’ la prima lunga notte per Paolo, cui ne seguiranno molte altre. Un tentativo di uccisione a Damasco, incomprensione a Gerusalemme, solitudine nel deserto. Che avrà vissuto Paolo nel lungo isolamento che egli chiama deserto d’Arabia? Un ricordo di Paolo può illuminare questo periodo di doloroso e affascinante deserto:
«Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie debolezze» (2Cor 12,1-5).
Tra gli interrogativi che affollavano la sua mente e il suo cuore, nella crescente certezza che il crocifisso è veramente il Messia, il Figlio di Dio così come le Scritture avevano predetto, Paolo riceve consolazione e conforto da Dio. E’ un momento di luce e di rinnovata esperienza di Dio, che sboccia in un nuovo cammino. Barnaba va a cercarlo per condurlo nella comunità d’Antiochia. Purificato dalla lunga notte dell’isolamento, sostenuto dall’approfondimento dello scandalo del mistero pasquale, egli comincia ufficialmente la missione e con essa la sua Via Crucis.
La notte più buia di Paolo…
…riguarda la rottura dell’amicizia con Barnaba, l’unico che, quando tutti lo rifiutavano, “lo prese con sé e lo presentò agli apostoli” e si fece garante della sua sincerità (cf At 9,26-27). Per un anno intero lavorano insieme. Paolo da Barnaba impara a vivere in comunità e il metodo della missione. Con lui compie la prima campagna missionaria in una collaborazione quasi idilliaca. Compiuto il viaggio si preparano per il secondo. Barnaba vuole riportare in missione Marco, benché questi, durante il primo viaggio, per timore, fosse tornato indietro. Paolo non è d’accordo. Luca annota: “Il dissenso fu tale che si separarono” (At 15,39). La collaborazione e l’armonia si spezzano per l’irrigidimento di Paolo su di un principio relativo, anzi per un dettaglio apostolico. La missione andrebbe avanti lo stesso anche se Marco dovesse tornare indietro! Quando Paolo arriva alla piena conoscenza di Cristo, scrive: « Se io parlassi tutte le lingue degli angeli, ma non avessi l’amore sarei un nulla… L’amore è paziente, non si adira l’amore» (cf 1Cor 13,1ss). E’ stata necessaria la notte che ha segnato la rottura di una antica amicizia, di un vincolo profondo. Queste ferite nel cuore di Paolo, si fanno memoria che salva6. La notte dell’intolleranza si trasforma nel giorno della maternità che cura e della paternità che incoraggia, ed esorta a camminare verso Dio (cf 1Ts 2,7).
La notte come fatica a discernere le vie della missione
Paolo e Silvano riprendono la seconda campagna missionaria. La missione, ben preparata e organizzata, si presenta piena d’imprevisti. Ogni aspetto chiaro diventa oscuro. Luca narra:
«Attraversarono quindi la Frigia e la regione della Galazia, avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia di Asia. Raggiunta la Misia, si dirigevano verso la Bitinia, ma lo Spirito di Gesù non lo permise loro» (At 16,6-7).
Questo impedimento si rivela di particolare ricchezza missionaria. Paolo, durante la notte, vede il macedone che lo invita a predicare Cristo nella sua terra (At 16,9). Alcuni fatti impediscono lo svolgimento della missione, secondo i piani stabiliti da Paolo e da Silvano. Queste difficoltà sono lette come segni di cui Dio si serve per spostare gli orizzonti della missione, secondo la guida di Dio.
Notte di liberazione e di vita
Paolo giunge a Filippi. Qui viene catturato e condotto nell’angolo più angusto della prigione in mezzo a una folla di prigionieri disperati.
«La folla allora insorse contro di loro, mentre i magistrati, fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli e dopo averli caricati di colpi, li gettarono in prigione… Egli (il carceriere), ricevuto quest’ordine, li gettò nella cella più interna della prigione e strinse i loro piedi nei ceppi. Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli» (cf At 16,23ss).
Il momento più intenso avviene nel cuore della notte. Paolo, stordito dai colpi, sicuramente non trova una posizione di sollievo. Grida di prigionieri arrivano alle sue orecchie. Passa il primo turno di veglia della notte. Paolo soffre per il nome di Gesù. Come ha imparato da ragazzo benedice Dio: «Benedetto Dio che illumina il mondo con il suo splendore»7. Segue il terremoto che spalanca le porte permettendo ai carcerati di fuggire. Il carceriere vuole uccidersi ma Paolo lo assicura che nessun prigioniero è fuggito. Questi ‘preso un lume nella notte’ si getta ai piedi di Paolo, accogliendone il Vangelo. A queste memorie di Luca sembrano corrispondere alcuni ricordi di Paolo nella 1Ts:
«Voi stessi, infatti, fratelli, sapete bene che la nostra venuta in mezzo a voi non è stata vana. Ma dopo avere prima sofferto e subìto oltraggi a Filippi, come ben sapete, abbiamo avuto il coraggio nel nostro Dio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte» (1Ts 2,1-2).
Notte di fuga
Liberati dal carcere sono invitati a fuggire. Fermarsi a Filippi è pericoloso. La folla è inferocita. Partono per Tessalonica. Anche in questa città scoppia un subbuglio.
«Ma i fratelli subito, durante la notte, fecero partire Paolo e Sila verso Berèa. Giunti colà entrarono nella sinagoga dei Giudei… Molti di loro credettero e anche alcune donne greche della nobiltà e non pochi uomini» (At 17,11-12).
Paolo è colmo d’afflizione e di preoccupazione. Avrò fatto bene a fuggire da Tessalonica? Avranno forza questi neofiti di sopportare la persecuzione? Come completare l’annuncio appena iniziato? Questi interrogativi colmano il suo cuore di tristezza e hanno i tratti del buio della notte. Egli scrive:
«Quanto a noi, fratelli, dopo poco tempo che eravamo separati da voi, di persona ma non col cuore, eravamo nell’impazienza di rivedere il vostro volto, tanto il nostro desiderio era vivo. Perciò abbiamo desiderato una volta, anzi due volte, proprio io Paolo, di venire da voi, ma satana ce lo ha impedito…Per questo, non potendo più resistere, abbiamo deciso di restare soli ad Atene e abbiamo inviato Timòteo…» (1Ts 2,17-18;3,1-3).
Notte di lacrime
Paolo passa a Corinto dove si ferma in tutto circa due anni. A questa comunità scrive (cf 1Cor 15,30-32):
«Non vogliamo, infatti, che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. Abbiamo ricevuto su di noi la sentenza di morte… Da questa morte Dio ci ha liberati…» (2Cor 1,8). «Infatti, da quando siamo giunti in Macedonia, la nostra carne non ha avuto sollievo alcun ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori al di dentro» (2Cor 7,5).
Questi versetti comunicano la realtà faticosa della missione, vissuta nella fragilità della realtà umana e lasciano intuire la complessità della comunità di Corinto. La tradizione ci ha trasmesso due lettere di Paolo a questa comunità ma l’apostolo ne ha scritto quattro. Tra queste la cosidetta ‘lettera delle lacrime’ (cf 2Cor 2,3-4). I cristiani a Corinto volevano aderire alla falsa sapienza che riduce la fede a una filosofia; avevano interpretato la libertà cristiana come libertinismo e non come servizio e attenzione al fratello. Stavano costruendosi un sincretismo religioso, una religione ‘fai da te’. Paolo era considerato uno che ‘di lontano con le lettere sembrava forte, ma visto da vicino, valeva poco’ …una persona da poco conto, meschino!
«Ora io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo, io davanti a voi così meschino, ma di lontano così animoso con voi; vi supplico di far in modo che non avvenga che debba mostrare, quando sarò tra voi, quell’energia che ritengo di dover adoperare contro alcuni che pensano che noi camminiamo secondo la carne» (2Cor 10,1-2).
La predicazione di Paolo non avveniva a ‘colpi di miracoli’ o a forza di dimostrazioni razionali. Gli altri predicatori avevano un certo ‘di più’. L’apostolo si difende dimostrando che il vero di più consiste in di più di fatica, di sofferenza, di profonda notte vissuta per il Signore (cf 2Cor 4,8-12; 6,8-10). Il vero di più è la preoccupazione materna e paterna per le Chiese.
«Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2Cor 11,23-29).
Che notte per Paolo quella nella quale i cristiani di Corinto volevano dividersi da lui, il padre nella fede, che li aveva generati a Cristo mediante il Vangelo!
Che esperienza di luce e di pieno giorno quando Tito gli comunica che i figli di Corinto hanno riconosciuto il loro errore e hanno mostrato pentimento per avere offeso Paolo, forse anche pubblicamente!
«Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito, e non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi. Egli ci ha annunziato infatti il vostro desiderio, il vostro dolore, il vostro affetto per me, cosicché la mia gioia si è ancora accresciuta» (2 Cor 7,6-7).
Notte di consolazione
I dolori di Paolo provengono dall’interno della comunità ma anche dall’esterno. Paolo a Corinto, rifiutato dai Giudei, decide di andare dai pagani (cf At 18, 5-6). Nel dolore del rifiuto dei suoi fratelli nella fede dei padri, nel dolore dei cristiani che travolgono il Vangelo, nella notte è consolato:
«E una notte in visione il Signore disse a Paolo: “Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città”. Così Paolo si fermò un anno e mezzo, insegnando fra loro la parola di Dio» (At 18, 10-11).
Notte pasquale
Percorrendo l’itinerario lucano Paolo da Corinto va ad Atene, poi a Efeso, fino a giungere al termine della terza campagna missionaria a Troade. Ai cristiani di Troade, nella lunga conversazione notturna, Paolo esprime i suoi desideri, le sue preoccupazioni. La sua conversazione è intercalata da preghiere, professione di fede. Giunge la mezzanotte. Fra gli ascoltatori un giovane, preso dal sonno, cade dal piano superiore, entrando nel sonno della morte (cf At 20,7ss). Paolo gli restituisce la vita. E dalla conversazione passa al momento di spezzare il pane. Proprio come Gesù che prima di andare a morire spezza il pane con i suoi!
Il Risorto è, certamente, vivo e presente in mezzo a loro, nel segno del pane e del vino. E’ presente anche nel gesto di Paolo che riconsegna Eutico vivo a sua madre. Un gesto importante per dire che la morte è sconfitta dalla vita, la notte dal giorno. Paolo riprende il suo viaggio fino, quasi, alle porte di Efeso, ma si ferma al porto di Mileto. Da qui fa chiamare gli anziani di Efeso. Perché non è andato a incontrarli direttamente? Dobbiamo supporre che non va ad Efeso perché qualche mese prima avevano tentato di ucciderlo? La risposta è difficile. A noi rimane il discorso-testamento di Paolo agli anziani di Efeso. Paolo leggendo il suo passato, il presente ed il futuro, presenta il modello del pastore, che dà tutto se stesso senza risparmio.
«Quando essi [anziani] giunsero disse loro: “Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei… Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni… » (cf At 20,18-23).
2. Paolo testimone-martire
Paolo si sta recando verso Gerusalemme ed ecco il secondo racconto della vocazione che interpreta la vita di Paolo come testimonianza fedele fino alla morte.
«Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito» (At 22,15 ).
Dio ha reso Paolo vaso di elezione (At 9,6), ma anche testimone-martire. Testimone nella misura che vede il giusto e ascolta una parola dalla sua bocca. Vedere e ascoltare sono i verbi della relazione che si fa comunicazione. Il vedere di Paolo è esperienza, l’ascolto è obbedienza della fede. Questo modo di vedere e di ascoltare rende Paolo capace di comunicare il vangelo non con uno stile dogmatico impositivo, ma come appello che tocca la profondità del cuore, dove avvengono le decisioni (cf 1Ts 2,3). Secondo Luca una linea ideale collega Gerusalemme e Roma. A Gerusalemme nasce la Chiesa; da Roma questa si espande fino ai confini del mondo. Paolo arriva nel cuore dell’impero non in trionfo ma all’interno di un processo ingiusto e doloroso, come è avvenuto per Gesù. Il Signore lo incoraggia:
«La notte seguente gli venne accanto il Signore e gli disse: “Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma”» (At 23,11).
Come Gesù va a Gerusalemme, così Paolo va a Roma a vivere la sua notte pasquale. A Luca sta a cuore indicare Paolo modello del vero discepolo che percorre la strada del Maestro e lo rappresenta. L’ultima parte degli Atti forma un chiaro parallelismo tra la passione di Gesù e quella di Paolo. “Il discepolo non è più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro” (Lc 6,40) sembra il quadro che meglio rappresenta Paolo descritto da Luca.
Gesù va a Gerusalemme: Lc 9,51
Testimonianza davanti al Sinedrio: Lc 22,66ss.
Gesù lasciato ai giudei: Lc 23,1ss
Gesù resta solo: durante il processo dove sono i dodici?
Paolo va a Gerusalemme: Atti 21,1ss
Testimonianza davanti al sinedrio: Atti 23,1ss.
Paolo lasciato ai giudei: 23,12ss.
Paolo resta solo quando è accusato: dove sono i suoi?
«Secondo gli ordini ricevuti, i soldati presero Paolo e lo condussero di notte ad Antipàtride. Il mattino dopo, lasciato ai cavalieri il compito di proseguire con lui, se ne tornarono alla fortezza. I cavalieri, giunti a Cesarèa, consegnarono la lettera al governatore e gli presentarono Paolo» (At 23,31-33).
3. Paolo ministro-profeta
Nel cammino di identificazione cristocentrica, Paolo lucano comprende gli orizzonti sconfinati della prima Damasco. E’ vaso di elezione, testimone-martire, ministro e profeta delle cose che ha già viste e di quelle che vedrà ancora. La conversione come passaggio dal buio alla luce, come apertura di orecchie deve continuare fino alla morte. Paolo, mediante il dono del Vangelo, apre gli occhi ai ciechi, fa sì che le tenebre che avvolgono e affliggono l’umanità lascino posto al giorno.
«Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me» (At 26,16-18).
La grande notte verso il giorno pieno
Nel parallelo lucano tra Paolo e Gesù, la grande notte di Gesù si conclude con la morte e la risurrezione a Gerusalemme, per Paolo nell’esperienza di morte vissuta simbolicamente nel naufragio a Malta. Qui Paolo con i compagni passa la prova delle acque (segno della morte). Egli ne esce vivo e fa uscire vivi gli altri, con lui. Gesù dopo la sua morte riceve la gloria, aprendo a noi le porte della salvezza; Paolo a Roma, cuore del mondo, annuncia la Parola di salvezza.
« Da vari giorni non comparivano più né sole, né stelle e la violenta tempesta continuava a infuriare, per cui ogni speranza di salvarci sembrava ormai perduta… Da molto tempo non si mangiava, quando Paolo, alzatosi in mezzo a loro, disse: “Sarebbe stato bene, o uomini, dar retta a me e non salpare da Creta; avreste evitato questo pericolo e questo danno… Mi è apparso infatti questa notte un angelo del Dio al quale appartengo e che servo, dicendomi: Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare ed ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione. Perciò non perdetevi di coraggio, uomini; ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato annunziato. Ma è inevitabile che andiamo a finire su qualche isola”. Come giunse la quattordicesima notte da quando andavamo alla deriva nell’Adriatico, verso mezzanotte i marinai ebbero l’impressione che una qualche terra si avvicinava» (cf At 27,9ss).
Per la terza volta, come tre sono i racconti della vocazione, Paolo riceve l’incoraggiamento “non temere” nel cuore della notte.
Non temere, Paolo, ma continua a parlare.
Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma.
Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare ed ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione.
Il giorno glorioso di Paolo
«Paolo finalmente giunge a Roma; i fratelli gli vengono incontro ed egli «al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio. Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia».
«Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento» (cf At 28,16ss).
A noi piacerebbe conoscere la conclusione della vita di Paolo. Luca non ha interesse a narrarla.
«Quando Paolo muore a Roma ha appena sessant’anni. Metà della sua vita, dopo l’esperienza di Damasco, l’ha passata da pellegrino del Vangelo, passando da una provincia all’altra dell’impero, dalla Siria alla Galazia, dalla Macedonia all’Acaia e all’Asia. Ha percorso una decina di migliaia di chilometri, via terra e per mare. Egli ha desiderato e atteso il viaggio a Roma come punto di partenza per la missione in occidente. Vi è arrivato come prigioniero per il Vangelo e con la sua decapitazione ha posto il sigillo alla sua testimonianza. Paolo non ha fondato la Chiesa di Roma, ma con il suo “martirio” ne ha segnato per sempre la storia. Il suo primo biografo Luca, anche se ha steso un velo sulla sua condanna a morte nella capitale dell’impero, ha intuito la dimensione storica e simbolica della sua testimonianza. La morte di Paolo a Roma rappresenta il compimento della missione affidata da Gesù risorto ai suoi discepoli, perché da questo centro giungesse in tutto il mondo»8.
Conclusione
All’inizio di questa riflessione ci siamo domandati se la fede, per caso, fosse più che luce, un’angosciosa certezza. Paolo ci ha testimoniato che la fede è un luminoso incontro con Dio che in Gesù dà significato al non senso umano, e al tragico che caratterizza la nostra esistenza. Il cammino nella fede e non nella visione che caratterizza Paolo e ognuno di noi, è il cammino percorso dal Figlio di Dio “il quale essendo di condizione divina” accetta di camminare nell’oscurità, assumendo la condizione di servo fino alla morte di croce. L’autore dello scritto agli Ebrei lo ricorda chiaramente: «Nei giorni della sua vita terrena pianse…» (Eb 5,7-8). Dall’alto della croce Gesù, tentato dai suoi denigratori, accettò la sua ‘notte’. Non scese miracolisticamente in mezzo agli uomini, ma si abbandonò (cadde) nelle mani del Padre. Così la notte più tenebrosa della storia si trasformò nel giorno glorioso, senza fine. Paolo dal canto suo afferma: «Nessuno mi dia fastidi, io porto nel mio corpo le stigmate di Cristo» (Gal 6,17).
Il credente, testimonia Paolo, non si ritiene esonerato dall’angoscia, dalla fatica di entrare nella notte, dallo smarrimento e dalla paura. Chi crede guarda Gesù la cui esistenza è stata una lotta contro la tentazione e la prova, un entrare nella morte per uscire nella vita o entrare nella notte per divenire giorno pieno. Paolo, che ha imparato a vivere le notti della incomprensione, della persecuzione, della fede, afferma con certezza che noi siamo “figli della luce e del giorno” (cf 1Ts 5,4). Mentre ripete: «Fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1) consegna il grande segreto che rese luminose le sue notti : «Mi amò e ha consegnato se stesso per me» (cf Gal 2,20). Ecco la sua certezza straordinaria: «Ti basta la mia grazia», cioè il mio amore forte come la morte. Di qui l’abbandono fiducioso e intraprendente: «Quando sono debole è allora che sono forte» (cf 2Cor 12,7-12).
La fede, perciò, non è un’angosciosa certezza, ma una luminosa speranza, fondata sulle basi sicure dell’amore di Dio. Per me egli ha dato suo Figlio. E se Dio è con noi chi sarà contro di noi? Chi potrà separarci dal suo amore? Niente e nessuna creatura ci potrà mai separare dal suo amore (cf Rm 8,39). La stessa morte, madre di tutte le notti e delle paure a essa connesse, “ è stata ingoiata per la vittoria”. «Siano rese grazie a Dio che ci dà vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (cf 1Cor 15,56), che è il nostro giorno senza fine.
TORNIAMO INDIETRO, ALL’APERTURA DELL’ANNO PAOLINO: A LEZIONE DA PAOLO, DAL SITO:
http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_castagna10.htm
Domani si apre l’ »Anno Paolino ».
La storica Marta Sordi rilegge la figura e le gesta dell’ »Apostolo delle genti ».
Il rapporto con i primi cristiani, con l’impero romano, con la cultura del tempo.
E l’attualità del suo insegnamento:
il cristianesimo come « sfida » e « proposta » per ogni uomo.
A LEZIONE DA PAOLO
Maestro del dialogo autentico, perché non celava le differenze.
Accanto all’intelligenza, alla cultura e allo « slancio apostolico », in lui c’era tanta simpatia.
«Mi sorprende la sua capacità di legarsi rapidamente alle persone che si trovava accanto.
Amici o nemici, umili o potenti».
EDOARDO CASTAGNA
(« Avvenire », 27/6/’08)
Accanto all’intelligenza, alla cultura e allo « slancio missionario », nel cittadino Gaio Giulio Paolo doveva esserci anche un’altra dote: la simpatia. «Quello che mi sorprende, nella vita di Paolo, è la sua straordinaria capacità di legarsi rapidamente alle persone che si trovava accanto. Amici o nemici, umili o potenti» . La storica Marta Sordi – docente emerita di « Storia greca » e « Storia romana » presso l’ »Università Cattolica di Milano », massima esperta dell’epoca dell’ »Apostolo delle genti » – descrive Paolo nella sua concretezza, lo riporta sulle strade polverose dell’Anatolia, dove la sua missione mosse i primi, decisivi passi. Una lettura umana che, alla vigilia dell’apertura dell’ »Anno Paolino », dona ancor maggiore risalto all’originalità e all’attualità della sua opera, capace ancora oggi di indicare strade concrete da percorrere nel confronto tra i cristiani e tutti gli uomini. «La sua capacità di stringere amicizia era davvero eccezionale. Lo si vede fin dall’incontro con il proconsole di Cipro, Sergio Paolo, che ebbe un ruolo fondamentale nel determinare il cammino della sua predicazione. Il legame con l’Apostolo fu talmente stretto che Paolo lasciò il suo vecchio « cognomen », Saul, per adottare quello dell’amico. Era un uomo dalle doti umane straordinarie, che si accompagnavano a quelle intellettuali, allo spessore teologico».
In effetti, l’importanza del suo pensiero e della sua opera è tale che talvolta si sente indicare in Paolo, e non in Gesù, il vero fondatore del cristianesimo…
«Sì, tra i non cristiani ricorre la tesi che Paolo sarebbe andato al di là dei comandi di Cristo, annunciando il Vangelo al mondo intero e non solo agli Ebrei, fondando concretamente il cristianesimo. Questo non è vero. Non è vero storicamente, perché era stato Pietro a convertire per primo un pagano. E non è vero nemmeno teologicamente, perché in fondo Paolo non fece che ripetere quello che aveva fatto Gesù Cristo stesso. Inizialmente predicava solo agli Ebrei, nelle sinagoghe; fu Sergio Paolo a « costringerlo », in un certo senso, a predicare il Vangelo tra i pagani, consigliandogli di andare ad Antiochia di Pisidia e da lì iniziare la predicazione nell’Asia interna».
L’itinerario paolino determinò in qualche modo anche il suo modo di rivolgersi al «pubblico»?
«In tutta la sua prima missione, da Antiochia a Listri a Iconio, percorse la « Via Sebaste », costruita da Augusto e lungo la quale si allineavano colonie romane dalla popolazione « composita »: Greci, Romani, Ebrei, gli « indigeni » Licaoni e Galati. Paolo adottò lo stesso criterio che inizialmente aveva seguito Gesù: prima predicava agli ebrei, ottenendo la conversione di alcuni e il rifiuto di altri; poi si rivolgeva ai pagani».
In che modo affrontava il dialogo con quanti ancora non conoscevano il Vangelo?
«Sceglieva l’impostazione più adatta al suo uditorio. Quando predicava agli Ebrei, nelle sinagoghe, partiva dalla storia d’Israele, poi richiamava i profeti e infine giungeva a « Cristo-Messia », compimento delle profezie attraverso la resurrezione. Con i pagani, sia quelli un po’ rozzi dell’Asia interna sia quelli colti e raffinati di Atene, Corinto ed Efeso, adottava invece un’altra tecnica. L’impostazione rimaneva uguale, cambiavano i riferimenti: qui muoveva dal Dio creatore del mondo, comprensibile anche dai pagani « politeisti », dall’ordine naturale delle stagioni e degli spazi, e quindi approdava al Dio benefattore dell’umanità, che si è rivelato in Cristo. Anche qui, con sfumature: mentre nel « discorso dell’Areopago » ateniese citava i filosofi stoici, in Licaonia puntava su una più diretta osservazione della verità naturale».
Un’altra lezione di dialogo, di capacità di confrontarsi con interlocutori differenti?
«Certamente. E infatti anche a Roma fu in stretti rapporti con gli ambienti stoici, che nell’ »Urbe » erano attenti soprattutto al versante morale dello « stoicismo »: la « gravitas », l’ »auto-controllo », la virtù erano tutti valori compatibili con l’antica tradizione romana. Anche per questo ritengo probabile che l’epistolario tra Seneca e Paolo sia autentico».
Sul quale, tuttavia, permangono molti dubbi…
«In effetti, anch’io inizialmente ero scettica. Poi però mi sono resa conto che sarebbe del tutto verosimile. Scartate due lettere, sicuramente « apocrife », le dodici rimanenti coincidono come datazione – dal 58 al 62 – e come contenuti. Seneca restò un pagano, ma tra lui e Paolo emerge una grande stima reciproca; il filosofo romano mostra di conoscere e apprezzare gli scritti paolini, e in effetti durante la prima prigionia romana, quando Seneca governava l’impero insieme ad Afranio Burro, l’Apostolo godette di grande libertà, ricevendo e predicando nonostante avesse sempre un pretoriano accanto a sé. Ci sono altri dettagli, nell’epistolario, che fanno propendere per l’autenticità – certe differenze stilistiche, certe « reticenze » spiegabili soltanto se si considerano le lettere composte proprio in quegli anni – , ma ciò che interessa sottolineare è come in effetti Paolo avesse saputo suscitare la simpatia di un autore pagano, che i cristiani sentivano vicino dal punto di vista della moralità».
Qual era quindi l’aspetto più «moderno» dell’approccio paolino?
«Era un grande comunicatore, una persona di estrema « duttilità » e capace di accostarsi a tutti i ceti sociali. Sapeva parlare ai semplici, e sapeva parlare ai potenti. E non solo: sapeva stringere amicizie, anche con le persone a prima vista più distanti: i magistrati greci di Efeso, il pro-console romano di Cipro, ma anche l’umile centurione che lo scortava a Roma, o il suo carceriere a Filippi».
Allora perché la sua predicazione era spesso accompagnata da « conflitti »?
«È vero: quando arriva Paolo, scoppia il contrasto. Qui c’è tutta la differenza del suo stile rispetto a Pietro, molto più cauto e prudente.
Tra Pietro e Paolo non c’erano differenze teologiche; in questo andavano perfettamente d’accordo, tant’è vero che Pietro, nella sua « seconda lettera », ricorda « il nostro carissimo fratello Paolo ». Certo, poi mette in guardia i suoi interlocutori sulla sua « finezza », sul suo essere così… complicato. Non c’è stato mai stato scontro teologico tra i due, ma solo una diversa tecnica pastorale».
Che cosa insegna a noi, oggi?
«A non fuggire lo scontro, a non temerlo. Ai nostri giorni sarebbe certamente tra quelli che, nel mezzo del confronto più « ecumenico », decidono di affrontare i problemi, anche i più « controversi ». Con i pagani Paolo attacca, e converte; predicava perfino ai pretoriani che lo « piantonavano »: soldati scelti, coloro che accompagnavano l’imperatore in prima linea in battaglia! Insomma, ci insegna come va affrontato il dialogo: senza aver paura di mettere in evidenza i punti di « divergenza », così da ottenere un’adesione convinta, o un rifiuto. È un dialogo in offensiva, insomma, non sulla difensiva. Oggi molti confondono il dialogo con un « calar le braghe » che deve arrivare a tutti i costi a un accordo, invece Paolo ci insegna una linea opposta: non nascondere niente, e affrontare apertamente la possibilità di un rifiuto».
Il « viaggiatore »: su tutte le strade del Mediterraneo
Anna Maria Brogi
È stato il primo grande « viaggiatore » del cristianesimo. E il bacino del Mediterraneo, dall’Italia alla Turchia, conserva le « vestigia » del suo passaggio: talvolta a parlare sono i siti archeologici, più spesso solo i nomi dei luoghi. Paolo di Tarso nacque nell’omonima località dell’Asia Minore (oggi nella Turchia centro-meridionale) forse nell’anno 8. Di famiglia ebrea e cittadino romano, da persecutore si convertì al cristianesimo « sulla via di Damasco ». A Gerusalemme si unì alla comunità degli Apostoli. In seguito alla « diaspora » degli ebrei convertiti, fu chiamato da Barnaba ad Antiochia di Siria (oggi in Turchia), dove incontrò Pietro. Proprio ad Antiochia, raccontano gli « Atti degli Apostoli », per la prima volta i discepoli furono chiamati « cristiani ». Probabilmente a partire dall’anno 46, Paolo compie tre lunghi « viaggi missionari » attraverso l’Anatolia e la Grecia. Passando per l’isola di Cipro, dove assiste alla conversione del governatore romano Sergio Paolo. Ad Antiochia di Pisidia parla nella sinagoga e fonda una Chiesa distinta dalla comunità ebraica. Per quasi tre anni vive ad Efeso ed è poi costretto a lasciare la città in seguito al « tumulto » degli orefici: i ricchi artigiani, che legavano le loro fortune al culto della Dea Artemide e al suo tempio, si sollevarono in massa contro l’Apostolo nel grande teatro. Secondo alcuni storici, a Efeso in un’altra occasione Paolo sarebbe stato incarcerato. Dal territorio turco a quello greco: ad Atene predica nell’area dello stesso « Aeropago »; a Corinto si ferma per un anno e mezzo. Viaggerà fino alla morte. Arrestato a Gerusalemme e condotto a Roma, dopo un naufragio a Malta, subirà il « martirio » per decapitazione forse nell’anno 67.
« Anno Paolino »: domani a Roma l’apertura,
alla presenza di numerosi delegati ecumenici
Matteo Liut
L’apertura dell’ »Anno Paolino », indetto da Benedetto XVI in onore del « bimillenario » dalla nascita dell’«Apostolo delle genti», avverrà ufficialmente con i « Primi Vespri » della « Solennità dei Santi Pietro e Paolo ». La celebrazione sarà presieduta dal Papa domani alle 18 presso la tomba dell’Apostolo Paolo nella Basilica di San Paolo fuori le Mura. Alla liturgia prenderanno parte anche il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e alcuni delegati di altre Chiese e Comunità ecclesiali, con vincoli storici e geografici con San Paolo. Il Patriarca, che incontrerà il Papa durante un’udienza privata domani mattina, è accompagnato dal metropolita Gennadios, arcivescovo ortodosso d’Italia e Malta, esarca per l’Europa Meridionale, dal metropolita Ioannis di Pergamo (co-presidente della « Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme »); dall’arcivescovo Antonios di Hierapolis, della Chiesa ortodossa ucraina negli Stati Uniti. Al rito saranno presenti altri 70 « dignitari », molti provenienti dagli Stati Uniti.
Tra questi, poi, ci saranno anche l’arcivescovo Drexel Gomez, primate anglicano di West Indies, in rappresentanza dell’arcivescovo di Canterbury; Theophanis, arcivescovo di Gerasa ed esarca in Atene (Patriarcato di Gerusalemme); l’archimandrita Ignatios Sotiriadis, (Chiesa ortodossa di Grecia); il metropolita Georgios di Phapos (Chiesa ortodossa di Cipro); il metropolita Valentin di Orenburg e Buzuluk (Patriarcato di Mosca); l’arcivescovo Filipp di Poltava e Myrhorod (Ucraina e Patriarcato di Mosca); il metropolita Mor Philoxenus Mattias Nayis (Patriarcato siro-ortodosso di Antiochia).
dal sito:
http://www.parrocchiadiarenzano.it/FileDoc/2009/LezioneGennaio18.doc
Non una teoria, ma l’incontro con la persona di Gesù
Teologia paolina – anno 2009 – Don Claudio Doglio
Lezione del 18/01/2009
L’incontro con la persona di Cristo è l’essenziale di Paolo e di ciascuno di noi. Non una teoria, ma una persona; non una dottrina o una serie di regole, ma l’incontro con una persona viva: è quello che ha fatto diventare Paolo cristiano. Non è nato cristiano, lo è diventato e lo è diventato andando contro un proprio schema mentale che invece lo portava a contrapporsi a Gesù. Metà della vita di Paolo è stata senza Cristo, l’altra metà insieme a Cristo.
Quest’anno festeggiamo l’anniversario della nascita: 2000 anni indicativamente perché non sappiamo di preciso l’anno di nascita di Paolo. In genere si fissano le date fra il 5 e il 10 d.C.
Paolo morì nell’anno ’67, quindi indicativamente sui 60 anni. L’incontro con il Cristo sulla via di Damasco è databile nell’anno ’36, quindi aveva circa 30 anni.
Sono importanti tutti gli anni della sua vita. Dopo l’incontro con Cristo, Paolo ha maturato ancora di più il significato degli anni vissuti prima e li ha capiti come preparazione, non come tempo buttato via. Paolo ha vissuto un’esperienza particolare di incontro con il Signore cambiando nella sua reazione con la persona di Gesù. Non ha cambiato comportamento e non è neppure corretto parlare di conversione. Quando si parla di conversione si intende in genere un cambiamento che può essere di due tipi: una conversione morale o una conversione religiosa. Si parla di conversione morale quando uno cambia il comportamento. Ci può essere un cambiamento religioso, quando uno cambia religione, ma anche in questo caso Paolo non ha cambiato. Noi rischiamo di dire entrambe le cose: prima Paolo era cattivo, violento, perseguitava i cristiani, poi è diventato un sant’uomo e ne facciamo un cambiamento morale. Non è quello il cambiamento di Paolo, oppure potremmo dire: Paolo prima era ebreo, poi è diventato cristiano. Non funziona così. Quell’evento fondamentale della sua storia è una maturazione, è un cambiamento. Una figura interessante di personaggio storico non noto, che meriterebbe di essere conosciuto molto di più è il rabbino di Roma: Eugenio Zolli. Fu un rabbino capo di Roma che diventò cristiano e si fece battezzare scegliendo il nome di Eugenio in onore del Papa regnante in quel tempo: Pacelli. Naturalmente fu mandato via dalla comunità ebraica ed ebbe situazioni molto difficili perché era un personaggio conosciuto. In onore del « politicamente corretto », noi lo abbiamo dimenticato. Eugenio Zolli intervistato da un giornalista sulla sua conversione rispose: « non mi sono convertito: sono arrivato ».
E’ una risposta che avrebbe potuto dare anche S.Paolo. Paolo, l’aggettivo cristiano non lo adopera; nel N.T c’è pochissime volte. Lui dice di essere in Cristo.
Si è sempre considerato un giudeo, quindi se avesse dovuto presentarsi avrebbe detto « io sono un giudeo in Cristo », un giudeo innestato nel Messia.
Non ha cessato di essere giudeo, non ha rinnegato né la razza, né la tradizione, né la rivelazione biblica; non ha buttato via niente di quello che aveva. E’ arrivato là dove la sua preparazione l’aveva orientato. Quindi più che di una conversione conviene parlare di un incontro, di una vocazione che culmina col battesimo.
Uno dei testi più sintetici ma significativi dell’epistolario di Paolo con cui l’apostolo esprime la propria esperienza, si trova nella lettera ai Filippesi (3,12) : « Sono stato conquistato da Cristo. Gli corro dietro perché lui mi ha conquistato ». Proviamo a riflettere sul verbo « conquistare ». E’ un verbo usato in ambito militare: si conquista una città, un territorio.
Il verbo della conquista implica una lotta, un combattimento, ma la metafora militare viene frequentemente adoperata in ambito amoroso. Uno conquistato da un’altra persona fa riferimento ad un assedio.
« Fare la corte » in fondo equivale ad assediare e tenere sotto controllo. E’ un’immagine di relazione che nasce e potrebbe anche sottolineare un cambiamento perché non è una cosa così fuori dal normale che due persone al primo incontro si urtino e e poi nel giro di qualche tempo, si innamorano. Paolo usa un linguaggio di questo tipo: « sono stato conquistato da Cristo » Sembra che faccia riferimento a una specie di guerra che Cristo gli ha mosso, ma non l’ha conquistato con la violenza, con la forza schiacciante e umiliante, ma lo ha conquistato con amore. Paolo ammette di aver incontrato una persona significativa che gli ha preso il cuore. Da quel momento si è messo a corrergli dietro E’ un’altra espressione che anche noi adoperiamo in ambito amoroso. Correre dietro a una ragazza è sinonimo di farle la corte. Paolo corre dietro a Cristo. E’ un’immagine che sottintende una relazione di amicizia e dice il desiderio di un incontro pieno, totale. E’ il correre col desiderio dell’incontro pieno con quella persona.
Paolo è diventato cristiano in quel momento e allora noi potremmo soffermarci proprio a ragionare sul senso del nostro essere cristiani. Dicevamo che Paolo non adopera questo aggettivo , noi invece lo adoperiamo abitualmente, ma molte volte anche a sproposito. Nel nostro parlare quotidiano, il termine cristiano viene applicato in senso molto lato, talvolta addirittura come sinonimo di « buona educazione ». A volte ci sarà capitato di dire a qualcuno che sta seduto in modo scomposto: » ma stai seduto da cristiano! » Perché c’è un modo particolare di stare seduti da cristiani? A volte per noi cristiano è sinonimo di « educato ».
Istintivamente abbiamo fatto diventare il termine cristiano sinonimo di educato o di umano, quasi contrario di bestia. Nel linguaggio dialettale si distinguono le bestie dai cristiani; era un’abitudine legata al fatto che tutti sono cristiani e poi si distinguono le bestie. Adesso che cominciamo ad accorgerci che il mondo è più grande e che cristiano non è sinonimo di essere umano, perché ci sono altri esseri umani che non sono cristiani, allora questo linguaggio non funziona.
Benedetto Croce, filosofo italiano della prima parte del ’900, scrisse un opuscolo intitolato: « Perché non possiamo non dirci cristiani? » Perché lui, non credente laico, non se la sentiva di non dirsi cristiano? Perché gli piacevano l’arte e la letteratura. Ma noi non siamo cristiano perché ci sono dei quadri o delle belle poesie; non siamo cristiani per motivi culturali. Ma allora l’essere cristiano ridotto all’osso diventa poi la prassi. Un autore marxista scrisse negli anni ’60 un libro intitolato: « Gesù per gli atei » sostenendo che gli autentici cristiani sono i marxisti perché di fatto cercano di operare i principi di Gesù a favore dei poveri. L’idea è: chi è cristiano? Chi fa del bene, chi aiuta i poveri, chi difende i diritti delle minoranze. Chi è cristiano? Chi conosce la Divina Commedia? No! Chi si impegna per difendere la giustizia. Qui ci troviamo di fronte a dei valori, a delle idee, a dei principi morali, ma essere cristiano è un’altra cosa. Per questo la nostra riflessione è intitolata: « non una teoria, ma una persona », perché il punto fondamentale del nostro essere cristiani non è la teoria, la dottrina, le regole, la morale, ma la persona di Gesù in relazione con la nostra persona. Cristiano è un aggettivo che indica relazione e infatti può essere sostituito da un genitivo: « di Cristo ». San Paolo molte volte si presenta come il servo di Cristo. In greco adopera « dulos » che non è un termine tranquillo e onorifico, ma bisognerebbe tradurlo come « schiavo ». Pensiamo a tutto quello che significa la schiavitù: Paolo si considera schiavo di Cristo: « pur essendo libero, mi sono fatto servo di tutti. Sono servo di Cristo perché sono stato conquistato da Lui ».
Nella prima lettera ai Corinzi: « siete stati comprati a caro prezzo e non siete vostri ». Questo è il cuore del discorso paolino: io non mi appartengo perché sono stato comperato ». E’ un linguaggio da mentalità schiavista; c’erano le persone che venivano comperate e vendute, che non erano libere e appartenevano ad un padrone. Paolo è nato libero con i diritti di cittadino romano, quindi anche autonomo economicamente e tuttavia essendo stato conquistato da Cristo, si sente comperato da Lui, per cui non si appartiene più: è diventato schiavo di Cristo.
Sottolineare troppo questa relazione è pericoloso perché nella nostra ottica sembrerebbe mettere in evidenza la figura di Cristo come di un padrone. L’immagine invece che funziona di più è quella dell’innamoramento. Paolo è innamorato di Cristo e si sente conquistato e comprato e gli appartiene in un atto totale di amore. Pensiamo alla differenza che c’è tra « tu mi piaci » e « io ti voglio bene »: nascondono due mentalità molto diverse.
« Tu mi piaci »: il centro sono io. E’ il mio piacere che viene da te
« Io ti voglio bene »: io voglio il tuo bene.
Se è vero che ti voglio bene, pur essendo libero io divento tuo servo…servo per amore
Servo per amore vuol dire diventare servo di Cristo perché sei stato preso dall’amore di Cristo. Non si tratta di condividere dei valori, non si lotta per delle idee, non si muore per dei principi; si da la vita per una persona. Se non c’è una relazione personale intensa e forte, non c’è fede cristiana e Paolo ha vissuto a metà della sua vita, l’esperienza dell’incontro. E’ qualcosa che noi abbiamo già vissuto….o forse no. E’ possibile che il nostro essere cristiani sia un frutto dell’abitudine.
Un testo molto bello in cui Paolo racconta la propria esperienza, lo troviamo nella lettera ai Galati, al 1° capitolo. E’ l’unico testo propriamente autobiografico. Paolo racconta quello che gli è capitato, senza adoperare nessuna delle immagini presenti negli Atti degli Apostoli. Cap 1,11: « vi dichiaro fratelli che il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto, Né imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo ».
La parola che adopera Paolo è rivelazione. In greco per rivelazione c’è Apocalisse. Adopera molto di più la parola Apocalisse Paolo, che non Giovanni.
Paolo non definisce l’esperienza di Damasco la sua conversione, ma la definisce la rivelazione di Gesù Cristo: l’Apocalisse. E’ stato rimosso il velo (re – velo = tolgo ciò che vela). Se tolgo il velo, vedo oltre.
« Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi superando nel giudaismo la maggior parte dei miei connazionali e coetanei accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri ». Paolo elabora un autoritratto duro: si presenta come un terrorista, un fanatico, accanito conservatore delle tradizioni ebraiche. Perseguitava fieramente la chiesa di Dio, ma non lo faceva perché era cattivo; lo faceva perché era religioso. Paolo aveva una mentalità religiosa sbagliata, era esagerato e quindi sbagliava a fin di bene. Lui non conosceva Dio, conosceva una teoria ed era fissato.
Ci sono delle persone religiose che sono maniache: non conoscono Dio, ma sono solo fissate. Il rischio è che le persone molto religiose possono, anziché essere molto vicine a Dio, allontanarsi da Lui, attaccandosi alle loro fissazioni religiose e rischiano di finire per fare del male con l’ossessione di fare del bene. Perché Paolo perseguitava la Chiesa? Perché era convinto che quelli sbagliassero e lui voleva che cambiassero, voleva estirpare quella malattia. Il suo intento religioso era quello di correggere gli erranti e punire i peccatori per salvare la religione
« Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me suo figlio, perché io lo annunziassi in mezzo alle genti, subito senza dar retta alla carne e al sangue, senza andare a Gerusalemme da quelli che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco ».
Velocemente ha raccontato i fatti : il riferimento a Damasco c’è, ma nessun altro particolare. Soggetto dell’azione di cui sto parlando è Dio Padre, « colui che mi aveva scelto fin dal seno di mia madre ». Fin dal seno di sua madre il Signore lo ha scelto e per quei 30 anni lo ha chiamato con la sua grazia. Ad un certo momento si compiacque di rivelargli Suo Figlio. Che cosa è successo sulla via di Damasco? Dio Padre ha rivelato a Paolo che Gesù è Suo Figlio. Paolo era convinto che Gesù avesse torto, che fosse sbagliato quel che aveva detto e quello che insegnava ai suoi apostoli. In quel momento Paolo si rende conto che invece Gesù ha ragione ed è Dio che si rivela come Padre. Padre è un termine relativo, automaticamente implica il Figlio. Dio ha rivelato a Paolo di avere un figlio.
Per gli ebrei e per i musulmani, la rivelazione che Dio ha un figlio è scioccante. Quindi significa che Gesù ha ragione: ha detto di esserlo perché lo è davvero. Questa rivelazione è sconvolgente per Paolo.
In quel momento ha incontrato il Signore che credeva di conoscere. Nel racconto degli Atti, Luca dice che Saulo di Tarso ha sentito il suo nome ripetuto proprio nella formula semitica.
La reazione di Paolo è una domanda. Avrebbe potuto dare tutte le buone risposte che sapeva invece ha capito che c’è qualcosa che non funziona e che tutte le risposte che avrebbe potuto dare non funzionavano. L’unico Dio in cui egli crede gli sta domandando : « perché mi perseguiti? » Saulo risponde con una domanda: « chi sei o Signore? ». E’ una domanda intelligente; è la domanda fondamentale della persona religiosa. Paolo, con tutta la sua formazione religiosa aveva tutte le risposte che voleva, ma aveva delle risposte teoriche che non corrispondevano alla realtà, perché non aveva mai incontrato il Signore. Paolo ascolta un Signore che credeva di conoscere e in realtà lo scopre come profondamente nuovo. « Io sono Gesù ». Paolo sta parlando con Adonai, il nome proprio di Dio.
L’ultima cosa che immagina Paolo è che il Signore che egli adora si identifichi con Gesù. Gli rivela il Figlio, ma si rivela una sola cosa con il Figlio. A quel punto Paolo crolla perché si rende conto che tutto il suo schema mentale è sbagliato. Non la Bibbia, ma il suo schema.
Il linguaggio è molto simile a quello che troviamo nel Vangelo di Matteo a proposito della professione di fede di San Pietro: « Sei fortunato perché né la carne, né il Sangue te lo hanno rivelato » Pietro non è arrivato a capire Gesù con la carne o con il sangue, ma per rivelazione del Padre.