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PAOLO, IL FARISEO CHIAMATO DA DIO

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PAOLO, IL FARISEO CHIAMATO DA DIO    di: p. Fabrizio Tosolini          

  Nella Lettera ai Filippesi Paolo vanta le sue origini: « Circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile » (Fil 3,5-6). In Gal 1,13-14 evidenzia la propria intransigenza come persecutore: « Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo; superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri ».  

I FARISEI E IL MOVIMENTO DI GESÙ I Farisei sembrano essere gli eredi dei gruppi di Giudei che nel II sec. a.C. si erano opposti al progetto di ellenizzazione forzata di Antioco IV Epifane, prima sostenitori e poi perseguitati dalla dinastia Asmonea. Pongono in grande rilievo lo studio della Legge, ritenendo che essa possa guidare il comportamento umano e santificarlo fin nelle azioni più comuni. Per mettere in pratica la Legge in ogni azione della giornata, in particolare per quanto riguarda il prendere cibo, devono sottoporla a minuziosa analisi in modo da trovarvi tutte le indicazioni necessarie. Al tempo di Gesù e di Paolo sembra che le confraternite farisaiche fossero concentrate a Gerusalemme e dintorni (la vita in comune rendeva più facile l’osservanza delle regole alimentari); appartenevano in media agli strati sociali più bassi e vivevano poveramente. Il movimento che nasce attorno a Gesù mostra molti tratti di similitudine sia con gli Esseni che con i Farisei. I Vangeli presentano i Farisei come duri avversari del Cristo a motivo della separazione che avviene dopo la distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C., verso la fine del I sec. Al tempo di Gesù l’opposizione veniva da parte dei Sadducei, in particolare dalla famiglia di Anna e Caifa, sulla base di considerazioni politiche (in quanto discendente di Davide, Gesù aveva tutti i diritti di aspirare al trono di Israele). Giunto a Gerusalemme, Paolo deve essersi unito a qualcuna delle confraternite farisaiche e aver con loro studiato la Legge. Atti dice sotto la guida di Gamaliele. Non è impossibile che in questo tempo Paolo abbia sentito parlare di Gesù e forse lo abbia anche visto, quando il Rabbi di Nazaret saliva alla Città Santa.  

LA REAZIONE DI PAOLO AL MOVIMENTO DI GESÙ  La predicazione di Gesù, e su Gesù da parte della prima comunità, deve aver suscitato in Paolo una forte reazione negativa: durante la sua vita pubblica Gesù mostra un’autorità superiore alla Legge e si attribuisce prerogative, quale quella di perdonare i peccati e di riformare il servizio nel Tempio, che sono solo di Dio; e questo sulla base della precisa coscienza di essere Figlio di Dio in modo superiore a quello di tutto Israele e di essere inviato da Dio per salvare il mondo e portare a tutti lo Spirito. Gesù era stato crocifisso e, siccome moriva della morte dei maledetti, Dio non poteva essere con lui. Ma i suoi seguaci stavano riempiendo Gerusalemme e il mondo giudaico della notizia della sua glorificazione, con un successo notevolissimo e con minaccia non solo per la funzione espiatrice del Tempio, ma anche per le tradizioni tramandate da Mosé (cf. At 6,13-14). Per questo, probabilmente, Paolo passa all’azione, mosso da quello zelo che era tipico delle comunità farisaiche e delle loro accese discussioni riguardo alla Legge. Non ci è chiaro come egli in concreto perseguiti i cristiani. È verosimile che si sia mosso in modo personale, autonomo, come un battitore libero, approfittando delle riunioni nelle sinagoghe per accusare pubblicamente i cristiani, contraddire il loro messaggio, obbligarli a fare pubblicamente delle affermazioni o dei giuramenti che andassero contro la loro fede (cosa che farà qualche decina d’anni dopo anche Plinio il Giovane). In questo modo egli ottiene la loro condanna da parte dei responsabili delle sinagoghe; condanna che, se non necessariamente comportava conseguenze fisiche (c’erano problemi di giurisdizione), di sicuro diventava un ostracismo morale che rendeva ai cristiani, doppiamente rifiutati (dai greci in quanto giudei, dai giudei in quanto cristiani), la vita molto difficile. È anche possibile che, in vista di questo, abbia ottenuto da parte del Sinedrio lettere di autorizzazione, che garantivano la sua autorità e ortodossia, e gli davano così una notevole forza di coercizione.  

SULLA VIA DI DAMASCO LA CONVERSIONE  L’apparizione di Gesù sulla via di Damasco costringe Paolo a ristrutturare tutto il suo mondo interiore. In quanto fariseo credeva nella risurrezione. Ora Gesù, vivo, si fa riconoscere da lui come colui che il Padre ha glorificato, e che, nello stesso tempo, manifesta la sua vita risorta nella Chiesa creando con essa una nuova storia. Non solo: dalla risurrezione risulta confermato quanto Gesù diceva di sé, di essere venuto e di donare se stesso per la salvezza di tutti gli uomini. Così che in Paolo l’attitudine di difensore della tradizione di Israele si rovescia nell’impegno di mettere tutti a contatto vivente, per mezzo della tradizione della comunità, con l’intenzione salvifica del Risorto. In questo modo Paolo riconosce che la Legge non può liberare dal peccato, se il Figlio di Dio è dovuto morire per espiare i peccati; anzi, se la Legge ha fornito le ragioni ad alcuni israeliti per condannare il Figlio di Dio, quel modo di interpretarla non ha più valore. La Legge ormai parla solo di Cristo e di ciò che lui è venuto a portare.   DALLA CONVERSIONE LA MISSIONE  Paolo vede che il rapporto che Cristo instaura con lui avviene non più a partire dalla buona volontà umana, ma nasce e cresce per l’azione della potenza del Risorto, per la presenza dello Spirito che dà testimonianza allo spirito dell’uomo, lo guida alla confessione di fede e alla vita secondo la nuova Legge, che è la sua ispirazione nel profondo del cuore. Questa nuova Legge guida immancabilmente il cristiano sulle orme di Cristo, il quale si dona per la comunità degli uomini fino a perdere per loro le sue prerogative divine. Anche Paolo vedrà che ai doni mistici individuali è preferibile lo svuotamento di sé in vista della costruzione della famiglia di Dio, così che Cristo sia tutto in tutti. In questo modo Paolo esperimenta, interiormente ed esteriormente, nei gloriosi anni dell’impegno missionario, la mirabile corsa della Parola di Dio. Da povera e piccola parola annunziata, essa entra nel cuore e in esso si sviluppa, trasformandolo, operando in esso la fede, la speranza, la carità. La santificazione dello spirito umano si irradia nella vita visibile nel comportamento storico, nel cammino della comunità, la quale a sua volta diventa parola: parola irresistibile nella dinamica delle sue relazioni interne, quando tutti dicono le parole di Dio (cf. 1 Cor 14,25); parola che di nuovo diventa seme sulla bocca e nella vita degli annunciatori che essa invia. Sembra impossibile che Paolo abbia colto tutto questo nei brevi momenti in cui il Risorto gli fa conoscere la sua potenza. Eppure si può serenamente pensare che sia stato così, proprio come un grande albero è già tutto presente nel seme nascosto nella terra.  

LE CONVERSIONI SONO L’OPERA DI DIO  Il libro degli Atti racconta tre volte l’esperienza della conversione di Paolo. L’apostolo stesso la paragonerà alla creazione (cf. 2 Cor 4,5). Sembra incredibile quanto poco poi, nell’esperienza comune della Chiesa, siano valutate le conversioni. Il fatto stesso di collocarne alcune in un’aura di straordinarietà contribuisce a distanziarle dalla vita. Eppure sono per antonomasia l’opera di Dio, il fuoco dal cielo che anche lo stesso Elia può solo invocare. Le comunità dovrebbero ritrovarsi sempre di nuovo attorno alle esperienze di conversione quasi come davanti alla Scrittura e davanti all’Eucaristia. Sono le conversioni quel mondo nuovo che Dio continua a scrivere nelle tenebre, facendole diventare giorno luminoso di risurrezione. Il resto rimane notte.  

FABRIZIO TOSOLINI

SAN PAOLO – L’APOSTOLO DELLE GENTI, FEDELE A GESÙ CRISTO

http://www.innomedimaria.it/san_paolo/san_paolo.htm

SAN PAOLO -  L’APOSTOLO DELLE GENTI, FEDELE A GESÙ CRISTO

(è un po’ lungo, ma interessante, alcuni riferimenti storici messi in rilievo)

S’intende qui affiancare agli avvenimenti accaduti tra il 34 e il 70, secondo la cronologia tradizionale, quali risultano dalla “Storia dei Vangeli”, quelli desumibili dalla biografia di san Paolo storicamente accertata, in particolare da Marta Sordi, che è stata docente di Storia romana e greca presso l’Università Cattolica di Milano ed è scomparsa il 5 aprile del 2009. Contemporaneamente si mostreranno le correzioni cronologiche necessarie a ristabilire la continuità dei fatti storici, risolvendo pure quei problemi di storia della Chiesa e di storia romana che sembrano un vero enigma. Gli eventi della vita di san Paolo lumeggiano in modo particolare la simpatia del mondo romano per il Cristianesimo nascente prima della svolta Neroniana, si pongono in continuità con l’opera di Teofilo presso Tiberio, spiegano la diffusione del Cristianesimo a Roma e poi in tutto l’Impero a partire dalle case romane (le chiese domestiche) tramite la conversione del paterfamilias o della domina con neutralità benevola del paterfamilias. Ancora oggi, come nell’antica Roma imperiale, la fede del paterfamilias e/o della domina (la moglie/madre) distinguono le famiglie cristiane da quelle non cristiane, con ripercussioni incalcolabili sui figli.   1 – La vita e la missione di San Paolo Nacque a Tarso, in Cilicia. Gli fu posto nome Saulo, che si dice Saulos in greco, Saul in ebraico, come il primo re di Israele. Ma il suo nome «era anche Paolo», dal latino, come è ricordato in At 13,9, ed egli cominciò a usarlo quando incontrò il proconsole Sergio Paolo a Cipro. La sua famiglia era della più rigorosa setta dei farisei. Ma possedeva anche la cittadinanza romana, ciò che appare insolito per i farisei, fortemente insofferenti alla dominazione romana sulla Palestina. Si suppone che sia nato nell’8 d.C., perché era detto “giovane” nel 34, quando era presente alla lapidazione di Stefano. Saulo crebbe a Gerusalemme e frequentò la scuola del sacerdote Gamaliele (At 22,3; 5,34), probabilmente fino alla scuola superiore, come era normale per i farisei. Quindi lo incontriamo al momento in cui avviene il martirio del diacono Stefano, facilmente riconducibile all’anno 34. Luca riferisce tutti i particolari di questo fatto, perché era presente a Gerusalemme già durante la vita pubblica di Gesù. Nella città lavorava come medico del Tempio e contribuì attivamente alla missione del Signore. Si deve qui introdurre una nota cronologica. Dall’1 al 34 d.C. il conto degli anni, che ci è stato tramandato dagli storici romani, fila liscio, ma dal 34 al 40 occorre inserire 3 anni in più andati « persi » durante il regno di Tiberio, come ci conferma proprio San Paolo nella lettera ai Galati (1,18; 2,1). I fatti riguardanti gli inizi della Chiesa si svolgono giusto a cavallo di questa lacuna cronologica. Ad esempio, grazie alla correzione della cronologia tradizionale, reintegrando i 3 anni « persi » da Tiberio, è possibile la conciliazione di alcuni dati cronologici riguardanti la vita di san Pietro. La tradizione vanta un settennato di Pietro in Antiochia e pone l’inizio di questo al quarto anno dai fatti della Passione. Ciò significa che il settennio ha inizio dal 37, ritenendo correttamente i fatti della Passione avvenuti nel 33; senza la correzione ciò appariva problematico perché, sempre secondo la tradizione, nel 42 Pietro era già a Roma. Se però collochiamo l’andata di Pietro a Roma nel 45 (42), i dati della tradizione potrebbero bene inserirsi in questo quadro cronologico. In seguito Pietro tornò a Gerusalemme e subì nel 47 (44) la persecuzione di Erode Agrippa, venendo arrestato, poi miracolosamente liberato, sicché poté tornare a Roma nel medesimo anno. È dunque necessario spostare avanti di 3 anni tutti gli avvenimenti, non astronomici, compresi tra il 37 e il 238. Le date sono di una certa qual importanza per stabilire su base logica la probabile verità di un avvenimento, o la improbabilità dello stesso, nel suo riferimento temporale. D’ora in poi useremo questa datazione e metteremo tra parentesi quella tradizionale. La cronologia riguardante san Paolo si ricava a partire dall’anno in cui Gallione era proconsole in Grecia (Acaia). Durante gli scavi archeologici al Tempio di Apollo a Delfi, nel 1892-1903, furono trovati alcuni frammenti di un’iscrizione su pietra. Vi si può leggere che l’imperatore Claudio, nella sua 26ª proclamazione imperiale, prende provvedimenti in favore di Delfi, dopo essere stato informato dall’amico proconsole Gallione del degrado in cui versa la città. La 26ª proclamazione imperiale di Claudio avvenne nella prima metà dell’anno 55 (52) (lo si ricava dal confronto tra un’iscrizione rinvenuta nella Caria, esaminata in Bull. Corr. Hell. 11,1887, pp. 306-308, un’iscrizione latina sull’acquedotto dell’Acqua Claudia alla Porta Maggiore di Roma e una notizia di Frontino nel De acquaeductu urbis Romae, 13 ss.). Si può ben ritenere che Gallione fosse all’inizio del suo mandato proconsolare e intendesse provvedere personalmente a ridare gloria al tempio di Apollo di Delfi. La carica proconsolare durava un anno, da primavera a primavera, per cui è ragionevole dedurre che Gallione l’abbia rivestita nel 55-56 (52-53). Quindi ebbe a difendere Paolo dalla gente di Corinto nell’anno 55 (52). Paolo era a Corinto da un anno e mezzo e prima aveva percorso varie città fino in Macedonia, per cui il Concilio di Gerusalemme risale al 52 (49). Infatti Paolo si era incontrato con gli apostoli a Gerusalemme, per il primo Concilio. Al momento di quell’incontro erano passati, come leggiamo nella lettera ai Galati, 3 + 14 anni dalla sua conversione. È arduo includere i 3 anni nei 14, mentre i conti tornano se aggiungiamo proprio quei 3 anni che Tiberio ha « perduto ». Se torniamo indietro di 17 anni a partire dal 52 (49), troviamo che l’anno della conversione di Saulo è stato realmente il 35 d.C., appena due anni dopo l’ascensione di Gesù Cristo al cielo. La conversione avvenne mentre il giovane si recava a Damasco per individuare i cristiani della città, denunciarli e farli imprigionare. Gesù parlò a Saulo in una luce che lo rese cieco per tre giorni, finché a Damasco incontrò un discepolo di nome Anania, dal quale ricevette il battesimo. Rimase là alcuni giorni insieme ai discepoli della città (At 9,19). Poi si dedicò a predicare nelle sinagoghe dei dintorni. Nella lettera ai Galati dice «in Arabia» (= territorio a sud di Damasco, regno dei Nabatei, con capitale Petra), senza precisare il motivo, i luoghi, il tempo trascorso e i risultati. In seguito tornò a Damasco, dove i Giudei fecero in complotto per sopprimerlo. Anche le guardie del governatore di Areta, re di Petra, vigilavano in favore dei Giudei. Ma i discepoli lo calarono dalle mura della città in una cesta ed egli andò a Gerusalemme, «dopo tre anni» dalla conversione, cioè nel 38 (35), «per consultare Cefa (Pietro)» (Gal 1,18). Che la fuga da Damasco sia avvenuta intorno a questa data è reso plausibile dal riferimento al re Areta di 2 Cor 11,32-34. Questo personaggio sarebbe il nabateo Areta IV, che poté esercitare un controllo, almeno parziale, della città damascena, peraltro inglobata nella provincia romana di Siria, solo per il periodo precedente la morte di Tiberio, cioè prima del 40 (37). Areta aveva vinto una battaglia contro Erode Antipa e aveva occupato la regione. La battaglia si era svolta dopo la morte di Giovanni Battista (32 d.C.), dopo la morte di Filippo, nel 33 d.C., ma anche, sicuramente, dopo il primo intervento di Vitellio nel 36 e prima che Vitellio insediasse Teofilo come sommo sacerdote a Gerusalemme, nel 40 (37), quando morì Tiberio (G. Flavio, Antichità Giudaiche, XVIII,106-124). Areta IV regnò dall’8 a.C al 43 (40) d.C. A Gerusalemme i cristiani lo accolsero inizialmente con sospetto, sapendo che era stato un loro persecutore (At 9,26-30). Il cugino Barnaba, che era ebreo e cristiano, si fece garante per lui e, da quel momento, divenne suo collaboratore. Così Saulo poté predicare nelle sinagoghe della città santa. Ma a un certo punto i Giudei volevano ucciderlo e i discepoli lo fecero partire per Tarso. Nella sua patria rimase dal 38 (35) al 46 (43) dedicandosi però, presumubilmente, alla predicazione nei dintorni, in Siria e Cilicia (Gal 1,21). Intanto i discepoli fuggiti da Gerusalemme, per la persecuzione iniziata con il martirio di Stefano, diedero origine a una vivace comunità ad Antiochia di Siria. Qui per la prima volta furono detti «cristiani». La tradizione cristiana ha conservato memoria di una grotta, detta di San Pietro, nella quale si sarebbe riunita questa Chiesa. Anche Barnaba era stato inviato dalla Chiesa di Gerusalemme ad Antiochia di Siria. In Atti 11,25-26 va a cercare Saulo nella vicina Tarso per farne un suo collaboratore e lo conduce ad Antiochia, che è la principale metropoli del medio-oriente. Qui Paolo rimane per alcuni anni. Dopo « un anno intero », Paolo e Barnaba si recarono a Gerusalemme (At 11,27-30; 12,21-25). Occasione del viaggio fu una colletta della chiesa di Antiochia per la chiesa di Gerusalemme in vista di una carestia che era stata predetta da un cristiano di nome Agabo. Dopo aver portato le offerte della colletta tornarono ad Antiochia conducendo con loro Marco e Luca, che in questa parte del suo libro non nomina se stesso. Ritornarono ad Antiochia dopo la morte di Erode Agrippa I, avvenuta nel 47 (44). Autori extra-cristiani ricordano la prolungata carestia in Palestina in quel periodo.   Prima missione – anni 48-52 (45-49) Era l’anno 48 (45); Saulo e Barnaba, con Marco e Luca, partirono da Antiochia per la prima missione. Notiamo subito che, se leggiamo le Lettere di san Paolo tenendo presente il quadro storico, comprendiamo meglio anche alcuni aspetti dei Vangeli, perché l’Apostolo delle Genti si riferiva costantemente «a ciò che è scritto» (1 Cor 4,6). Predicava il Vangelo che aveva ricevuto per rivelazione da Gesù stesso, ma lo rendeva più preciso consultando ciò che avevano scritto Luca e gli altri evangelisti. Applicava i Vangeli, già scritti, alle situazioni concrete. Si fermarono a Cipro, dove era proconsole Sergio Paolo, che si convertì a Gesù Cristo. Da questo momento Saulo, il cui nome «era anche Paolo» iniziò a usare il secondo nome, di origine latina. Poi i missionari passarono attraverso Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe in Licaonia. Quindi tornarono ad Antiochia di Siria. Paolo, 17 anni dopo la sua conversione, Barnaba e gli apostoli si ritrovarono a Gerusalemme per il primo Concilio Ecumenico, nell’anno 52 (49). Qui fu deciso di non imporre ai Gentili convertiti l’intera Legge di Mosè.   Seconda missione – anni 52-55 (49-52) Da questo momento iniziò il secondo viaggio missionario di Paolo, nelle comunità già presenti a Derbe e Listra. Lo Spirito Santo impedì  ai missionari di andare nella provincia dell’Asia minore e in Bitinia, per cui scesero a Troade, poi passarono in Macedonia, a Tessalonica e Berea, ad Atene e infine a Corinto. Qui Paolo rimase un anno e mezzo e trovò il proconsole Giunio Gallione che lo difese da un tumulto causato dai Giudei. Era l’anno 55 (52). È questo il periodo in cui Paolo detta le due Lettere ai Tessalonicesi, dopo essere stato impedito da satana di tornare a Tessalonica e dallo Spirito Santo di predicare nelle località in cui si trovavano le sette Chiese dell’Apocalisse. Nella prima lettera raccomanda che la si legga a tutti i fratelli, ossia a tutte le Chiese; nella seconda dice che autenticherà ogni lettera con i saluti e la sua calligrafia nello scriverli. Dobbiamo ricordare che quasi mai egli scriveva le lettere «di suo pugno» e ciò ha dato ingiustamente adito al sospetto che alcune di esse non siano autentiche. Queste due lettere preludono all’Apocalisse, profezia fondata sulla rivelazione di Gesù Cristo che si conclude con l’attesa del suo ritorno, all’improvviso come un ladro per chi non veglia e non lo attende. Ecco che cosa significa «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). Con i Tessalonicesi i missionari ne avevano ragionato, concludendo che non sarebbe stato un ritorno imminente, e l’Apocalisse elenca tutto ciò che il Figlio di Dio aveva profetizzato. Nell’Apocalisse, cap. 8, versetti 10-11, leggiamo: « E il terzo angelo suonò: cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia e cadde su un terzo dei fiumi e sulle sorgenti delle acque; il nome della stella si pronuncia: l’Assenzio; un terzo delle acque è diventato come assenzio; molti degli uomini sono morti a causa delle acque, perché sono divenute amare ». Le diverse immagini si possono interpretare in questo modo: « Uscì dalla Gerusalemme santa un grande predicatore, Paolo, ardente di Spirito Santo come una torcia, e percorse un terzo delle regioni interne e lontane dal Mare; il nome del predicatore si pronuncia: l’Apsinto, che ha il doppio significato di Assenzio e di Trace, perché Paolo si è spinto a evangelizzare fino alla Tracia; un terzo delle popolazioni delle regioni interne è diventato come assenzio; molti degli uomini ebrei di quei luoghi hanno creduto nel Cristo a causa di quelli che hanno ascoltato Paolo, conquistati dalla sua dottrina ». In 2 Ts 2,7 conosciamo l’opera svolta da Teofilo. Potrebbe risalire alla permanenza di Paolo a Corinto anche la Lettera agli Ebrei, non scritta direttamente da lui, ma forse da Apollo, giudeo di Alessandria collaboratore dell’Apostolo. In essa è celebrato Gesù, l’unico sommo ed eterno sacerdote della Nuova Alleanza. Il sacerdote che ben ci comprende, per aver patito sulla croce. Se leggiamo anche questa lettera in relazione alle due Lettere ai Tessalonicesi e all’Apocalisse, la scopriamo molto concreta, anzi gli insegnamenti, che ci appaiono a prima vista sublimi, si rivelano molto utili anche nell’apostolato di oggi. Poteva essere indirizzata a più comunità di Ebrei, come quella di Gerusalemme, quelle dell’Asia minore (Ap 2,10: alcuni Ebrei cristiani messi in prigione a Smirne), di Antiochia. In Eb 13,7.17 sono nominati «i vostri capi», più di uno come le comunità. Ecco perché mancherebbe un indirizzo preciso. Appena arrivato nella città di Corinto, Paolo aveva incontrato alcuni Ebrei (Aquila e Priscilla) venuti dall’Italia in seguito all’ordine di espulsione di Claudio (At 18,2; Eb 13,24). Quando successivamente partì da Corinto, passò a salutare diverse comunità, compresa quella di Gerusalemme, prima di tornare ad Antiochia (At 18,5.22; Eb 13,23). Dopo ciò si imbarcò verso Antiochia ma fece sosta a Efeso. In tutti questi viaggi c’era anche Luca. Nel viaggio per mare tra Efeso e Cesarea si incontra l’isola di Patmos e qui Luca si è probabilmente incontrato con Giovanni e gli ha suggerito l’idea dell’Apocalisse.  A questo proposito, dobbiamo far notare che l’espressione « per rivelazione » (= δι’ αποκαλυψεως), usata da san Paolo per la prima volta nella lettera ai Galati, è successiva a quest’incontro di Luca con Giovanni a Patmos. La troviamo in Rm 2,5; 8,19; 16,25; 1 Cor 14,6.26.30; Gal 1,12; 2,2; Ef 1,17; 3,3. L’Apocalisse di Giovanni fu realizzata, poco dopo l’incontro a Patmos, da uno scriba di Gamla, città-fortezza che si stendeva sul fianco meridionale di una collina rocciosa sul Golan, 8 chilometri a nord est del Lago di Galilea. Notiamo che Matteo conclude il suo Vangelo con la visita, che non è precisamente un’apparizione sul luogo, di Gesù risorto ad alcuni che erano su un monte insieme agli Undici (Mt 28,16-20). San Paolo ricorda che Gesù apparve «a più di cinquecento fratelli insieme» (1 Cor 15,6), che perciò dovevano già essere uniti da qualche motivo, prima di conoscere Gesù. Infatti, nei quaranta giorni delle apparizioni, il gruppo stesso più vicino a Gesù faceva fatica a trovarsi insieme. Il motivo che teneva uniti quei fratelli poteva essere il fatto di appartenere a una città particolarmente unita e isolata, quale appunto Gamla. Da qui erano partiti gli «uomini» che avrebbero voluto «rapire» Gesù «per farlo re», dopo che aveva moltiplicato i pani e i pesci (Gv 6,14-15). Poi, nei viaggi di Paolo, si nota che in una delle Chiese dell’Apocalisse collegate a Gamla, quella di Efeso, non era presente una comunità cristiana in città. Ma la comunità « giovannea » di Efeso viveva probabilmente, come a Gamla, su una collina fuori città. Ci sono notizie e dati archeologici che lo confermano.   Terza missione – da aprile del 55 fino alla Pentecoste del 58 (52-55)  Per il terzo viaggio missionario, Paolo andò a Efeso e poi attraversò le regioni dell’altopiano, compresa la Galazia. Si inserisce in questo contesto la Prima lettera ai Corinzi. 1 Cor 4,6: «…impariate a stare a ciò che è scritto (riguardo a Gesù Cristo)…». a) Paolo attribuisce importanza fondamentale allo scritto, rispetto alla sua predicazione a voce. b) C’erano già testimonianze scritte, i quattro Vangeli, giuridicamente più valide della trasmissione a voce, sulla vita e l’opera di Gesù Cristo. Paolo trasmetteva ciò che aveva ricevuto: era scritto e giuridicamente valido (1Cor 15,3). 1 Cor 12,4-31: «Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito». I carismi sono distribuiti dallo Spirito Santo nei battezzati (e cresimati) e basta fare attenzione a quello che lo Spirito opera in ciascun fedele, perché anche oggi tutti, nella Chiesa, possano riceverne beneficio. Quindi tornò a Efeso. Qui rimase per almeno 2 anni e 3 mesi. Forse proprio a Efeso gli giunse notizia che i « superapostoli » (che nell’Apocalisse sono chiamati Nicolaiti, « che si dicono apostoli e non lo sono », « che appartengono alla sinagoga di satana », il « drago », il « serpente antico ») stavano predicando anche nella Galazia un falso Vangelo, come avevano già fatto nelle Chiese nominate nell’Apocalisse. Da qui la Lettera ai Galati. La giustificazione, ossia l’adesione al Dio di Israele e Dio unico, avviene per tutti, Ebrei e Gentili, attraverso la fede e non per le opere della Legge. Questo non significa che non occorrano le opere della fede, ma che non sono necessarie la circoncisione e altre osservanze, richieste da Mosè ma non contenute nella promessa fatta in precedenza da Dio ad Abramo. In conrrispondenza di ciò, notiamo che anche nell’Apocalisse, dopo i centoquarantaquattro mila segnati delle tribù di Israele, viene una folla immensa «di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9-10), che accolgono con palme il Regno di Dio e dell’Agnello (Gv 12,13). Poi passò in Macedonia. Durante questo soggiorno in Macedonia, pieno di tribolazioni, inviò la Seconda Lettera ai Corinzi, preoccupato com’era che i « superapostoli » non li facessero deviare dal Vangelo. In questa lettera (13,1) e in altre (1 Tm 5,19; Eb 10,28) troviamo l’espressione «sulla parola di due o tre testimoni», che incontriamo per la prima volta nel Vangelo secondo Matteo (18,16). Era probabilmente una formula usata dagli Ebrei nelle questioni legali, ma stabilisce anche un legame tra il Vangelo di Matteo e l’opera di San Paolo. Infatti questo Vangelo è la Nuova Legge, sancita da Gesù Cristo per gli Ebrei e per i Gentili, mentre Paolo, nelle sue lettere, mostra più volte che è necessario superare la Legge antica È un segno che il Vangelo di Matteo era già diffuso nell’impero romano. Tornò in Grecia, dove trascorse più di 3 mesi. In una sosta durante il viaggio di ritorno dalla Grecia venne scritta, per mano di Terzo, la Lettera ai Romani. Il fondamento di quanto è scritto nella lettera è ciò che leggiamo in Rm 1,3-4: «riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, certificato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore». Il tutto è di una concretezza rigidamente argomentata. Con questa attenzione si dovrebbe rivedere la traduzione di alcuni passi, per poterne riscoprire il valore pratico. – Predestinazione (Rm 8,29-30; Ef 1,11): non c’è niente di fatalistico in questa dottrina. Semplicemente Paolo vuole ricordare che dall’eternità anche i Gentili sono stati predestinati dal Dio di Israele alla salvezza, perciò chi è fedele a Dio non deve ostacolare il suo disegno eterno. Quindi andò a Mileto, tornò a Efeso e da qui, per nave, arrivò insieme a Luca a Cesarea e infine a Gerusalemme, all’incirca nei giorni della Pentecoste giudaica dell’anno 58 (55). Qui i Giudei, sapendo che Paolo aveva convertito molti Gentili, a Gesù Cristo e al Dio di Israele, ma che non aveva loro imposto la Legge di Mosè, lo accusarono di predicare contro il popolo ebreo, contro la Legge e contro il Tempio, anzi di aver introdotto nel Tempio il pagano Trofimo di Efeso.   L’arresto e l’appello a Cesare- anno 58 (55) La gente lo prese e voleva ucciderlo, cosicché il tribuno della città, avvertito, lo fece arrestare. Da Gerusalemme fu inviato a Cesarea, a causa dei tumulti che si continuavano a riaccendere contro di lui. Sembrerebbero state scritte durante questa prigionia la Lettera ai Colossesi e la Lettera agli Efesini (o ai Laodicesi). Ef 4,15: «Vivendo la verità nella carità». Paolo fu quindi giudicato da Felice, procuratore di Giudea. Questi, terminati i due anni del suo mandato, se ne andò e fu sostituito da Festo. Ma andandosene lasciò Paolo in prigione. Felice era stato inviato come procuratore della Giudea da Claudio, mentre stava compiendosi il dodicesimo anno del suo regno (Giuseppe F., A.G., XX,137-138), ossia nell’anno 56 (53) e ora correva l’anno 58 (55). Festo dunque giudicò di nuovo Paolo e lo fece anche il re Agrippa II, ma l’Apostolo delle Genti si dichiarò cittadino romano e si appellò a Cesare, che era in quel momento Nerone.   A Roma- anni 59-61 o 62 (56-58 o 59)  Fu allora trasferito via mare a Roma. La nave partì nel tardo autunno del 58 (55) e, a causa di una tempesta nelle acque di Creta, fece naufragio presso Malta. Si salvarono tutti e il viaggio riprese tre mesi dopo, all’inizio della primavera del 59 (56). Approdarono a Siracusa, poi a Reggio Calabria, a Pozzuoli e giunsero a Roma accolti dai fratelli cristiani. A Roma fu concesso a Paolo di abitare per conto proprio con un soldato di guardia. Trascorse così due anni interi e poté accogliere tutti quelli che venivano a lui. Nella Lettera ai Filippesi dice: «Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del Vangelo, al punto che in tutto il pretorio e dovunque si sa che sono in catene per Cristo» e il comandante dei pretoriani era Afranio Burro. Dobbiamo annoverare tra i visitatori anche Lucio Anneo Seneca, che ha in seguito intrattenuto con Paolo un carteggio in 12 lettere. L’epistolario ne comprende 14, ma due sono sicuramente false. Alcune di queste lettere sono datate con i consoli suffecti e con i consoli ordinari del 61 (58) e del 62 (59).   In Spagna? Infine il martirio- anni 62-70 (59-67) Negli anni seguenti, fino al 70 (67) a cui si fa risalire il martirio per decapitazione, Paolo può essere stato in Spagna (Rm 15,24.28) e forse anche in Dalmazia (Tt 3,12). Durante i viaggi successivi alla prima prigionia a Roma Paolo scrisse la Prima Lettera a Timoteo. 1 Tm 2,5: Gesù Cristo unico mediatore tra Dio e gli uomini. L’uomo Gesù è l’unico che ha storicamente e concretamente messo in comunicazione il mondo degli uomini con Dio Creatore e con il Cielo. Ciò non riguarda precisamente la preghiera, perché Dio accetta l’intercessione di tutti i suoi amici, compresi i nostri defunti. Successivamente scrisse la Lettera a Tito. Tt 3,12: «Quando ti avrò mandato Àrtema o Tìchico, cerca di venire subito da me a Nicòpoli, perché ho deciso di passare l’inverno colà». San Paolo fissa l’appuntamento per l’inverno a Nicopoli, che sembra identificarsi con una città dell’Epiro, l’odierna Albania. La città potrebbe essere stata chiamata così per celebrare la vittoria di Azio; in realtà molte città antiche portavano quel nome, celebrativo di una vittoria, ma in zone così differenti, che quella dell’Epiro sembra la più logica. Questo attesterebbe l’apostolato di san Paolo in Dalmazia, insieme aTito. Intanto Nerone aveva fatto uccidere la madre Agrippina nel 62 (59) e Afranio Burro nel 65 (62). Quindi aveva  iniziato a perseguitare i cristiani nell’anno 67 (64), dopo un incendio di Roma che gli storici latini attribuiscono alla volontà dell’imperatore stesso. Anche Seneca, nel 68 (65), fu costretto a togliersi la vita. Paolo, prigioniero a Roma per la seconda volta, scrisse la Lettera a Filemone. Appena precedente il martirio di san Paolo, nel 70 (67), sarebbe la Seconda Lettera a Timoteo, in cui egli dice: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Solo Luca è con me» (2 Tm 4,6-7.11). In quest’ultima lettera, (2 Tm 4,13) Paolo chiede a Timoteo di portargli «i rotoli e soprattutto le « membrànai »». Di che testi si trattava? Non certo dell’Antico Testamento, che Paolo poteva trovare in ogni sinagoga, ma dei Vangeli, già scritti ma non tutti pubblicati, e di sue annotazioni personali. Secondo la tradizione cristiana Paolo morì durante la persecuzione di Nerone, decapitato presso le Aquæ Salviæ. San Girolamo, verso fine IV secolo, precisa che fu decapitato a Roma e fu sepolto lungo la via Ostiense nel 37° anno dopo la passione, nel 14º anno di Nerone, due anni dopo la morte di Seneca. Il 37° anno dopo la passione di Gesù Cristo è da situare nel 70 d.C., mentre il 14° anno di Nerone (considerandolo non intero) dovrebbe essere, secondo il calcolo tradizionale, il 67 d.C. Questo è un ulteriore indizio che conferma la cronologia sopra esposta. Alle Aquæ Salviæ, in seguito fu edificata l’Abbazia delle Tre Fontane, mentre sul luogo del sepolcro è stata costruita la Basilica di San Paolo fuori le mura. Per secoli il sepolcro era stato rimasto nascosto sotto al pavimento della basilica. Lavori archeologici svolti tra il 2002 e il 2006 sotto la guida di Giorgio Filippi lo hanno riportato alla luce. Il 29 giugno 2009, nella cerimonia ecumenica conclusiva dell’anno paolino, papa Benedetto XVI ha annunciato i risultati della prima ricognizione canonica effettuata all’interno del sarcofago di San Paolo. In particolare, il sommo pontefice ha riferito che «Nel sarcofago, che non è mai stato aperto in tanti secoli, è stata praticata una piccolissima perforazione per produrre una speciale sonda mediante la quale sono state rilevate tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato di oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. È stata anche rilevata la presenza di grani di incenso rosso e di sostanze proteiche e calcaree. …Piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenienza, sono risultati appartenere a persona vissuta tra il I e il II secolo. Ciò sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo Paolo. Tutto questo riempie il nostro animo di profonda emozione».   2 – L’impedimento di Nerone Dio diede a Nerone la facoltà di mettere in subbuglio la nazione ebraica, sconvolgendo l’ordine sociale e l’aspetto stesso della Palestina, e di mettere in contrasto insanabile Ebrei e Cristiani. Gli permise infatti di perseguitare i cristiani e di mettere in disparte Teofilo. Gli permise, con questo, di far perdere quasi del tutto le tracce dell’origine dei Vangeli e dell’Apocalisse, con la conseguenza che il loro stesso significato risultasse sconvolto. Dobbiamo anche notare che l’Islam nacque, cinque secoli e mezzo dopo, in seguito a questo contrasto tra Ebrei e Cristiani e per la presenza di eresie che laceravano la cristianità. In pratica questa religione ha occupato le lacune lasciate da Ebrei e Cristiani nel panorama del Regno di Dio. Nei nostri tempi Maria, con le apparizioni il giorno 13 di sei mesi nel 1917, in particolare l’ultima del 13 ottobre, anniversario dell’inizio dell’impero di Nerone, ci  indica la soluzione per i contrasti. È ora di superare l’impedimento, causato da Nerone e permesso dalla Provvidenza, al Regno di Dio nel mondo. Il Regno di Dio e la Chiesa, che lo rappresenta nel mondo, si distinguono decisamente dai regni del mondo. Ma l’odio o l’indifferenza verso la Chiesa non è un aspetto necessario. All’inizio i discepoli di Gesù «godevano la simpatia di tutto il popolo» (Ap 2,47) e i contrasti sono nati soprattutto sotto Nerone e durano tutt’ora allo stesso modo.   3 – Paolo, Luca, Matteo  È però opportuno notare la criticità di una concezione che vede san Paolo erede del Vangelo di Luca, come qui sosteniamo, mentre tradizionalmente si sostiene la derivazione del vangelo di Luca da san Paolo. La posta in gioco è grande. Noi sosteniamo che il Vangelo di Luca riporta le parole autentiche di Gesù, e da queste san Paolo deduce il superamento della Legge mosaica, mentre l’attuale Vangelo di Matteo è un rifacimento delle parole di Gesù, una variatio, a scopo editoriale, anche se tendenzialmente favorevole a un cristianesimo giudaizzante. Da parte di alcuni si sostiene invece che l’attuale vangelo di Matteo è quello originario, mentre quello di Luca sarebbe una versione filo-romana, priva cioè degli elementi filo-giudaici, dovuta all’influenza di san Paolo. Questi, di iniziativa sua, anche se appoggiata a rivelazioni, avrebbe predicato un cristianesimo filo-romano avulso dalla sua origine giudaica, in opposizione agli apostoli, che, fedeli alle origini giudaiche, sarebbero stati antiromani. Non ci sfugge dunque che una corretta ricostruzione della vicenda di san Paolo non può non avere ripercussioni sulla validità della tesi sulla derivazione del Vangelo di Luca da quello originario di Matteo, in aramaico, e che, se noi riusciamo a dimostrare che gli oppositori di san Paolo (il quale, per noi, si basa sul vangelo di Luca) non sono i giudeo-cristiani (i quali, secondo alcuni, si basano sul vangelo di Matteo) ma gli ebrei che non hanno accettato Gesù Cristo, la potenziale antitesi Luca – Matteo, che viene spesso usata per scardinare il Vangelo, non avrebbe più senso. Ragioniamo un momento sui dati a nostra disposizione. Il Prologo antimarcionita, (sec. II-III) dice: «Luca, un siro di Antiochia, di professione medico, discepolo degli apostoli, più tardi segui Paolo fino alla morte. Servì senza biasimo il Signore, non prese moglie né ebbe figli. Mori all’età di 84 anni in Beozia pieno di Spirito Santo. Essendo già stati scritti i Vangeli di Matteo in Giudea e di Marco in Italia, mosso allo Spirito Santo scrisse questo Vangelo nelle regioni dell’Acaia… ». In realtà si tratta della pubblicazione dei Vangeli, in particolare del Vangelo di Luca, rimasto fino a quel tempo in mano a lui e a Teofilo (nominato in una lettera dell’epistolario Seneca – Paolo), in attesa di un’eventuale possibilità di ripresentare in Senato una legge che riconoscesse Gesù Cristo come un dio, così che fosse lecito venerarlo nell’impero romano. Sosteniamo che il Vangelo di Luca riporta le parole che Gesù ha detto e le azioni che Gesù ha fatto, quali risultavano dalla cronaca aramaica di Matteo e da informazioni acquisite da lui stesso. Sono i « rifacitori » di Matteo, che semmai hanno introdotto nell’attuale Vangelo di Matteo gli elementi tipicamente filo-giudaici che non erano nella parole di Gesù. Che bisogno c’è di immaginare un intervento miracoloso per rendere possibile che Paolo suggerisse a Luca i particolari della vita del Signore, quando possiamo stabilire che Luca era presente a Gerusalemme durante i fatti ed è stato testimone di gran parte di essi? E in seguito, negli Atti degli Apostoli scrive solo avvenimenti che ha potuto seguire direttamente o da vicino. San Paolo, rifacendosi al vangelo di Luca e alle sue visioni, conferma che la missione autentica di Gesù comprende l’offerta della salvezza anche ai pagani (non più mediante la circoncisione, ma mediante il battesimo), e quindi il superamento della Legge mosaica. Non è quindi san Paolo che altera l’insegnamento di Gesù, ma possono essere stati i « rifacitori » di Matteo a non essere stati compresi, in quanto possono aver suggerito agli ebrei, destinatari del Vangelo di Matteo, o meglio, alla parte di essi di tendenza antiromana, l’idea che il superamento della legge mosaica fosse un’invenzione di san Paolo per conciliarsi le simpatie dei Romani, e non un elemento essenziale del messaggio di Gesù. Concretamente san Paolo deve all’evangelista Luca la grandezza della sua missione, per il fatto di essere sempre stato fedele a Gesù Cristo storico. Nei Vangeli ci sono sempre le autentiche parole di Gesù, ma non necessariamente tutte. Lo ammette anche Giovanni nelle due conclusioni del Vangelo che porta il suo nome: « Molti altri segni fece Gesù di fronte ai suoi discepoli, ma non sono scritti in questo libro » e: « Vi sono ancora molte altre cose che Gesù ha compiuto ». E non si esclude che esistano altri insegnamenti di Gesù risorto dati « per apocalisse (= δι’ αποκαλυψεως) » come e avvenuto per san Paolo. Del resto proprio gli apostoli che avevano conosciuto Gesù « secondo la carne » hanno autenticato l’insegnamento di Paolo, che non aveva conosciuto Gesù nel loro stesso modo, ma ciononostante lo hanno considerato equivalente. Che taluni discepoli degli apostoli, senza loro mandato, possano aver contestato a Paolo il titolo di apostolo, in nome di una arbitraria restrizione di questa qualifica a quelli che avevano seguito Gesù nella vita terrena, si evince da alcuni passi delle Lettere. Ma non prova nulla circa una possibile antitesi tra gli apostoli e Paolo. Anzi, autentici apostoli sono anche i cinquecento e più fratelli ai quali è apparso il Risorto, senza che da questa « investitura » siano nati problemi, a quanto sembra, con il gruppo dei Dodici. Se Gesù è Dio, non è illogico pensare che possa aver continuato il suo insegnamento, per mezzo dello Spirito Santo, anche dopo morto. Il che appare francamente inconcepibile, se Gesù fosse stato un rivoluzionario zelota, giustiziato per attività sovversiva antiromana.   4 – Pietro e Paolo   Abbiamo segnalato la possibile collocazione del settennato di Pietro ad Antiochia tra il 37 (35) e il 44 (41), con la conseguenza che l’andata a Roma nel 45 (42) sia stata una breve parentesi dopo questo settennato, sebbene sia importante perché vi fondò la comunità romana, e non abbia relazione con la persecuzione di Erode Agrippa del 47 (44), seguita dalla seconda andata a Roma, probabilmente definitiva anche se intercalata da viaggi come quello a Gerusalemme per il Concilio. 1) la data indicata da Eusebio (42 d.C., 45 secondo il computo corretto) potrebbe corrispondere alla data indicata dagli Atti degli Apostoli (12,17) in cui Pietro, liberato dalla prigionia di Erode Agrippa I, « se ne andò in un altro luogo », in quanto gli Atti non forniscono riferimenti per i pochi avvenimenti raccontati relativamente a questo periodo. 2) Agrippa fu re della Giudea dal 44 (41) al 47 (44). 3) All’anno 45/46 (42/43) risale anche la conversione a una « superstitio externa », che è sicuramente il Cristianesimo, di una donna di famiglia senatoria, Pomponia Grecina (Tacito, Ann. XIII, 32). 4) In seguito a questo primo viaggio a Roma, ricordiamo però che Pietro chiese a Marco di scrivere quello che aveva cominciato a raccontare senza una traccia scritta. Così dovettero tornare a Gerusalemme ambedue, Marco per poter rileggere gli altri tre Vangeli, Pietro per fornire all’evangelista le proprie testimonianze sui fatti. 5) È inoltre improbabile che Pietro, se fosse stato  imprigionato da Agrippa nel 45 (42), sia tornato a Gerusalemme di nuovo mentre Agrippa era vivo. 6) Si deve perciò ritenere che Pietro si sia recato a Roma una prima volta, non testimoniata dagli Atti, nel 45 (42) e una seconda volta nel 47 (44) (At 12,17). 7) Il martirio di Pietro avvenne il 13 ottobre del 67 (64), secondo la ricostruzione dell’archeologa Margherita Guarducci. Riteniamo fondamentale l’esatta cronologia dei soggiorni di Pietro a Gerusalemme (4 anni), ad Antiochia (7 anni) e a Roma (20 anni) per le implicazione sull’esercizio del Primato e sulla collocazione della Sede apostolica contro i sostenitori di un cristianesimo primitivo senza Primato e senza Sede, ma irrimediabilmente diviso tra giacobiti, giovannei, petrini e paolini. Sorprende che nel Nuovo Testamento non venga mai fatto accenno alla presenza di Pietro a Roma e che questa notizia ci pervenga solo da scritti successivi. Nella Prima lettera di Pietro (5,13) troviamo un enigmatico accenno: «Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio». Non sembra, però, che Pietro avesse bisogno di nascondere Roma sotto il simbolo « Babilonia », perché per 35 anni i Romani si mantennero favorevoli al Cristianesimo. È più probabile che questi saluti da Babilonia, la città orientale dove risiedeva da secoli una comunità ebraica, e da Marco, che era vicino a Pietro, siano stati raccomandati a Pietro separatamente l’uno dall’altro, mentre si trovava, ad esempio, a Gerusalemme per il primo Concilio Ecumenico, e che egli li abbia trasmessi simultaneamente «ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadòcia, nell’Asia e nella Bitinia» (1Pt 1,1) «per mezzo di Silvano» (5,12) collaboratore di Paolo. Babilonia non era un simbolo, altrimenti lo doveva essere di Gerusalemme, come risulta dall’Apocalisse. Si può invece notare che Pietro e Paolo si scambiavano liberamente i collaboratori, perciò erano costantemente in contatto tra loro, anche se non lo dicono. È bene inoltre ricordare che San Paolo era continuamente attento all’opera di tutti gli Apostoli. Si informava pure di quello che andavano compiendo i «più di cinquecento fratelli» (1 Cor 15,3) di Gamla. Se non lo teniamo sempre presente, comprendiamo poco l’opera di Paolo stesso. Può essere utile far notare che nella prima comunità romana fondata da Pietro non sembra ci siano stati conflitti sulla circoncisione e sulla reciproca frequentazione tra convertiti dal giudaismo e convertiti dal paganesimo, i quali si riunivano in case di privati (Rm, 16) e rimanevano estranei alla vita della comunità giudaica. Un documento del IV secolo precisa che i Romani «susceperunt fidem Christi, ritu licet iudaico». Ciò ricorda che anche a Roma, all’inizio, la fedeltà a Cristo e alla legge ebraica non erano in conflitto e che non fu certo Paolo, al suo arrivo, a provocare il conflitto, in quanto egli si attenne fedelmente alle parole del Signore risorto: «Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma”» (At 23, 11).   5 – Ragionamenti sul ritorno di Gesù   Gesù Cristo, nei giorni precedenti la sua passione e morte, pronunciò la profezia sulla distruzione del Tempio, sulla fine di Gerusalemme e sul Regno di Dio, con frasi apocalittiche (Lc 21,5-36). Nelle apparizioni dopo la risurrezione parlò ancora «delle cose del Regno di Dio» (At 1,3) e si può ritenere che abbia continuato a usare espressioni apocalittiche. I discepoli cercarono di interpretarle. Per noi è inevitabile confrontare i diversi testi del Nuovo Testamento per capire a quali conclusioni si era pervenuti nella Chiesa. Erano conclusioni piuttosto concrete, fondate su simboli che Gesù aveva usato. Che cosa si doveva attendere, presto? Sotto l’imperatore successore di Claudio, storicamente Nerone, messo in disparte Teofilo, ci sarebbe stata una grande sofferenza per gli Ebrei, per mettere alla prova tutto il mondo. Sarebbe stata distrutta Gerusalemme, per cui Roma non avrebbe più potuto servirsene per pervertire la vita sociale degli Ebrei. Le Genti avrebbero visto Gesù Cristo tornare sulle nubi del cielo, dopo lo sconvolgimento del « sole », della « luna » e delle « stelle », per regnare mille anni nel mondo. Gli eletti di Cristo, già morti con lui (prima morte), avrebbero partecipato a una prima risurrezione (reale, ma soltanto per gli eletti fedeli a Cristo) per regnare con lui mille anni. In tale periodo il « diavolo », che corrisponde a un gruppo di persone credenti nel Dio di Israele ma non fedeli a Gesù Cristo, sarebbe stato incatenato per mille anni. Dopo mille anni il « diavolo » sarebbe stato lasciato libero di agire per un po’ di tempo. In seguito, mentre Gesù Cristo avrebbe continuato a regnare nel mondo in modo meno evidente, un fuoco dal cielo avrebbe vinto « il diavolo » e l’avrebbe chiuso per sempre nell’abisso e ci sarebbe stato un giudizio universale. La prospettiva successiva era « la nuova città santa Gerusalemme », che sarebbe durata « secoli di secoli ». Non è chiaro se dopo « secoli di secoli » ci sarebbe stata la seconda risurrezione, per tutti, o se questa avrebbe dovuto essere dopo i mille anni. I Vangeli però dicono che Gesù Cristo tornerà alla conclusione dei secoli e allora ci sarà il giudizio finale. Dal nostro punto di vista, venti secoli dopo, possiamo constatare come si sono avverate storicamente alcune profezie del Cristo Re: – distruzione di Gerusalemme nel 73 (70); – persecuzione dei Cristiani fino al 313 (non era prevista in modo distinto); – circa mille anni (313-1303) di prestigio, anche politico, della Chiesa, corrispondente a un autentico regno di Cristo, che ha edificato una civiltà mai vista prima; – nel 1303, il Papa viene umiliato dal re di Francia, Filippo il Bello (Oltraggio o « Schiaffo » di Anagni); il 13 ottobre 1307 (1250° anniversario di Nerone imperatore) arresto dei Templari per ordine dello stesso re di Francia, per impossessarsi dei mezzi che essi impiegavano per le opere della Chiesa contro il male; di conseguenza forte limitazione della presenza attiva e caritativa della Chiesa nella società civile; – da allora, anche oggi, assistiamo all’offensiva del « diavolo » contro i Cristiani; – ora dobbiamo attendere forse, simbolicamente, la « seconda risurrezione », ma certamente la « seconda morte », in Cristo, di coloro che non avevano creduto in lui e, infine, la « nuova città santa Gerusalemme ».   Raffaele Licordari, con la collaborazione di Giovanni Conforti Aggiornato il 15 giugno 2015  

IL SIGNIFICATO DI ESSERE NATO A TARSO NELLA FIGURA DI SAN PAOLO – Prof Buscemi

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Tarso e il suo influsso su Paolo

IL SIGNIFICATO DI ESSERE NATO A TARSO NELLA FIGURA DI SAN PAOLO

Testo di: Alfio Marcello BUSCEMI, San Paolo, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1996, 23-27.

L’ambiente della fanciullezza di Paolo è certamente quello della Tarso degli inizi del I secolo d.C. Tarso, al dire dell’Apostolo, era “una città non senza importanza” (At 21,39): fin dai tempi antichissimi degli Ittiti fu capitale della Cilicia, la regione costiera di quella parte della penisola dell’Asia Minore che fa angolo tra la penisola stessa e il continente a cui si attacca e che si estendeva, da Nord verso Sud, dalle catene del Tauro e dell’Antitauro e dai monti della Siria fino al mare, mentre da Est ad Ovest, copriva la zona dal monte Amano, posto ai confini con la Siria, fino alla Panfilia. La regione si divideva: in Cilicia Piana o Campestre (dove si trovavano Tarso, la capitale, e Soli, famosa per i “solecismi” del suo linguaggio), e in Cilicia Montana, che andava da Soli fino ai confini con la Panfilia. La Cilicia, schiacciata sul mare dai monti della Siria, dal Tauro e dall’Antitauro, comunicava con il resto della penisola dell’Asia Minore attraverso le famose Porte Cilicie, un valico tra il Tauro e l’Antitauro, mentre con la Siria intesseva le sue comunicazioni attraverso le Porte Siriache e le Porte Amaniche. Storicamente appartenne al regno degli Ittiti con il nome di Kizzuwatna verso il 1200 a.C. – ricordata nell’Iliade come alleata di Troia: Andromaca, moglie di Ettore, era una principessa della Cilicia – passò poi, sotto gli Assiri (IX sec. circa), sotto i Persiani (fino al IV sec. a.C.) e infine divenne parte dell’impero di Alessandro Magno e dopo la sua morte l’ereditarono i Seleucidi. Ai tempi di Paolo, comunque, tutta la regione era unita con la Siria nell’unica provincia romana di Siria-Cilicia (cf Gal 1,21 ss.). Tarso era la città più rappresentativa di tutta la Cilicia e godeva nell’antichità fama mondiale. Le sue origini sono molto antiche e risale probabilmente ai tempi dell’impero ittita (XIV sec. a.C.); il suo nome si trova sull’obelisco nero di Salmanassar III verso la metà del IX sec. a.C.; Sennacherib verso il 698 a.C., dopo averla catturata, la rase al suolo; Ciro nel 401 a.C. l’annesse al Regno persiano; poi essa passò ai Seleucidi, che le cambiarono il nome in Antiochia sul Cidno; passata ai Romani verso il 47 a.C. prese il nome di Juliopolis, in onore di Giulio Cesare. Godette i favori di Antonio (a Tarso avvenne il celebre incontro tra Antonio e Cleopatra, come racconta Plutarco nelle sue “Vite Parallele”) e di Augusto (privilegiò la città soprattutto per onorare il suo precettore Atenodoro e il precettore di suo nipote, l’accademico Nestore). Tarso fu in primo luogo una città commerciale che richiamava gente da ogni parte e dava ai propri cittadini la possibilità di girare il mondo. Dal suo porto marittimo, chiamato Rhegma piccole imbarcazioni risalivano continuamente la corrente del Cidno, fiancheggiata da magazzini ed arsenali, per raggiungere il centro della città dove si potevano incontrare gente di ogni razza e lingua: abitanti della Cilicia, della Licaonia, della Cappadocia, dell’Asia Minore in genere, della Siria, della Mesopotamia, della Grecia e della lontana Roma. Significative sono le parole di Plutarco, nel descrivere la traversata di Cleopatra sul Cidno: «Risalì il fiume Cidno su un battello dalla poppa dorata, con le vele di porpora spiegate al vento. I rematori lo spingevano contro corrente, vogando con remi argentati, al suono di un flauto e si accompagnavano zampogne e liuti. Lei era sdraiata sotto un baldacchino trapuntato d’oro, acconciata come le Afroditi che si vedono nei quadri, e una frotta di schiavetti, somiglianti agli Amori dipinti, ritti ai due lati le facevano vento. Allo stesso modo, le più formose delle sue ancelle in vesti di Narcisi e Grazie stavano alcune sopra la sbarra del timone, altre sui pennoni. Profumi meravigliosi si spandevano lungo le rive al passaggio della nave, levandosi dall’incenso che sovente vi veniva bruciato. Gli abitanti o l’accompagnarono fin dalla foce, o lungo il fiume sulle due sponde, oppure scesero dalla città per assistere al suo passaggio. Antonio, seduto sul tribunale, rimase solo nella piazza, tanta fu la folla che uscì incontro alla regina; e fra tutta quella gente corse una voce, che Afrodite veniva in tripudio a unirsi a Dioniso per il bene dell’Asia». [Vite parallele, V, 26 (tr. C. Carena, Milano 1966)]. Una tale varietà di popolazione contribuiva non solo a dare a Tarso l’aspetto di città dedita al commercio, ma l’apriva agli influssi culturali di tutto il mondo, rendendola una vera città cosmopolita di tipo ellenistico. La sua importanza culturale fu tale da poter gareggiare con Atene ed Alessandria, secondo la testimonianza del geografo Strabone: «Tra i suoi abitanti regna un così grande zelo per la filosofia e per ogni ramo della formazione universale, che la città supera sia Atene che Alessandria e ogni altra città, in cui ci sono scuole e studi filosofici. Cosa particolarmente notevole che a Tarso gli avidi di sapere sono tutti del posto, i forestieri non vi si fermano volentieri; anzi anche gli stessi cittadini di Tarso non si fermano nel luogo, ma vanno altrove per il completamento della loro formazione e, quando sono giunti al termine, vivono volentieri all’estero». Tarso diede i natali a molti rinomati filosofi (Antipatro, Archedamo, Nestore, Atenodoro Cordilio, amico di M. Catone, Atenodoro, figlio di Sandon e precettore di Augusto), grammatici (Artemidoro, Diodoro) e poeti (Dionside, Boeto e forse anche Arato – di cui Paolo in At 17,28 riporta il detto “Di lui [Giove] infatti siamo anche stirpe”) dell’antichità ellenistica. Il clima cosmopolita di Tarso favoriva anche un certo sincretismo religioso. Elementi assiri, persiani ma soprattutto greci – introdotti dai vari dominatori di turno – si aggiunsero alle antiche credenze indigene della città, basate su due divinità principali: Ba’al Tarz, probabilmente l’antichissima divinità anatolica Tarku, vi figura come il signore supremo e in periodo ellenistico venne identificato con Zeus; accanto ad esso, ma di origine più recente, il dio Sandon identificato con Heracles. In suo onore, secondo Dione Crisostomo, ogni anno a Tarso si celebravano “i misteri di Sandon o Eracle”, comprendenti due fasi rituali: 1) la statua del dio veniva bruciata con grande solennità su una grande pira rappresentando la morte del dio; 2) ad essa seguivano danze sfrenate con cui si celebrava la risurrezione del dio. Sandon-Eracle assumeva, pertanto, i connotati di una divinità del ciclo stagionale della vegetazione e la cerimonia rappresentava il riprodursi della vegetazione che muore sotto i raggi cocenti del sole in estate e che rinasce a vita nuova in primavera. A questa religiosità misterica la popolazione indigena affiancava anche culti della religione ufficiale greco-romana e quelli degli stranieri abitanti a Tarso. In questo clima di libertà, anche i giudei godevano il diritto di esercitare il loro culto sinagogale, la pratica della circoncisione, l’osservanza del sabato e di tutte le altre opere legali. A confronto con il sincretismo religioso pagano, il giudaismo con il suo assoluto monoteismo, con la sua morale legalistica, con la sua forte coscienza razziale, doveva apparire diverso e strano. Comunque, gli ebrei dovevano essere abbastanza numerosi a Tarso, di condizione benestante e raggruppati in una quartiere particolare, dato che non era loro permesso di appartenere ad una tribù pagana. Nonostante questo volontario isolamento, caratteristico di tutti gli ebrei della diaspora, gli ebrei di Tarso dovevano essere abbastanza ellenizzati: conoscevano bene la lingua greca, si adattavano alle costumanze politico-commerciali e a volte, per motivi apologetico-missionari, ne assumevano anche il linguaggio filosofico per illustrare meglio ai pagani il valore religioso e morale della Torà. Paolo più in là dirà ai Romani: “Sono debitore ai greci e ai barbari, ai sapienti e agli ignoranti” (Rm 1,14). Comunque, in nessun modo si adattavano alla religiosità pagana, ai loro miti e ai loro riti, verso cui nutrivano una profonda avversione. Paolo si vanterà d’essere “Israelita, ebreo da ebrei, fariseo figlio di farisei”, volendo sottolineare così la stretta ortodossia della sua gente giudaica di Tarso, in seno alla quale era vissuto e si era adeguato ai principi rigidi della sua religione (Gal 1,13-14; Fil 3,4-5; At 23,6; 26,4). Anche ai costumi morali i giudei reagivano piuttosto rigidamente, anche se vi erano numerosi casi di adeguamento per quanto riguardava la frequenza della palestra, del ginnasio e dei giuochi. Ma per lo più disprezzavano e cercavano di allontanarsi dalla morale decadente del pagani (Rm 1,18-32). Forse, un certo fascino poteva esercitare la morale stoica, ma probabilmente anch’essa spesso veniva rigettata seguendo il detto del Talmud: “Maledetto l’uomo che alleva porci, e maledetto chi insegna a suo figlio la sapienza greca” (Baba Qamma 82b). Comunque, è chiaro che, vivendo a contatto con la popolazione pagana e dovendo continuamente commerciare con essa, si apprendevano anche involontariamente detti, modi di dire e tanti usi che erano generalizzati all’interno della polis di Tarso.

PAOLO ERA UN VERO FARISEO – di PAOLO DE BENEDETTI

http://www.stpauls.it/vita/0909vp/0909vp32.htm

PAOLO ERA UN VERO FARISEO

di PAOLO DE BENEDETTI

Tra gli articoli sull’Apostolo ci mancava il punto di vista di un cristiano di radici e fedeltà ebraiche come De Benedetti, che ci parla dell’autocoscienza ebraica di Paolo, dell’adesione alla corrente farisaica e della sua tensione messianica.
Che Paolo fosse e si sentisse ebreo, appare da diverse sue affermazioni, a cominciare dalla dichiarazione che, secondo Atti 22,3, fece sui gradini del tempio al momento dell’arresto: «Fratelli, io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi». E poco dopo, davanti al sinedrio: «Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti» (Atti 23,6). Vetrata della cattedrale di Saint-Julien a Le Mans, XIII sec. (foto Censi). Da queste due dichiarazioni emerge non soltanto la sua autocoscienza ebraica, ma anche la sua adesione alla corrente farisaica (in cui, secondo alcuni studiosi moderni, si era formato Gesù): Gamaliele il Vecchio era nipote di Hillel, il grande maestro che, a differenza del contemporaneo Shammaj, era noto per la sua dolcezza e moderazione.
La tradizione farisaica non era compatta e omogenea. Una citazione talmudica distingue sette tipi di farisei: «Il fariseo shikmi (che, come il biblico personaggio Sichem, si converte per opportunismo); il fariseo niqpi (che cammina a piccoli passi per ostentare umiltà); il fariseo kizai (che per non vedere le donne cammina a testa bassa e quindi picchia contro i muri e si copre di sangue); il fariseo pestello (che cammina curvo come il pestello nel mortaio); il fariseo che grida sempre (qual è il mio dovere perché io lo possa compiere?); il fariseo per amore e il fariseo per timore» (Talmud babilonese, Sotah 22b).
Ma che cosa dice la Scrittura a proposito dei precetti? «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme perché tu viva» (Dt 30,15-16). Ascoltando tali precetti – dopo la rivelazione sinaitica – il popolo disse a Mosè: «Tutto ciò che il Signore ha parlato, eseguiremo e ascolteremo» (Es 24,7). Dove si deve notare la precedenza dell’ »eseguire » sull’ »ascoltare », della prassi sulla riflessione.

Il rapporto di Paolo con la legge
Qual è la posizione di Paolo sui precetti? «Quelli che si richiamano alle opere della legge, stanno sotto la maledizione [...] e che nessuno possa giustificarsi davanti a Dio per la legge, risulta dal fatto che il giusto vivrà in virtù della fede [...]. Cristo ci ha salvati dalla maledizione della legge» (Gal 3,10-11.13). A questa e altre numerose negazioni della legge, Paolo alterna valutazioni di altro senso (per esempio in Rm 7,7.14-16). Tutto ciò deriva, a mio parere, da un’esperienza giovanile turbata e forse traumatica dell’osservanza dei precetti, come quella esemplificata nella citazione talmudica proposta sopra. Mi pare evidente che nella sua giovanile presenza farisaica il rapporto di Paolo con la legge non sia stato quello del « fariseo per amore ».
La sua colpa (che ha avuto conseguenze gravissime nelle interpretazioni cristiane dell’ebraismo) sta nell’aver generalizzato ed esclusivizzato il modello del fariseo kizai, e nell’aver ignorato una tradizione orale che insiste su quello che potremmo chiamare il significato sacramentale del precetto: il precetto, come il sacramento, non ha il suo significato nell’atto o nella materia prescritti, ma nella « provenienza ». Ossia: il precetto, come il sacramento, è un memoriale, una memoria attiva ed efficace, della volontà di Dio. Quando mi astengo, per esempio, da cibi proibiti, il vero senso del precetto è che io mi ricordo di Dio. Mi sia consentito riprendere in proposito quanto ho scritto nella mia Introduzione al giudaismo (Morcelliana 1999, pp. 74 -75). La presenza,Vetrata del duomo di Prato, 1459, realizzata su disegno di Filippo Lippi (foto Censi). l’incarnazione della volontà di Dio – potremmo dire di Dio in quanto volontà – è la radice biblica della halakhà, « norma ». Come afferma E. Levinas, la halakhà è un accesso all’intellettuale – direi alla conoscenza di Dio – a partire dall’obbedienza.
Leggiamo uno dei precetti biblici più incompresi dai non ebrei: «Parla ai figli di Israele e di’ loro che si facciano delle frange agli angoli delle loro vesti, per tutte le loro generazioni, e mettano alla frangia di ogni angolo un filo di porpora azzurra. E della frangia avverrà che quando la guarderete vi ricorderete di tutti i comandi del Signore, e li eseguirete, e non devierete dietro il vostro cuore e dietro i vostri occhi, al seguito dei quali vi siete prostituiti» (Nm 15,38-39). Se Paolo non avesse sofferto una situazione psicologica disturbata come quella del fariseo kizai, avrebbe compreso che i due versetti sono il cuore della Torà, perché contengono tre elementi assolutamente fondamentali: un comando di Dio, un comando spoglio di senso etico, e un collegamento del comando al ricordo. Potremmo aggiungere: al ricordo di Dio come voce. Proprio perché il valore dei precetti sta nella provenienza, si capisce quel detto midrashico secondo cui «non bisogna soffermarsi a ponderare sul valore dei precetti».
Il grande rabbi Jochanan ben Zakkaj, contemporaneo di Paolo, diceva: «Né il morto contamina né l’acqua purifica [che sono due principi della Torà] ma è il decreto del Re dei re, come dice il Santo benedetto sia: « Ho decretato i miei decreti e ho prescritto le mie prescrizioni, né l’uomo può violare il mio decreto »» (Midrash Rabbà a Numeri 19,8).
E due secoli dopo Rav – altro grande maestro della tradizione orale – diceva a proposito delle regole di macellazione rituale: «Forse importa al Santo, benedetto sia, che chi scanna l’animale lo colpisca al collo o lo colpisca alla nuca? Così, i precetti non sono stati dati se non allo scopo di purificare le creature» (Midrash Rabbà 6,2). Questi precetti « punteggiano » l’esistenza quotidiana, indipendentemente dall’eventuale formazione teologica del singolo: potremmo dire perciò che in un certo senso sono un modo che Dio ha di arrivare all’uomo comune. Ecco perché è stato affermato che Dio sta nel precetto (e, aggiungiamo noi, non soltanto nella morale).
La posizione, o meglio l’alternanza di posizioni di Paolo sui precetti (che, lo ripetiamo, è responsabile di gravissimi fraintendimenti dell’ebraismo da parte dei cristiani) è tuttavia, paradossalmente, un fattore intra-giudaico. Infatti il giudaismo si è sempre nutrito di discussioni anche violente, di divergenze profonde, come quelle famose, nel primo secolo, tra la scuola di Hillel e quella di Shammaj. Se i cristiani leggessero più criticamente le discordanti asserzioni di Paolo sui precetti, forse anch’essi, come i discepoli dei due maestri, sentirebbero una voce dal cielo che afferma: «Queste e quelle sono parole del Dio vivente». Ma ci vuole ancora pazienza e libertà.

La sua tensione messianica
Se l’ebraicità di Paolo emerge anche dalle sue ossessioni, c’è un altro elemento ebraico del pensiero paolino, che lo pone tra le più grandi – se non la più grande – personalità del Nuovo Testamento. Mi riferisco alla sua tensione messianica, tipica del medio giudaismo e radice perenne del cristianesimo. Essa trova il suo culmine in un passo della lettera ai Romani che vorrei fosse riletto da ogni ebreo e da ogni cristiano ogni giorno: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa, e nutre la speranza di essere liberata dalla corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati» (Romani 8,19-24).
E non dimentichiamo che questa è anche la speranza messianica di Dio.

Paolo De Benedetti

Vita Pastorale n. 9 ottobre 2009

PAOLO APOSTOLO E TESSITORE DI TENDE: LA BOTTEGA SOME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

http://www.saverianibrescia.com/missione_oggi.php?centro_missionario=archivio_rivista&rivista=&id_r=44&sezione=alla_luce_della_parola_&articolo=paolo_apostolo_e_tessitore_di_tende&id_a=1301

PAOLO APOSTOLO E TESSITORE DI TENDE: LA BOTTEGA SOME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

di: A cura della Redazione

Novembre 2008

L’articolo è tratto liberamente da una riflessione di Ronald F. Hock in The Social Context of Paul’s Ministry: Tentmaking and Apostleship, Philadelphia, Fortress 1980.

In uno dei suoi trattati politici, Plutarco critica alcuni filosofi perché rifiutavano di conversare con le autorità nel timore di essere considerati ambiziosi o troppo ossequienti. Per evitare il diffondersi di una tale situazione, Plutarco suggerisce che l’unica alternativa per l’uomo dalla mente aperta e desideroso di praticare la filosofia è fare l’artigiano, per esempio, il calzolaio, in modo da avere l’opportunità di conversare nella bottega, come Simone il calzolaio aveva fatto con Socrate. Questo suggerimento di Plutarco, che la bottega fosse un luogo che potesse ospitare discorsi intellettuali, è interessante e fa sorgere l’interrogativo se altre botteghe, specialmente quelle usate ai suoi tempi da Paolo, il tessitore di tende, nei suoi viaggi missionari, siano state utilizzate allo stesso modo nelle città della Grecia orientale. Questa tesi, pur avanzata dagli studiosi, non è mai stata studiata a fondo. Questo articolo è un tentativo di approfondire l’esame dei contesti sociali in cui si sono svolti la predicazione e l’insegnamento dei primi cristiani.
È noto che Paolo era un tessitore di tende. Questo suo lavoro è sempre stato considerato come un’eredità della sua tradizione ebraica. L’attività lavorativa di Paolo è considerata come un residuo della sua vita di fariseo ed è spiegata nei termini di un ideale rabbinico che cerca di associare lo studio della Torah con la pratica di un mestiere. Vorremmo ora portare il dibattito al di là dell’aspetto strettamente ebraico.

LA BOTTEGA DI PAOLO
Per una discussione sull’uso missionario della bottega da parte di Paolo, si deve sottolineare l’evidenza che lo colloca nelle botteghe delle città da lui visitate. Luca indica che Paolo aveva lavorato come tessitore di tende solo in Corinto e Efeso (At 18,3; 20,34); ma le Lettere di Paolo aggiungono Tessalonica (1 Ts 2,9) e – più importante – afferma che in generale la pratica missionaria era di lavorare per potersi mantenere (1 Cor 9,15 – 18). E allora, il riferimento di Paolo al lavoro di Barnaba per sostenere se stesso (1 Cor 9,6) dovrebbe coprire i cosiddetti primi viaggi missionari e la sua permanenza in Antiochia (At 13,1 – 14,25; 14,26-28; 15,30-35), il tempo in cui Luca pone Barnaba come suo compagno di viaggio. Il riferimento di Paolo al suo lavoro a Tessalonica (1 Ts 2,9) e la sua conferma dell’affermazione di Luca riguardante Corinto (1 Cor 4,12) si applicherebbe anche al secondo viaggio missionario (At 16,1 – 18,22). Il riferimento al suo lavoro in Efeso (cfr. 1 Cor 4,11: « fino ad ora »), di nuovo conferma il ritratto di Luca e la sua insistenza nel mantenersi economicamente, durante un futuro viaggio a Corinto (2 Co 12,14), confermerebbe questa pratica anche nel terzo viaggio missionario (At 18,23 – 21,16). In At 28,30 vediamo Paolo presumibilmente lavorare in seguito anche a Roma. In breve, le Lettere e gli Atti mettono in evidenza l’Apostolo nelle botteghe dove predicava e insegnava. Ma che cosa faceva Paolo nella bottega, oltre al suo lavoro di tessitura? Di cosa parlava? Sfruttava l’occasione per una predicazione missionaria?
Una risposta affermativa sembra verosimile, dato il suo impegno nella predicazione del Vangelo. Però né le Lettere, né gli Atti dicono esplicitamente che Paolo utilizzava la bottega per la predicazione. Il silenzio delle Lettere in proposito non è un problema, perché Paolo è di solito silenzioso o vago sulle circostanze della sua predicazione missionaria (cfr. per esempio 1 Cor 2,1-5). Con gli Atti tuttavia la situazione è diversa.
Il silenzio di Luca negli Atti può essere parzialmente spiegato perché l’evangelista era interessato a raccontare le esperienze di Paolo nella sinagoga. Solo in Atene, il centro della cultura greca e della filosofia, questo interesse è lasciato da parte in deferenza alle esperienze di Paolo al mercato (At 17,17) e specificatamente alle sue conversazioni con i filosofi stoici ed epicurei (ver.18) che portarono al discorso dell’Apostolo all’Aeropago (22-31). Qui Luca si avvicina molto nel menzionare le conversazioni della bottega, ma non lo fa, poiché le discussioni con i filosofi sono probabilmente da collocarsi sotto i portici della città, forse la Stoà di Attalos ad Atene.
La possibilità di fare conversazioni in bottega è intuibile da un brano delle Lettere di Paolo: il sommario dettagliato dell’attività missionaria dell’Apostolo nella città di Tessalonica (1 Ts 2,1-12). Al versetto 9, il lavoro e la predicazione sono accennati insieme: « Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il Vangelo di Dio ».

L’ATTIVITÀ MISSIONARIA
Se questi sei passi scelti dagli Atti e dalle Lettere parlano di Paolo che utilizzava le botteghe come contesti sociali per la sua predicazione missionaria, bisogna interpretare questi contesti come entità a sé, oppure confrontarli con la vita intellettuale delle città che egli ha visitato. Se la bottega è stata un contesto sociale dell’attività missionaria, per Luca questa era solo uno dei tanti luoghi in cui l’Apostolo predicava. Più frequentemente egli indica la sinagoga. Paolo predica nelle sinagoghe di Damasco (At 9,20), Gerusalemme (At 9,29), Salamide (At 13,5), Antiochia di Pisidia (At 13, 14, 44), Iconio (At 14,1), Tessalonica (At 17,1), Berea (At 17,10), Atene (At 17,17), Corinto (At 18,4) e Efeso (At 18,19; 19,8). Un altro contesto missionario importante è la casa, specialmente quelle di Lidia a Filippi (At 16,15, 40), di Tizio Giusto a Corinto (18,7) e di un cristiano non identificato a Triade (20,7-11) e di parecchie persone a Efeso (20, 20). Altre case devono essere incluse, anche se Luca non vi fa menzione di attività missionaria: la casa di Giasone a Tessalonica (17, 5-6), di Aquila e Priscilla a Corinto (18, 3), di Filippo a Cesarea (21, 8), di Mnasone di Cipro, presumibilmente a Gerusalemme (21, 16-17) e forse quelle di parecchi altri (cfr. 16,34; 21, 3-5, 7).
Ulteriori segni che indicano la varietà dei contesti sociali nella missione di Paolo sono la residenza del proconsole di Cipro, Sergio Paolo (13, 6-12), la porta della città in Listra (14, 7, 15-18), la scuola di Tiranno a Efeso (19, 9-10) e il pretorio a Cesarea (24, 24-26; 25, 23-27). Insomma, se la bottega era un contesto sociale per l’attività missionaria di Paolo, era solo uno dei tanti.

IL PULPITO, LA PIAZZA E LA BOTTEGA
La pratica dei filosofi sopra descritta può aiutarci a capire anche ciò che avveniva nella bottega di Paolo. Lo possiamo immaginare nelle lunghe ore al tavolo di lavoro mentre taglia e cuce le pelli per fare tende. Egli si rende autonomo economicamente, ma ha anche possibilità di portare avanti il suo impegno missionario (cfr. 1 Ts 2, 9). Seduti nella sua bottega troviamo i suoi compagni di lavoro o qualche visitatore, clienti e forse qualche curioso che aveva sentito parlare di questo « filosofo » tessitore di tende appena arrivato in città. In ogni caso sono tutti là ad ascoltare e a discutere con lui, che porta il discorso sugli dei ed esorta i presenti ad abbandonare gli idoli e a servire il Dio dei viventi (1, 9-10). In questo modo, certamente qualcuno degli ascoltatori, un compagno di lavoro, un cliente, un giovane aristocratico o forse anche un filosofo cinico, sarebbe stato curioso di sapere di più di Paolo, delle sue chiese, del suo Signore e sarebbe tornato per un colloquio privato (2, 11-12). Da queste conversazioni di bottega alcuni avrebbero accolto le sue parole come Parola di Dio (2, 13).
Per Paolo, il missionario, quindi, il pulpito della sinagoga non bastava, ma usciva anche in piazza ed entrava nella sua bottega. « Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16).

Il contesto storico
Esaminiamo la pratica paolina nel contesto della vita intellettuale della Grecia orientale dei suoi tempi. Ad Atene, nel quinto e quarto secolo a. C., alcuni contesti specifici, inclusa la bottega, erano diventati normali per l’attività intellettuale ed ancora esistevano ai tempi di Paolo. Senofonte descrive Socrate mentre discute di filosofia in varie botteghe, tra cui quelle di un pittore, di uno scultore, di un fabbricante di armature. Platone menziona le bancarelle del mercato come abituale ritrovo di Socrate. Naturalmente la bottega non era il suo solo ritrovo: lo si poteva trovare in altre parti del mercato, come la stoà o altri edifici pubblici, nel ginnasio o nelle case di amici. In un certo senso la pratica di Socrate era tipica dei suoi giorni, data l’abitudine della gente di frequentare i negozi e i banchi del mercato. Ma, in un altro senso, l’abitudine di Socrate era molto atipica, non solo a causa dell’alto contenuto intellettuale delle sue conversazioni, ma anche per l’effetto limitato che questa sua pratica ebbe sui filosofi che lo seguirono. A giudicare da quanto riferisce Diogene Laerzio, i discepoli di Socrate non discutevano di filosofia nella bottega, anche se alcuni di essi da studenti lo avevano accompagnato, per esempio, alla bottega del sellaio.
I seguaci di Socrate, scegliendo il ginnasio o altri edifici, praticavano una filosofia meno pubblica rispetto al loro maestro. Il numero delle persone che partecipava a queste discussioni nelle botteghe non poteva essere grande. Spesso erano solo in due, Socrate con Simone e Crate con Filisco. Gli argomenti trattati erano molti: dalle discussioni che riguardavano i commerci degli artigiani a temi più interessanti: gli dei, la giustizia, la virtù, il coraggio, la legge, l’amore, la musica, ecc.

IN VIAGGIO A MALTA PASSANDO PER IL VATICANO (O.R. 2010)

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/092q04a1.html

IN VIAGGIO A MALTA PASSANDO PER IL VATICANO (O.R. 2010)

di Antonio Paolucci

La recente visita del Papa a Malta mi ha fatto venire in mente un affresco dipinto nella Cappella Paolina di recente restaurata. Quel luogo sacro piccolo e privato, escluso dai percorsi turistici perché riservato all’esposizione del Santissimo Sacramento e al servizio liturgico per la Famiglia Pontificia, è celebre nel mondo perché ospita gli ultimi capolavori pittorici del vecchio Michelangelo. Sono gli affreschi con la Caduta di Saulo sulla via di Damasco e la Crocifissione di san Pietro, dipinti negli anni Quaranta del XVI secolo regnando Paolo III Farnese, il grande Papa che inaugurò il Giudizio Universale in Sistina il giorno di Ognissanti del 1541 e aprì, quattro anni dopo, il concilio di Trento. La Cappella Paolina si chiama così in omaggio al nome di Papa Farnese che la edificò e la volle decorata con le storie degli apostoli Pietro e Paolo. Era ed è destinata, come si è detto, a ospitare il Santissimo Sacramento e ad accogliere le liturgie e le preghiere del Papa. Le storie dei Principi degli apostoli sono quindi iconograficamente giustificate e anzi necessarie.
All’interno della cappella in ginocchio di fronte al Santissimo Sacramento, il Pontefice era (ed è) nella pienezza del suo ruolo ministeriale: custode del Corpus Christi, successore del Vicario (le Storie dell’apostolo Pietro), difensore e garante dell’ortodossia (le Storie di san Paolo).
Paolo III Farnese morì nel 1549. Michelangelo che era legato a quel Papa da speciali vincoli di amicizia e di gratitudine e che era inoltre assai avanti con gli anni e in cattiva salute, non volle continuare la decorazione pittorica della Cappella Paolina. Le ultime energie che gli restavano intendeva dedicarle alla progettazione della cupola. Avvenne così che il cantiere, lasciato interrotto dal Buonarroti, rimase deserto per più di venti anni. Fino a quando Gregorio xIII Boncompagni non ordinò ai pittori Lorenzo Sabatini e Federico Zuccari di concludere il ciclo in affresco con le restanti storie dei santi Pietro e Paolo. Ed ecco la Cappella Paolina così come la vediamo oggi, dopo l’ultimo restauro inaugurato da Benedetto XVI il 4 luglio dell’anno scorso.
Seguendo scrupolosamente il testo degli Atti degli Apostoli Sabatini e Zuccari rappresentarono nelle pareti e nella volta gli episodi salienti della vita di san Pietro e di san Paolo: la Disputa di Simon Mago, la Liberazione di Pietro dal carcere, l’Incontro con il centurione Cornelio, la Lapidazione di santo Stefano e così via.
Fra gli altri episodi (ecco il collegamento con il recentissimo viaggio del Papa) c’è, affidato al pennello di Federico Zuccari, l’episodio del Naufragio a Malta di san Paolo. Fra i fatti della vita dell’apostolo non è dei più conosciuti e dei più rappresentati. Eppure grande è il suo significato simbolico. Ce lo ricordava Benedetto XVI in uno dei suoi discorsi maltesi: « Da quel naufragio è nata per Malta la fortuna di avere la fede e anche noi possiamo pensare che i naufragi della nostra vita facciano parte del progetto di Dio e possono essere utili per un nuovo inizio ».
Il « nuovo inizio », per Paolo, è stato l’approdo a Roma con quello che questo ha significato per il futuro del cristianesimo, per la storia della nostra cultura e della nostra civiltà.
Il naufragio a Malta fu un incidente accaduto, diremmo oggi, durante un viaggio di « traduzione giudiziaria ». Tutto comincia a Gerusalemme dove la predicazione di Paolo aveva scatenato le ire degli Ebrei che lo volevano morto. L’amministrazione romana era, come è noto, tollerante e cinica. Lasciava volentieri che i sudditi delle province sottomesse risolvessero fra di loro le loro questioni. Non però in questo caso. Perché Paolo era cittadino romano e aveva diritto di appellarsi a Cesare. Nella patria del corpus iuris, nell’impero governato dalla legge, la procedura penale era una cosa seria. I governatori delle province avevano potestà istruttoria e giudicante fino alla sentenza capitale. Il processo a Gesù insegna. Non l’avevano però sui cittadini romani. Per questi ultimi lo ius gladii era prerogativa esclusiva di Cesare e cioè della magistratura romana. Queste cose Paolo le sapeva benissimo. Si dichiarò cittadino romano e si appellò all’imperatore garantendosi così una provvisoria impunità. In seguito, dopo essere stato trattenuto agli arresti domiciliari a Cesarea, venne trasferito per nave, con tanto di scorta armata, a Roma.
Fu un viaggio disastroso, funestato da tempeste e da venti contrari fino al naufragio di Malta. A questo punto lasciamo parlare gli Atti degli Apostoli. « Una volta in salvo venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli abitanti ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti intorno a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami secchi e lo gettava sul fuoco, una vipera saltò fuori a causa del calore e lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli abitanti dicevano fra di loro: « certamente costui è un assassino perché, sebbene scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere ». Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male. Quelli si aspettavano di vederlo gonfiare o cadere morto sul colpo ma, dopo aver molto atteso e vedendo che non gli succedeva nulla di straordinario, cambiarono parere e dicevano che egli era un dio » (28, 1-10).
Nell’affresco in Cappella Paolina Federico Zuccari fornisce una traduzione figurativa pressoché letterale del testo. L’apostolo si è messo al riparo in una grotta (sullo sfondo si vede la nave incagliata e sfasciata) lo circondano i compagni di sventura e gli isolani di cui gli Atti ricordano la « rara umanità » (complimento più bello non si può fare a un popolo e a una nazione) mentre si verifica il fatto della vipera.
C’è la catasta di legna secca, c’è il fuoco acceso e noi vediamo la serpe attaccata alla mano di Paolo. Mentre sgomento e orrore attraversano i volti degli astanti.
Il lieto fine lo conosciamo. Vale la pena di notare che il passo degli Atti degli Apostoli dedicato al naufragio maltese (venticinque righe in tutto) si conclude con un ulteriore elogio della umanità e generosità degli isolani. Il governatore Publio accolse Paolo e i suoi compagni « con benevolenza », i maltesi li « colmarono di molti onori » e al momento della partenza per Roma li « rifornirono del necessario ». È quasi una prefigurazione della generosità e del calore con i quali l’isola di Malta ha ospitato, nei giorni scorsi, Papa Benedetto XVI. 

PAOLO, TREDICESIMO APOSTOLO. SIGNIFICATO DEL TERMINE. – IGNAZIO SANNA

http://www.ignaziosanna.com/files/Paolo-tredicesimo-apostolo.pdf

PAOLO, TREDICESIMO APOSTOLO.

SIGNIFICATO DEL TERMINE.

IGNAZIO SANNA

I Vangeli ci dicono che gli apostoli sono dodici e che sono stati scelti da Gesù di Nazareth. Gli apostoli, rimasti in undici, dopo il tradimento di Giuda, sono ritornati al numero di 12, dopo che viene eletto il sostituto del traditore nella persona di Mattia. Paolo è il “tredicesimo” apostolo ed è stato scelto da Gesù Cristo. La tradizione parla della differenza tra Gesù di Nazareth e Gesù Cristo. Il primo nome indica il Gesù della storia, che è vissuto poco più di trent’anni nella Palestina; ha insegnato la buona novella; ha guarito molti malati; è stato processato e condannato a morte. Il secondo nome indica il Gesù della fede, “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti”. In base a ciò, è il Gesù risorto che sta nei cieli che elesse Paolo come apostolo. Oggi come oggi, questa è la modalità con cui Dio sceglie gli apostoli. Gli Apostoli di oggi sono i testimoni del Risorto.
Definizione personale.
Come descrive in prima persona la sua personalità S . Paolo? Egli si definisce come “servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione” (Rm 1,1). “Apostolo per volontà di Dio” (2Cor 1,1). “Io sono un giudeo, nato a Tarso in Cilicia, ma educato in questa città (Gerusalemme), formato alla scuola di Gamaliele nell’osservanza scrupolosa della Legge dei padri, pieno di Zelo per Dio” (At 22, 3)
“Circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’ Israele, della tribù di Beniamino. Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile” (Fil 3,5).
Paolo identifica la sua personalità con quella di G esù. Dal momento dell’incontro con Gesù, egli giudica ogni altra cosa come spazzatura. La sua identità è Gesù stesso. Nella vita delle persone comuni, invece, ciò che costituisce la fonte dell’i dentità è un’idea, l’incontro con una persona, una esperienza personale.
Definizione della Chiesa.
Come descrive la Tradizione in terza persona la personalità di Paolo? L’ appellativo più comune è quello di “Apostolo delle genti”. In effetti, S. Pa olo è figlio di tre culture: ebreo, cittadino romano, ellenista; Saul, Paolo, Apostolo, e porta l’annuncio cristiano nel mondo pagano.
Dati biografici.
Paolo è nato a Tarso, una cittadina al confine conla Siria, tra il 7 e il 10 d.C. Il padre aveva ottenuto la cittadinanza romana e, dunque, Saulo, un giudeo della diaspora, era cittadino romano. Nel 35 si converte sulla via di Damasco. Dopo la conversione, negli anni 35-38, sosta in Arabia e a Damasco. Nel 38 compie la prima visita a Gerusalemme. Negli anni 39-52, partendo da Antiochia compie il primo viaggio missionario che lo porta a Cipro. Negli anni 50-52, nel corso del secondo viaggio missionario, si ferma 18 mesi a Corinto. Nel 52 si reca all’Assemblea a Gerusalemme. Negli anni 55-57, subisce l’arresto a Gerusalemme ed è trasferito in prigionia a Cesarea. Verso il 57-58 compie il viaggio verso Roma, dove rimane agli arresti domiciliari per i primi due anni. Sotto la persecuzione di Nerone, viene martirizzato sulla via Ostiense.
Attività missionaria
Nell’anno 35 o 36, Saulo, non ancora trentenne e zelante sostenitore del più rigido giudaismo farisaico, partecipa al martirio di Stefano (At 7, 58) ed approva la sua uccisione. Con la legittimazione delle autorità religiose di Gerusale mme si dirige verso Damasco per arrestare i cristiani. “Mentre era in viaggio e stava per avvic inarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo, e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 22, 7).
Nell’anno 39, ricevuto il battesimo, Paolo viene istruito sui contenuti della fede. Per tre anni si ritira nel deserto d’Arabia. Ritorna a Damasco, ma è costretto a fuggire, calato di notte dalle mura in una cesta. A Gerusalemme vive la Chiesa Madre, presieduta dall’apostolo Giacomo. Paolo vi fa ingresso grazie alla presentazione autorevole dell’apostolo Barnaba, ebreo originario di Cipro. La Chiesa Madre, centro del giudaismo cristiano, è il luogo di verifica della missione degli apostoli. Nella sua permanenza a Gerusalemme, Agli ebrei della diaspora presenti nella Città santa Paolo rivolge il suo annuncio in tutta libertà e iniziano i primi contrasti.
Negli anni 44-49 si trova a Gerusalemme ma deve fuggire anche da qui. Torna a Tarso. Barnaba va a cercarlo per portarlo ad Antiochia, città cosmopo lita, dove c’era una fiorente comunità cristiana. Vi rimase un anno intero. Qui per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani. La chiesa di Antiochia diviene il riferimento della missione tra i pagani, così come Gerusalemme lo è per la missione tra i giudei.
Antiochia capitale della Siria è la base di partenza dei tre viaggi missionari di Paolo nei quali compie circa tredicimila chilometri, molti dei quali a piedi. Il primo viaggio vede Cipro come prima tappa. Qui, il proconsole romano Sergio Paolo diventa credente. In questo primo viaggio missionario, Paolo sperimenterà avversità e soffere nze di ogni sorta: fustigazioni, lapidazioni, naufragi, pericolo e travagli.
Nel 49, dopo tre anni, nei quali ha percorso le strade di Cipro, della Panfilia e della Galazia, torna ad Antiochia. Di lì parte un anno dopo per il secondo viaggio missionario. L’evangelizzazione tra i pagani si estende in poco tempo. La missione in Asia Minore non avviene senza tensioni e discussioni all’interno della Chiesa primitiva. Il punto di contrasto in questo caso è il seguente: è necessario farsi circoncidere, dunque assumere il segno di appartenenza al popolo di Israele, per essere salvi in Gesù Cristo, come sostengono i cristiani di stretta osservanza farisaica, oppure è sufficiente la fede in Lui, come sostengono Paolo e Barnaba? La questione viene risolta con il ritorno alla Chiesa Madre di Gerusalemme, secondo la cui decisione finale ai pagani è richiesta solamente l’osservanza delle norme di purità ritual e.
Negli anni 50-52, via terra va verso nord per visitare le comunità fondate durante il primo viaggio. Giunge alle coste occidentali della Turchia, al porto di Troade; poi va a Filippi, città della provinc ia macedone. In terra di Grecia, la prima comunità cri stiana è Filippi. Qui è costretto ad accettare l’ospitalità di una neoconvertita, Lidia. A Filippi fu accolto molto bene. I Filippesi gli aprirono un conto. Lo sostennero durante la prigionia ad Efeso.
Le tappe successive del secondo viaggio missionario sono Tessalonica, Atene e infine Corinto. A Tessalonica, Paolo usava recarsi nella sinagoga dei giudei e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture. Ad Atene, nonostante il rifiuto e il fallimento dell’Areopago, si convertirono Dionigi, membro dell’Areopago, una donna di nome Dà maris e altri con loro.
A Corinto Paolo resta circa una anno e mezzo, per poi ritornare ad Antiochia da dove riparte due anni dopo.
Negli anni 54-57 compie il terzo viaggio missionario. Il terzo viaggio segue parzialmente l’itinerario del secondo: visita le comunità della Galazia e della Frigia fondate durante i viaggi precedenti. Per oltre due anni rimase ad Efeso, capitale della provincia romana dell’Asia, da dove prosegue a Mileto. In questa città, nel 58, convoca ti gli anziani della chiesa di Efeso, dà loro le ultime raccomandazioni, sapendo che non avrebbero più rivisto il suo volto. Costeggiando il Mar Egeo, si reca in Macedonia e in Acaia. Visita nuovamente Filippi e Corinto. Per mare, ritorna a Cesarea, dove riceve il primo annuncio del suo martirio.
Gerusalemme sarà per Paolo il punto di partenza per un nuovo viaggio missionario. Come i suoi precedenti viaggi iniziavano e finivano ad Antiocha, così dalla Città santa inizierà il viaggio che si concluderà nella capitale dell’Impero. Da Cesarea s ale a Gerusalemme, dove viene riconosciuto e trascinato fuori dal tempio per essere ucciso. Viene salvato dal tribuno della coorte che lo arresta e lo conduce alla fortezza Antonia. Di qui chiede di portare la propria difesa ai fratelli e padri ebrei. Siccome la ragione della rivolta dei Giudei contro Paolo è prettamente religiosa, il tribuno pensa di affidare la causa al tribunale del sinedrio.
La ragione della disputa sono le parole di Paolo circa la risurrezione. Anche per il mondo giudaico, infatti, come lo fu per il mondo pagano, la risurrezione è uno scandalo. Negli anni 58-60, informato di un complotto per uccidere Paolo, cittadino romano per nascita, il tribuno dà ordine di condurlo sano e salvo a Cesarea. Vi rimane due anni in prigione.
Poiché Paolo si è appellato a Cesare, il nuovo governatore Festo lo invia a Roma. Durante il viaggio la nave naufraga sull’isola di Malta. Siamo negli anni 60-61.
Dopo tre mesi riprende il viaggio. Fa scalo a Siracusa e a Reggio Calabria. Infine sbarca a Pozzuoli, dove rimane una settimana. Parte poi per Roma. Qui vive per due anni in una casa con un soldato di guardia.
Anno 67. “Paolo nel quattordicesimo anno di Nerone fu decapitato a causa di Cristo e fu sepolto nella via Ostiense, il ventesimo anno dopo la passione di nostro Signore” (S. Girolamo).
“Durante il regno di Nerone Paolo fu decapitato pro prio a Roma e Pietro vi fu crocifisso: il racconto è confermato dal nome di Pietro e di Paolo che è ancor oggi conservato sui loro sepolcri in quella città” (Eusebio di Cesarea).

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