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SUI PASSI DI PAOLO IN TURCHIA, « CULLA » DEL CRISTIANESIMO (2008)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_brogi3.htm

SUI PASSI DI PAOLO IN TURCHIA, « CULLA » DEL CRISTIANESIMO (2008)

Antiochia, Efeso, Tarso, Iconio, Cesarea di Cappadocia…
A pochi giorni dall’apertura dell’ »Anno Paolino », il 29 giugno,
ecco cosa resta del passaggio dell’ »Apostolo delle Genti » in Asia Minore.
Là dove sbocciò la Chiesa, e oggi dominano « islam » e « laicismo atatürkiano ».

Dal nostro inviato in Turchia, Anna Maria Brogi
(« Avvenire », 8/6/’08)

Sventola la bandiera con la mezzaluna e la stella su fondo rosso, davanti alla Chiesa di San Pietro ad Antiochia. Sventola per affermare il primato statale. Da questa balconata naturale sulla città e sul Mediterraneo, più che a una Chiesa si accede a una grotta, scavata dall’acqua nel Monte Staurino. O meglio a un sito « museale », come rivela la biglietteria. Per entrare sul « sagrato-terrazza », con i pini e gli olivi, ci vogliono cinque lire turche (due euro e mezzo).
Il panorama le vale. Nella Chiesa solo un altare spoglio, una statuetta di Pietro e il « trono » del Santo. Collocati negli anni Trenta, sono posteriori alla facciata di marmo ricamata sul grigio del calcare nel 1863. Dal basso sale l’odore della polvere. Un « caos » senza rumore, attutito dalla distanza e dal vento. Questa è Antiochia di Siria, sull’Oronte, dove fuggirono molti ebrei cristiani al tempo delle prime persecuzioni. Qui arrivò Paolo, chiamato da Barnaba, intorno all’anno 46. E qui avvenne l’incontro con Pietro, narrato nella « Lettera ai Galati ». Forse fu proprio in questa cavità naturale: quale rifugio più amico per una comunità di profughi?
Oggi la Chiesetta torna a vivere di tanto in tanto grazie ai pellegrini, che con un permesso vi celebrano Messa. Diventa la casa di tutti il 29 giugno, festività dei Santi Pietro e Paolo, quando accoglie i cristiani locali (un migliaio di differenti riti e confessioni) insieme con le comunità di ebrei e musulmani.
Dal porto di Antiochia Paolo salpò per i suoi tre viaggi, che lo portarono nel Mediterraneo orientale su un percorso di 25mila chilometri.
Non sembra ricordarsene la città, che pure è « crocevia » dei tre « monoteismi ». Aleppo, in Siria, dista appena ottanta chilometri; ancora meno i resti, sempre oltre frontiera, della Basilica di San Simeone lo Stilita.
Di tanta eredità « paleocristiana », in Turchia sembrano riecheggiare quasi solo i « toponimi ».
Antiochia, Efeso, Tarso, Iconio, Cesarea di Cappadocia (le odierne Konya e Kayseri). Bastano a evocare personaggi e vicende dei primi secoli di evangelizzazione. In quest’ »Anno Paolino », che si aprirà ufficialmente il 29 giugno, si è deciso di valorizzare questi luoghi, per farne bandiera di benvenuto ai pellegrini d’Europa. E dunque a Tarso uno striscione proclama « St. Paul Yili 2008″, in turco e in inglese (« The Pauline Year »).
Sono già arrivati i venditori di « gadget », dalle « iconcine segnalibro » ai cappellini di tela. Ma è l’unico indizio di qualcosa nell’aria. Nelle « viuzze » dell’antico quartiere ebraico, dove Paolo nacque e dove restano le fondamenta della tradizionale « casa », si respira un’atmosfera giovanile da anni Settanta. La zona « pullula » di caffè e « narghilé bar »: nei freschi interni e nei cortili ombreggiati i ragazzi « strimpellano » la chitarra e le ragazze improvvisano cori, tra un tiro e l’altro della pipa ad acqua. Un cartello racconta la storia di Paolo.
È scritto in inglese e l’ha posto, nel 1988, la municipalità. Di stranieri, ne arrivano: la regione, stretta tra i monti Tauro e il Mediterraneo, costellata di torrenti e cascate, ha una forte vocazione turistica e richiama gli appassionati delle attività all’aria aperta. Nel Medioevo qui passavano i pellegrini sulla via di Gerusalemme.
Oggi come allora, si può sostare al pozzo di San Paolo e berne l’acqua in segno di benedizione: è stato ripulito e l’acqua è tornata potabile. Di Paolo a Tarso resta anche una Chiesa, costruita nell’Ottocento dai cristiani armeni. Non più in uso, è un sito « museale ». In attesa di rianimarsi.
Musei all’aperto, fin troppo animati, sono la Cappadocia ed Efeso, mete obbligate del turismo culturale. Accomunate dal cristianesimo delle origini, mantengono pallida traccia di quel loro passato. Nel Parco di Göreme, con le Chiese rupestri, un affresco lascia intuire il volto di Paolo. E nella valle dei « camini delle fate », la più famosa della Cappadocia, le guide raccontano ai pellegrini del passaggio dell’Apostolo da una Chiesetta scavata in quei coni di tufo. Di certo c’è che qui Paolo è transitato, poiché vi si trovava una comunità cristiana, e nel primo secolo la cavità esisteva, pur non essendo Chiesa. Ma la bellezza del sito e la « bizzarria » geologica bastano a soddisfare le aspettative di chi va di fretta.
Chi invece sia disposto a ricalcare a passo lento le orme dell’Apostolo può muoversi lungo il « Cammino di San Paolo » (« St. Paul Trail »), un percorso di « trekking » di montagna segnato su sentiero dal 2004: cinquecento chilometri da Perge, vicino ad Antalya, fino a Yalvaç (Antiochia di Pisidia), con un ramo che parte da Aspendos per raggiungere il sito romano di Adada. Fuori dalle rotte del turismo di massa, Antiochia di Pisidia fu sede episcopale e uno dei centri principali del cristianesimo in Asia Minore.
Distrutta dalle invasioni arabe nel settimo secolo, conserva le fondamenta della sinagoga dove predicò Paolo, poi trasformata in Basilica.
Se il sito non è paragonabile alle glorie di Efeso, ha il pregio del silenzio e invita alla meditazione.
A Efeso poco resta di archeologia cristiana.
Splendide le vie « colonnate » e le terme, le case del pendio con affreschi e mosaici, la biblioteca di Celso. Mirabilmente intatta la struttura urbanistica. E il Teatro, dove andò in scena quella « rivolta degli orefici » che costrinse l’Apostolo a lasciare la città. Oggi gli studenti vi improvvisano recite e ha ospitato un concerto di Sting. La città di marmo bianco continua a dare spettacolo della propria opulenza. Anche qui, l’impronta cristiana rischia di sfuggire e va inseguita: San Paolo vi abitò per due anni e mezzo, ma l’unico riferimento archeologico certo è il Teatro. Non c’è neanche un cartello, poi, a indicare i resti della Basilica del Concilio. Si trovano subito dopo l’ingresso della « città bassa » (o prima dell’uscita per chi entra dall’alto), prendendo il sentiero sulla destra. Si arriva in un campo e, in mezzo all’erba, stanno quelle pietre così poco sontuose ma che delimitano il luogo dove si riunirono nel 431 i « padri conciliari » e dove proclamarono il « dogma » della « Madre di Dio ». Una targa ricorda che qui pregò Paolo VI il 26 luglio del 1962. Ai turisti non interessa, dicono le guide: «Qui vengono solo i pellegrini».

25.000 chilometri di Vangelo e persecuzioni
Il primo dei tre viaggi missionari di Paolo in Anatolia risale agli anni 46-47. L’Apostolo era accompagnato da Barnaba e dal cugino di lui, Giovanni Marco. Salparono da Antiochia alla volta di Cipro, sbarcando a Salamina.
All’altro capo dell’isola, nella città di Pafo, furono testimoni della conversione del governatore romano Sergio Paolo. Da Pafo si imbarcarono di nuovo, raggiungendo Perge nei pressi dell’attuale Antalya.
Da lì si inoltrarono nell’entroterra, spingendosi nel cuore dell’Anatolia centrale, e predicarono il Vangelo ad Antiochia di Pisidia, Iconio, Listri e Derbe. Più tardi, nelle « Lettere », Paolo racconterà le fatiche e le difficoltà di questo primo viaggio, che suscitò molte conversioni ma anche frequenti persecuzioni e ostilità da parte sia degli ebrei sia dei pagani. Paolo ritornò ad Antiochia lungo la stessa strada, salpando da Attaleia (oggi Antalya).
Nel 49 l’Apostolo ripartì, accompagnato da Sila. Visitò i cristiani di Derbe, Listra, Iconio e Antiochia di Pisidia. Dall’Anatolia centrale si spostò poi nella regione nord-occidentale, la Misia. Da lì passò in Macedonia e in Grecia e, sulla via del ritorno verso la « Terra Santa », si fermò per breve tempo a Efeso.
Nel terzo viaggio, tra il 53 e il 57, passò per Derbe, Listri, Iconio e Antiochia di Pisidia. Da qui si recò a Efeso, dove visse quasi tre anni. A quel periodo risalgono molte delle « Lettere » e forse un breve viaggio a Corinto. Costretto a lasciare Efeso in seguito alla rivolta degli « argentieri » – i quali si ritenevano minacciati dal diffondersi del nuovo culto, che avrebbe « soppiantato » quello della dea Artemide, della quale vendevano statuette d’oro – si recò nella Troade e da lì a Mileto. Proprio a Mileto Paolo convocò gli « anziani » della comunità cristiana di Efeso, ammonendoli a guardarsi non solo dai nemici ma anche dalle insidie interne. Durante il viaggio di ritorno, via mare, in « Terra Santa » fece tappa a Patara in Licia. Al termine del terzo viaggio missionario, l’Apostolo rientrò a Gerusalemme dove nel 59 fu arrestato e, in quanto cittadino romano che si « appellava » all’imperatore, imbarcato alla volta di Roma.

L’ITINERARIO SPIRITUALE DI PAOLO E DELLA SUA SCUOLA

http://www.gliscritti.it/approf/2006/saggi/epistolario/epistolario3.htm

25 GENNAIO CONVERSIONE DI SAN PAOLO

L’ITINERARIO SPIRITUALE DI PAOLO E DELLA SUA SCUOLA

Indice

a. L’itinerario spirituale di Paolo
b. Raggruppamento delle lettere paoline in sei gruppi tematici

a. L’itinerario spirituale di Paolo
J. A. Fitzmyer ha usato l’espressione: «Spiritual journey of the Apostle Paul» per il titolo del capitolo introduttivo di According to Paul. Studies in the Theology of the Apostle (New York – Mahwah, NJ, 1993), 1. Con quell’espressione Fitzmyer intende parlare del viaggio spirituale che Paolo ha compiuto per passare dal farisaismo alla fede in Gesù e al servizio di lui come apostolo. Invece L. Cerfaux († 1968), richiesto di riassumere in forma divulgativa la sua trilogia paolina sul Cristo (Paris 1954, Roma 1969), sul cristiano (Paris 1962, Roma 1969), sulla Chiesa (Paris 1965, Roma 1968), ha dato a quel libro riassuntivo lo stesso titolo: «L’itinéraire spirituel de Saint Paul». Ma con la stessa espressione Cerfaux ha inteso dire una cosa diversa. Nell’introduzione, egli spiega quel titolo: «Itinerario perché ci sforziamo (…) di accompagnare Paolo lungo le vie romane o per le rotte marittime che dall’oriente portavano verso la capitale dell’impero di Augusto (…) in funzione delle esperienze apostoliche di Paolo in Macedonia, a Corinto, in Asia Minore e poi a Roma. Spirituale è preso nel senso più estensivo, che abbraccia cioè tutta l’attività umana fino al pensiero, teologia compresa, azione e pensiero vivificati da una profonda unione con Dio» (traduzione italiana, Torino 1976, p. 7). La vera spiegazione di “itinerario spirituale” però è data da Cerfaux quando precisa che, invece di riassumere davvero i suoi tre libri, ha preferito presentare “lo sviluppo del pensiero paolino” (p. 7). Il pensiero e la teologia di Paolo infatti sono stati in continua evoluzione perché, nella necessità di adattarsi ai suoi interlocutori, egli ha esplicitato conseguenze sempre nuove dal mistero del Cristo che gli è stato rivelato a Damasco.
Il senso dato da L. Cerfaux a “itinerario spirituale” è utile per mettere in successione le lettere di Paolo: non secondo l’ordine (= ordine di importanza e di lunghezza) che esse hanno nella lista canonica di Trento (Enchiridion Biblicum n. 59) e nelle nostre bibbie, ma secondo l’evoluzione teologico-pastorale di Paolo. Seguendo dunque lo sviluppo del pensiero di Paolo e della sua scuola -a scopo didattico e non senza approssimazioni -, si possono organizzare le lettere dell’epistolario paolino in sei blocchi, in base ai temi in esse dominanti.

b. Raggruppamento delle lettere paoline in sei gruppi tematici
Le lettere più antiche, quelle ai Tessalonicesi, sono dominate dal tema dell’escatologia (primo gruppo). La comunità di Corinto ha poi però costretto Paolo a fare i conti con il desiderio diffuso anche a livello popolare di quella sapienza che egli chiama “sapienza umana”, “sapienza di questo mondo”. Si trattava probabilmente di un platonismo popolare che portava ad accogliere entusiasticamente la resurrezione del Cristo, ma a respingere la sua croce: nelle lettere ai Corinzi, Paolo sviluppa allora il tema della “sapienza della croce” annunciando il Cristo crocefisso e parlando della debolezza dell’apostolo come condizione della sua vera forza (secondo gruppo). Dopo avere confrontato la morte e resurrezione del Cristo con la sapienza greca, Paolo ha poi dovuto confrontarla con la legge mosaica. Così nelle lettere ai Galati, ai Romani e ai Filippesi ha approfondito nel suo annuncio evangelico il tema della giustificazione e della salvezza che Dio dona gratuitamente non in base alle opere delle Legge ma in base alla fede nel Cristo e nella sua Pasqua (terzo gruppo). La lettera ai Colossesi (alla quale per altri motivi dev’essere unita anche quella a Filemone) e soprattutto la lettera agli Efesini sviluppano il tema della chiesa come corpo del Cristo suo capo (quarto gruppo). Della chiesa parlano anche le lettere chiamate “pastorali”, ma più dal punto di vista istituzionale che non da quello del mistero cristologico, essendo dettate dal bisogno di equipaggiare il cristianesimo e la chiesa in vista di un lungo cammino nella storia attraverso l’organizzazione ministeriale e la difesa del depositum fidei (quinto gruppo). Anche se non contiene il nome di Paolo e anche se è solo vagamente paolina, la lettera agli Ebrei è stata tradizionalmente collegata con l’epistolario paolino: il suo tema, che non ha sviluppi paralleli in nessuno degli altri documenti neotestamentari, è quello del sacerdozio e del sacrificio del Cristo (sesto gruppo).
Paolo ha dunque cominciato «sotto l’impronta dominante della tradizione arcaica della chiesa di Gerusalemme e della visione di Damasco, annunciando l’intervento escatologico di Dio anticipato nella resurrezione del Cristo» (CERFAUX, L’itinerario, 8). Alla fine del suo epistolario invece, nelle Pastorali, è come se a lasciare il segno ci sia il diritto romano: c’è «una teologia [che] si è semplificata ed ha preso un tono più pratico, adatto ai bisogni di una chiesa di cui è necessario consolidare l’organizzazione e prevedere la stabilità, rafforzandone la fedeltà alla tradizione» (CERFAUX, L’itinerario, 136). Creativo e capace di rispondere a ogni esigenza e provocazione, prima personalmente e poi attraverso la sua scuola di pensiero, Paolo ha spaziato dall’escatologia, alla soteriologia, all’ecclesiologia, alla chiesa nella storia, al sacerdozio di Cristo.

CONVERSIONE E BATTESIMO DI SAULO ANNO DI CRISTO 34.

http://rosarioonline.altervista.org/index.php/santorosario/sezione/it/meditazioni/giugno-VitaDiSanPaolo-DonBosco/2

CONVERSIONE E BATTESIMO DI SAULO ANNO DI CRISTO 34.

Il furore di Saulo non poteva saziarsi; egli non respirava che minacce e stragi contro ai discepoli del Signore. Avendo inteso che in Damasco, città distante circa cinquanta miglia da Gerusalemme, molti Giudei ave ano abbracciata la fede, si sentì ardere di furibondo desiderio di recarsi colà a farne strage. Per fare liberamente quanto gli fosse per suggerire il suo odio contro ai Cristiani, andò dal principe dei sacerdoti e dal senato che con lettere lo autorizzarono di andare in Damasco, incatenare tutti i Giudei che si dichiarassero Cristiani e quindi condurli in Gerusalemme ed ivi punirli con una severità capace di arrestare quelli che fossero stati tentati d’imitarli.
Ma sono vani i progetti degli uomini quando sono contrari a quelli del Cielo! Dio, mosso dalle preghiere di s. Stefano e degli altri fedeli perseguitati, volle manifestare in Saulo la sua potenza e la sua misericordia. Saulo colle sue lettere commendatizie pieno di ardore divorando la strada era vicino alla città di Damasco, e già. gli sembrava di avere i Cristiani fra le mani. Ma quello era il luogo della divina misericordia.
Nell’impeto del suo cieco furore, verso il mezzodì una gran luce, più risplendente che quella del sole, lo circonda con tutti quelli che l’accompagnavano. Sbalorditi da quel celeste splendore caddero tutti a terra come morti: nel tempo stesso intesero il rumore di una voce solamente compresa da Saulo. Saulo, Saulo, disse la voce, perchè mi perseguiti? Allora Saulo ancora più spaventato ripigliò: Chi siete voi, che parlate? Io sono, continuò la voce, quel Gesù che tu perseguiti. Ricordati che è cosa troppo dura il trar calci contro allo sperone, il che tu fai resistendo ad uno più potente di te. Perseguitando la mia Chiesa, tu perseguiti me stesso; ma questa diverrà più fiorente, e non farai male che a te stesso.
Questo dolce rimprovero del Salvatore accompagnato dall’ unzione interna della sua grazia raddolcì la durezza del cuore di Saulo e lo cangiò in un uomo affatto nuovo. Pertanto tutto umiliato: Signore, esclamò, che volete che io faccia? Come se dicesse: Quale è il mezzo di procurare la vostra gloria? Io mi offro a voi per fare la vostra santissima volontà.
Gesù Cristo ordinò a Saulo di levarsi su e andare nella città ove un discepolo avrebbelo istruito intorno a ciò che doveva fare. Dio, dice s. Agostino, rimettendo a’ suoi ministri l’istruzione di un apostolo chiamato in una maniera così straordinaria ci ammaestra che bisogna cercare la sua santa volontà nell’ insegnamento dei Pastori, che egli ha rivestiti di sua autorità per essere nostre guide spirituali sopra la terra.
Saulo essendosi alzato non vedeva più nulla, sebbene tenesse gli occhi aperti. Quindi fu d’uopo dargli mano e condurlo a Damasco, come se Gesù Cristo volesse condurlo in trionfo. Egli prese alloggio nella casa di un negoziante nominato Giuda; ivi dimorò tre giorni senza vedere, senza bere e senza mangiare, ignorando tuttora ciò che Dio volesse da lui.
Eravi a Damasco un discepolo nominato Anania molto stimato da’ Giudei per la sua virtù e santita. Gesù Cristo gli apparve e gli disse: Anania! ed egli a lui: Eccomi, o Signore. Il Signore soggiunse: Levati su e va nella via chiamata Diritta, e cerca di un certo Saulo nativo di Tarso; tu lo troverai mentre fa orazione. Anania, sentito il nome di Saulo, tremò e disse: Deh! Signore, dove mai mi mandate! Voi ben sapete il gran male che ha fatto ai fedeli in Gerusalemme; ora si sa da tutti che egli è venuto qua con pieno potere di legare tutti coloro che credono nel vostro Nome. Il Signore replicò: va pure tranquillo, non temere, perchè quest’uomo è un istrumento scelto da me per portare il mio nome ai gentili, dinanzi ai re e dinanzi ai figliuoli d’Israele; perciocchè io gli farò vedere quanto egli debba patire pel mio nome. Mentre Gesù Cristo parlava ad Anania mandò a Saulo un’ altra visione in cui gli apparve un uomo, chiamato Anania, che avvicinandosi a lui, gl’ imponeva le mani per ridonargli la vista. La qual cosa fece il Signore per assicurare Saulo che Anania era colui che mandava per manifestargli i suoi voleri.
Anania obbedì, andò a trovare Saulo, gl’impose le mani e gli disse: Saulo fratello, il Signore Gesù che ti apparve nella strada, per cui venivi a Damasco, mi ha mandato a te, affinchè ricuperi la vista e sii ripieno dello Spirito Santo. Parlando così Anania e tenendo le mani sul Capo di Saulo soggiunse: apri gli occhi. In quel momento caddero dagli occhi di Saulo certe scaglie come squame, ed egli ricuperò perfettamente la vista.
Quindi Anania soggiunse: ora levati su e ricevi il Battesimo, e lava i tuoi peccati invocando il nome del Signore. Saulo si levò tosto per ricevere il Battesimo; quindi tutto pieno di gioia ristorò la sua stanchezza con un po’ di cibo. Passati appena alcuni giorni coi discepoli di Damasco, si mise a predicare il Vangelo nelle sinagoghe dimostrando colle sacre Scritture che Gesù era figliuolo di Dio. Tutti quelli che lo ascoltavano erano pieni di stupore e andavano dicendo: non è egli costui che in. Gerusalemme perseguitava coloro che invocavano il nome di Gesù e che è venuto a bella posta a Damasco per condurli colà prigionieri?
Ma Saulo aveva già superato ogni rispetto umano; egli nulla più desiderava che promuovere la gloria di Dio e riparare lo scandalo dato; perciò lasciando che ognuno dicesse di lui quel che voleva, confondeva gli Ebrei e con intrepidezza predicava Gesù Crocifisso.

BENEDETTO XVI – SAN PAOLO (20) – IL MARTIRIO E L’EREDITÀ DI SAN PAOLO

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2009/documents/hf_ben-xvi_aud_20090204.html

BENEDETTO XVI – SAN PAOLO (20) – IL MARTIRIO E L’EREDITÀ DI SAN PAOLO

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 4 febbraio 2009

Cari fratelli e sorelle,

la serie delle nostre catechesi sulla figura di san Paolo è arrivata alla sua conclusione: vogliamo parlare oggi del termine della sua vita terrena. L’antica tradizione cristiana testimonia unanimemente che la morte di Paolo avvenne in conseguenza del martirio subito qui a Roma. Gli scritti del Nuovo Testamento non ci riportano il fatto. Gli Atti degli Apostoli terminano il loro racconto accennando alla condizione di prigionia dell’Apostolo, che poteva tuttavia accogliere tutti quelli che andavano da lui (cfr At 28,30-31). Solo nella seconda Lettera a Timoteo troviamo queste sue parole premonitrici: “Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele” (2 Tm 4,6; cfr Fil 2,17). Si usano qui due immagini, quella cultuale del sacrificio, che Paolo aveva usato già nella Lettera ai Filippesi interpretando il martirio come parte del sacrificio di Cristo, e quella marinaresca del mollare gli ormeggi: due immagini che insieme alludono discretamente all’evento della morte e di una morte cruenta.
La prima testimonianza esplicita sulla fine di san Paolo ci viene dalla metà degli anni 90 del secolo I, quindi poco più di tre decenni dopo la sua morte effettiva. Si tratta precisamente della Lettera che la Chiesa di Roma, con il suo Vescovo Clemente I, scrisse alla Chiesa di Corinto. In quel testo epistolare si invita a tenere davanti agli occhi l’esempio degli Apostoli, e, subito dopo aver menzionato il martirio di Pietro, si legge così: “Per la gelosia e la discordia Paolo fu obbligato a mostrarci come si consegue il premio della pazienza. Arrestato sette volte, esiliato, lapidato, fu l’araldo di Cristo nell’Oriente e nell’Occidente, e per la sua fede si acquistò una gloria pura. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, e dopo essere giunto fino all’estremità dell’occidente, sostenne il martirio davanti ai governanti; così partì da questo mondo e raggiunse il luogo santo, divenuto con ciò il più grande modello di pazienza” (1 Clem 5,2). La pazienza di cui il testo parla è espressione della comunione di Paolo alla passione di Cristo, della generosità e costanza con la quale ha accettato un lungo cammino di sofferenza, così da poter dire: «Io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo» (Gal 6,17). Abbiamo sentito nel testo di san Clemente che Paolo sarebbe arrivato fino all’«estremità dell’occidente». Si discute se questo sia un accenno a un viaggio in Spagna che san Paolo avrebbe fatto. Non esiste certezza su questo, ma è vero che san Paolo nella sua Lettera ai Romani esprime la sua intenzione di andare in Spagna (cfr Rm 15,24).
Molto interessante invece è nella lettera di Clemente il succedersi dei due nomi di Pietro e di Paolo, anche se essi verranno invertiti nella testimonianza di Eusebio di Cesarea del secolo IV, che parlando dell’imperatore Nerone scriverà: “Durante il suo regno Paolo fu decapitato proprio a Roma e Pietro vi fu crocifisso. Il racconto è confermato dal nome di Pietro e di Paolo, che è ancor oggi conservato sui loro sepolcri in quella città” (Hist. eccl. 2,25,5). Eusebio poi continua riportando l’antecedente dichiarazione di un presbitero romano di nome Gaio, risalente agli inizi del secolo II: “Io ti posso mostrare i trofei degli apostoli: se andrai al Vaticano o sulla Via Ostiense, vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa” (ibid. 2,25,6-7). I “trofei” sono i monumenti sepolcrali, e si tratta delle stesse sepolture di Pietro e di Paolo, che ancora oggi noi veneriamo dopo due millenni negli stessi luoghi: sia qui in Vaticano per quanto riguarda san Pietro, sia nella Basilica di San Paolo fuori le Mura sulla Via Ostiense per quanto riguarda l’Apostolo delle genti.
È interessante rilevare che i due grandi Apostoli sono menzionati insieme. Anche se nessuna fonte antica parla di un loro contemporaneo ministero a Roma, la successiva coscienza cristiana, sulla base del loro comune seppellimento nella capitale dell’impero, li assocerà anche come fondatori della Chiesa di Roma. Così infatti si legge in Ireneo di Lione, verso la fine del II secolo, a proposito della successione apostolica nelle varie Chiese: “Poiché sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo” (Adv. haer. 3,3,2).
Lasciamo però da parte adesso la figura di Pietro e concentriamoci su quella di Paolo. Il suo martirio viene raccontato per la prima volta dagli Atti di Paolo, scritti verso la fine del II secolo. Essi riferiscono che Nerone lo condannò a morte per decapitazione, eseguita subito dopo (cfr 9,5). La data della morte varia già nelle fonti antiche, che la pongono tra la persecuzione scatenata da Nerone stesso dopo l’incendio di Roma nel luglio del 64 e l’ultimo anno del suo regno, cioè il 68 (cfr Gerolamo, De viris ill. 5,8). Il calcolo dipende molto dalla cronologia dell’arrivo di Paolo a Roma, una discussione nella quale non possiamo qui entrare. Tradizioni successive preciseranno due altri elementi. L’uno, il più leggendario, è che il martirio avvenne alle Aquae Salviae, sulla Via Laurentina, con un triplice rimbalzo della testa, ognuno dei quali causò l’uscita di un fiotto d’acqua, per cui il luogo fu detto fino ad oggi “Tre Fontane” (Atti di Pietro e Paolo dello Pseudo Marcello, del secolo V). L’altro, in consonanza con l’antica testimonianza, già menzionata, del presbitero Gaio, è che la sua sepoltura avvenne non solo “fuori della città… al secondo miglio sulla Via Ostiense”, ma più precisamente “nel podere di Lucina”, che era una matrona cristiana (Passione di Paolo dello Pseudo Abdia, del secolo VI). Qui, nel secolo IV, l’imperatore Costantino eresse una prima chiesa, poi grandemente ampliata tra il secolo IV e V dagli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio. Dopo l’incendio del luglio 1823, fu qui eretta l’attuale basilica di San Paolo fuori le Mura.
In ogni caso, la figura di san Paolo grandeggia ben al di là della sua vita terrena e della sua morte; egli infatti ha lasciato una straordinaria eredità spirituale. Anch’egli, come vero discepolo di Gesù, divenne segno di contraddizione. Mentre tra i cosiddetti “ebioniti” – una corrente giudeo-cristiana – era considerato come apostata dalla legge mosaica, già nel libro degli Atti degli Apostoli appare una grande venerazione verso l’Apostolo Paolo. Vorrei prescindere ora dalla letteratura apocrifa, come gli Atti di Paolo e Tecla e un epistolario apocrifo tra l’Apostolo Paolo e il filosofo Seneca. Importante è constatare soprattutto che ben presto le Lettere di san Paolo entrano nella liturgia, dove la struttura profeta-apostolo-Vangelo è determinante per la forma della liturgia della Parola. Così, grazie a questa “presenza” nelle celebrazioni liturgiche della Chiesa, il pensiero dell’Apostolo diventa da subito nutrimento spirituale dei fedeli di tutti i tempi.
E’ ovvio che i Padri della Chiesa e poi tutti i teologi si siano nutriti delle Lettere di san Paolo e della sua spiritualità. Egli è così rimasto nei secoli, fino ad oggi, il vero maestro e apostolo delle genti. Il primo commento patristico, a noi pervenuto, su uno scritto del Nuovo Testamento è quello del grande teologo alessandrino Origene, che commenta la Lettera di Paolo ai Romani. Tale commento purtroppo è conservato solo in parte. San Giovanni Crisostomo, oltre a commentare le sue Lettere, ha scritto di lui sette Panegirici memorabili. Sant’Agostino dovrà a lui il passo decisivo della propria conversione, e a Paolo egli ritornerà durante tutta la sua vita. Da questo dialogo permanente con l’Apostolo deriva la sua grande teologia della grazia, che è rimasta fondamentale per la teologia cattolica e anche per quella protestante di tutti i tempi. San Tommaso d’Aquino ci ha lasciato un bel commento alle Lettere paoline, che rappresenta il frutto più maturo dell’esegesi medioevale. Una vera svolta si verificò nel secolo XVI con la Riforma protestante. Il momento decisivo nella vita di Lutero, fu il cosiddetto «Turmerlebnis» (forse 1517), nel quale in un attimo egli trovò una nuova interpretazione della dottrina paolina della giustificazione. Una interpretazione che lo liberò dagli scrupoli e dalle ansie della sua vita precedente e gli diede una nuova, radicale fiducia nella bontà di Dio che perdona tutto senza condizione. Da quel momento Lutero identificò il legalismo giudeo-cristiano, condannato dall’Apostolo, con l’ordine di vita della Chiesa cattolica. E la Chiesa gli apparve quindi come espressione della schiavitù della legge alla quale oppose la libertà del Vangelo. Il Concilio di Trento (1545 – 1563) interpretò in modo profondo la questione della giustificazione e trovò nella linea di tutta la tradizione cattolica la vera sintesi tra Legge e Vangelo, in conformità col messaggio della Sacra Scrittura letta nella sua totalità e unità.
Il secolo XIX, raccogliendo l’eredità migliore dell’Illuminismo, conobbe una nuova reviviscenza del paolinismo soprattutto sul piano del lavoro scientifico sviluppato dall’interpretazione storico-critica della Sacra Scrittura. Prescindiamo qui dal fatto che anche in quel secolo, come poi nel secolo ventesimo, emerse una vera e propria denigrazione di san Paolo. Penso soprattutto a Nietzsche che derideva la teologia dell’umiltà di san Paolo, opponendo ad essa la sua filosofia dell’uomo forte e potente: il superuomo. Prescindiamo da questo e vediamo la corrente essenziale della nuova interpretazione scientifica della Sacra Scrittura e del nuovo paolinismo del secolo XX. Qui è stato sottolineato soprattutto come centrale nel pensiero paolino il concetto di libertà: in esso è stato visto il cuore del pensiero paolino, come del resto aveva già intuito Lutero. Ora però il concetto di libertà veniva reinterpretato nel contesto del liberalismo moderno. E poi è sottolineata fortemente la differenziazione tra l’annuncio di san Paolo e l’annuncio di Gesù. E san Paolo appare quasi come un nuovo fondatore del cristianesimo. Vero è che in san Paolo la centralità del Regno di Dio, determinante per l’annuncio di Gesù, viene trasformata nella centralità della cristologia, il cui punto determinante è il mistero pasquale. E dal mistero pasquale risultano i Sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia, come presenza permanente di questo mistero, dal quale cresce il Corpo di Cristo, si costruisce la Chiesa. Ma direi, senza entrare adesso in dettagli, che proprio nella nuova centralità della cristologia e del mistero pasquale si realizza il Regno di Dio, diventa concreto, presente, operante l’annuncio autentico di Gesù. Abbiamo visto nelle catechesi precedenti che proprio questa novità paolina è la fedeltà più profonda all’annuncio di Gesù. Nel progresso dell’esegesi, soprattutto negli ultimi duecento anni, crescono anche le convergenze tra esegesi cattolica ed esegesi protestante realizzando così un notevole consenso proprio nel punto che fu all’origine del massimo dissenso storico: la giustificazione. Emerge così una grande speranza per la causa dell’ecumenismo, così centrale per il Concilio Vaticano II.
Brevemente vorrei alla fine ancora accennare ai vari movimenti religiosi, sorti in età moderna all’interno della Chiesa cattolica, che si rifanno al nome di san Paolo. Così è avvenuto nel secolo XVI con la “Congregazione di san Paolo” detta dei Barnabiti, nel secolo XIX con i “Missionari di san Paolo” o Paulisti, e nel secolo XX con la poliedrica “Famiglia Paolina” fondata dal Beato Giacomo Alberione, per non dire dell’Istituto Secolare della “Compagnia di san Paolo”. In buona sostanza, resta luminosa davanti a noi la figura di un apostolo e di un pensatore cristiano estremamente fecondo e profondo, dal cui accostamento ciascuno può trarre giovamento. In uno dei suoi panegirici, San Giovanni Crisostomo instaura un originale paragone tra Paolo e Noè, esprimendosi così: Paolo “non mise insieme delle assi per fabbricare un’arca; piuttosto, invece di unire delle tavole di legno, compose delle lettere e così strappò di mezzo ai flutti, non due, tre o cinque membri della propria famiglia, ma l’intera ecumene che era sul punto di perire” (Paneg. 1,5). Proprio questo può ancora e sempre fare l’apostolo Paolo. Attingere a lui, tanto al suo esempio apostolico quanto alla sua dottrina, sarà quindi uno stimolo, se non una garanzia, per il consolidamento dell’identità cristiana di ciascuno di noi e per il ringiovanimento dell’intera Chiesa.

IL VIAGGIO A GERUSALEMME (biblica )

https://letterepaoline.net/2015/10/18/il-viaggio-a-gerusalemme/

IL VIAGGIO A GERUSALEMME

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di Michele Ranchetti (*)

Ranchetti

1. «Se il cristianesimo è la verità, allora tutta la filosofia al riguardo è falsa». Questa proposizione di Wittgenstein del 1949, contenuta fra i suoi pensieri diversi, ha costituito per me un nuovo inizio. E si connette con un’altra sua osservazione, di alcuni anni prima, nella stessa raccolta di pensieri, arbitraria ma utile: «Il cristianesimo non è una dottrina, ossia non è una teoria su quanto è accaduto o accadrà all’anima dell’uomo, quanto una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo».
Per me, che ero andato «a dottrina», come si diceva allora per indicare l’istruzione religiosa al di fuori della scuola, in parrocchia, queste due asserzioni hanno favorito nella loro semplice formulazione, non autorevole, non iscritta in un contesto disciplinare appropriato, la ripresa, a distanza di anni, appunto, da quella «dottrina» ricevuta passivamente come forma per eccellenza della verità, di una diversa intelligenza della riflessione religiosa, in un certo senso libera, o almeno non protetta da una struttura di riferimento, da un’ortodossia di ricerca e di esperienza.
Scrive Wittgenstein: «tutta la filosofia al riguardo». Non scrive, come si potrebbe intendere a una lettura superficiale: «tutta la filosofia». Ossia traccia un limite, non libera il campo religioso dalla speculazione filosofica. Che sarebbe tanto promettente, quanto insensato, letteralmente.
Più rilevante, comunque, la seconda asserzione: la prima in ordine di tempo. «Non è una dottrina». Ma, come mi è subito apparso chiaro, era proprio come dottrina che il cristianesimo mi era stato fatto presente: la dottrina della fede, i sacramenti, il loro ordine, il loro numero limitato, come se questi elementi, articuli fidei non avessero, né potessero avere, per loro natura e carattere, alcun contesto, non facessero appunto parte della storia dell’uomo. Mentre io ne facevo parte.
Le due frasi di Wittgenstein non sono frasi ispirate, non hanno niente di esclamativo o di perentorio: sono «parti di un discorso», e di una sorta di diario che accompagna e si inserisce nel diario teoretico che costituisce il «tipo» della sua filosofia. Ed è proprio per questo loro carattere discorsivo (più evidente se le si ricolloca nel contesto da cui sono state estratte arbitrariamente) che hanno avuto e hanno su di me una così straordinaria rilevanza. Wittgenstein è un uomo che si interroga e che incontra (non importa per ora in quale fonte, ma probabilmente nel vangelo di Tolstoj, ritrovato per caso durante la guerra in un luogo improbabile) il fatto della vita di Cristo, il fatto della sua morte e della sua resurrezione. Appunto, «un evento reale nella vita dell’uomo».
Sono ripartito da qui. E ho iniziato un percorso non compiuto e certo non terminabile (come l’analisi di cui scrive Freud) per rintracciare l’origine di questa «dottrina» nella quale ero stato introdotto, direi quasi a mia insaputa, o meglio all’insaputa della mia coscienza vigile. Ho iniziato cioè un percorso a ritroso: dal dato di fatto della mia appartenenza storica alla chiesa cattolica apostolica romana (ossia dalla mia vita di uomo del mio tempo) per ripercorrere «storicamente» e per interrogare «storicamente» gli elementi costitutivi della mia formazione e le ragioni della mia appartenenza. La prospettiva in cui mi sono posto non mi consentiva alcuna «protezione» teoretica o «religiosa»; volevo pormi di fronte ai «dati di fatto».
Ho trovato, per così dire, alcuni oggetti: il catechismo, il Nuovo Testamento, l’Antico Testamento e ho provato a esaminarli come oggetti appunto, strumenti, utensili per il mio «vivere». Sapevo che, per obbedire alle asserzioni di Wittgenstein, dovevo partire da questi strumenti e non altri. Il resto apparteneva alla «letteratura sull’argomento», e io credevo a questa «differenza» o almeno mi sembrava naturale e originaria. Del resto, le asserzioni di Wittgenstein, per essere vere, dovevano essere «provate» su questi testi, e non altri. Ed essi così mi sono apparsi come tre scogli affioranti su un mare, residui visibili di una marea che si era accanita su tutto il resto, erodendolo sino a sommergerne i detriti.
2. Ma erano oggetti singoli, autonomi, indipendenti fra loro, oppure essi si trovavano in una relazione particolare, o in una dipendenza? Stavano l’uno senza l’altro, era cioè possibile esaminarli singolarmente, oppure vi era una connessione non eliminabile? E ancora. Erano oggetti «compiuti», delimitati, finiti? Immobili, o in movimento? Mi sono posto tutte queste domande e ancora continuo a pormele. Ma per farlo, ho dovuto disconoscere una grande massa di «informazioni» che si erano depositate in me e che mi impedivano, in certo modo, di guardare agli oggetti nella loro singolarità e che condizionavano, quasi fossero evidenze non eliminabili, il rapporto fra di essi. Ed erano i modi di intenderli e di valersi di essi, la storia e la leggenda del loro uso che, da giustificato e ricostruibile, era divenuto un abito mentale, se non una verità naturale. E mi sono accorto che stavo procedendo a demolire una sorta di «storia aggiunta», quasi di incrostazione che si era depositata su quegli oggetti semplici, per poter ripartire dalla loro storia.
La prima domanda che mi sono posto riguardava la loro forma. Io vedevo due oggetti limitati. In ordine cronologico: un insieme di scritti, denominati di solito Antico Testamento, un altro insieme di scritti, denominato di solito Nuovo Testamento, e un insieme di scritti detti catechismo. Inoltre, i primi due insiemi ricevevano, soprattutto in tempi recenti, il nome comune di Bibbia. Il terzo insieme non era un insieme fisso, a differenza dei primi due: presentava un’infinità di varianti, per cui, sino dalle mie prime nuove osservazioni, si caratterizzava come un insieme mobile e non omogeneo.
In realtà, ciascuna delle domande che mi ponevo, presupponeva o conduceva alla domanda seguente: non erano, in certo modo, domande singole, nel senso che non si poteva affrontare l’una senza affrontare o aver risolto l’altra. Ma era possibile definire, sia pure provvisoriamente, il carattere dei singoli insiemi? Ho provato a farlo. Il primo insieme, il cosiddetto Antico Testamento, riceve il suo nome (la sua designazione tradizionale) solo in relazione al secondo elemento. Dunque il nome, che lo designa, è anche il segno di una relazione. Al di fuori di questa relazione, l’insieme degli scritti che lo compongono non ha il carattere di premessa, ma piuttosto di descrizione narrativa di un’alleanza: l’alleanza fra Dio e il popolo da lui eletto.
Gli scritti, tuttavia, non hanno un ordinamento cronologico; neppure sono ordinati secondo la data di composizione, né appartengono a un unico genere letterario. I loro autori non si conoscono: e dunque l’autorevolezza dello scrittore non ha alcuna rilevanza. Detto semplicisticamente: essi sono esecutori, scribi. Il dettante è al di fuori (al di sopra) dello scritto. Quindi si pone con essi l’esempio di una scrittura che non si misura (non si intende) con l’autore, ma con il supposto dettante. Una scissione non ricomponibile. E tuttavia gli scritti che compongono il corpus che viene comunemente designato come Antico Testamento sono un corpus compiuto. Non tutti gli scritti composti durante i secoli sono confluiti in esso, ma solo alcuni cui viene attribuito il carattere di «autenticità» non rispetto all’autore ma al dettante. Il criterio di discriminazione è però vago, ed è vaga o almeno difficilmente ricostruibile e fissabile l’autorità, anzi il tipo di autorità, che ha presieduto alla scelta. E la ratio che l’ha ispirata. L’unica certezza relativa è una certezza «storica». Ossia, che vi è stato un momento in cui si è deciso o sì è accertato che «da allora in poi» non era più possibile riconoscere ad alcuno scritto quel carattere esecutivo, di trascrizione di una parola prima ascrivibile ad alcuni componimenti letterari di genere diverso. La trasmissione si era interrotta. Ora toccava al commento.
Non vi è una linea netta di demarcazione, né una cesura nettamente visibile, e fra testo e commento si instaura un singolare rapporto che si potrebbe definire di esegesi aggiuntiva. Tuttavia il segno di una differenza permane. Ma qual è il tempo del racconto, e qual è l’evento di cui i libri riferiscono? L’evento è uno solo: è la parola di Dio; il resto è la narrazione dell’ascolto di questa parola da parte di un popolo: la sua obbedienza, il suo rifiuto e il suo uso.
3. Del tutto diverso, direi radicalmente diverso, il carattere del secondo insieme di testi. Questi tutti derivano da un fatto: l’incarnazione, la morte e la resurrezione di Gesù di Nazareth. Non altro. Sono, cioè, la narrazione dei fatti e delle parole di un singolo (Cristo), e la narrazione degli atti e delle parole dei suoi discepoli. In più, un testo diverso, di altro carattere e genere letterario, l’Apocalisse, attribuita a uno dei discepoli e forse soprattutto per questo inserita alla fine. Qui, a differenza che nell’insieme precedente, l’evento è un Patto storico, inserito nella storia. E il tempo è un tempo storico, nel quale l’evento si è verificato. Gli scribi sono dei testimoni, la trasmissione si rifà a una parola pronunciata da qualcuno che è stato visto da molti, che hanno assistito alla sua morte, e che l’hanno visto risorto. Negli scritti del Nuovo Testamento è riferita la parola di Gesù di Nazareth (la parola di un singolo) e in seguito le parole e gli atti di un gruppo: vi è cioè il principio e il carattere di un’assemblea che si costituisce e si riconosce in un’alleanza di uomini ordinata a un fine: la predicazione di una verità, dove la verità è un fatto che si è verificato sotto i loro occhi, nel tempo della loro esistenza terrena.
È un insieme compiuto secondo il principio della testimonianza. Ma l’ordinamento non è cronologico. Sappiamo che il primo scritto che vi figura, quanto a data di composizione non è il primo scritto che si riferisca all’evento, anzi, è già un documento di predicazione che presuppone relativamente diffusa la conoscenza dell’evento e ha già la struttura di una riflessione: per così dire di un secondo momento, di un’elaborazione dottrinale. La lettera paolina ai tessalonicesi (se non è un’altra lettera paolina a precederla, secondo esegeti recenti) è già relativa a un’attesa, a un futuro, a una fine. Ma nell’ordinamento dell’insieme figura dopo i Vangeli e gli Atti. I primi testi, poi, non compaiono secondo la data della loro stesura o almeno secondo la data dell’arrangiamento in cui li conosciamo. Per solito, poi, i Vangeli subiscono una distinzione fra sinottici, i primi tre, e un quarto, cui si attribuisce un diverso carattere di testimonianza. Ma forse non è così, se alcuni recenti esegeti anticipano la redazione del testo giovanneo sino a fissarla prima dei testi di Marco e di Matteo. Gradualmente, cioè, veniamo a riconoscere che l’insieme cui diamo il nome di Nuovo Testamento è il risultato di un processo di selezione e di ordinamento che si è compiuto nei primi secoli dell’era cristiana. Sappiamo che sono molti i testi esclusi, che le testimonianze sulla vita e i detti di Gesù erano molto numerose, così come numerosi sono i testi ascritti al genere apocalittico (un genere che non ha precise connotazioni). Ma si è operata una scelta, e si è imposto un ordinamento: si è fissato un canone. Ma secondo quali criteri? e da parte di chi? Sappiamo che l’autorità che ha presieduto alla scelta e all’ordinamento è la chiesa, e che è la chiesa che ha definito apocrifi alcuni vangeli e ha così istituito un criterio di «autenticità» e conseguentemente di esclusione rispetto alle testimonianze. Così come sarà la chiesa in tempi molto recenti a dichiarare solennemente conclusa la rivelazione, in riferimento a fonti paoline di discutibile pertinenza. Ma chi è la chiesa?
4. Abbiamo dovuto renderci conto, quindi, che i due primi insiemi, l’Antico e il Nuovo Testamento, non sono due grandi massi erratici depositati intatti sulla riva della nostra storia. Che essi sono due costruzioni, e che sul secondo di essi è intervenuta a forgiarlo un’autorità non astratta, ma concreta, storica, visibile.
Cercando di rispondere a un’altra delle mie domande, e ricordando che per solito il primo e il secondo insieme sono indicati con il nome comune di Bibbia (un significativo singolare majestatis) mi sono interrogato sul carattere e il senso di questa connessione. È certamente un’indicazione di tempo: gli scritti che compongono il canone veterotestamentario precedono quelli del secondo canone. Tra i primi e i secondi vi è un tempo acanonico, ma non vuoto di scritti, che infatti ora si raccolgono con il nome di scritti intertestamentari, a sottolineare ancora una volta la presenza direi quasi coercitiva dei due insiemi maggiori.
Ma non è solo una successione temporale: la designazione di un primo e di un secondo testamento pregiudica il carattere della connessione suggerendo un’idea di premessa e di conferma, in una sorta di sviluppo necessario e insieme naturale, come da un seme a un albero. In ogni caso così era la modalità di lettura nell’istruzione religiosa delle scuole cattoliche. L’Antico Testamento tendeva al nuovo come al suo unico fine: in esso si contenevano le profezie avverate nel Nuovo, da un tempo astorico, più ancora che preistorico, al tempo storico dell’era, appunto, storica, il nostro tempo cristiano. Soprattutto non era possibile, direi anzi insensato, proporre una lettura dei testi veterotestamentari senza «il senno di poi» degli altri testi. Ma questa, diversamente da altre «presupposizioni», non era affatto una forzatura. Il Nuovo Testamento è la storia della nascita, della morte e della resurrezione di Gesù, figlio di Dio. Non è una premessa, né una profezia, né la forma scritta, o la testimonianza di un’attesa messianica: è la narrazione di un evento e dei primi tempi storici della predicazione di esso da parte dei discepoli e della costruzione da parte di essi della forma «istituzionale» della chiesa visibile e invisibile.
In un certo senso, la connessione vale solo a partire dalla verità dell’evento narrato dal secondo insieme: per così dire, a ritroso. Non ha senso, o piuttosto non ha «verità», a partire dal primo insieme se esso non ha conferma nel secondo, se disconosce nel secondo la sua prosecuzione inverante. Non solo: in questo caso, fra il primo e il secondo testamento (ma la denominazione, come si sa, non è adottata dalla cultura ebraica) vi è un conflitto, una contrapposizione radicale. Per questo la lettura della Bibbia come unità mi è sempre sembrata qualcosa di improprio, in un certo senso una prevaricazione o una appropriazione non esplicita. Per questo ancora, le tesi di «eretici» come Marcione che intendevano separare se non contrapporre i due testamenti, mi sono sempre apparse degne di considerazione, in particolare nella loro interrogazione sulla natura dei due canoni.
5. Rimane da interrogare il terzo insieme: il catechismo. Non è un insieme omogeneo: i catechismi sono moltissimi, di diversa origine, struttura, lingua, ordinamento. Ma sono fra di loro connessi dal proposito comune che li ispira, così da consentire l’uso di un singolare, anche qui, majestatico. Il proposito è quello di raggruppare in un testo breve (Summa brevis) tutto ciò che all’uomo è necessario sapere per salvarsi. Ma non un riassunto, piuttosto solo gli elementi (pezzi, Stucke, articuli, talvolta articuli fidei) tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento, e solo da essi.
Non esiste però un catechismo ebraico: l’idea della Summa brevis non è presente nell’ebraismo, credo. Ma è presente dai primi secoli del cristianesimo e si può ripercorrerne la storia (e la fortuna) sino all’apparire dei primi esempi verso la fine del ’400 già nella forma poi ripetuta sino a oggi.
Questi «elementi» che non mancano mai in tutti gli esempi di catechismo sono: il Credo, il Decalogo, il Pater noster, i sacramenti, alcune preghiere. Varia il loro ordinamento, non è mai presente «il contesto», ossia le fonti che, come si vede, sono tutte neotestamentarie, tranne il Decalogo. Quasi a suggerire che dell’Antico Testamento, degli scritti dell’alleanza e della profezia, delle narrazioni e degli esempi rimane solo la legge; anche se è vero che in molti catechismi la legge è il primo degli articoli, ha, cioè, un carattere inaugurale.
Ma anche il proposito stesso è neotestamentario: il nesso sapere-salvezza non corrisponde immediatamente all’invito all’ascolto della parola: introduce, mi sembra, nella forma stessa dei «momenti» isolati di verità, l’abbandono di una lettura non ordinata e soprattutto si oppone all’idea di verità nella storia. È frutto, a me pare, di quel graduale processo esegetico di intervento sul testo, di interpretazione secondo griglie conoscitive, criteri di comprensione comunque esterni al testo, per facilitarne la lettura. In alcuni casi, si avverte anche l’eco delle regole di Ticonio e di Agostino: appaiono il genere e la specie, le categorie aristoteliche, i topici che risulteranno, per così dire, vincenti nella ripresa della retorica nei Loci di Melantone.
Inoltre, risulta evidente che il catechismo implica una scelta, che richiama la scelta operata fra le diverse scritture per comporre i due canoni vetero e neotestamentario. Qui, la scelta è ancora più radicale: non singoli libri, ma pezzi di libro, elementi, nell’ipotesi che proprio questi elementi e non altri, e non i libri da cui erano tratti, bastassero al sapere e alla salvezza o al sapere per la salvezza. Ed è anche evidente, infine, che il proposito riduttivo, comunque ispirato, finiva per esimere il credente dalla lettura dei testi sacri. La Summa brevis, il Verbum abbreviatum di fatto sostituiva la Bibbia, così come le sentenze di Pietro Lombardo sostituiranno la lettura dei padri.
Ma chi ha operato la scelta? Chi ha compiuto il processo riduttivo del corpus degli scritti a un numero esiguo di testi ai quali si riconosce il potere di verità, cui ci si affida per la salvezza, a cui si deve ricorrere per orientarsi nel vivere e nel credere? E ancora, se il primo canone risulta inutile, perché confluisce nel secondo, e il secondo è compendiato nel catechismo, perché ricominciare da capo, come se questo percorso non fosse esauriente, oppure non fosse compiuto, come se si fossero trascurati momenti di conoscenza o di esperienza apparsi necessari in un secondo tempo, che non è quello dell’attesa o della conferma, ma ancora di attesa? La chiesa è il maggiore artefice di questo processo, e ha anche operato di conseguenza, in particolare vietando per due secoli della sua storia la lettura della Bibbia in lingua volgare e frapponendo se stessa fra la lettura dei testi e la loro intelligenza.
Come nel gioco che in tedesco si chiama «il viaggio a Gerusalemme» (è il gioco di girare attorno ad alcune sedie una accanto all’altra ma con gli schienali opposti, una in meno rispetto al numero dei partecipanti, al suono di una musica che si interrompe improvvisamente, e chi non riesce a sedersi esce dal gioco) potrebbe sembrare che il pontefice, solo, sieda sulla sola cattedra di Pietro. Ma forse non è così. Sono state aggiunte alcune sedie e la musica ha ripreso a suonare. Si possono di nuovo formulare tutte le domande.

***

(*) Intervento pronunciato al Convegno di «Biblia», Firenze, novembre 2002. Testo tratto da M. Ranchetti, Non c’è più religione. Istituzione e verità nel cattolicesimo italiano del Novecento, Garzanti, Milano 2003, pp. 105-113.

 

VIAGGIO APOSTOLICO A MALTA IN OCCASIONE DEL 1950° ANNIVERSARIO DEL NAUFRAGIO DI SAN PAOLO

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2010/april/documents/hf_ben-xvi_spe_20100417_grotta-malta.html

VIAGGIO APOSTOLICO A MALTA IN OCCASIONE DEL 1950° ANNIVERSARIO DEL NAUFRAGIO DI SAN PAOLO

(17-18 APRILE 2010)

VISITA ALLA GROTTA DI SAN PAOLO

PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Rabat

Sabato, 17 aprile 2010

Caro Arcivescovo Cremona, Cari fratelli e sorelle,

il mio pellegrinaggio a Malta è iniziato con un momento di preghiera silenziosa nella grotta di san Paolo, che per primo portò la fede in queste isole. Sono venuto sulle orme di quegli innumerevoli pellegrini lungo i secoli, che in questo santo luogo hanno pregato, affidando se stessi, le loro famiglie e la prosperità di questa Nazione all’intercessione dell’Apostolo dei Gentili. Mi rallegro di essere finalmente tra di voi e vi saluto tutti con grande affetto nel Signore. Il naufragio di Paolo e la sua sosta per tre mesi a Malta hanno lasciato un segno indelebile nella storia del vostro Paese. Le sue parole ai compagni prima di giungere a Malta sono ricordate per noi negli Atti degli Apostoli e sono state un tema speciale nella vostra preparazione alla mia visita. Queste parole – “Jehtieg izda li naslu fi gzira” [“Dovremo però andare a finire su qualche isola”] (At 27,26) – nel contesto originale sono un invito al coraggio di fronte all’ignoto e alla fiducia incrollabile nella misteriosa provvidenza di Dio. I naufraghi, infatti, furono calorosamente accolti dalla gente di Malta, a seguito dell’esempio dato da san Publio. Nel piano di Dio, san Paolo divenne perciò il vostro padre nella fede cristiana. Grazie alla sua presenza tra voi, il Vangelo di Gesù Cristo si radicò saldamente e portò molto frutto non soltanto nella vita degli individui, delle famiglie e delle comunità, ma anche nella formazione dell’identità nazionale di Malta, come pure nella sua vibrante e particolare cultura. Le fatiche apostoliche di Paolo portarono pure una ricca messe nella generazione di predicatori che seguirono le sue orme, e particolarmente nel gran numero di sacerdoti e religiosi che imitarono il suo zelo missionario lasciando Malta per andare a portare il Vangelo in lidi lontani. Sono lieto di aver avuto l’opportunità di incontrarne oggi così tanti in questa Chiesa di san Paolo, e di incoraggiarli nella loro vocazione piena di sfide e spesso eroica. Cari missionari: ringrazio ciascuno di voi, a nome di tutta la Chiesa, per la vostra testimonianza al Signore Risorto e per le vite spese al servizio degli altri. La vostra presenza ed attività in così tanti Paesi del mondo fa onore alla vostra Patria e testimonia la spinta evangelica innestata nella Chiesa a Malta. Preghiamo il Signore affinché susciti ancor più uomini e donne, che continuino la nobile missione di proclamare il Vangelo e di operare per il progresso del Regno di Dio in ogni terra e in tutti i popoli! L’arrivo di san Paolo a Malta non era programmato. Come sappiamo, si stava recando a Roma quando sopraggiunse un violento temporale e la sua nave fu scaraventata su quest’isola. I marinai possono tracciare una rotta, ma Dio, nella sua sapienza e provvidenza, dispiega il proprio itinerario. Paolo, che aveva incontrato in maniera drammatica il Signore Risorto sulla via di Damasco, lo sapeva molto bene. Il corso della sua vita cambiò improvvisamente; per lui, pertanto, vivere era Cristo (cfr Fil 1,21); ogni sua azione ed ogni suo pensiero erano diretti ad annunciare il mistero della croce ed il suo messaggio d’amore di Dio che riconcilia. Quella stessa parola, la parola del Vangelo, ha tutt’oggi il potere di irrompere nelle nostre vite e di cambiarne il corso. Oggi lo stesso Vangelo che Paolo predicò continua a esortare il popolo di queste isole alla conversione, ad una nuova vita e ad un futuro di speranza. Mentre mi trovo fra voi come Successore dell’apostolo Pietro, vi invito ad ascoltare la parola di Dio con animo nuovo, come fecero i vostri antenati, e di lasciare che essa sfidi i vostri modi di pensare e la maniera in cui trascorrete la vostra vita. Da questo luogo santo dove la predicazione apostolica si diffuse per prima in queste isole, invito ciascuno di voi a far propria la sfida esaltante della nuova evangelizzazione. Vivete la vostra fede in maniera ancor più piena assieme ai membri delle vostre famiglie, ai vostri amici, nei vostri quartieri, nei luoghi di lavoro e nell’intero tessuto della società maltese. In modo particolare esorto genitori, insegnanti e catechisti a parlare agli altri del vostro stesso incontro vivo con Gesù risorto, specialmente ai giovani che sono il futuro di Malta. “La fede si rafforza quando viene offerta agli altri” (cfr Redemptoris missio, 2). Sappiate che i vostri momenti di fede assicurano un incontro con Dio, il quale nella sua onnipotenza tocca il cuore dell’uomo. Così, introdurrete i giovani alla bellezza e alla ricchezza della fede cattolica, offrendo loro una solida catechesi ed invitandoli ad una partecipazione sempre più attiva alla vita sacramentale della Chiesa. Il mondo ha bisogno di tale testimonianza! Di fronte a così tante minacce alla sacralità della vita umana, alla dignità del matrimonio e della famiglia, non hanno forse bisogno i nostri contemporanei di essere costantemente richiamati alla grandezza della nostra dignità di figli di Dio e alla vocazione sublime che abbiamo ricevuto in Cristo? Non ha forse bisogno la società di riappropriarsi e di difendere quelle verità morali fondamentali che sono alla base dell’autentica libertà e del genuino progresso? Proprio ora, mentre stavo davanti a questa grotta, riflettevo sul grande dono spirituale (cfr Rm 1,11) che Paolo diede a Malta, ed ho pregato che voi possiate mantenere integra l’eredità consegnatavi dal grande Apostolo. Possa il Signore conservare voi e le vostre famiglie nella fede che opera mediante l’amore (cfr Gal 5,6), e rendervi gioiosi testimoni di quella speranza che non delude (cfr Rm 5,5). Cristo è risorto! Egli è veramente risorto! Alleluia!

   

PAOLO A ROMA, COSCIENTE DI UN DEBITO

http://www.gliscritti.it/index.html

PAOLO A ROMA, COSCIENTE DI UN DEBITO

di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti 26/9/2008

Sentirsi in debito. Meglio: essere in debito. Questo il motivo del desiderio di Paolo di giungere a Roma. Come di ogni suo altro viaggio dopo la conversione. «Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma» (Rm 1, 14-15). Annunciare il vangelo, per Paolo, non è un’eccedenza, non è volontariato, non è opera buona. È piuttosto ciò che “lega” chi ha incontrato per grazia il Signore. Se per pura grazia Paolo ha ricevuto la manifestazione del risorto sulla via di Damasco, da quel momento egli non può tenere per sé il dono ricevuto. «Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato» (1 Cor 9, 16-17). Ricordo come fosse ieri don Tonino D’Ammando, uno dei parroci “romani” della vecchia generazione, che spiegava cosa fosse per lui la gratitudine. Era stato chiamato al sacerdozio da adulto mentre era ingegnere presso le acciaierie di Terni ed aveva beneficiato di una borsa di studio per poter studiare al Collegio Capranica e pagare le tasse universitarie. Aveva compreso che non si trattava di dire “grazie” a chi aveva offerto a lui il denaro per prepararsi al sacerdozio, ma che il debito di gratitudine sarebbe stato saldato solo quando una nuova persona avrebbe ricevuto in dono una borsa di studio offerta da lui, don Tonino. Egli era in debito e l’azione del rendimento di grazie non riguardava semplicemente i suoi benefattori; era lui stesso a dovere ora rendere possibile per una nuova generazione ciò che a lui era accaduto. La fede ricevuta e l’annuncio che ne deriva sono, per Paolo, un binomio indissolubile. Dove c’è l’una, l’altro non può mancare: «Animati da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo» (2 Cor 4, 13). Mons. Gianfranco Ravasi, con l’acutezza e l’affabilità che gli è consueta, dichiarava alcuni mesi fa in risposta ad una delle ricorrenti prese di posizione che vorrebbero etichettare come illegittimo l’annunzio cristiano: «Si auspica anche alle persone che si considerano vicine, care e significative, una realtà che si ritiene preziosa e salvifica. Scriveva un importante esponente della cultura francese del Novecento, Julien Green, che “è sempre bello e legittimo augurare all’altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano”. Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto della libertà e dei diversi percorsi che l’altro adotta. Ma è espressione di affetto auspicare anche al fratello quello che tu consideri un orizzonte di luce e di vita» Paolo avvertiva di non poter tenere per sé il tesoro prezioso che aveva ricevuto. A lui era stato affidato, perché anche altri potessero goderne. Se tutta la sua azione ha il suo senso in questo debito di cui era consapevole – «charitas Christi urget nos» – è ad Efeso che nacque in lui il desiderio specifico di raggiungere Roma, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli. È, infatti, dopo le dispute accesesi in quella città, che «Paolo si mise in animo di attraversare la Macedonia e l’Acaia e di recarsi a Gerusalemme dicendo: “Dopo essere stato là devo vedere anche Roma”» (At 19, 21). Un evento, però, giungerà a confermare Paolo in questo suo proposito. L’apostolo, infatti, recatosi a Gerusalemme fu rinchiuso nella Fortezza Antonia, della quale gli scavi archeologici hanno riportato alla luce il famoso Lithostrotos, il cortile pavimentato in marmo. Ciò avvenne per proteggerlo da alcuni che volevano ucciderlo, accusandolo di aver profanato il Tempio. Gli Atti raccontano che, mentre Paolo era tenuto prigioniero nella Fortezza Antonia, durante la notte «gli venne accanto il Signore e gli disse: “Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma”» (At 23, 11). È l’unico versetto del Nuovo Testamento nel quale è Gesù stesso, il Signore risorto, a pronunziare il nome dell’urbe, il nome di Roma. Luca, autore degli Atti, che accompagnò l’apostolo fin nella capitale dell’impero, dovette ascoltare dallo stesso Paolo questo racconto. In quella notte gli era stato rivelato che il progetto di raggiungere Roma non discendeva solo dal suo cuore di uomo, ma derivava come chiamata dalla esplicita volontà del Cristo. Proprio la lettera ai Romani esprime, ancora una volta, con una straordinaria progressione retorica che vede il susseguirsi di incalzanti domande, il nesso che lega la salvezza dei nuovi credenti alla vocazione di chi la trasmette loro: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene!» (Rom 10, 13-15).

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