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di Gianfranco Ravasi : San Paolo caduto tre volte

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San Paolo caduto tre volte

di Gianfranco Ravasi

14 NOVEMBRE 2008

Le moi est haïssable, scriveva Pascal nei suoi Pensieri, e che l’io troppo ostentato nelle sue esperienze più profonde sia un po’ odioso era probabilmente una sensazione condivisa anche da san Paolo, che pure aveva lasciato impronte personalissime nel suo epistolario. Qualcosa del genere può, infatti, essere ripetuto anche per quell’evento capitale che aveva rivoluzionato la sua autobiografia, ossia la conversione avvenuta forse nell’anno 32 sulla strada che lo stava conducendo a Damasco. Scrivendo ai cristiani di Filippi, l’Apostolo ricorre soltanto a un folgorante verbo greco, katelémften, cioè «fui afferrato, ghermito, conquistato, impugnato» da Cristo (3, 12). In altri passi del suo epistolario si accontenta di indicare una divisione netta tra un «prima» e un «poi», linea di demarcazione tra il persecutore e l’apostolo di Cristo: non per nulla nel suo famoso oratorio Paulus il musicista Felix Mendelssohn-Bartholdy farà impersonare da due bassi diversi la voce di Paolo prima e dopo la conversione. Ai Corinzi semplicemente chiede con una domanda retorica: «Non ho io visto Gesù, il Signore?» (I, 9,1) e conferma: «Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (I, 15,8). Oppure, riferendosi a un simbolo luminoso (che poi riprenderemo), ricorda che «Dio rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che brilla sul volto di Cristo» (II, 4,6). Il massimo che riusciamo a strappargli è ciò che confessa ai Galati: «Quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunziassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco» (1, 15-17). Se vogliamo sapere qualcosa di più di ciò che accadde su quella strada che conduceva alla capitale siriana (diventata l’emblema delle conversioni: si pensi solo all’opera Verso Damasco del drammaturgo svedese August Strindberg), dobbiamo ricorrere a chi almeno per un certo periodo della sua vita fu compagno dell’Apostolo nei suoi viaggi missionari, cioè san Luca. Ebbene, egli nella sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli, per ben tre volte narra la svolta radicale che fece di Paolo un missionario di quella setta che egli voleva contrastare con fierezza fin nel territorio della Siria. Infatti, Luca ricorda che, durante quel viaggio, egli recava con sé «lettere» del sommo sacerdote gerosolimitano destinate alle comunità ebraiche damascene perché si impegnassero nel bloccare la nuova eresia che veniva denominata (a più riprese negli Atti) col suggestivo vocabolo «Via».

La prima narrazione è nel capitolo 9 ed è alla terza persona. Due sono gli atti. Da un lato, c’è l’incontro epifanico di Paolo con Gesù e poi quello più «quotidiano» con un membro della comunità cristiana di Damasco di nome Anania, che non solo gli va incontro accogliendolo come un fratello, ma che lo libera anche dalla cecità causata dal bagliore della visione. D’altro lato, c’è ormai l’Apostolo che «subito nelle sinagoghe annuncia che Gesù è il Figlio di Dio» (v. 20). Ma fermiamoci per un momento all’esperienza iniziale dell’incontro, che Luca dipinge coi contorni di una visione, simile a quelle che costellano la Bibbia e che hanno come destinatari, ad esempio, il patriarca Giacobbe o i profeti Ezechiele e Daniele. Ecco le parole dell’evangelista: «All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Rispose: Chi sei, o Signore? E la voce: Io sono Gesù, che tu perseguiti!» (9, 3-5). Come è evidente, non si parla di una caduta da cavallo come amerà immaginare l’iconografia successiva (è appunto il caso anche del celebre dipinto di Caravaggio in S. Maria del Popolo a Roma), ma di una folgorazione che fa incespicare e cadere a terra. C’è un elemento interessante in quel dialogo tra Saulo (che è il nome ebraico dell’Apostolo e che vuole idealmente marcare il suo passato, destinato ora a morire con « l’uomo vecchio », per usare una nota espressione paolina) e la voce di Cristo. Saulo stava recandosi a Damasco per incatenare i discepoli di Gesù; Cristo si identifica con loro: «Io sono Gesù, che tu perseguiti!». Come ha fatto notare Benedetto XVI nel suo discorso di apertura dell’anno paolino, Cristo stabilisce un nesso di identità con la Chiesa che è il suo corpo. Ed è altrettanto significativa una nota apparentemente marginale ma forse allusiva: Saulo rimane cieco per tre giorni (9,9) e quando viene battezzato si dice che i suoi occhi si illuminano ed egli «si alza»: ora il verbo greco anastas, l’ »alzarsi », è lo stesso che viene usato nel Nuovo Testamento per la risurrezione di Cristo. Ai tre giorni oscuri del sepolcro subentra il levarsi luminoso della risurrezione-rinascita: non si dimentichi che nella Lettera ai Romani Paolo descriverà il battesimo in modo analogo, secondo lo schema della «sepoltura-risurrezione » di Cristo (6, 3-9), mentre l’illuminazione era uno dei principali simbolismi battesimali.

Abbiamo detto che sono tre i racconti lucani di questa avventura spirituale radicale vissuta dall’Apostolo. Riserviamo un cenno anche agli altri due. Nel capitolo 22 degli Atti, la narrazione è in prima persona. Siamo nel tempio di Gerusalemme e Paolo sta per essere linciato dai suoi antichi correligionari. Ma il comandante della coorte romana di stanza in quell’area lo sottrae alla folla e lo conduce nella fortezza Antonia, ove gli concede di arringare il popolo che continua a pressarlo. In ebraico Paolo racconta autobiograficamente la vicenda della via di Damasco, ricalcando il primo testo degli Atti. Egli, però, sottolinea ora che i suoi compagni di viaggio «videro la luce, ma non udirono la voce di colui che mi parlava», a differenza del primo racconto («sentivano la voce, ma non vedevano nessuno» 9, 7). Si tratta, quindi, di un’esperienza che ha qualche eco esterna, ma che rimane profondamente personale e interiore. Ci sono stati, perciò, alcuni critici che hanno parlato in modo « razionalistico » di allucinazione. In realtà, la menzione esplicita dei personaggi coinvolti (anche con nomi propri, come Giuda che ospita Paolo a Damasco nella sua casa sulla « via Diritta » o come il citato Anania) attesta il realismo di un evento personale che è confermato, come si diceva, anche da una terza testimonianza. Essa è presente in Atti 26, 12-23. Ora l’Apostolo è agli arresti presso il governatore romano Festo nella città di Cesarea Marittima, la residenza degli alti funzionari imperiali in Palestina (si ricordi che qui si svolgerà anche la vicenda del centurione Cornelio, descritta nel capitolo 10). In visita ufficiale in quella città costiera si presenta la coppia principesca di Agrippa II, discendente del re Erode, e di sua sorella Berenice che era anche la sua compagna incestuosa. Ebbene, Paolo davanti a loro in attesa di essere trasferito a Roma per il processo d’appello da lui richiesto come cittadino romano ripete la storia della sua conversione al cristianesimo. La sostanza dell’evento è sempre la stessa, ma appaiono anche alcune variazioni e novità. Così, non entra più in scena Anania; a terra cadono pure i compagni di viaggio e non solo Paolo; curiosamente Cristo cita un proverbio greco, attestato anche dagli scrittori Euripide e Pindaro, che è però detto dalla voce divina in ebraico: «Duro è per te recalcitrare contro il pungolo» (26,14). L’immagine è forte e vivace ed è desunta dal mondo agricolo: il contadino stimola l’animale da soma con un bastone chiodato in punta. Si tratta, quindi, di un modo pittoresco per esaltare il primato della grazia divina nell’esperienza della conversione. Dopo tutto lo stesso Apostolo, scrivendo ai Romani, citava con passione una frase divina presente nel libro di Isaia: «Io – dice il Signore – mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano; ho risposto anche a quelli che non mi invocavano» (10, 20).

Ma le parole di Cristo, in questo racconto, vanno oltre e delineano la futura missione dell’Apostolo, «ministro e testimone», quella di «aprire gli occhi a ebrei e pagani, proprio come era accaduto allo stesso Paolo perché passino dalle tenebre alla luce, dal potere di Satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità » della salvezza (26,18). Sono queste le ultime parole di Cristo presenti nell’intera opera lucana, un mirabile suggello alla storia di un convertito, che per tutta la sua vita e con tutta la sua stessa esistenza ripeterà le prime parole di Gesù citate dai Vangeli: «Convertitevi e credete!» (Marco 1,15).

Paolo : « L’enfant terrible del cristianesimo (Daniel Marguerat) »

DANIEL MARGUERAT is Professor of New Testament Studies at the Faculty of Theology of the University of Lausanne, Switzerland. –

Pastore della Chiesa evangelica (credo, non sono riuscita a trovare altre notizie su di lui neanche in francese e inglese), dal sito:

http://www.dimensionesperanza.it/modules/xfsection/article.php?articleid=4665

Bibbia: L’enfant terrible del cristianesimo (Daniel Marguerat)  
Autore: Fausto
Pubblicato: 2008/11/4
 

L’enfant terrible del cristianesimo
di Daniel Marguerat *

In un recente, illuminante libretto, Daniel Marguerat ritorna sulla modernità di Paolo, l’enfant terrible del cristianesimo. Spirito dottrinario, tono ruvido, antifemminismo… non avrebbe sviato il puro messaggio di amore di Gesù in una opprimente dottrina del peccato? Già durante la sua vita, questo rinnegamento del giudaismo irritava. Oggi, molti cristiani lo hanno accantonato, e credono senza Paolo o malgrado lui. Chi legge ancora la corrispondenza di questo apostolo poco amato? Chi coglie l’importanza della “giustificazione secondo fede” o della “salvezza al di fuori delle opere della Legge”? Tuttavia, senza di lui, senza il suo genio a formulare le verità essenziali del cristianesimo, la cristianità sarebbe rimasta un’oscure setta. Senza di lui, duemila anni fa, il messaggio di Cristo non avrebbe infiammato il mondo intero. Se si vuole comprendere la rivoluzione che ha rappresentato nel I secolo lo slancio della fede cristiana, non si può evitare di leggere, e di voler comprendere, questo gigante definito talora il “fondatore del cristianesimo”. Non senza fondamento: egli fu, più di chiunque altro, fondatore di comunità.
Tra Saulo di Tarso (il suo nome aramaico) e Gesù di Nazareth vi è ben poco in comune. Come spiegare allora che l’uno è stato preso per l’altro? Gesù è un ebreo della campagna palestinese, di professione falegname, figlio del popolo e amico di peccatori. Il suo messaggio si rivolge agli uomini e alle donne di Israele. Il suo ministero si è limitato alla Galilea, con un breve sprazzo finale a Gerusalemme. Saulo è un intellettuale della diaspora, nato a Tarso vicino ad Antiochia. Uomo di città e di cultura. Il suo impegno netto nel movimento farisaico lo ha introdotto nell’èlite religiosa del giudaismo del tempo. Forse fu allievo del grande rabbi Gamaliele (At 22,3). Ad ogni modo, la sua formazione all’esegesi rabbinica fu quella di un allievo brillante, capace di maneggiare la Scrittura secondo le regole dei maestri. La pratica del gezera shava, consistente nell’accostare due citazioni per interpretare l’una grazie all’altra, non ha per lui segreti (esempio: Gal 3,l0 e 12). Anche sostenere una parola della Torà con una citazione dei profeti è altrettanto comune in lui come nei rabbini della miglior tradizione. D’altra parte, le più recenti ricerche sul suo modo di condurre l’argomentazione mostrano che l’apostolo delle Genti è esperto nella pratica della retorica greco-romana, alla pari di un Cicerone o di un Quintiliano. Nulla di sorprendente, se si sa che la città di Tarso ospitava un’apprezzata scuola stoica: il padre di Paolo si fece un punto d’onore di mandarvi il figlio. Attraverso l’apprendimento della retorica passava una cultura raffinata.
Le sottigliezze di una doppia cultura

Queste due componenti della cultura di Paolo di Tarso spiegano la difficoltà di comprenderlo oggi; il suo stile, la sua logica, sono quelli di un uomo che suona costantemente su due tastiere: lo stile figurato, analogico del rabbi, e l’argomentazione lineare del retore romano (con introduzione, tesi, dimostrazione e perorazione). L’estrema difficoltà, per gli esegeti, consiste proprio nel tenere collegate le due modalità della sua riflessione, senza farle pendere completamente dal lato della sottigliezza rabbinica o dal lato del rigore dialettico. Ma il confronto con Gesù di Nazaret ripropone il problema: come capire che Paolo, l’intellettuale fariseo di alto livello, sia stato conquistato dal destino dell’uomo di Nazaret? La risposta va cercata nel folgorante sconvolgimento che è la «conversione» di Paolo sulla strada di Damasco. La si fa risalire all’incirca all’anno 32, cioè due anni dopo la morte di Gesù. La fede cristiana, Paolo non l’ha scoperta al suo tavolo di lavoro. Neppure nella profondità della meditazione. All’interno della sua pratica, all’interno della sua militanza, Paolo è stato fermato da Dio. Bloccato nel suo slancio. Ma che cosa è accaduto sulla via di Damasco perché Paolo ne esca stordito, demolito, smarrito? L’uomo si manterrà sempre riservato su questo punto. Quel che certo, è che, un giorno, le basi su cui aveva costruito la sua vita gli sono improvvisamente venute meno. Ne resta traccia in un passaggio autobiografico della lettera ai Filippesi. Paolo inizia elencando il suo impressionante albero genealogico-religioso: «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa: irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge (Fil 3,5-6). Non si potrebbe pretendere maggiore garanzia di appartenenza ebraica! L’eccellenza dell’uomo di Tarso in materia di pietà legale gli permetteva di definirsi, con fierezza, «irreprensibile». Questo forte radicamento nella Torà lo aveva condotto, con tutta la tradizione farisaica, a rifiutare qualunque credito alla fede cristiana in un Messia crocifisso. Che il Dio onnipotente avesse qualche cosa in comune con il corpo di Gesù appeso al legno della croce non poteva essere che una ridicola superstizione, pericolosa e sovversiva. «L’appeso è una maledizione di Dio»: questa frase del Deuteronomio (21,23) era citata come un anatema contro questi eretici. Si può confondere la grandezza divina con la fine miserabile di un Galileo, giudicato e condannato come blasfemo? È questo il motivo per cui, nella sua logica estremistica (la sua personalità lo porta a questo), Paolo si era ripromesso di difendere l’onore di Dio punendo quelli che iniziavano ad essere chiamati «cristiani». (Gal 1,13).

Fallimento della religione

Damasco è la scoperta di un fallimento. Non lo scacco di un uomo che non sarebbe stato capace di adempiere ai precetti della Torà. Al contrario: «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge» (Fil 3,6). È lo scacco della Legge o, più esattamente, lo scacco della fede nella Legge che si presenta a Paolo come una folgorazione. Ecco dove conduce la Torà: a mettere in croce il Messia. Damasco è questo volgersi dello sguardo di Paolo sulla croce, che lo porta a capire come, al culmine dell’impegno per Dio, al culmine della pietà, l’uomo costruisca una croce per il Figlio. Paolo non determina lo scacco del giudaismo, come se altre credenze potessero meglio cogliere il mistero di Dio. Riflettendo su questo problema all’inizio della lettera ai Romani (1,18-3,20), Paolo giunge alla conclusione che «l’ebreo come il greco» falliscono nel loro tentativo di conoscere Dio. Paolo segna lo scacco di ogni religione. Non, una volta di più, attraverso il raziocinio, ma per averlo vissuto nella sua personale esperienza di vita. Ogni religione fallisce nel momento in cui fa nascere nell’uomo l’illusione di poter costruire il proprio valore davanti a Dio. Che si tratti di ammansire Dio attraverso l’osservanza della Torà (l’indagine dell’ebreo) o che si tratti di avvicinarsi a Dio attraverso la ricerca della sapienza (l’indagine del greco), l’errore è lo stesso: in entrambi i casi la pietà diventa un modo di catturare il divino per accattivarselo (I Cor 1,18-25). È il motivo per cui, dirà Paolo ai Corinzi, Dio ha scelto di salvare gli uomini attraverso il messaggio insensato, risibile, della croce: «E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1,22-23).

Alla sconfitta della religione che tenta di ctturare Dio, Paolo oppone la pura gratuità della grazia.

Dio di tutti e di ciascuno

Non si comprende nulla del pensiero di Paolo se non si coglie a quale punto la sua immagine di Dio si è trovata proiettata: lo scorge all’opera nella sua fragilità. Lo credeva tirannico, lo scopre solidale. Lo pensava lontano, ed eccolo presente in ogni sofferenza. Dio non si lascia scoprire che da parte di coloro che abbandonano l’immagine del dio tirannico e si lasciano «giustificare», cioè accogliere, sulla sola base della loro fede in Lui.

Con Paolo inizia questa scoperta, immensa nella storia dell’umanità, del valore di tutti e di ciascuno. Che ogni uomo riceva da Dio un valore insostituibile, nessuno l’aveva affermato con altrettanta forza. Che l’essere umano abbia un valore che non dipende né dalla sua età, né dal suo sesso, né dal suo denaro, né dalla sua pietà, né dal suo ruolo nella società. Che ogni essere sia apprezzato da Dio indipendentemente dalla sua morale o dalle sue (buone) intenzioni, ecco la convinzione che brucia nel centro della teologia di Paolo. E, nelle categorie farisaiche della retribuzione, Paolo dirà: Dio giustifica ognuno senza badare alla sua osservanza della Legge. Egli concede la vita all’uomo «senza le opere della Legge» (Rm 3,21-28).

Di questa idea si alimenterà un concetto che segnerà profondamente l’Occidente cristiano; il concetto di individuo. Sotto l’influsso del pensiero paolino, l’umanità accoglie questa idea che l’individuo, sono qualsiasi latitudine viva, ha lo stesso valore. La Rivoluzione francese aggiungerà: deve godere degli stessi diritti.

Un problema di libertà

La doppia cultura di Saulo di Tarso (greco-romana ed ebraica) gli permette sintesi folgoranti, di cui la cristianità si alimenterà per crescere. La sconfitta della religione è una prima sintesi. L’approccio paolino al problema della libertà ne è un’altra. Gli stoici (ad esempio Epitteto o Seneca) ponevano con insistenza la questione della libertà umana. L’uomo è libero nelle sue scelte? Governa la propria vita? Alla constatazione negativa, gli stoici aggiungevano una risposta: dominare le passioni permette all’uomo di avvicinarsi alla libertà. Paolo riprende la questione, ma la sua constatazione è più radicale: non solo l’uomo non è libero, ma non è in grado di riconquistare la sua libertà attraverso un progetto di autocontrollo. Il peccato – nessuno nel Nuovo Testamento penserà il peccato con maggiore profondità di Paolo – aliena l’uomo e lo scaglia contro Dio. La sola via d’uscita per l’essere umano è di essere liberato dal di fuori, dal momento che non può farlo da solo. Il cap. 8 della Lettera ai Romani descrive questo lavorio dello Spirito nel credente, che, liberandolo dalla costrizione di costruire la sua propria salvezza, lo libera dalla preoccupazione di sé e lo apre alla cura di un altro.

Distruttore della Legge?

Rifiutando la Legge come via di salvezza, Paolo si è attirato l’incomprensione e la collera dei suoi antichi correligionari. Malgrado i suoi dinieghi («la Legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento», Rm 7,12), l’apostolo delle Genti non si libererà mai dal sospetto di essere un trasgressore della Legge. All’intento del nascente cristianesimo, questo punto costituisce una grande divergenza tra Paolo e il giudeo-cristianesimo di Gerusalemme dominato dalla figura di Giacomo, fratello del Signore. In realtà, se Paolo nega alla Torà la capacità di essere strumento di salvezza (ormai conta solo la fede), Paolo non rifiuta la Legge quando si tratta di segnalare la fedeltà di vita cui sono chiamati i credenti. Arriva anche a dire che «la giustizia della Legge si compie in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito» (Rm 8,4). In pratica, il credente, non più preoccupato per sé, può aprirsi all’amore dell’altro, cosa che costituisce – per Paolo come per Gesù – il centro della Legge.

Se il rimprovero di distruggere la Legge non è giustificato per quanto riguarda Paolo, il suo discorso sul fallimento della religione (compresa quella ebraica) poneva l’apostolo davanti ad una via senza uscita: Dio, dando già da millenni, la Legge ad Israele, avrebbe sbagliato?

Perché il giudaismo?

La storia del popolo eletto sarebbe stata una storia inutile? Nei capp. 9-11 della Lettera ai Romani di Paolo, costretto ad affrontare la questione, propone una riflessione fondamentale sul destino di Israele. Essa rimane essenziale su quello che noi potremmo (e dovremmo) pensare oggi delle relazioni tra cristianesimo e giudaismo. La formula della salvezza offerta a «chiunque crede» fonda in realtà l’universalità della grazia, ma, contemporaneamente, sottrae ogni consistenza alla particolarità di Israele. Se il cristianesimo è la religione del Dio universale, perché il giudaismo? Seguiamo da vicino le argomentazioni di Rm 9-11. Paolo comincia col constatare il rifiuto opposto da Israele al Messia: gli ebrei non vogliono il Cristo (Rm 9), La parola di Dio è sconfitta? No, Dio indurisce chi vuole, dice Paolo, ed apre il cuore a chi vuole. Questo non impedisce, continua Paolo (Rm 10), che la maggioranza degli ebrei si sia chiusa alla parola del Vangelo. Essi hanno sentito la notizia, ma non vi hanno creduto. Dio avrebbe dunque rifiutato il suo popolo? Il semplice enunciato della questione fa sobbalzare Paolo (Rm 11): assolutamente no! In realtà, la storia di questo popolo ha sempre conosciuto l’indurimento della maggioranza e la fedeltà di un piccolo resto. I cristiani non ebrei corrispondono oggi a questa logica del piccolo resto: essi credono, mentre la maggior parte di Israele rifiuta.

L’enunciato di un mistero

Giunto a questo punto, Paolo sfiora la contraddizione: da un lato Israele è colpevole di chiudersi al Vangelo; dall’altra, fede e indurimento del cuore sono opera di Dio. A quale conclusione arrivare? Da questa scomoda posizione, l’apostolo fa la professione di un mistero: «Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che non saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato» (Rm 11,25-26).

Conclusione sbalorditiva! Al pericolo di cadere in contraddizione, Paolo sfugge enunciando un mistero teologico, cioè di una verità che non è data come la conclusione di un ragionamento, ma come una rivelazione. Il suo contenuto è chiaro: alla fine dei tempi, Israele sarà salvato. In altri termini Paolo ammette Israele ai beneficio della giustificazione per fede (quello stesso messaggio che Israele rifiuta). Se è vero che Dio salva per grazia, e senza tenere una contabilità degli sforzi dell’uomo per soddisfarlo, allora non terrà conto del rifiuto che Israele oppone al Messia. La grazia vale anche per il popolo eletto. Attraverso questo mistero, Paolo perviene a rendere giustizia da un lato alla scelta della maggioranza degli ebrei, che rompe col Cristianesimo e non vuole questo Messia. Egli prende dall’altro in considerazione la fedeltà di Dio alle sue promesse: Dio non rinnega la sua parola, nè i suoi. L’apostolo lascia così aperto l’avvenire di Israele, come una storia che deve compiersi tra Dio e il suo popolo eletto, e non riguarda che loro due. Se i cristiani hanno ragione di considerarsi beneficiari della grazia, il destino del popolo ebraico non li riguarda. Questo destino appartiene, giustamente, ad un mistero che si è già avviato tra Abramo e Dio. A questa inviolabile tenerezza di Dio per Israele, nessuno potrebbe attentare. Ma questo dovuto annullamento davanti alla grazia sovrana di Dio non significa per Paolo essere ridotto al silenzio: nel corso della sua intera corrispondenza, egli non cesserà di testimoniare che un dialogo esigente e serrato con il giudaismo è indispensabile alla ricerca della propria identità da parte del cristianesimo.

* Professore di Nuovo Testamento – Facoltà di Teologia, Università di Losanna

(da Il mondo della Bibbia n. 53)

PAOLO VERSO ROMA – ATTI 28, 1-31– CONSIDERAZIONE SULL’ULTIMO CAPITOLO

PAOLO VERSO ROMA - ATTI 28, 1-31– CONSIDERAZIONE SULL’ULTIMO CAPITOLO

testo di Atti 28, 1-31 dal sito:

http://www.bibbiaedu.it/pls/bibbiaol/GestBibbia.Ricerca?Libro=Atti%20degli%20Apostoli&Capitolo=28

stralcio da: Bianchi F., Atti degli Apostoli, Città Nuova Editrice, Roma 2003

pagg. 302-304

l’autore prima di iniziare l’esegesi dell’ultimo capitolo degli Atti propone un excursus per una migliore comprensione di questa parte, che tratta del viaggio di Paolo dopo il naufragio, ossia da Malta verso Roma:

« Il libro degli Atti si conclude con questo capitolo nel quale Luca ricapitola molti temi e riprende generi letterari già incontrati durante il racconto. Questa grande ricapitolazione inizia in At 28, 1-10 dove si narra, sulla base di alcune notizie relative allo sbarco dell’apostolo e dei suoi compagni a Malta, la conclusione del naufragio in un ambiente in un ambiente « barbaro » per molti versi vicino a quello di Listra. La sezione contiene un racconto di miracolo e un racconto di guarigione: entrambi presentano Paolo, che gode della protezione di Dio e che in suo nome opera guarigioni. In questa descrizione l’apostolo segue l’esempio stesso di Gesù, come dimostra l’eco di almeno due episodi evangelici sia nel serpente che morde Paolo (Lc 10,19) sia nella guarigione del Padre di Publio che ricorda la guarigione della suocera di Pietro (Lc 4,38). La seconda sezione del capitolo, At 28, 11-16 traccia l’ultima parte dell’itinerario alla prima persona plurale che condurrà Paolo e gli altri naufraghi da Malta fino a Pozzuoli e da qui a piedi fino a Roma: nella capitale dell’impero la corsa della parola, superato ogni ostacolo, ha l’ultimo e più importante traguardo. Nelle notizie desunte da questo itinerario, Luca ha inserito l’incontro di Paolo con i cristiani di Roma e l’inizio della custodia militaris dell’apostolo, guardato a vista da un soldato. La terza parte, At 28,17-22, ci introduce all’ultima scena del libro. Paolo invita nella propria casa i maggiorenti della comunità ebraica di Roma, per riassumere la propria vicenda giudiziaria e per ribadire la propria innocenza: se il loro silenzio diplomatico sulla vicenda dell’apostolo e la loro ignoranza del cristianesimo sono storicamente poco verosimili , nondimeno la loro presenza nell’economia del racconto lucano è funzionale alla scena culminante del libro cioè At 28, 23-31. È proprio in questa sezione, che tanti temi dell’opera lucana, come il cantico di Simeone (Lc 2), l’incredulità di Israele (Lc 8, 10) o la predicazione dello stesso Paolo ad Antiochia di Pisidia (At 13), trovano la loro preziosa ricapitolazione: la riflessione sul passato missionario di Paolo si interseca così con la situazione presente e si apre al futuro di salvezza per le genti. In conformità con la propria strategia missionaria, Paolo può annunciare ai giudei che abitano la capitale dell’impero quanto aveva predicato durante i propri viaggi missionari: l’annunzio provocherà anche in questo caso una profonda divisione all’interno del giudaesimo, esemplificata nella citazione della profezia di Is 6,9 secondo la versione greca della Settanta, e giustificherà l’inizio dell’annuncio ai pagani. Gli ultimi versetti del libro, quasi una sorta di , descrivono Paolo nella propria stanza, intento ad annunciare ai suoi visitatori il regno di Dio e d insegnare il messaggio di Gesù Cristo. Ciò avviene oramai lontano dalla sinagoga, ma in tutta libertà e senza la minima opposizione da parte dell’autorità romana: questa chiusa, che tace il martirio dell’apostolo presupposto dal discorso di Mileto, ha spinto gli esegeti a trovare una spiegazione al silenzio di Luca. Alcuni autori hanno ipotizzato che Luca avesse completato la propria opera prima della morte dell’apostolo, ma l’ipotesi non appare molto verosimile; altri suppongono che il martirio dell’apostolo avrebbe dovuto costituire un libro a sé stante, ma anche in questo caso l’evidenza è assai debole; altri autori ancora, sulla scorta delle notizie fornite da Eusebio, credono che l’apostolo sarebbe stato liberato dopo che l’autorità romana non era riuscita ad istruire il processo a suo carico nei due anni di carcerazione preventiva: egli avrebbe visitato la Spagna e avrebbe subito una seconda prigionia in Asia minore, conclusasi col martirio, durante la persecuzione di Nerone. L’ipotesi ha trovato diversi sostenitori, ma alla lue di quanto detto, sembra preferibile pensare che al termine dei due anni di prigionia, verso il 62 d.C. Paolo abbia subito il martirio.

IL VIAGGIO DELLA CATTIVITÀ – DA CESAREA A ROMA (Atti 21,18-28, 31)

IL VIAGGIO DELLA CATTIVITÀ – DA CESAREA A ROMA  (Atti 21,18-28, 31) dans Paolo - la sua vita, i viaggi missionari, il martirio 20%20DENNIS%2006%20PAUL%20A%20ROME%20PARLE%20DE%20JESUS%20AUX%20JUIFS 

Paul a Rome parle de Jesus aux Juifs

http://www.artbible.net/Jesuschrist_fr.htm

IL VIAGGIO DELLA CATTIVITÀ – DA CESAREA A ROMA (Atti 21,18-28, 31)

(l’ho ricontrollato, voglio rivederlo ancora)

Paolo all’arrivo a Gerusalemme era stato accolto festosamente dai fratelli, recatosi da Giacomo, davanti a lui e a tutti gli anziani, raccontò tutto quello che Dio aveva operato per mezzo suo (At 21,17-19); si trovava nel Tempio quando, dopo una piccola sommossa, venne arrestato (At 21,33) da un tribuno romano, sul punto di esser condotto nella fortezza – che si chiamava Anatolia e dominava i cortili del Tempi – chiese di parlare, il tribuno acconsentì, Paolo, in ebraico, cominciò a testimoniare la propria conversione, ma, ad un certo punto, la folla non lo ascoltò più e cominciò ad urlare ed a chiedere la sua morte (At 22,22-23);  

il tribuno lo portò via e lo legò con le cinghie ordinando di interrogarlo a colpi di flagello, a questo punto, però, Paolo dichiarò di essere cittadino romano, il tribuno, sentendo questo, cominciò ad avere paura (At (v. 29);  

Per conoscere la realtà dei fatti il tribuno condusse Paolo davanti al Sinedrio, Paolo sapendo che il sinedrio era composto di sadducei e di farisei, cominciò a parlare della speranza nella resurrezione dai morti, nel sinedrio si scatenò un putiferio, i farisei infatti credevano nella risurrezione dai morti ed i sadducei no, il tribuno visto il conflitto all’interno del sinedrio temette per la vita di Paolo e lo ricondusse in prigione; la notte seguente il Signore “va accanto” a Paolo e gli dice: “Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma”. (At 23, 11)  

Dopo un complotto per assassinare Paolo, venne deciso da parte del tribuno di condurre Paolo a Cesarea marittima; il procuratore della Giudea Antonio Felice, lo tenne in carcere per due anni;  

Trascorsi questi due anni il procuratore Felice venne sostituito da Porcio Festo;  

Festo volendo fare un favore ai giudei domandò a Paolo se voleva andare a Gerusalemme per essere giudicato là, Paolo si appellò a Cesare: “Mi trovo davanti al tribunale di Cesare, qui mi si deve giudicare” e poi aggiunge: “Io mi appello a Cesare” (At 25,12); allora Festo risponde: “Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai” (At 25,12);  

dopo alcuni giorni arrivò a Cesarea il re Agrippa e Berenice – figli di Erode-Agrippa – per salutare Festo, Festo gli espose il caso, il re Agrippa volle sentire Paolo, Paolo parlò di nuovo in sua difesa e riaffermò la risurrezione di Cristo;  

Il re Agrippa, Berenice ed il Governatore, avviandosi, dicevano: “Quest’uomo non ha fatto nulla che meriti le catene o la morte” e rivoltosi a Festo: “Costui poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a Cesare”. (At 26, 32)  

Paolo fu consegnato, con altri prigionieri, ad un centurione di nome Giulio della corte Augusta – doveva essere l’estate inoltrata dell’anno 59 o 60 – tutto il viaggio viene descritto con molti particolari da un testimone oculare, si tratta di Luca che scrive una eccezionale pagina di fede e di affetto nei confronti del Maestro, di Paolo;  

saliti sulla nave fecero rotta verso Sidone – una delle più antiche città della Fenicia – Paolo con il permesso del centurione scese a visitare i fratelli, poi, salpati da Sidone, fecero rotta verso Cipro, in seguito verso i mari della Cicilia e della Panfilia, per giungere a Mira nella Licia, nella parte sud dell’Asia minore, li trovarono una nave alessandrina diretta verso l’Italia si trasferirono su quella nave e salparono prima verso Cnido e poi verso l’isola di Creta; Paolo che, a causa dei lunghi viaggi in mare, era diventato abbastanza esperto, ed essendo già verso la fine di ottobre – era già passato il giorno del digiuno, ossia dello Yom Kippur – consigliò di fermarsi in quel porto per passare l’inverno, ma il centurione decise di salpare nella speranza di svernare a Fenice, un porto di Creta; (At 27, 12);  

durante questo viaggio un vento di uragano di nome “Euroaquilone” si catenò contro l’isola, la nave venne travolta nel turbine e andò alla deriva, così i marinai cominciarono ad alleggerire la nave gettando il carico in mare, ma la violenza della tempesta che durò per molti giorni non sembrava cessare;  

Luca racconta ancora che non si mangiava da molto, Paolo, per questo, si alzò per fare coraggio ai compagni di viaggio; dopo la quindicesima notte, verso mezzanotte, i marinai ebbero l’impressione che fosse vicina la terra e gettarono lo scandaglio più volte, la nave era vicina alla terra e vennero gettate quattro ancore; i soldati, temendo che i prigionieri potessero fuggire a nuoto, volevano ucciderli, ma il centurione volendo salvare Paolo lo vietò; giunsero salvi sull’isola, era Malta;  

Cap 28; I maltesi li trattarono con molta umanità, li accolsero tutti intorno a un gran fuoco, Paolo raccolse un po’ di legna per gettarla sul fuoco, ma una vipera lo attaccò ad una mano e lo morse, visto che Paolo non moriva, cominciarono a pensare che fosse un dio;  

quindi vennero accolti da un magistrato di Malta, sapendo che il Padre di questi era ammalato Paolo andò a fargli visita, gli impose le mani e questi venne guarito;  

dopo tre mesi salparono su una nave di Alessandria e approdarono a Siracusa dove rimasero tre giorni e da qui si portarono fino a Reggio, poi a Pozzuoli, dopo una settimana partirono per Roma, i fratelli di Roma, saputo che stava arrivando Paolo e gli altri, andarono loro incontro fino al foro Appio – circa 66 km da Roma – e alle Tre Taverne, arrivati a Roma fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia;  

molti andavano da Paolo ed egli parlava loro del regno di Dio cercando di convincerli riguardo a Gesù, alcuni aderirono, altri no;  

“Paolo trascorso due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento:” (At 28, 30-31)  

qui finisce il racconto degli Atti, rimane una domanda: Paolo dove e quando è morto? ed un altra: chi scrive, se è Luca, come è il seguito della storia di Luca?  

sarà possibile proporre delle risposte a seguito della prima domanda per quanto riguarda Paolo, e, separatamente per quanto riguarda Luca;

TERZO VIAGGIO MISSIONARIO DI SAN PAOLO (Atti 18:23-21:16)

TERZO VIAGGIO MISSIONARIO DI SAN PAOLO  (Atti 18:23-21:16) dans Paolo - la sua vita, i viaggi missionari, il martirio

http://santiebeati.it/

(questo racconto/presentazione, come per tutti i racconti dei viaggi missionari di San Paolo è da rivedere e ricontrolare)

TERZO VIAGGIO MISSIONARIO DI SAN PAOLO  (Atti 18:23-21:16)

 Il terzo viaggio missionario inizia, negli Atti, subito dopo il secondo viaggio; Paolo era stato ad Atene, di li era andato a Corinto, di li ad Efeso, poi era andato a salutare la Chiesa di Gerusalemme, poi ad Antiochia (Atti 18,1-22) 

da 18,23: 

Passato un certo tempo ad Antiochia, Paolo va a visitare di nuovo le chiese in Galazia e Frigia per confermare nella fede i discepoli; Attraversate queste regioni giunge ad Efeso. In questa città trovò alcuni discepoli  che avevano ricevuto soltanto il battesimo di Giovanni Battista e « non conoscevano  » lo Spirito Santo, Paolo annunziò loro il battesimo di Gesù e questi – il passo è molto breve sembra che accolgano subito l’annunzio del vangelo – si fanno battezzare nel nome del Signore Gesù e, come Paolo impone loro le mani – scende su di loro lo Spirito Santo; (19,1-7) 

Paolo quindi si reca nella Sinagoga e vi predica, liberamente, per tre mesi annunziando e cercando di persuadere gli ascoltatori circa il regno di Dio; ma alcuni si misero contro di lui parlando male in pubblico di questa nuova dottrina, allora separa i discepoli e continua a discutere con loro in altro luogo; continuò a predicare per circa due anni, cosi tutti  gli abitanti della provincia d’Asia, Giudei e Greci, sentirono il Vangelo. Per opera di Paolo Dio operò diversi miracoli ad Efeso, guarendo gli ammalati e i posseduti da spiriti maligni. Accadde, però, che alcuni esorcisti ambulanti giudei invocavano anche essi il nome del Signore, lo spirito cattivo invocato tuttavia risponde chiedendo – sembra un passo con un tono ironico – « Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete? » (19,15) quindi , dopo averli presi, li trattò con tale violenza che questi fuggirono; 

Il fatto fu risaputo da tutti i Giudei e Greci che abitavano ad Efeso e parecchi cittadini credettero, tanti altri, che una volta praticavano la magia, misero i loro vecchi libri in piazza e li bruciarono. 

Paolo aveva in animo di recarsi a Gerusalemme pensando di andare anche a Roma, inviò allora due aiutanti in Macedonia si trattenne ancora nella provincia d’Asia; 

Efeso era centro del culto pagano e soprattutto della dea Artemide. I venditori ei commercianti degli idoli e delle statuette d’argento degli Dei e dei templi, gli « orefici » videro il rischio di perdere il loro lavoro a causa di questa nuova dottrina, e, convocato un « comizio », convincevano che la loro categoria era a rischio se il santuario della dea Artemide non fosse stato più stimato. Il fatto era che le vendite di tale oggetti diminuivano. Il racconto narra, appunto, che uno dei commercianti di nome Demetrio provocò un gruppo di artigiani contro Paolo dicendo che la Dea Artemide ed il suo santuario erano sotto il pericolo di essere dimenticato e distrutto. Cosi tutti gli artigiani e commercianti si radunarono nel teatro a sopportare la loro Dea, gridando « Grande è la Artemide degli Efesini », e vollero perseguitare Paolo ed i suoi seguaci. Paolo avrebbe voluto presentarsi alla folla per parlare, ma i discepoli glielo impedirono. Era tale l’ira della folla che anche il cancelliere intervenne e riuscì a calmare gli animi. (19, 23-41) 

Paolo, cessato il tumulto, incoraggiati i discepoli si mise in viaggio per la Macedonia, di li andò in Grecia dove rimase per tre mesi.  In seguito, mente stava imbarcandosi per la Siria, cambiò idea e passando di nuovo dalla Macedonia per terra arrivò a Troade – qui il testo degli Atti passa al noi Luca che narra si inserisce nel racconto –  dove si trattenne « trattennero » per una settimana. (20,1-6) 

Il primo giorno della settimana (domenica) si trovavano – sempre al plurale –  a spezzare il pane – l’eucarestia naturalmente – Paolo poiché doveva partire il giorno dopo continuò a parlare fino verso mezzanotte, nell’assemblea si trovava anche un ragazzo di nome Èutico che stava seduto alla finestra, mentre Paolo parlava fu preso dal sonno e cadde dal terzo piano dove si trovavano ( capitava anche a Paolo di far addormentare qualcuno!) e venne raccolto come morto: Paolo allora scese si gettò su di lui, lo abbracciò ed il ragazzi tornò in vita. (20, 7-12) 

« Noi » – qui Luca racconta in prima persona, Paolo all’inizio del racconto non è con loro –  partimmo per Asso, dove dovevamo prendere a bordo Paolo, prendemmo  Paolo con noi e poi navigammo verso Mileto via Mitilene, Chios, Samos e Trogillium. Paolo aveva deciso di non passare per Efeso per non ritardare i tempi allo scopo di essere a Gerusalemme per Pentecoste. (20,13-16) 

Da Mileto mandò a chiamare da Efeso gli anziani della Chiesa, egli temeva di non rivederle più, inizia qui il discorso di addio di Paolo agli anziani di Efeso, è un discorso commovente anche per chi lo legge ora, allora gli anziani, dopo aver ascoltato le parole di Paolo scoppiarono in pianto, naturalmente metto solo una parte dell’addio di Paolo « 20,17-18. cfr. 37): 

« Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: 19 ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. 20 Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, 21 scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. 22 Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. 23 So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. 24 Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio. 25 Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. » (18b-25). 

Dopo Mileto, Paolo navigò per Cos, Rodi, Patara e Tire in Siria, dove i suoi discepoli (noi – nuovamente – lo pregammo) di non scender più a Gerusalemme. Paolo, testimoniando di essere pronto « non soltanto ad essere legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome di Gesù Cristo » volle andare.

Un congresso sulla possibile presenza di San Paolo in Spagna

04/04/2008, dal sito:

http://www.zenit.org/article-13967?l=italian

Un congresso sulla possibile presenza di San Paolo in Spagna 

E la comunità cristiana più antica della Penisola Iberica a Tarragona 

TARRAGONA, venerdì, 4 aprile 2008 (ZENIT.org).- In occasione dell’anno giubilare dei santi Fruttoso, Augurio ed Eulogio e alla vigilia dell’Anno Paolino, l’Arcidiocesi di Tarragona (Spagna) organizza il congresso internazionale “Paolo, Fruttuoso e il cristianesimo delle origini a Tarragona”. 

Papa Benedetto XVI ha concesso all’Arcidiocesi di Tarragona la celebrazione dell’anno giubilare, dedicato alla memoria dei santi martiri Fruttuoso, Vescovo, e Augurio ed Eulogio, diaconi, in occasione dei 1750 anni del martirio che hanno subito nell’anfiteatro di Tarragona il 21 gennaio del 259 d.C. 

Il congresso internazionale, dedicato al cristianesimo in questa regione catalana tra il I e l’VIII secolo, occuperà un luogo preminente nel contesto dei congressi e degli studi sull’apostolo Paolo. L’incontro si svolgerà nella città di Tarragona il 19, 20 e 21 giugno 2008, informano gli organizzatori in una nota inviata a ZENIT. 

La ricca storia della Tarraco romana e delle origini del cristianesimo, testimoniati dalla Passio dei martiri Fruttuoso, Augurio ed Eulogio, sarà l’elemento su cui si concentrerà l’attenzione di molti ricercatori giunti da varie parti del mondo. 

L’anno giubilare di San Fruttuoso di Tarragona è iniziato il 21 gennaio 2008 e si chiuderà il 21 gennaio 2009. 

Nel contesto degli atti e delle celebrazioni dell’anno giubilare, monsignor Jaume Pujol i Balcells, Arcivescovo di Tarragona, ha incaricato dell’organizzazione del congresso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Fruttuoso” (INSAF), istituzione accademica universitaria dell’Arcidiocesi di Tarragona. Il congresso conta sulla collaborazione della Facoltà di Teologia della Catalogna (FTC), con sede a Barcellona, e dell’Università Rovira i Virgili (URV) di Tarragona. 

La storia della Chiesa di Tarragona è lunga e feconda. La prima testimonianza scritta della comunità cristiana di Tarraco sono gli atti del martirio del Vescovo San Fruttuoso e dei suoi due diaconi Augurio ed Eulogio nel 259 d.C., sotto la persecuzione decretata dagli imperatori Valeriano e Galieno. 

Gli atti del loro martirio sono considerati autentici e sono i più antichi della Penisola Iberica, rappresentando il primo documento scritto sul cristianesimo ispanico. 

La Passio di Fruttuoso esprime in modo manifesto l’esistenza di una Chiesa organizzata gerarchicamente – l’episcopato di Fruttuoso, il diaconato di Augurio ed Eulogio e il lettorato di Augustal – e solidamente radicata nella Tarraco romana. 

55 anni dopo il martirio del Vescovo Fruttuoso, nel 314, un Vescovo di Tarraco partecipava al Concilio di Arles, mediante i suoi due delegati Probazio e Castorio. La necropoli di Tarragona conserva un’iscrizione funebre dell’anno 325 e il grandioso mausoleo funerario di Centcelles, della seconda metà del IV secolo, contiene un mosaico nella cupola di chiara iconografia biblica. 

Nel 384, l’Arcivescovo Imerio consultò Papa Damaso su alcuni dubbi relativi a varie questioni di disciplina ecclesiastica. Morto questi, gli rispose il suo successore, Papa Siricio, l’11 febbraio 385. Si tratta della prima bolla papale che un Papa rivolge a un Vescovo della Chiesa latina. Appare, quindi, la struttura provinciale della Tarraconense e anche la primazia a livello peninsulare. 

I dati storici e i calcoli realizzati a partire dalle fondi epigrafiche esprimono chiaramente che la comunità cristiana di Tarraco nel IV secolo era una delle più numerose della Penisola Iberica. La posizione strategica di Tarragona – passaggio obbligato tra la Penisola e Roma – fa pensare che l’introduzione del cristianesimo a Tarraco sarebbe precedente al primo dato storico che conosciamo di questa comunità cristiana attraverso la Passio di Fruttuoso. 

La Chiesa di Tarragona afferma la venerabile tradizione della predicazione dell’apostolo Paolo in questa città, e la ritiene un fatto storico altamente probabile. Una piccola cappella del XIII secolo, oggi situata all’interno del Seminario Pontificio e costruita su una roccia, nell’acropoli della città, evoca il soggiorno di Paolo a Tarraco e le prime parole evangeliche che vi vennero pronunciate. 

In seguito, all’inizio dell’VIII secolo, l’Arcivescovo di Tarragona, San Prospero, dopo aver salvato le reliquie di San Fruttuoso in concomitanza con l’invasione islamica, si rifugiò in Italia, dove fu Vescovo di Reggio Emilia. Lì venne venerato dopo la morte come santo; l’ufficio liturgico a lui dedicato spiega che fu uno dei successori di San Paolo. Questo è il documento più antico (secoli VIII-IX), prodotto in Italia, in cui appaiono insieme San Paolo e Tarragona, e in secondo piano le reliquie di San Fruttuoso. 

Il congresso vuole aprire nuove vie nella ricerca storica e scientifica su questa affascinante questione: il viaggio apostolico di Paolo in Ispania – annunciato dallo stesso Paolo in Romani 15 –, gli inizi del cristianesimo a Tarraco e, con San Fruttuoso, il successivo sviluppo della comunità cristiana più antica della Penisola Iberica. 

Allo stesso modo, l’Anno di San Paolo annunciato da Papa Benedetto XVI in occasione del bimillenario della nascita dell’Apostolo delle Nazioni (28 giugno 2008-28 giugno 2009) contribuirà a nuove ricerche sulla vita di Paolo, la sua attività evangelizzatrice e i suoi scritti.

  

SECONDO VIAGGIO MISSIONARIO DI SAN PAOLO (Atti 15,36- 18,23a)

SECONDO VIAGGIO MISSIONARIO DI SAN PAOLO (Atti 15,36- 18,23a) dans Paolo - la sua vita, i viaggi missionari, il martirio 16%20RAPHAEL%20EC%20PR%20DICATION%20DE%20PAUL%20%20%20ATH%20NES 

La Prédication de saint Paul aux Athéniens

http://www.artbible.net/2NT/PORTRAITS%20OF%20%20PAUL/slides/16%20RAPHAEL%20EC%20PR%20DICATION%20DE%20PAUL%20%20%20ATH%20NES.html

SECONDO VIAGGIO MISSIONARIO DI SAN PAOLO (Atti 15,36- 18,23a)

Dopo essersi congedati dalla Chiesa di Gerusalemme, Paolo e Barnaba pensarono di fare una visita alle Chiese dove avevano annunziato la Parola del Signore nel loro primo viaggio. Barnaba volle portare anche Giovanni Marco, ma Paolo si oppose a causa dei problemi causati da Marco nel primo viaggio. Il dissenso era tale che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba prese con sé Marco e si imbarcò per Cipro, mentre  Paolo decise di partire con Sila (o Silvano) (Atti 15, 36-40). Paolo e Sila attraversarono la Siria e la Cilicia, poi visitarono poi Derbe e Listra (vicino a Konya), dove Paolo prese con loro un giovane  cristiano di nome Timoteo che resterà oramai aggregato a Paolo (cfr. 17,14s; 18,5; 19,22; 20,4; 1Tess 3,2-; 1Cor 4,17; 16,10; 2 Cor 1,19; Rm 16,21, nota BJ) e rimarrà sino alla fine uno dei suoi più fedeli discepoli (vedere 1 Tm e 2 Tm a lui indirizzate, nota BJ).  Questi andarono in Frigia e  Galazia, Raggiunta la Misia discesero a Tròade. Durante la notte apparve a Paolo una visione: un Macedone lo supplicava di aiutali. Ritenendo che Dio li aveva chiamati partirono per recarsi in Macedonia a predicare. Dal verso 16,11 appare probabile che s’incontrarono anche con evangelista Luca, perché a questo punto degli Atti lo stile del racconto dalla terza persona passa al « noi », forse « noi » con Luca ». 

Dopo Tròade navigarono verso la Grecia e la Macedonia: a Samotracia, Neàpoli e a Filippi, colonia romana e città del primo distretto della Macedonia. Paolo evangelizza a Filippi ad alcune donne riunite. Mentre andavano alla preghiera una giovane schiava  che aveva uno spirito di divinazione cominciò a gridare: (At  16,17), Paolo non sopportando questa cosa  si volse allo spirito e, nel nome di Gesù Cristo, gli ordinò di partire da lei.  Essa fu guarita e non profetizzava più. Poiché il padrone della schiava guadagnava su di essa portarono Paolo e Sila sulla piazza principale e li accusarono di portare disordine. I due furono picchiati ed incarcerati, ma, mentre questi pregavano e cantavano inni a Dio, verso la mezzanotte venne un forte terremoto che apri tutte le porte e sciolse le catene. Visto questo, il carceriere ebbe paura perché pensava che i prigionieri fossero fuggiti, poi quando li vide liberi e si converti, e la mattina dopo i due furono liberati e partirono. 

Giunti a Tessalonica passando da Anfìpolis ed Apollonia, il porto principale ed il centro commerciale della Macedonia. Qui Paolo si recò nella sinagoga dei Giudei e lo fece per tre sabati di seguito discutendo sulle Scritture. Alcuni Giudei e  parecchi Greci crederono. Ma i Giudei, ingelositi, organizzarono alcuni pessimi individui contro di loro. I fratelli, durante la notte, fecero partire Paolo e Sila verso Berèa. Giunti a Berèa andarono nella sinagoga dei Giudei, questi erano di sentimenti più nobili ed accolsero la parola con entusiasmo. Credettero anche alcune donne greche e parecchi uomini.  Ma quando gli Ebrei di Tessalonica arrivarono a Berea per organizzare di nuovo la gente, questi dovettero abbandonare anche questa città.  Di qui Paolo recò ad Atene, la città, centro spirituale dell’ellenismo pagano, era piena di idoli e Paolo fremeva nel suo cuore.  Paolo discuteva nella sinagoga e nel mercato ogni giorno, chiamato da alcuni  si recò all’Areopago, qui fece un discorso richiamandosi ad un ara dedicata al e annunziò che questo era il Dio che aveva creato il mondo e tutto ciò che contiene, il Dio che da la vita, ma, quando annunziò la risurrezione di Gesù  molti lo derisero, alcuni, però, aderirono a lui e credettero. 

Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto; questo punto si può considerare l’inizio del terzo viaggio missionario; 

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