Archive pour la catégorie 'Paolo – la sua vita, i viaggi missionari, il martirio'

Si tratta di una presentazione della storia di San Paolo completata da due cronologie diverse…metto la presentazione ed il link

metto sotto solo l’introduzione, non è possibile copiare (copia e incolla) perché alcuni scritti sono rientranti rispetto al testo, cioè una grafica che non posso riportare, quindi metto la presentazione e il link, è molto interessante, dal sito:

http://www.innomedimaria.it/san_paolo/san_paolo.htm

San Paolo

 l’Apostolo delle Genti, fedele a Gesù Cristo
 

S’intende qui affiancare agli avvenimenti accaduti tra il 34 e il 70, secondo la cronologia tradizionale, quali risultano dalla “Storia dei Vangeli”, quelli desumibili dalla biografia di san Paolo storicamente accertata, in particolare da Marta Sordi, docente di Storia romana e greca presso l’Università Cattolica di Milano.

Contemporaneamente si mostreranno le correzioni cronologiche necessarie a ristabilire la continuità dei fatti storici, risolvendo pure quei problemi di storia della Chiesa e di storia romana che sembrano un vero enigma.

Gli eventi della vita di san Paolo lumeggiano in modo particolare la simpatia del mondo romano per il Cristianesimo nascente prima della svolta Neroniana, si pongono in continuità con l’opera di Teofilo presso Tiberio, spiegano la diffusione del Cristianesimo a Roma e poi in tutto l’Impero a partire dalle case romane (le chiese domestiche) tramite la conversione del paterfamilias o della domina con neutralità benevola del paterfamilias.

Ancora oggi, come nell’antica Roma imperiale, la fede del paterfamilias e/o della domina (la moglie/madre) distinguono le famiglie cristiane da quelle non cristiane, con ripercussioni incalcolabili sui figli.

Le catene di San Paolo

dal sito:

http://www.zenit.org/article-17551?l=italian

Le catene di San Paolo

ROMA, lunedì, 16 marzo 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo di Graziano Motta apparso sul nono numero della rivista « Paulus » (marzo 2009), dedicato al tema “Paolo il prigioniero”.

* * *

La Catena di san Paolo, che secolare tradizione vuole abbia segnato la sua condizione di prigioniero in Roma, è stata oggetto in occasione dell’Anno Paolino di una straordinaria operazione di “visibilità”. Lo scorso anno infatti, ai primi di giugno, ha lasciato il posto d’onore che per secoli aveva mantenuto nella piccola Cappella delle reliquie dell’Abbazia dei monaci benedettini – dentro un reliquiario a forma di tabernacolo, di ottone dorato e cristallo – per essere esposta alla venerazione dei fedeli. La Catena, ora posta dentro un’ampia teca illuminata e visibile in tutta la sua estensione, è stata collocata vicino al sepolcro dell’Apostolo. Con la collocazione della Catena proprio vicino alla più preziosa reliquia di san Paolo, il sarcofago con i suoi resti mortali, l’impatto emozionale dei visitatori è indubbiamente cresciuto. La Catena non è lunga come doveva essere all’inizio, cioè – si presume – più o meno un metro. È composta da nove anelli che hanno la forma del numero otto. E è leggera, diversamente dalle due pesanti catene venerate nella chiesa romana di San Pietro in Vincoli, a cui appunto, tradizione vuole, fu “incatenato” san Pietro. La Catena di san Paolo serviva invece per tenere il suo polso agganciato al soldato che ne sorvegliava la prigionia a Roma, negli anni tra il 61 e il 63 d.C., in particolare quando uscivano dalla casa dove viveva in regime di libertà vigilata. Potrebbe essere stata la catena che lo trattenne al soldato sino alle Acque Salvie, il luogo del martirio, oggi noto come Le Tre Fontane. Una testimonianza tramandata dagli Acta Petri et Pauli, apocrifi dei secoli IV e VII ricorda l’episodio di una donna, di nome Perpetua, cieca di un occhio, che viene miracolata quando si imbatte in Paolo in catene e, commossa, scoppia in lacrime. È di san Giovanni Crisostomo (344-407) la prima testimonianza della venerazione della Catena di san Paolo, del quale fu grande ammiratore; suoi fra l’altro i commenti più profondi alle Lettere dell’Apostolo che ci siano giunti dall’antichità cristiana; e al Crisostomo si deve la stabile introduzione nella Divina Liturgia, che porta il suo nome, della lettura di un passo delle Lettere. Seguono le testimonianza di san Leone Magno e di san Gregorio Magno, papa il primo dal 440 al 461, il secondo dal 590 al 604, che con la Basilica di San Paolo ebbero un rapporto importante. Furono infatti impegnati entrambi a difenderla dalle inondazioni del vicino fiume Tevere: papa Leone fece costruire una piattaforma coperta per il sarcofago dell’Apostolo, mentre papa Gregorio fece sollevare questo piano per creare un accesso diretto dal presbiterio al sarcofago attraverso una cripta. Sulla venerazione della Catena, papa Gregorio scrisse una lettera a Costantina Augusta, il cui testo integrale (cfr. Migne P.L. LXXVII, 704) è apparso in uno studio di padre Anselmo Tappi-Cesarini sulla rivista Benedectina VIII del 1954. Dopo aver parlato di questa reliquia (De catenis quas ipse sanctus Paulus Apostolus in collo et in manibus gestavit) e dei miracoli attribuitile (ex quibus multa miracula in populo demonstrantur), il Pontefice promette che ne invierà una parte alla moglie dell’Imperatore… si presume alcuni anelli (partem aliquam vobis trasmettere festinabo). Riferisce poi della tradizione, allora invalsa, di dare la limatura della catena ai devoti (quia dum frequenter ex catenis eiusdem multi venientes benedictione petunt, ut parum quid ex limatura accipiant); un’operazione alla quale attendeva un sacerdote (assistit sacerdos cum lima). Ma accadeva sovente che «inutilmente egli si affaticava a menar su e giù la lima, poiché il ferro non si lasciava intaccare» (così traduce un’antica Guida della Basilica di San Paolo: et aliquibus petentibus ita concite aliquid de catenis ipsis excutitur, ut mora nulla sit. Quibusdam vero petentibus, diu per catenas ipsas ducitur lima, et tamen ut aliquid exinde exeat non obtinetur ). Si sa che la limatura veniva versata in un bicchiere d’acqua, bevuta da ammalati che imploravano la guarigione. Padre Tappi-Cesarini scrive che «il Rucellati, il Panvinio e il Mercurius confermano l’esistenza della catena di san Paolo nel reliquiario del monastero di San Paolo. Così pure gli inventari della Sacrestia dal 1630 al 1727». Sull’autenticità delle antiche testimonianze non può esserci alcun ragionevole dubbio: la venerazione della Catena come reliquia ex contactu si è protratta ininterrottamente sino a oggi. Ancora nel secolo scorso, nelle feste della Conversione di San Paolo (25 gennaio) e dei Santi Pietro e Paolo (29 giugno) il reliquiario veniva solennemente esposto e, dopo le funzioni, era offerto al bacio dei fedeli. «Al 30 giugno, dopo la Cappella Papale – ricorda padre Tappi-Cesarini – il corteo dei vescovi assistenti al soglio, guidati dal cerimoniere pontificio, si reca all’altare per il bacio della Catena. Nel giorno poi della stazione quaresimale, feria quarta in tradizione symboli, viene portata in processione per le navate della basilica». Attualmente questa processione avviene il 29 giugno, al termine dei Vespri della solennità dei santi Pietro e Paolo. L’Abate benedettino e i monaci – accompagnati di recente anche da rappresentanti di diverse confessioni cristiane in Roma – percorrono con la reliquia la zona adiacente alla Basilica.

Impossibile sapere quanti fossero all’inizio gli anelli della Catena. Dei tredici che erano stati inventariati nel 1639 e collocati su una Statua d’argento di san Paolo, oggi ne rimangono soltanto nove. Gli ultimi due anelli furono donati da papa Giovanni Paolo II all’arcivescovo di Atene Christodoulos e consegnati a lui personalmente il 14 dicembre 2006 dall’arciprete della Basilica – il cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo – che ricevette in contraccambio un’icona moderna di Paolo, di scuola greca, posizionata sulla parete della navata mediana destra della Basilica. L’icona è sempre illuminata per richiamare l’attenzione e la venerazione dei pellegrini, soprattutto di quelli ortodossi; una targa fa memoria dell’evento ecumenico. Ed è stato sempre il cardinale Montezemolo a volere il trasferimento della Catena dalla Cappella delle reliquie all’area del Sepolcro di Paolo, e ad affidare il disegno della teca espositiva allo scultore Guido Veroi, 82 anni, Accademico Pontificio nella sezione delle Arti. Veroi aveva già progettato, su suo incarico, la medaglia commemorativa dell’Anno Paolino (disponibile nelle coniazioni in bronzo e in argento) e soprattutto la Porta Paolina della Basilica. Della Porta Paolina – nel Quadriportico d’ingresso è la seconda da sinistra – Veroi ha disegnato in quattro grandi pannelli altrettanti episodi della vita dell’Apostolo e, in sei più piccoli, stemmi e iscrizioni tratti dalle Lettere [cfr. Paulus 2, pp. 62-63]. Questi pannelli – collocati pochi giorni prima dell’apertura dell’Anno Paolino – verranno però sostituiti entro il 29 giugno. «In questi giorni – ci spiega Veroi – per rispettare i tempi, sto modellando, con l’aiuto di una mia allieva, i quattro grandi pannelli relativi agli episodi della vita di san Paolo, che verranno poi realizzati in bronzo». Veroi è divenuto celebre con le Caravelle di Colombo della prima moneta d’argento della Repubblica Italiana, emessa nel 1954. La sua fama è cresciuta nel tempo, e non solo con le centinaia di medaglie e di monete che recano la sua firma (l’ultima è la moneta di 2 euro che lo Stato della Città del Vaticano ha emesso nel 2008, “anno dedicato a San Paolo” e quarto del pontificato di Benedetto XVI). Ricordiamo le porte della chiesa dello Spirito Santo a Pescara, con i mosaici di altre chiese – rinomato quello della parrocchia Santa Famiglia di Martina Franca – e con la copia in bronzo realizzata nel 1995 della statua equestre di Marco Aurelio collocata nella piazza del Campidoglio di Roma, in sostituzione dell’originale antico, ora custodito nel Museo Capitolino. La Teca delle Catene è in bronzo patinato, biondo, con una finestra in cristallo sempre illuminata. È di proporzioni rettangolari: lunga 87,20 centimetri, larga 42,20, alta 62. Ma se si considerano le tre statuette in alto – san Paolo in catene fra due soldati romani – raggiunge gli 85 centimetri. La finestra, lunga 70 centimetri, consente di vedere in tutta la loro estensione i nove anelli della Catena, disposti sopra un rivestimento di seta bianca. «Ho voluto – dice Veroi – che questi anelli fossero trattenuti all’estremità da due riproduzioni di una moneta romana, da me modellata in diametro doppio dell’originale, di un sesterzio con l’effigie di Nerone, per ricordare che san Paolo fu prigioniero e martire nel tempo in cui questi fu imperatore di Roma». La teca è stata posta davanti al Baldacchino di Arnolfo di Cambio su un piano inclinato, per cui per il lato anteriore è stato necessario modellare due grosse zampe di leone, mentre per il lato posteriore è stato sufficiente appoggiare la teca su due piccoli cilindri. Poi il maestro Veroi ci tiene a ricordare chi lo ha affiancato nel lavoro: la sua allieva Gabriella Titotto «che ha modellato i tre personaggi posti poi sul colmo: san Paolo in catene tra due soldati romani; e le zampe di leone, le colonne scanalate e gli acroteri che sormontano le quattro colonne». E il cesellatore che ha realizzato in bronzo l’intera teca, il suo montaggio e la sua collocazione sul marmo inclinato: Remo Mansutti, «artista validissimo con il quale ho rapporti di lavoro da oltre cinquant’anni, con grandi soddisfazioni». Così la Catena è stata restituita alla secolare venerazione dei pellegrini, proprio in occasione dell’Anno Paolino: si può proprio parlare di un evento incastonato nelle celebrazioni dell’Apostolo.

Graziano Motta

Ravasi: «S. Paolo non pensava di subire il martirio a Roma»

dal sito:

http://www.laprovinciadicomo.it/stories/Cultura%20e%20Spettacoli/83088_ravasi_s._paolo_non_pensava_di_subire_il_martirio_a_roma/

Ravasi: «S. Paolo non pensava di subire il martirio a Roma»

28 luglio 2009

San Paolo non pensava di morire martire a Roma. Lo sostiene monsignor Gianfranco Ravasi, già Prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che da due anni ricopre la carica di Presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, nonché del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa. L’insigne biblista ha illustrato a « La Provincia », in un’intervista esclusiva, i risultati delle nuove e recenti scoperte avvenute a Roma.

Monsignor Ravasi, qual è il nucleo di maggior interesse dell’esposizione?

«Gli scavi più recenti nella Basilica di S.Paolo hanno restituito reperti e testimonianze che, trasportate nei Musei Vaticani e in parte qui esposte, costituiscono gli elementi più interessanti della mostra».

Vuol parlarcene, monsignor Ravasi, specificando se costituiscono una testimonianza della presenza del corpo di S.Paolo nella sepoltura sotto la Basilica di via Ostiense?

«Tra i quattro sarcofagi paleocristiani rinvenuti nel sottosuolo basilicale, accanto alla sepoltura di S.Paolo è riaffioro quello di S.Timoteo, ritenuto suo discepolo: anche se è poi risultato un martire del secolo IV, è indicativo che il suo sarcofago sia stato collocato qui, accanto a quello ormai ritenuto di S.Paolo, del quale in mostra è presentato il calco del coperchio con l’iscrizione « Paulo Apostolo Martyri ». Inoltre, nell’orto retrostante la basilica, sono stati scoperti frammenti di vari marmi classici di reimpiego».

Di che reperti si tratta, precisamente?

«Sono stati rinvenuti un putto, la figura alata forse di una Vittoria, un Ippolito, monete dall’età romana al VII secolo, che attestano la realtà pagana in cui si impiantò il primo Cristianesimo e in cui operò S.Paolo. Infatti i resti ossei e proteici rilevati dalla sonda recentemente inserita nel sarcofago paolino, sottoposti all’esame del carbonio 14 sono risultati del primo secolo dopo Cristo».

Perché l’Apostolo, dopo i viaggi e le predicazioni in Asia Minore, decise di venire a Roma, dove lo attendeva il martirio?

«Paolo di Tarso non si aspettava il martirio. Aveva grande fiducia nella lex romana. Era un Ebreo della parte dei Farisei, ma parlava e scriveva greco, aveva familiarità con lo sport – da esso sono tratte le sue metafore « sto per sciogliere le vele », « ho terminato la mia corsa », « ho conservato alta la fiaccola della fede », « ho combattuto la buona battaglia ». Soprattutto Paolo era cittadino romano e nutriva una incrollabile fiducia nella tradizione giuridica di Roma: pur essendo stato arrestato a Gerusalemme dal Sinedrio probabilmente come sovversivo, ed avendo trascorso gli arresti domiciliari a Cesarea, chiese lui stesso di essere processato a Roma».

Qui San Paolo fu dapprima liberato, poi nuovamente arrestato sotto Nerone e decapitato sulla via Laurentina, nel 67 circa. Il luminoso ritratto affrescato nelle Catacombe di Domitilla (secolo III-IV), è talmente naturale da far ipotizzare un modello tramandato oralmente. Ora è stato scoperto un altro indubbio ritratto…..

Dagli scavi in corso condotti dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra nelle Catacombe di S.Tecla, prossime alla Basilica di S.Paolo, è affiorata nella volta di un cubiculum un’immagine affrescata assai espressiva dell’Apostolo, del IV secolo circa, coi tipici caratteri della calvizie e della barba a punta, che sarebbe la più antica».

Gli indizi sull’identità della tomba di San Paolo si accumulano, convergendo sul sepolcro poi monumentalizzato dalla Basilica di età teodosiana incendiata nell’Ottocento, e confermati dall’esame del carbonio 14. Ma da parte laica si chiede l’analisi del Dna dei resti ossei del sarcofago di S.Paolo…

«Il Vaticano non ritiene per ora di procedere ad ulteriori prove di carattere scientifico».

Gli anni oscuri di Paolo, L’apostolo in Arabia, Siria e Gerusalemme

dal sito:

http://www.saverianibrescia.com/missionari_saveriani.php?centro_missionario=archivio_rivista&rivista=2009-02&id_r=51&sezione=missione_e_spirito&articolo=gli_anni_oscuri_di_paolo&id_a=1510

Gli anni oscuri di Paolo
 
L’apostolo in Arabia, Siria e Gerusalemme   di: p. Fabrizio Tosolini, sx 

  Pensiamo di sapere quasi tutto della vita e dell’azione missionaria di Paolo. In realtà non è così: ci sono dei periodi di cui non sappiamo quasi niente. Tra questi, il tempo che segue la conversione di Paolo fino al suo ritorno a Tarso (tra il 33 e il 38), e poi la sua presenza ad Antiochia fino a circa il 46, quando ha intrapreso il suo primo viaggio missionario. Un periodo « oscuro » di circa 13 anni.
Paolo ci informa che dopo la conversione egli va in Arabia, poi torna a Damasco (Gal 1,17-18). Dove si trova l’Arabia di cui parla? A quel tempo si chiamava « Arabia » un territorio molto vasto, difficile da definire: una regione a sud della fortezza di Macheronte, abitata dai nabatei, e con capitale Petra. C’era tensione tra questa popolazione e i giudei della Palestina.

In Arabia Paolo non vive come un eremita: sembra invece che abbia subito cominciato ad evangelizzare. Dove, in quali ambienti e occasioni, a chi, in che lingua, cosa ha detto…, di tutto questo non sappiamo niente. 

Paolo lavora. È fabbricante di tende, come ci racconta Luca (At 18,3). Dovunque c’è bisogno di tende: tende di lino leggero per ripararsi dal sole nei mercati e nelle case; tende di lino pesante o di cuoio, per ripararsi dalla pioggia; senza contare le vele per barche e navi, e tutte le riparazioni necessarie su oggetti di cuoio, dalle calzature ai finimenti degli animali.

A Paolo occorrono pochi arnesi, leggeri e facili da trasportare: un coltello a mezzaluna, aghi e filo cerato, una lesina. Può trovare lavoro in ogni città, su ogni strada, nei porti o sulle navi. Mentre lavora può parlare con chi lo avvicina, nel negozio; se viene impiegato da un datore di lavoro o al mercato, attendendo i clienti.

Così vediamo Paolo in qualche città nabatea, forse a Petra, impegnato nel lavoro e ancor più nel parlare di Cristo. E siccome c’è tensione tra nabatei e giudei, anche il giudeo Paolo non passa inosservato. La sua predicazione deve aver suscitato il sospetto di qualcuno, timoroso che una nuova setta giudaica venisse a creare confusione tra la popolazione. Così Paolo torna in Siria, a Damasco, in un ambiente più tranquillo all’ombra delle aquile romane.

La città di Damasco era fortemente ellenizzata e i giudei erano una minoranza. Paolo divide il suo tempo tra il lavoro e i dialoghi con tutti coloro che si incuriosiscono delle sue idee. Quando però nel 37 d.C., Gaio Caligola sale al trono, questi affida la difesa della Siria proprio ai nabatei, che prendono il controllo della città. Paolo deve fuggire, di notte, calato dalle mura in una cesta (2Cor 11,33).

Questa volta prende la strada per Gerusalemme (una settimana, a piedi) per incontrare la chiesa della città santa. Qui incontra Pietro e sicuramente gli fa tutte le domande possibili e immaginabili su Gesù, che Pietro aveva conosciuto e che Paolo desiderava conoscere dopo aver creduto in lui.

Paolo evangelizza. A proposito di tutte queste vicende, il racconto di Luca (At 9,19-30) ci presenta Saulo a Damasco, impegnato a testimoniare Cristo nelle sinagoghe, di fronte ai giudei. Proclama Gesù Figlio di Dio e Cristo, confondendo e irritando i giudei a tal punto che decidono di ucciderlo. Per questo fugge da Damasco, aiutato dai suoi discepoli. Va quindi a Gerusalemme, dove il suo nome evoca ancora tristi ricordi. C’è comunque l’intervento di Barnaba che lo presenta agli apostoli e così anche a Gerusalemme Paolo può predicare. Anche qui però i giudei (quelli di lingua greca), particolarmente accesi nel difendere la tradizione, cercano di ucciderlo. Per questo viene condotto a Cesarea e di là fatto imbarcare per Tarso.

Gli anni che seguono, dal 38 al 46, sono avvolti nell’ombra. Otto anni di cui sappiamo poco, ma che possiamo immaginare spesi tra viaggi e predicazione, forse facendo riferimento alla chiesa di Antiochia e come aiutante di Barnaba. 

Paolo e noi. Visto dall’esterno, Paolo appare un operaio itinerante che, come Socrate, ha la passione di intavolare discorsi profondi negli ambienti pubblici. Discorsi che gli creano amici e oppositori, in mezzo a una situazione socio-politica piuttosto turbolenta. Paolo non si lascia condizionare da questo. Pensa solo al vangelo di cui è debitore a giudei e a greci.

E noi? Tutti andiamo al lavoro, in una situazione socio-politica non sempre tranquilla. Ci interessa il vangelo? Se non c’è passione di parlare di Cristo non andiamo molto lontano.

PAOLO APOSTOLO E TESSITORE DI TENDE, LA BOTTEGA COME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

dal sito:

http://www.saverianibrescia.com/missione_oggi.php?centro_missionario=archivio_rivista&rivista=&id_r=44&sezione=alla_luce_della_parola_&articolo=paolo_apostolo_e_tessitore_di_tende&id_a=1301

PAOLO APOSTOLO E TESSITORE DI TENDE

LA BOTTEGA COME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

A CURA DELLA REDAZIONE 

L’articolo è tratto liberamente da una riflessione di Ronald F. Hock in The Social Context of Paul’s Ministry: Tentmaking and Apostleship, Philadelphia, Fortress 1980.

In uno dei suoi trattati politici, Plutarco critica alcuni filosofi perché rifiutavano di conversare con le autorità nel timore di essere considerati ambiziosi o troppo ossequienti. Per evitare il diffondersi di una tale situazione, Plutarco suggerisce che l’unica alternativa per l’uomo dalla mente aperta e desideroso di praticare la filosofia è fare l’artigiano, per esempio, il calzolaio, in modo da avere l’opportunità di conversare nella bottega, come Simone il calzolaio aveva fatto con Socrate. Questo suggerimento di Plutarco, che la bottega fosse un luogo che potesse ospitare discorsi intellettuali, è interessante e fa sorgere l’interrogativo se altre botteghe, specialmente quelle usate ai suoi tempi da Paolo, il tessitore di tende, nei suoi viaggi missionari, siano state utilizzate allo stesso modo nelle città della Grecia orientale. Questa tesi, pur avanzata dagli studiosi, non è mai stata studiata a fondo. Questo articolo è un tentativo di approfondire l’esame dei contesti sociali in cui si sono svolti la predicazione e l’insegnamento dei primi cristiani.

È noto che Paolo era un tessitore di tende. Questo suo lavoro è sempre stato considerato come un’eredità della sua tradizione ebraica. L’attività lavorativa di Paolo è considerata come un residuo della sua vita di fariseo ed è spiegata nei termini di un ideale rabbinico che cerca di associare lo studio della Torah con la pratica di un mestiere. Vorremmo ora portare il dibattito al di là dell’aspetto strettamente ebraico. 

LA BOTTEGA DI PAOLO 

Per una discussione sull’uso missionario della bottega da parte di Paolo, si deve sottolineare l’evidenza che lo colloca nelle botteghe delle città da lui visitate. Luca indica che  Paolo aveva lavorato come tessitore di tende solo in Corinto e Efeso (At 18,3; 20,34); ma le Lettere di Paolo aggiungono Tessalonica (1 Ts 2,9) e – più importante – afferma che in generale la pratica missionaria era di lavorare per potersi mantenere (1 Cor 9,15 – 18). E allora, il riferimento di Paolo al lavoro di Barnaba per sostenere se stesso (1 Cor 9,6) dovrebbe coprire i cosiddetti primi viaggi missionari e la sua permanenza in Antiochia (At 13,1 – 14,25; 14,26-28; 15,30-35), il tempo in cui Luca pone Barnaba come suo compagno di viaggio. Il riferimento di Paolo al suo lavoro a Tessalonica (1 Ts 2,9) e la sua conferma dell’affermazione di Luca riguardante Corinto (1 Cor 4,12) si applicherebbe anche al secondo viaggio missionario (At 16,1 – 18,22). Il riferimento al suo lavoro in Efeso (cfr. 1 Cor 4,11: « fino ad ora »), di nuovo conferma il ritratto di Luca e la sua insistenza nel mantenersi economicamente, durante un futuro viaggio a Corinto (2 Co 12,14), confermerebbe questa pratica anche nel terzo viaggio missionario (At 18,23 – 21,16). In At 28,30 vediamo Paolo presumibilmente lavorare in seguito anche a Roma. In breve, le Lettere e gli Atti mettono in evidenza l’Apostolo nelle botteghe dove predicava e insegnava. Ma che cosa faceva Paolo nella bottega, oltre al suo lavoro di tessitura? Di cosa parlava? Sfruttava l’occasione per una predicazione missionaria?

Una risposta affermativa sembra verosimile, dato il suo impegno nella predicazione del Vangelo. Però né le Lettere, né gli Atti dicono esplicitamente che Paolo utilizzava la bottega per la predicazione. Il silenzio delle Lettere in proposito non è un problema, perché Paolo è di solito silenzioso o vago sulle circostanze della sua predicazione missionaria (cfr. per esempio 1 Cor 2,1-5). Con gli Atti tuttavia la situazione è diversa. 

Il silenzio di Luca negli Atti può essere parzialmente spiegato perché l’evangelista era interessato a raccontare le esperienze di Paolo nella sinagoga. Solo in Atene, il centro della cultura greca e della filosofia, questo interesse è lasciato da parte in deferenza alle esperienze di Paolo al mercato (At 17,17) e specificatamente alle sue conversazioni con i filosofi stoici ed epicurei (ver.18) che portarono al discorso dell’Apostolo  all’Aeropago (22-31). Qui Luca si avvicina molto nel menzionare le conversazioni della bottega, ma non lo fa, poiché le discussioni con i filosofi sono probabilmente da collocarsi sotto i portici della città, forse la Stoà di Attalos ad Atene.

La possibilità di fare conversazioni in bottega è intuibile da un brano delle Lettere di Paolo: il sommario dettagliato dell’attività missionaria dell’Apostolo nella città di Tessalonica (1 Ts 2,1-12). Al versetto 9, il lavoro e la predicazione sono accennati insieme: « Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il Vangelo di Dio ».

L’ATTIVITÀ MISSIONARIA

Se questi sei passi scelti dagli Atti e dalle Lettere parlano di Paolo che utilizzava le botteghe come contesti sociali per la sua predicazione missionaria, bisogna interpretare questi contesti come entità a sé, oppure confrontarli con la vita intellettuale delle città che egli ha visitato. Se la bottega è stata un contesto sociale dell’attività missionaria, per Luca questa era solo uno dei tanti luoghi in cui l’Apostolo predicava. Più frequentemente egli indica la sinagoga. Paolo predica nelle sinagoghe di Damasco (At 9,20), Gerusalemme (At 9,29), Salamide (At 13,5), Antiochia di Pisidia (At 13, 14, 44), Iconio (At 14,1), Tessalonica (At 17,1), Berea (At 17,10), Atene (At 17,17), Corinto (At 18,4) e Efeso (At 18,19; 19,8). Un altro contesto missionario importante è la casa, specialmente quelle di Lidia a Filippi (At 16,15, 40), di Tizio Giusto a Corinto (18,7) e di un cristiano non identificato a Triade (20,7-11) e di parecchie persone a Efeso (20, 20). Altre case devono essere incluse, anche se Luca non vi fa menzione di attività missionaria: la casa di Giasone a Tessalonica (17, 5-6), di Aquila e Priscilla a Corinto (18, 3), di Filippo a Cesarea (21, 8), di Mnasone di Cipro, presumibilmente a Gerusalemme (21, 16-17) e forse quelle di parecchi altri (cfr. 16,34; 21, 3-5, 7).

Ulteriori segni che indicano la varietà dei contesti sociali nella missione di Paolo sono la residenza del proconsole di Cipro, Sergio Paolo  (13, 6-12), la porta della città in Listra (14, 7, 15-18), la scuola di Tiranno a Efeso (19, 9-10) e il pretorio a Cesarea (24, 24-26; 25, 23-27). Insomma, se la bottega era un contesto sociale per l’attività missionaria di Paolo, era solo uno dei tanti. 

IL PULPITO, LA PIAZZA E LA BOTTEGA  

La pratica dei filosofi sopra descritta può aiutarci a capire anche ciò che avveniva nella bottega di Paolo. Lo possiamo immaginare nelle lunghe ore al tavolo di lavoro mentre taglia e cuce le pelli per fare tende. Egli si rende autonomo economicamente, ma ha anche possibilità di portare avanti il suo impegno missionario (cfr. 1 Ts 2, 9). Seduti nella sua bottega troviamo i suoi compagni di lavoro o qualche visitatore, clienti e forse qualche curioso che aveva sentito parlare di questo « filosofo » tessitore di tende appena arrivato in città. In ogni caso sono tutti là ad ascoltare e a discutere con lui, che porta il discorso sugli dei ed esorta i presenti ad abbandonare gli idoli e a servire il Dio dei viventi (1, 9-10). In questo modo, certamente qualcuno degli ascoltatori, un compagno di lavoro, un cliente, un giovane aristocratico o forse anche un filosofo cinico, sarebbe stato curioso di sapere di più di Paolo, delle sue chiese, del suo Signore e sarebbe tornato per  un colloquio privato (2, 11-12). Da queste conversazioni di bottega alcuni avrebbero accolto le sue parole come Parola di Dio (2, 13).

Per Paolo, il missionario, quindi, il pulpito della sinagoga non bastava, ma usciva anche in piazza ed entrava nella sua bottega. « Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16).       

A CURA DELLA REDAZIONE

Il contesto storico 

Esaminiamo la pratica paolina nel contesto della vita intellettuale della Grecia orientale dei suoi tempi. Ad Atene, nel quinto e quarto secolo a. C., alcuni contesti specifici, inclusa la bottega, erano diventati normali per l’attività intellettuale ed ancora esistevano ai tempi di Paolo. Senofonte descrive Socrate mentre discute di filosofia in varie botteghe, tra cui quelle di un pittore, di uno scultore, di un fabbricante di armature. Platone menziona le bancarelle del mercato come abituale ritrovo di Socrate. Naturalmente la bottega non era il suo solo ritrovo: lo si poteva trovare in altre parti del mercato, come la stoà o altri edifici pubblici, nel ginnasio o nelle case di amici. In un certo senso la pratica di Socrate era tipica dei suoi giorni, data l’abitudine della gente di frequentare i negozi e i banchi del mercato. Ma, in un altro senso, l’abitudine di Socrate era molto atipica, non solo a causa dell’alto contenuto intellettuale delle sue conversazioni, ma anche per l’effetto limitato che questa sua pratica ebbe sui filosofi che lo seguirono. A giudicare da quanto riferisce Diogene Laerzio, i discepoli di Socrate non discutevano di filosofia nella bottega, anche se alcuni di essi da studenti lo avevano accompagnato, per esempio, alla bottega del sellaio. 

I seguaci di Socrate, scegliendo il ginnasio o altri edifici, praticavano una filosofia meno pubblica rispetto al loro maestro. Il numero delle persone che partecipava a queste discussioni nelle botteghe non poteva essere grande. Spesso erano solo in due, Socrate con Simone e Crate con Filisco. Gli argomenti trattati erano molti: dalle discussioni che riguardavano i commerci degli artigiani a temi più interessanti: gli dei, la giustizia, la virtù, il coraggio, la legge, l’amore, la musica, ecc.

Nell’anno di San Paolo – Il viaggio e la piazza nell’incontro tra civiltà e popoli

è molto interessante, lo metto nella categoria : vitam, viaggi missionari ecc.  perché non so come collocarlo, dal sito:

http://www.calabresi.net/20081002701/Fede-teologia-e-storia-della-salvezza/nellanno-di-san-paolo-il-viaggio-e-la-piazza-nellincontro-tra-civilt-popoli.html

Nell’anno di San Paolo – Il viaggio e la piazza nell’incontro tra civiltà e popoli
      
La Cultura Calabrese 
Segnalato da Pierfranco Bruni    
Giovedì 02 Ottobre 2008 03:01 

di Pierfranco Bruni

Nell’anno Paolino discutere dei temi cari a San Paolo è un dovere ma anche una necessità religiosa ed esistenziale. Uno dei temi fondamentali è il rapporto che Paolo ha stabilito con i luoghi. Il viaggio stesso è dentro il camminamento dei luoghi. I luoghi reali e i luoghi metafora. I luoghi tempo e i luoghi missione. La piazza è un luogo non solo archetipo e simbolo nella geografia paolina ma è soprattutto il disegno di una nostalgia dell’incontro tra civiltà e popoli.

Paolo ci porta la nostalgia dell’incontro. Nella nostalgia la memoria non è passato ma è la traccia che viviamo, è la traccia della ricerca che viviamo per ritrovarci e per ritrovare una eredità nel viaggio. I viaggi di San Paolo sono stati sempre un camminare alla ricerca del Centro. Il Centro come elemento metaforico e quindi constatazione metafisica ma anche come una realtà geografica dove il tutto si focalizza intorno ad un tema di fondo che viene ad essere determinato da una parola fondamentale che è l’Incontro.
In San Paolo tutto avviene intorno alla possibilità di fare del Centro il vero modello di correlazione tra il dentro e il fuori. È vero che San Paolo è il viaggio ma è anche vero che il viaggio si materializza non solo nella comunione della parola ma anche nella definizione di un luogo o dei luoghi. Dove avviene il passaggio dal fisico al metafisico in Paolo? Si compie lungo una strada, ovvero lungo la strada per Damasco. Damasco è la lettura del tutto.

La parola di Paolo dove si espande o meglio come cerca di espandersi e attraverso che cosa? Uomo della conversione, che si converte alla parola della cristianità, trasmette le parole in un luogo per eccellenza di derivazione mediterranea che è l’agorà o meglio l’uomo convertito usa le lingue per comunicare una consapevolezza dentro una geografia che è rappresentata dal luogo e in questo luogo confluiscono le strade dei popoli.

Paolo parla nell’agorà per portare la propria testimonianza in una esperienza di missione e l’agorà in quel tempo e non solo in quel tempo rappresentava il centro della città, quel centro che accoglieva le diversità dei popoli e le manifestazioni delle culture. Il rapporto tra la città e l’agorà ha sempre costituito un intreccio di etnie. Paolo che è definito l’apostolo delle genti non solo è il testimone di due culture (quella giudaica e quella greco romana) ma è soprattutto il messaggero di un linguaggio che cerca di accomunare e sviluppa questa tesi in una forma universalistica mettendo “in piazza” il suo paesaggio linguistico.

Mettere in piazza per Paolo significa soprattutto comunicare semplicemente la Parola che possa trasmettere non valori in sé ma esempi e fede. L’agorà – piazza come centro della parola. D’altronde Paolo discute con quelli che incontra proprio nell’agorà (cfr. At 17) e Atene costituisce lo spazio dentro il quale si definisce il Centro. L’agorà è Centro, dunque, della città, perché è definizione dell’essere dei luoghi e dei non luoghi. Una visione che ha una sua realtà antropologica all’interno della geografia dell’esistere.

L’agorà è il Centro della discussione per tutti mentre l’Areopago (collina di Ares, dio greco della guerra, che rappresenta il punto più alto della città) è il luogo dell’approfondimento. Tanto che ad Atene Paolo viene spinto a discutere proprio nell’Areopago per dar vita a quegli argomenti che erano stati alla portata di una rappresentazione pubblica più complessiva. In fondo per Paolo la piazza costituisce anche il raccordo delle lingue attraverso un intreccio di riferimenti di appartenenza.

Le etnie sono l’intreccio di culture che si raccordano nello spazio aperto delle città. A chi si rivolge Paolo quando parla, quando usa la lingua e il linguaggio dei popoli e delle genti? Si rivolge alle comunità che in quel momento “affollano” lo spazio aperto e quello spazio si universalizza perché diventa pubblico. In fondo la parola di Paolo è sempre una parola pubblica che ha raccolto lungo le strade e sono le voci della strada che si ritrovano nella piazza.

In realtà la metafisica dell’anima paolina è rendere pubblico il messaggio. Andare oltre la stanza, oltre il margine, oltre le frontiere. Ma il superamento di tutto questo si vive, appunto, in uno spazio che non conosce pareti, ovvero la parola che proviene da una missione di trasmissioni di immagini, bensì una da un intreccio che lega il provvisorio con il definitivo. Paolo cerca di togliere il provvisorio dalla piazza e di portare, nello spazio aperto, il definitivo. Uscire dalla “casa” è un termine importante. Uscire dal chiuso per entrare nell’altrove.

C’è una metafora importante che insiste in questo immaginario di dimensioni di fede. La casa è il riparo. Il riparo da tutto. La piazza accoglie tutto. Quando arriva il vento se si chiudono le imposte non penetra il centro della casa. In piazza, invece, viene spinto dalle correnti delle strade e dai vicoli e trova nel centro della piazza tutte le voci dei venti che giungono da paesi e da civiltà altre. Il vento è nella piazza.

Nella piazza il tempo non può contarsi. Può soltanto raccontarsi come nostalgia del vissuto perché diventa non catturabile neppure l’istante. Nella casa si assiste all’illusione della clessidra. Ma è solo una illusione. Il tempo nella dimensione agorà – piazza si incontra costantemente con lo spazio. In Paolo il tempo è sempre tempospazio. I suoi viaggi sono percorsi lungo le rotte del tempospazio.

Dove accade quel che accade? Ha una sua importanza particolare proprio nel viaggiare. Il luogo si misura sempre con il tempo perché lo si accoglie o lo si respinge o si viene accolti o si viene respinti proprio in rapporto ad un legame tra esterno ed interno. Persino il dialogare assume una sua valenza metafisica ed estetica.

Il luogo può diventare universale o soltanto estremizzato nella intimità. Già di per sé la piazza ha una architettura che si presta all’incontro. E Paolo lo sapeva benissimo tanto che ha segnato la letteratura cristiana attraverso l’universalizzazione della parola. Perchè universalizzare non può avere segreti.

La piazza, in fondo, è il contrario della camera da letto. Proprio per questo il gioco indefinibile tra tempo e spazio assume chiavi di letture straordinarie. Il di dentro e il di fuori ha trovato in Gaston Bachelard quella metafora della “poetica dello spazio” che è rivelazione di significati e significanti. Ma il di dentro e il di fuori sono l’universalismo della metafisica della parola. Coincidono sempre e sono il segno del viaggio.

Paolo si serve dello spazio soprattutto per definirsi nella “poetica” del Centro e anche perché ha necessariamente bisogno di uno spazio reale. Il messaggero della cristianità deve comunicare la fede in uno spazio reale convinto che la piazza si identifica con le genti. Viaggio – città – piazza. È su queste coordinate che si caratterizza un incontro tra le lingue e tra popoli. In questa geografia San Paolo è destino e fede. 

dal sito:

http://www.novaramissio.it/EditorialiMario/SanPaolo.htm

SAN PAOLO: UN MISSIONARIO PIU’ ATTUALE CHE MAI

Per ogni missionario è difficile sottrarsi al fascino e alla personalità di San Paolo, per chi ha l’orizzonte dell’uomo e i confini del mondo piantati nel cuore, difficilmente riesce a non misurarsi con la figura di Paolo. Nell’immaginario collettivo della grande famiglia missionaria, Paolo è il primo vero autentico missionario, colui che sfruttando le maestose strade imperiali dell’antica Roma seppe portare il Vangelo da una delle province più periferiche nel cuore stesso dell’Urbe, allora « Caput Mundi »; i chilometri fatti a piedi, a cavallo e le miglia marittime percorse sulle trireme del tempo sorpassano ogni nostra immaginazione. Paolo, toccato nell’intimo della sua coscienza dall’incontro con Cristo sulla via di Damasco, dedicò tutta la sua vita a portare il Vangelo nel tessuto sociale delle città pulsanti dell’Impero dove si elaborava e si costruiva la vita ed il pensiero di popoli assai diversi tra di loro. Ma se colpisce l’ansia missionaria che portò Paolo a compiere diversi viaggi e ad inoltrarsi in lande sconosciute, sorprende ancora di più il coraggio con cui egli seppe guardare a viso aperto uomini e problemi del suo tempo e confrontarsi alla luce dell’insegnamento di Cristo sul destino dell’uomo.
Paolo, compiacente spettatore della lapidazione di Stefano e accanito persecutore dei primi cristiani, dopo l’incontro con Gesú di Nazareth (un incontro che possiamo definire un autentico mistero di fede) diventa egli stesso un Apostolo capace di suscitare nel cuore di molte persone il desiderio sincero di conoscere e seguire il Cristo.
Il Nuovo Testamento nel suo insieme ci presenta molto di più della vita di Paolo che non di quella di Gesù, le sue lettere che proclamiamo ed ascoltiamo nelle nostre Eucaristie domenicali, dimostrano quanta passione e quanto fuoco gli ardeva in cuore, le comunità da lui fondate e alle quali si rivolgeva sperimentano sulla loro pelle, allo stesso tempo rimproveri e tenerezza, correzione fraterna ed affettuosità. Paolo è un uomo eccezionale, pieno di passione e di vigore, di luce e di fuoco, in lui orgoglio ed umiltà, fascino e fortezza sono un’unica cosa. Ebreo osservante, esecutore zelante della legge di Mosè, diventa l’intrepido annunciatore del Vangelo che libera dalla legge facendo scoprire ad ogni uomo che egli è salvo, reso giusto non in virtù di vuoti ritualismi e precetti osservati scrupolosamente, ma per la gratuità sconfinata della Croce di Cristo; la fede nel Maestro rende giusto il peccatore e lo fa partecipe di quel mistero di Grazia in cui ciascuno si sente amato da Dio. Se il messaggio di Gesù imperniato sull’amore a Dio e al prossimo, che aveva come cardine il perdono da offrire anche al malvagio, era rivolto a tutti, nessuno escluso, anzi proprio coloro che erano i reietti, i peccatori, gli emarginati per eccellenza in una parola i « piccoli », si trovano ad essere i depositari privilegiati di quest’annuncio, che dà loro una dignità ed una coscienza di se stessi che nessun filosofo aveva mai osato affermare, questa tenerezza che fa del’ultimo degli schiavi un figlio prediletto di Dio e lo pone sullo stesso piano del più nobile tra gli aristocratici del tempo e dello stesso Imperatore, sarà vista come un messaggio pericolosissimo da bloccare con qualunque mezzo al fine di non scardinare un sistema di potere basato sulla schiavitù, sul dominio e sull’oppressione. Paolo porterà questo messaggio là dove era necessario che esso fosse conosciuto, inquietando in tal modo i governatori e gli imperatori di turno, ma egli non defletterà neanche di una virgola da questo compito che gli era stato affidato. Pur essendo l’ultimo arrivato tra gli Apostoli sarà quello che si opporrà anche a Pietro a viso aperto, ritenendo la sua apertura alle genti, autenticamente vicina al messaggio del Maestro.
Un personaggio così, che cosa può dire al cristiano d’oggi ed in modo particolare a chi ne ricalca le orme sui sentieri della missione? La risposta sta nello stile e nel modo di presentare il Vangelo tipico di Paolo: avere il coraggio di andare oltre, sempre! Senza fermarsi al dato acquisito o alla comunità calda, accogliente e gratificante che suadente ti invita a … restare! In secondo luogo guardare negli occhi – come Paolo – uomini e problemi che ti stanno davanti, le Agorà di oggi non sono meno problematiche ed inquietanti di quelle di allora, la grande tentazione per i cristiani di ogni tempo è di rinchiudersi in ovili protetti scantonando quelle che sono le sfide più crude che il mondo continuamente ti getta in faccia. Inoltre, la franchezza del linguaggio paolino, resta un valore oggi come ieri, anche se il modo di parlare paludato e « curiale » di certi ambienti ecclesiastici stride in maniera costante con il modo di fare di Paolo. Non ultimo la tenerezza che Paolo avvertì dentro di se dopo l’incontro con Gesù e che riversò abbondantemente sulle persone che incontrò e le comunità con le quali ebbe a che fare, ci ricordano come la buona notizia di Gesù di Nazareth è innanzi tutto amore sconfinato verso chi il mondo ignora, emargina o disprezza. Nell’anno Paolino voluto da Papa Ratzinger, riscoprire questi aspetti squisitamente missionari, ci aiuterebbe a recuperare quell’afflato paolino che certamente alberga in ciascuno di noi, un compito al quale non possiamo sottrarci.

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