Archive pour la catégorie 'Paolo – la sua vita, i viaggi missionari, il martirio'

Faccia a faccia con l’impero (anche Pietro e Paolo) (O.R.)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/218q04b1.html

Faccia a faccia con l’impero (Romano)

(anche Pietro e Paolo)

(L’Osservatore Romano 22 settembre 2009)

di Timothy Verdon

Tra le sorprese che una visita, anche sbrigativa e superficiale, riserva al turista in Vaticano è la scoperta di un paradosso:  del fatto cioè che il cristianesimo è nato praticamente assieme all’antico impero romano. L’evangelista Luca, introducendo il racconto della nascita di Gesù, specifica infatti che « in quei giorni un decreto di Cesare Augusto – cioè del primo imperatore romano – ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra » (Luca, 2, 1); era per registrarsi in obbedienza a questo decreto che il falegname giudeo Giuseppe, con la moglie incinta, Maria, si recò nella sua cittadina d’origine, Betlemme, dove il bambino venne alla luce.
Al primo degli imperatori, Augusto, morto nel 14, succede Tiberio, sotto la cui autorità Gesù è processato e condannato a essere crocifisso; i seguaci di Gesù, con Pietro per portavoce, incominciano ad annunciare pubblicamente la sua risurrezione meno di due mesi dopo (Atti, 2, 42). Alla morte di Tiberio nel 37, il trono passa a Gaio Caligola; nel medesimo anno si forma una comunità di credenti in Cristo ad Antiochia, la più importante città delle province orientali dell’impero, e « ad Antiochia per la prima volta i discepoli (di Gesù) erano chiamati cristiani » (Atti, 11, 26).
La Chiesa, nata in Oriente e a tutti gli effetti ignorata dai primi tre imperatori, conosce la persecuzione sotto il quarto, Claudio, venuto al potere nel 41. Nel 49 Claudio espelle da Roma « i giudei che si agitano per istigazione di un certo Cresto (Cristo) », come racconta confusamente lo storico romano Svetonio:  Judaeos impulsore aracol assidue tumultuantes Roma expulit (Vita di Claudio, 25); uno di questi profughi diventerà amico di san Paolo a Corinto:  un certo Aquila, « arrivato poco prima dall’Italia con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i giudei » (Atti, 18, 2).
Il quinto imperatore, Nerone, succeduto a Claudio nel 54, intensifica la persecuzione, infliggendo punizioni crudeli sui cristiani, considerati « una setta che professava una nuova e sovversiva fede religiosa », come dice sempre Svetonio (Vita di Nerone, 16). Sarà Nerone a mettere a morte sia san Paolo sia san Pietro intorno all’anno 64:  Paolo sulla via che portava da Roma a Ostia, Pietro nel circo costruito da Caligola e fatto ingrandire dallo stesso Nerone.
Non sappiamo quando la nuova fede sia approdata nella capitale, ma deve essere stata assai presto se già nel 49 il numero dei credenti fu tale da attirare l’attenzione dell’imperatore. Dalla frase di Svetonio, si capisce che i « tumulti » che preoccupavano Claudio erano interni alla comunità giudaica, primo alveo dei credenti in Cristo, e che facevano parte del sofferto processo di differenziazione di coloro che accettavano Gesù come « il Cristo », il Messia e redentore atteso dagli Ebrei, dagli altri che si rifiutarono di credere in lui. Dire « comunità giudaica » non implica tuttavia un gruppo chiuso:  Aquila era oriundo di Ponto, sul Mar Nero (Atti, 18, 2), e san Paolo proveniva da Tarso sulla costa meridionale dell’odierna Turchia. Ciò fa pensare che, nel crogiuolo di etnie e razze che era Roma, la primitiva comunità cristiana doveva apparire quasi un microcosmo dell’impero che la perseguitava; del resto, san Paolo era fiero di essere nato cittadino romano (Atti, 22, 27-29), e fu proprio l’impero, con la sua superba rete viaria ed efficiente sistema postale, a rendere possibili i continui spostamenti e le epistole di Paolo e di altri missionari della nuova fede.
Nonostante l’espulsione decretata da Claudio, la comunità cristiana romana si è presto ricostituita, tanto che quando Paolo scrive loro la sua lettera, intorno al 57, può salutare – tra molti amici e conoscenti – anche Aquila e Priscilla (Prisca), apparentemente tornati nella patria adottiva (cfr. Romani, 16, 3). E quando, poco dopo, l’apostolo con due compagni sbarca in Italia alla volta di Roma, « i fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne » (Atti, 28, 15).
E Pietro? Un testo antico colloca il suo arrivo nella capitale nel 30, praticamente subito dopo la Pentecoste, ma ciò è improbabile. Lo storico Eusebio, scrivendo nel IV secolo, lo fa arrivare nel 42; in tal caso sarebbe stato uno degli « espulsi » sotto Claudio nel 49. Un altro scrittore cristiano del IV secolo, Lattanzio, è forse più vicino alla verità, affermando che Pietro arrivò a Roma solo nel regno di Nerone, e quindi dopo, dal 54 in poi. In ogni caso, è quasi certo che Pietro come Paolo, al momento del suo arrivo nella capitale, abbia trovato una comunità credente già funzionante, forse numerosa, con le caratteristiche cosmopolite sopra accennate ma con anche una sua identità culturale specifica, che possiamo definire in termini di romanitas.
Roma allora era diversa da quanto sarebbe diventata dopo l’incendio del 64. La maggior parte dei monumenti che oggi associamo con l’antica capitale non erano ancora realizzati:  il Colosseo, ad esempio, sarebbe stato costruito solo sotto Vespasiano nel tardo I secolo mentre il Pantheon (nella forma attuale) sotto Adriano nel II secolo. Ma c’erano altre strutture, sufficientemente magnifiche per stupire visitatori provenienti anche da grandi centri provinciali, quale Antiochia:  san Pietro, ad esempio, che giunse a Roma da quella città, dove era stato per più anni a capo della comunità cristiana.
Oltre agli innumerevoli templi del culto ufficiale, alle basiliche civili, ai portici e all’antico foro con l’aula del Senato, Roma alla metà del I secolo abbondava di teatri e circhi. Il gusto dello spettacolo risaliva all’era della Repubblica, e il più grande dei circhi, denominato appunto circus maximus, funzionava già nel IV secolo prima dell’era cristiana. Numerose nuove strutture di intrattenimento pubblico vennero realizzate tra la fine della Repubblica e il regno del primo imperatore, Ottaviano Augusto, nella vasta pianura a nord dell’area urbana antica:  il cosiddetto campus martius o « campo di Marte », che nell’epoca repubblicana era servito per le esercitazioni militari e di cavalleria. Questi teatri, assieme ad altri nuovi monumenti nel Campo di Marte – l’Altare della Pace, l’Orologio solare e il Mausoleo di Augusto – costituivano praticamente un nuovo quartiere monumentale, luccicante di marmo e adorno di statue.
I teatri romani erano enormi. Il più antico, il Teatro di Pompeo – vicino all’attuale Campo dei Fiori – inaugurato nel 55 prima dell’era cristiana, aveva una cavea di circa 150 metri di diametro e una scena di 90. Il Teatro di Balbo (resti in Via Paganica), inaugurato nel 13 prima dell’era cristiana, aveva un diametro di 90 metri; il Teatro di Marcello, a nord del Colle Capitolino, inaugurato nel 13 o forse 11 prima dell’era cristiana, era alto 33 metri, con un diametro della cavea di 130 metri e una capienza di quindicimila spettatori.
Più grandi ancora erano le strutture adibite ai corsi di cavalli e di bighe:  il Circus Flaminius, demolito sotto Augusto, misurava 400 metri per 260, e il Circo Massimo raggiungeva l’incredibile lunghezza di 600 metri, con una larghezza di 200! Fonti del IV secolo parlano di una capienza di 385.000 posti nel circo Massimo, e anche se riteniamo esagerata questa cifra, una stima sobria arriva comunque a un quarto di milione di persone. In confronto, il Circo di Caligola e Nerone sull’altra riva del Tevere, dove ci sono ora la Piazza e Basilica di San Pietro, era poca cosa:  appena 323 metri per 74! Queste colossali strutture, che con incontrovertibile autorevolezza annunciavano il potere dell’impero e la sua capacità di convogliare folle oceaniche verso un determinato punto di coagulo, fanno parte dell’esperienza della primitiva Chiesa di Roma. Anche se i convertiti alla nuova fede non dovevano essere assidui frequentatori del teatro e del circo, non potevano certo ignorare il fascino che simili luoghi esercitavano sui loro contemporanei.
Ciò significa che non solo l’idea di magnifici spazi di vita collettiva, ma anche quella dello spettacolo – di raduni per vedere insieme eventi che univano la moltitudine mediante l’emozione condivisa da migliaia e addirittura centinaia di migliaia di persone – faceva parte del bagaglio culturale e umano della primitiva Chiesa romana.

Paolo a Roma: Battezzare nel Tevere, celebrare nelle case

dal sito:

http://www.romasette.it/modules/news/article.php?storyid=4602

Paolo a Roma: Battezzare nel Tevere, celebrare nelle case
 
di Andrea Lonardo

I primi battesimi in Roma debbono essere avvenuti certamente nel Tevere, prima che si giungesse all’edificazione di battisteri stabili, sempre comunque con acqua corrente, nel periodo costantiniano.
Tertulliano, nel De baptismo, a cavallo fra il II ed il III secolo, ne accenna di passaggio, come un dato di fatto ovvio, solo per sottolineare che non bisogna badare alla diversità delle acque, come se ne esistessero di migliori o peggiori, poiché tutte ricevono la stessa forza sacramentale di rendere figli di Dio, per opera dello Spirito di Cristo:
«Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!»
Molti dei cristiani che accolsero Paolo a Roma devono aver ricevuto così il battesimo nel fiume a cui Roma deve la sua esistenza. I primi evangelizzatori dell’urbe, dei quali non si è conservato il nome, più volte scesero alle acque del Tevere insieme ai nuovi credenti che domandavano di ricevere il battesimo e più volte risuonò sulle rive del fiume di Roma la triplice domanda sulla fede in Dio Padre e nel Figlio e nello Spirito, forma primitiva del Credo cristiano che si svilupperà poi nel Simbolo degli apostoli e nel Credo niceno-costantinopolitano.
Dalla Lettera ai Romani appare con chiarezza che la composizione della prima comunità cristiana doveva essere mista, comprendendo nel suo seno cristiani che provenivano sia dal giudaismo, sia dal paganesimo.
Dalle attestazioni epigrafiche è ormai noto che la comunità ebraica era divisa in Roma, nel II-III secolo d.C., in sinagoghe ed è presumibile che molti di questi gruppi esistessero già in età neroniana. Se ne conservano, nelle epigrafi funerarie, 11 nomi: la sinagoga detta degli Ebrei (probabilmente la più antica, che doveva essere stata creata forse già al tempo dei Maccabei, nel II secolo a.C.), quella dei Vernaculi, quella detta degli Augustenses (probabilmente voluta dalla benevolenza dell’imperatore Augusto), quella detta degli Agrippini (voluta similmente da Marco Vipsanio Agrippa), quella dei Volumnenses (voluta forse da Volumnio, legato in Siria ed amico di Erode il grande), quella dei Campenses (dal Campo Marzio dove doveva avere il suo punto di riferimento), dei Suburenses (dalla Suburra, subito dietro i Fori imperiali, dove era certamente la sua localizzazione), quella dei Calcarenses (di più difficile localizzazione, forse verso l’antica Porta Collina), quella detta di Elaia (probabilmente a motivo della città greca da cui provenivano i suoi componenti), quella dei Tripolini e quella dei Sechenon (termine greco di non univoca interpretazione).
Le prime presenze ebraiche in Roma in ordine cronologico debbono essere situate nella zona di Trastevere, il primo quartiere nel quale vennero ad abitare gli ebrei di Roma, giunti al seguito dell’ambasciata dei Maccabei e poi, in gran numero, come schiavi, quando Pompeo conquistò la Giudea nel 63 a.C. La catacomba di Monteverde conserva molte epigrafi ebraiche proprio perché era il luogo di sepoltura dei primi ebrei romani residenti a Trastevere.
Le iscrizioni rivelano la presenza di un gran numero di liberti che accedevano pian piano alla libertà; non si ha notizia, per il I secolo, di una vita culturale ancora particolarmente attiva nella comunità ebraica romana (l’unica personalità ebraica di rilievo intellettuale nella Roma del I secolo d.C., oltre a quelle neotestamentarie, è la figura di Flavio Giuseppe, che fu ospitato nella residenza di Vespasiano antecedente alla sua salita al seggio imperiale, luogo nel quale lo storico scrisse anche le sue opere, avendo pieno accesso agli archivi dello stato romano).
Gli studi ipotizzano che a Roma vivessero all’epoca circa 15.000 ebrei – un numero simile alla consistenza attuale della comunità ebraica romana – sebbene tale cifra sia ampiamente opinabile, in quanto fondata su deduzioni e non su dati certi.
Quando Paolo venne ad abitare in Roma in attesa del processo, nella forma di una custodia militare, invitò subito i “primi” tra i giudei (At 28,17), le autorità delle diverse sinagoghe, ad incontrarlo. Non è certa la localizzazione di questo evento. La tradizione vuole che Paolo abbia vissuto i “due anni interi” (At 28,30) della sua permanenza in libertà vigilata nell’Urbe precisamente nel luogo dove sorge ora la Chiesa di San Paolo alla Regola, vicino Ponte Sisto e via Giulia. La Chiesa è stata restaurata proprio in vista dell’anno paolino e gli scavi sottostanti permettono di toccare con mano il livello dell’insula romana sulla quale fu edificata la chiesa.
Oltre alla basilica di S. Prisca, il terzo luogo romano che rivendica una abitazione paolina è la chiesa di Santa Maria in via Lata (via Lata era l’antico nome dell’attuale via del Corso). La cripta di questa Chiesa permette di venire a contatto con il sottostante livello romano di età neroniana ed invita a venerare i luoghi nei quali, secondo la tradizione, avrebbero dimorato Pietro e Paolo, ma anche gli evangelisti Luca e Giovanni.
Gli Atti e le lettere testimoniano che era proprio nelle case private che avveniva l’incontro delle comunità cristiane e la celebrazione dell’eucarestia. Personalità più abbienti della comunità dovevano possedere delle abitazioni spaziose e mettevano a disposizione i locali più ampi, probabilmente il triclinium, delle loro case per gli incontri.
È certo, dai testi neotestamentari, che le riunioni fin dal I secolo erano già settimanali, scandendo il tempo a partire dal giorno della resurrezione del Signore; esse comprendevano la preghiera, la lettura delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento, al quale cominciavano ad aggiungersi gli scritti neotestamentari ancora indipendenti l’uno dall’altro), la predicazione di qualcuno degli apostoli o di personalità legate alla tradizione apostolica ed, infine, la fractio panis.
Lo stesso Paolo è descritto due volte, negli Atti, presiedere la celebrazione dell’eucarestia, una prima volta proprio in una casa privata a Tròade (in At 20,11, dopo il miracolo della resurrezione del giovinetto che era morto cadendo per essersi addormentato a motivo della lunghezza della riunione che si era protratta fino a mezzanotte!) ed una seconda sulla nave che si dirigeva verso Malta, poco prima del naufragio (At 27,35).
Quando Paolo ricorda ai Corinzi l’eucarestia che ha loro trasmesso dopo averla ricevuta a sua volta non ha in mente solo la consegna delle espressioni pronunciate da Gesù nell’ultima cena con il loro significato, ma, ben più significativamente, la tradizione stessa dell’evento liturgico che egli doveva aver presieduto nella comunità di Corinto e che aveva chiesto fosse perpetuato dai corinzi.
Senza poterne così individuare con esattezza i luoghi, la città di Roma, con il suo fiume e con le sue insulae romane sottostanti le successive chiese, ricorda a tutti i molti luoghi nei quali Paolo e le prime comunità cristiane celebravano l’iniziazione cristiana di coloro che «il Signore aggiungeva a coloro che erano salvati» (At 2,48).

20 marzo 2009

Conversione dell’Apostolo Paolo (25 gennaio 2009)

ancora un bel commento sulla conversione di San Paolo, dal sito:

http://www.domenicanipistoia.it

Conversione dell’Apostolo Paolo

di Alessandro Cortesi op – 25 gennaio 2009
 Pistoia – Italia

Festa della conversione di san Paolo – anno paolino

At 22,3-16; Sal 116; 1Cor 7,29-31; Mt 16,15-18

In quest’anno paolino la festa della conversione di san Paolo coincide con la domenica e si può essere celebrata l’Eucaristia con le letture della festa (mentre la seconda lettura è tratta dalla liturgia della III domenica del tempo ordinario).
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La figura di Paolo è affascinante e complessa. Tutta la sua vita trova un momento di svolta nell’evento descritto per tre volte in contesti diversi nel testo degli Atti degli apostoli (ai capitoli 9, 22 e 26) come accaduto sulla via di Damasco. Ma anche Paolo stesso fa riferimento, a suo modo, nella lettera ai Galati, al passaggio fondamentale della sua vita avvenuto a metà degli anni ’30 del I secolo. In questo testo Paolo parla della sua esperienza per affernare che il vangelo da lui annunziato non è ‘modellato sull’uomo’, cioè non è frutto di pensiero o di opera umana ma è un dono. Egli stesso l’ha ricevuto ‘per rivelazione di Gesù Cristo’. Paolo non dice come ciò avvenne, ma gli è chiaro il senso profondo di tale evento: « quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco » (Gal 1,15-17).
In queste poche righe dettate dalla sua voce, viene espressa l’esperienza unica e totalmente gratuita di sentirsi chiamato e oggetto di un dono di benevolenza. La ‘rivelazione’ riguarda non qualcosa, ma qualcuno: ‘colui che mi scelse fin dal seno di mia madre… si compiacque di rivelare a me suo Figlio’. C’è una centralità di Gesù Cristo, unita al dono di grazia del Padre che segnerà d’ora in poi la vita di Paolo: la bella notizia che dovrà annunziare proviene da Gesù Cristo. In altri testi Paolo dirà che il ‘vangelo’ è l’agire di Dio che ci ha amati gratuitamente, ci ha liberati dal peccato in Cristo e in lui siamo salvati per mezzo della fede (Rom 1,16; 3,21). E’ un rapporto con Gesù nella sua condizione di risorto, in vista di un compito che Paolo avverte inscindibilmente legato a questa chiamata. Da qui ha inizio una missione determinata: annunziare il Cristo in mezzo ai pagani. Paolo sottolinea l’autorità della chiamata e della scelta e con essa la gratuità. Non sente perciò la necessità di andare a Gerusalemme dagli apostoli.
Le pagine degli Atti degli apostoli riprendono questi dati assai sobri e ne offrono una narrazione ampliata: Paolo è presentato come fariseo zelante, in viaggio verso Damasco per ricercare i cristiani di costì – ‘coloro che erano della via’ – e per farli prigionieri. Due elementi segnano l’evento che accade sulla via: la voce e la luce. La voce, appello di Gesù a Paolo, genera un breve dialogo ed è percepita da Paolo solamente (in At 22,7, mentre in At 9,7 è udita anche dagli altri) mentre la luce è vista anche dai presenti: « Saulo Saulo perché mi perseguiti? » « chi sei Signore? ». Nella domanda di Paolo già è racchiusa la professione di fede nel Cristo come Signore, la voce risponde rinviando alla vicenda di Gesù di Nazareth ed al rapporto tra Gesù e i suoi discepoli: « io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti ». Compare qui la stretta identificazione tra Gesù e i suoi discepoli perseguitati. Inoltre in At 22 Paolo riceve il comando di recarsi a Damasco dove avrebbe poi ricevuto indicazioni: la narrazione accentua la cecità di Paolo, condotto per mano dai compagni fino a Damasco: lì l’incontro con il cristiano Anania gli fa riacquistare la vista. At 9 amplia questo momento e narra di una visione di Anania che recandosi da Paolo dice « mi ha mandato a te il Signore Gesù che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo » (At 9,17). Allora Paolo recuperò la vista e fu battezzato. La luce folgorante aveva causato la cecità, ora la presenza e la compagnia di Anania fa riacquistare la vista e il battesimo è presentato come ‘illuminazione’ e possibilità di sguardo nuovo.
Questi testi ci fanno entrare nell’intimo della vicenda di Paolo. La prima questione è se quella di Paolo fu una vera e propria ‘conversione’. Paolo era un convinto credente nel Dio di Abramo, della promessa e della legge: l’evento di Damasco gli rovescia il modo di considerare la religione e la vita stessa, ma gli fa percepire in modo più profondo la sua stessa tradizione di fede. Nella lettera ai Galati Paolo sottolinea il riferimento a Dio che lo scelse fin dal seno di sua madre: la sua fede rimane ancorata al Dio di Israele. Pur in tale continuità a Damasco irrompe una luce nuova, il Risorto lo investe della sua presenza e lo conduce a concepire in modo nuovo il rapporto con il Dio dei padri. Sta qui l’origine di quella tensione che Paolo vivrà nel sentirsi fratello e membro del popolo d’Israele, interrogandosi sul ruolo del suo popolo nella storia della salvezza, e contemporaneamente nell’avvertire la profonda novità dell’incontro personale con Gesù Cristo e l’apertura del vangelo a tutta l’umanità. Paolo vive la consapevolezza di essere stato chiamato gratuitamente, non per le sue opere, né per il suo zelo religioso, né per la sua cultura raffinata. Credere per lui diviene allora affidamento che sgorga dal sapersi toccato dalla gratuità di Dio senza alcun merito. Il vangelo che Paolo accoglie è la bella notizia del dono di presenza di Gesù il risorto. Tutto ormai nella sua vita ruoterà attorno all’essere ‘in Cristo’.
Da questo incontro deriva quanto Paolo scrive ai Corinzi: ‘il tempo ormai si è fatto breve’. Tutta la vita diviene momento di passaggio in cui stare dentro le situazioni, ma nel contempo guardare all’approdo finale, cioè all’incontro con Cristo. Vivere come se… non è una forma di estraneità e di disimpegno, piuttosto l’attuare una fedeltà al tempo ed alle situazioni con uno sguardo proteso all’orizzonte ultimo della vita che è l’incontro con Cristo che comunica la grazia del Padre.
Nella sua esperienza di essere stato scelto come apostolo (cfr Rom 1,1) Paolo ha compiuto il comando lasciato da Gesù ai suoi: « Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura’. Non solo gli ebrei, non solo coloro che appartengono ad una religione, non solamente una categoria particolare, ma ogni uomo e donna può aprirsi ad accogliere, nella fede, nella sua vita questo dono di grazia.

http://www.domenicanipistoia.it

PAOLO, L’APOSTOLO “GHERMITO”- PDF…

Questo studio presenta, ancora una volta, la « persona » di San Paolo, io non mi stanco mai di leggere questi studi che me lo fanno incontrare sempre di nuovo e sempre nuovo, nel PDF ci sono degli schemi che non posso riportare su « txt » perché non vengono bene, vi metto il link:

PAOLO, L’APOSTOLO “GHERMITO”

di Giacomo Perego ssp

http://www.apostoline.it/riflessioni/nuovo_test/paolo_ghermito.pdf

« Cristo vive in me » (Gal 2,20): Gesù Cristo ragione di vita per Paolo

dal sito:

http://www.custodia.fr/IMG/pdf/ABT34_08Rossi.pdf

« Cristo vive in me » (Gal 2,20):

Gesù Cristo ragione di vita per Paolo (Benedetto Rossi)

Questo tema rientra in quella prospettiva teologica e antropologica chiamata mistica della fede. L’esperienza mistica costituisce la percezione vissuta e sperimentale del mistero di salvezza, una esperienza soprannaturale che è di fatto risposta alla triplice offerta di Dio, che si manifesta agli uomini, li ama, consegna loro il proprio Figlio, e si concretizza nella conoscenza, nell’amore e nell’unione in Cristo con la Trinità. Conoscenza mistica: non si tratta di una conoscenza concettuale, ma esistenziale e riferita ad una persona signi ca entrare in relazione di intimità ed affetto con essa. Quando nell’AT si dice che Dio conosce qualcuno signi ca che Egli si china verso quest’essere con un amore preveniente, come verso un amico ed è grazie a questo amore che l’uomo riceve un cuore nuovo capace di conoscere in profondità. Questo vuoi dire, ad esempio che Dio parla con Mosé «faccia a faccia» (Es 33, 11; Nm 12,6), non che Mosé potesse vedere Dio, ma che ne potesse avere una conoscenza mistica, ovvero più profonda di tutti gli altri Israeliti. Ovviamente attraverso la mediazione di Cristo tale conoscenza acquista una profondità ancora più grande, perché è il Figlio, l’unico che può rivelare il Padre («Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre eccetto il Figlio e colui al quale il Figlio avrà voluto rivelarlo» Mt 11,27; Gv 1, 18). Amore: Lo Spirito del Signore evoca l’idea di misteriosa intimità e di potenza travolgente che si impadronisce degli uomini con una forza irresistibile, causandone una misteriosa trasformazione nel loro intimo. Già nell’AT i profeti realizzano la loro missione guidati dallo Spirito che, si impossessa della loro volontà e sostenendo la loro fragilità umana, investe del fuoco di amore tutto il loro essere. Nella pienezza dei tempi, poi, attraverso la morte e risurrezione del suo Figlio, Dio travolge ed invade del suo amore tutta l’umanità. Attraverso Cristo, dunque, il palpito di amore divino che vivifca il seno della Trinità penetra nei credenti, mediante il dono dello Spirito, per mezzo del quale i cristiani amano Dio e amano i fratelli. Quando questo amore divino irrompe nel credente con tutta la veemenza, senza trovare resistenze, diventa sperimentale, può giungere no al supremo dono di sé nell’amore e, comunque, trova la sua autentica espressione in un reciproco scambio amoroso. Quanto più Dio trova un’anima desiderosa di donarsi a Lui e di amarlo, tanto più Egli infonde in essa il suo amore e la sua grazia e tanto più diventa prepotente ed incontenibile l’amore, tanto più il cristiano anela verso il possesso e l’unione totale con il suo Signore, che si può avere in pienezza e sazietà solo al di là della morte. Unione in Cristo con la Trinità: L’anima diventa così partecipe di una realtà esistenziale non più distinta da essa, ma che diviene la vita stessa dell’anima. Nell’esperienza della comunione con Cristo glori cato, l’anima sperimenta di essere il tralcio della Vite che è Cristo, sperimenta di essere unita al Padre, di essere essa stessa nel Padre per mezzo di Cristo. Una tale esperienza non può essere riscontrata nell’AT, perché in esso non esiste ancora una realtà oggettiva. Sono Paolo e Giovanni, i grandi apostoli mistici, a rivelare all’umanità che i credenti sono una cosa sola in Cristo e tra loro, come il Padre è in Lui e Lui nel Padre. Normalmente il cristiano conosce solo per fede questa trasformazione nell’essere e nella vita di Cristo e ne prende coscienza soltanto quando ha raggiunto il vertice della esperienza mistica. E ciò si raggiunge attraverso un cammino spirituale per cui il progredire nella fede provoca un intensicarsi della trasformazione esistenziale che a sua volta accresce l’unione con Cristo e la partecipazione alla vita trinitaria. L’intensi carsi della trasformazione sul piano esistenziale nisce così per illuminare e approfondire la fede, accrescendone la luce no a renderla sperimentale.

Centro della mistica paolina

Nella mistica di san Paolo uno dei temi fondamentali è quello dell’unione con Cristo, come confermano vari testi del suo epistolario.Tale unione viene espressa attraverso varie immagini ed espressioni.

« Cristo vive in me » (Gal 2,20): Gesù Cristo ragione di vita per Paolo (B. Rossi) Essere in Cristo: tale formula « in Cristo » o « in Cristo Gesù, o « nel Signore » pare attestata 164 volte negli scritti paolini ed esprime indubbiamente uno dei temi fondamentali dell’insegnamento di San Paolo, quello appunto della intima unione tra Cristo e il cristiano 1Ts 1,1: Paolo, Silvano e Timoteo alla Chiesa dei Tessalonicesi in Dio Padre e NEL SIGNORE GESÙ CRISTO. Cristo appare come l’ambiente vitale dei cristiani che, inseriti in Lui, sono partecipi della vita che dal Padre si diffonde nel Figlio. 1Cor 1,4: Ringrazio continuamente per voi il mio Dio, a motivo della grazia di Dio a voi concessa IN CRISTO GESÙ Attraverso la mediazione di Cristo, Dio ci ha donato la salvezza attuale, cioè la giusti cazione, che comporta la vita in Cristo. E’ Dio, che ha inserito il cristiano in Cristo, rendendolo partecipe dell’essere e della vita di Lui: è per mezzo di Lui – il Padre – che voi siete in Cristo Gesù, il quale da parte di Dio è diventato per noi sapienza e giustizia e santi cazione e redenzione (1Cor 1,30). Attraverso l’unione con Cristo, l’uomo ha riconquistato la posizione di dominatore del cosmo, perduta da Adamo a causa del peccato, ma può conservarla solo se, inserito in Cristo, si consegna a Dio: Tutto appartiene a voi tutto è vostro; ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio (1Cor 3,22-23). Essere inseriti in Cristo equivale ad essere creati nuovamente, essere una nuova creatura e, come tali, riconciliati con il Padre, cioè partecipi della vita divina: Di modo che se uno è in Cristo, egli è una creatura nuova … Tutto però è da Dio, che ci ha riconciliati con se stesso per mezzo di Cristo … Colui che non conobbe peccato, Egli lo ha fatto diventare peccato per noi, af nché noi diventassimo giustizia di Dio in lui (2Cor 5,17.18.21).Ma è la fede che dona al cristiano il palpito della vita di Cristo: Che se vivo ora in carne, vivo in fede del Figlio di Dio (Gal 2,19-20).

Rivestirsi di Cristo: E’ questa un’altra metafora usata da Paolo per signi care la partecipazione all’essere di Cristo, compiuta con un atto creativo di Dio, ma che va approfondito mediante l’impegno del cristianoQuanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo (Gal 3,27); Vi siete spogliati dell’uomo vecchio e delle sue azioni, e vi siete rivestiti dell’uomo nuovo che si va rinnovando … conformandosi all’immagine di Colui che l’ha creato (Col 3,9-10). L’uomo nuovo, l’uomo tras gurato in Cristo, deve trasformarsi progressivamente, assimilandosi all’immagine di Cristo glorioso. L’essere nel Signore, il rivestirsi di Lui non possono trovare ostacolo in nessuna vicenda della vita, neanche in quella decisiva della morte. Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso; perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo moriamo per il Signore. Dunque, sia che si viva, sia che si muoia siamo del Signore (Rm 14,79). Paolo stesso testimonia nelle sue lettere di aver fatto esperienza di questa intima unione con Cristo no al punto di poter dire di essere croci sso con Lui e di essere risuscitato con Lui.

Crocifsso insieme con Cristo: Paolo è, al pari dei Dodici, un testimone della risurrezione di Cristo, tanto da potersene definire un mistico e proprio per questo ha sperimentato in sé l’abissale realtà della morte di Cristo, conseguenza e prezzo del peccato. Per Paolo la morte e la risurrezione di Cristo sono due aspetti dell’unico mistero che è la redenzione dell’uomo. Se per i primi cristiani era difficile comprendere il signi cato della morte ignominiosa di Gesù, scandalo dei Giudei (1Cor 1,23), per Paolo la croce diventa il motivo centrale del piano della salvezza ed è il primo a penetrarne il mistero. La realtà così atroce e sconvolgente della morte di Cristo lo sconvolge, perché ne fa una esperienza mistica. Egli, infatti, nella misura in cui si sente partecipe della vita di Cristo, si sente anche immerso nella sua morte e ne rivive in se stesso il mistero di salvezza. Paolo ha contemplato e sperimentato in sé la morte di Cristo come tributo pagato al peccato e ce lo presenta sia nell’aspetto più personale in quanto prezzo della propria conversione a Cristo,sia nell’aspetto comunitario, in quanto partecipazione del cristiano alla morte di Cristo per contribuire alla salvezza dell’umanità. Paolo ribadisce con forza il fatto di essere stato del tutto immeritevole dell’amore misericordioso di Cristo,

« Cristo vive in me » (Gal 2,20): Gesù Cristo ragione di vita per Paolo (B. Rossi) lui che si sente il primo dei peccatori (1 Tm 1,15: è cosa certa e degna di essere accettata da tutti, che Cristo Gesù è venuto in questo mondo a salvare i peccatori, dei quali il primo sono io). Ma quasi si compiace di questa sua condizione di peccatore perché questa fa risplendere ancor di più la misericordia e l’amore di Cristo: Vivo in fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha sacri cato se stesso per me (Gal 2,20). Paolo ha sperimentato nella propria anima la morte di Cristo e la reale capacità di questa di donare la vita; egli sente che la morte di Cristo gli appartiene come cosa sua personale. In Cristo e con Cristo Paolo è stato tra tto, colpito, croci sso, seppellito. Proprio per questa unione esistenziale Paolo è sicuro che la morte del Signore gli sarà « computata a giustizia » (Rm 4,22), ed essendo croci sso con Lui, che « ha dato se stesso per i suoi peccati » (cf Gal 1,4), può essere sicuro della sua salvezza. La fede in Cristo che ha sacri cato se stesso per lui fa penetrare Paolo nel santuario della carità di Cristo, nella conoscenza del suo amore in nito per l’esperienza del quale l’apostolo non cessa di manifestare il suo stupore e la sua gratitudine di fronte ad un dono così immenso (Ef 2,3-5.7).Il fatto che Paolo si senta invaso dall’ammirazione della croce, simbolo della morte più ignominiosa, è un dono mistico per eccellenza, perché è nel più assoluto contrasto con la natura umana, intrisa di orgoglio. Per Paolo questa croce è motivo di gloria, è l’oggetto del più ardente desiderio, perché su di essa Cristo si è immolato e per questo non c’è altro di cui egli si possa gloriare (Gal 4,14). La croce di Gesù deve essere l’orgoglio del cristiano perché è la sua unica speranza, la sua salvezza e la sua vita, anche se questa creare un abisso insormontabile con il mondo. Paolo dimostra che per appartenere a Cristo si deve morire con Lui e inchiodare sulla croce la carne con i suoi desideri. Io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo (Gal 6,5), afferma l’apostolo, considerando stigmate di Cristo le cicatrici ricevute nelle persecuzioni, nelle lapidazioni e agellazioni. Trasformato nel Cristo croci sso, Paolo ri ette e comunica agli altri la realtà di questa morte. Egli è morto della morte di Cristo e continua a morire di questa morte, portando continuamente nel corpo lo stato di Gesù morente (2Cor 4,10), le sue sofferenze sono quelle del croci sso (2 Cor 1,5). San Paolo ha dunque avuto l’esperienza della propria trasformazione nel Croci sso: la sua è una testimonianza della mistica essenziale della croce.

Risuscitato con Cristo: La risurrezione di Cristo è per Paolo l’opera di potenza e di gloria per antonomasia e pur essendo un fatto di storia, rimane permanente attualità nel corpo mistico. Dio che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza (1Cor 6,14). Nella risurrezione di Cristo abbiamo la speranza certa anche della nostra futura risurrezione, ma la potenza della risurrezione di Cristo è già operante in noi. Tale potenza non è solo un dinamismo comunitario che agisce nella totalità della Chiesa, ma è comunicata ad ogni singolo cristiano. Essa è uno stimolo continuo verso la salvezza, verso la santità, verso il cielo; nutre l’anelito e lo sforzo che tende alla pienezza della vita spirituale, no a farla traboccare in esperienza. Di tale esperienza parla Paolo quando afferma Considero tutto una perdita di fronte alla superna cognizione di Cristo Gesù mio Signore … per conoscere Cristo e la potenza della sua risurrezione (Fil 3,8-10).Occorre sottolineare che la potenza della risurrezione investe soltanto coloro che già sono uniti a Cristo: bisogna essere connaturati con Lui, formare un essere con Lui, essere innestati in Lui, vivere la stessa vita di Lui per essere resi partecipi della potenza della risurrezione. Ma il fondamento dell’unione con Cristo è sempre la fede, da essa scaturisce poi l’esperienza mistica. San Paolo è consapevole di quanto sia preziosa l’esperienza mistica della potenza divina e divinizzante della risurrezione; quindi anela con tutto il suo essere a conoscere, a sperimentare la potenza della risurrezione. Tutto ho stimato come immondizie, allo scopo di… ritrovarmi in Lui, non con la mia giustizia…, ma con quella che si ottiene con la fede in Cristo, giustizia che viene da Dio e riposa sulla fede, per conoscere Cristo e la potenza della sua risurrezione (Fil 3,8-10).

Paolo: a Roma in catene per Lui

dal sito:

http://www.storialibera.it/epoca_antica/cristianesimo_e_storicita/pietro_a_roma/paolo_a_roma/articolo.php?id=3539&titolo=Paolo:%20a%20Roma%20in%20catene%20per%20Lui

Paola RONCONI

Paolo: a Roma in catene per Lui

tratto da: in Tracce. Litterae Communionis, luglio/agosto 2000 (anno XXVII), p. 96-100.

Venne chiamato tre anni dopo la Resurrezione per convertire i Gentili. Lui che sino al giorno prima era stato il più accanito dei persecutori. L’Apostolo delle genti nella capitale dell’impero

«Vi raccomando Febe, nostra sorella, salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Gesù Cristo e la comunità che si riunisce nella loro casa, salutate il mio caro Epeneto, Maria, Andronico e Giunia, Ampliato, Urbano, Stachi, Apelle, Aristobulo, Erodione, Narciso, Trifena e Trifosa, Perside, Rufo e sua madre, Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma e i fratelli che sono con loro. Salutate Filologo, e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i credenti che sono con loro». Così Paolo aveva scritto nel 57-58 da Corinto ai cristiani di Roma. «Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io» (Rm 1,11-12). Non era mai passato dalla capitale dell’impero, non conosceva quindi tutta questa gente di persona. Molti li aveva forse incontrati in altri luoghi, altri li conosceva di fama (Rm 1,8), forse grazie a Prisca e Aquila, i due coniugi dai quali aveva soggiornato per parecchio tempo a Corinto e con i quali era sempre rimasto in contatto.

Forse proprio qualcuno di questi si era incamminato lungo la via Appia per accoglierlo, quando in catene arrivò a Roma, presumibilmente un giorno dell’anno 60. Circa 3 anni prima era stato accusato a Gerusalemme da un gruppo di giudei per aver parlato pubblicamente contro la legge mosaica. Ma Paolo aveva fatto appello alla sua cittadinanza romana per essere giudicato da Cesare. Doveva essere quindi trasferito a Roma dopo due anni di prigione a Cesarea. Da qui era salpato alla volta dell’Italia insieme a Luca (che descrive questi spostamenti negli Atti 27-28), ad altri prigionieri e al centurione Giulio, della coorte Augusta. Un viaggio via mare decisamente avventuroso, se si pensa che aveva toccato Sidone, Cipro, Mira in Licia, Cnido, Creta, dove si erano dovuti fermare per l’arrivo della stagione poco propizia alla navigazione. Quindi erano ripartiti, ma avevano naufragato a Malta, rimanendovi per quattro mesi. Poi Siracusa, Reggio e finalmente Pozzuoli, porto di arrivo per giungere a Roma. Il viaggio era continuato via terra e sulla via Appia (la strada consolare tuttora, in parte, in pietra lavica basaltina, che collegava il sud Italia a Roma), all’altezza del foro Appio (circa 50 km da Roma), gli era venuto incontro un gruppo di cristiani, avvisati del suo arrivo. Più avanti ancora, nella zona detta Tre Taverne, altri si unirono al gruppo (At 28,15). L’Apostolo delle genti, il grande navigatore, la cui fama aveva fatto il giro dell’impero, giunse così, in catene, nella Roma imperiale e pagana.

Agli arresti domiciliari

Anche se prigioniero, Paolo ottenne il permesso «di abitare per suo conto con un soldato di guardia» (At 28,16); si trattava di una “custodia militaris” (arresti domiciliari, diremmo oggi). Andò quindi in cerca di una “casa in affitto”, trovando un vasto locale in un granaio nel quartiere oggi chiamato Regola, a est del Tevere, all’altezza dell’ansa dell’Isola Tiberina (dove probabilmente il suo amico e medico Luca lavorava). Quella zona di Roma era allora popolata soprattutto da ebrei e tra qui e Trastevere c’era la più alta concentrazione di artigiani del cuoio. Anche Paolo era del mestiere: infatti, come aveva imparato alla scuola di Gamaiel a Gerusalemme, fabbricava tende di pelle già a Corinto, quando era stato ospite di Prisca e Aquila, anch’essi artigiani del cuoio.

Appena si fu sistemato, volle vedere i giudei della città, per spiegare i motivi delle accuse rivoltegli in Palestina: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo e contro le usanze dei padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato in mano dei Romani. Sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere con questo muovere accuse contro il mio popolo». I giudei accolsero benevolmente le sue parole e per qualche giorno «vennero in molti da lui nel suo alloggio; egli dal mattino alla sera espose loro accuratamente, rendendo la sua testimonianza, il Regno di Dio, cercando di convincerli riguardo a Gesù, in base alla Legge di Mosè e ai Profeti. Alcuni aderirono alle cose da lui dette, ma altri non vollero credere e se ne andavano discordi tra loro» (At 28,23-25).

Presto Paolo divenne un punto di riferimento notevole per la piccola comunità romana; poté godere di una certa libertà d’azione, se, come ci dice Luca, «trascorse due anni nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù» (At 28,30-31).

Forse proprio nella casa alla Regola conobbe Onesimo (lo schiavo che Paolo rimandò all’amico Filemone insieme a una sua missiva) e scrisse le lettere ai Filippesi, ai Colossesi, agli Efesini. Oggi la chiesa di San Paolo alla Regola (dietro al Ministero di Grazia e Giustizia) ricorda il luogo della prima dimora romana dell’Apostolo, dove visse e soprattutto insegnò, come indica una scritta posta all’entrata dell’adiacente oratorio: DIVI PAULI APOSTOLI HOSPITIUM ET SCHOLA.

La seconda casa

Appena terminati i due anni di custodia (il processo contro di lui, infatti, non ebbe luogo; i suoi accusatori non affrontarono il viaggio da Gerusalemme a Roma? È plausibile), Paolo cambiò dimora: venne accolto sull’Aventino, ancora una volta a casa dei suoi amici Aquila e Prisca. Essendo giudei, erano stati cacciati da Roma dall’imperatore Claudio nel 49-50, avevano soggiornato qualche tempo a Corinto, avevano seguito Paolo nei suoi viaggi fino a Efeso, quindi erano tornati a Roma verso il 58. La loro casa era presto divenuta una «domus ecclesia», un luogo di ritrovo e preghiera per tutta la comunità cristiana di Roma. Avevano ospitato anche Pietro e, stando all’iconografia sacra, era stato proprio lui a battezzare la nobile romana Prisca (o Priscilla), mentre Aquila si era convertito in un secondo momento. Oggi su quel luogo dell’Aventino, dove già nel V secolo era attestato un «titulus Priscae» (un’iscrizione riguardante Prisca), sorge la chiesa di Santa Prisca.

La permanenza di Paolo dai due amici non durò molto. Riprese a viaggiare. Andò in Spagna, come avrebbe voluto? Non ne possiamo essere certi (Rm 15,24).

La seconda lettera a Timoteo, però, ci fa intuire che finì una seconda volta in carcere a causa della fede, sempre a Roma. Era l’anno 64. Nerone era al potere. La “Domus Aurea”, l’immensa residenza sul colle Oppio, stava prendendo forma proprio sopra le rovine del disastro che fu pretesto ideale per incastrare quel gruppuscolo di cristiani e i loro capi in particolare: l’incendio di Roma. Niente di più semplice che Paolo fosse stato sbattuto insieme a Pietro nelle celle del carcere Mamertino, nel sottostante serbatoio idrico detto Tullianum, per lesa maestà (congiura contro lo Stato).

«Sono in carcere per Lui», «A causa del vangelo io soffro fino a portare le catene come un malfattore» (2Tm 1,8; 2,9), scrisse a Timoteo. Capì di essere giunto al tramonto della sua vita: «Il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede». In un momento così duro lo prese lo sconforto della solitudine: «Dema mi ha abbandonato ed è partito per Tessalonica, Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Erasto è rimasto a Corinto». Qualcuno si era adoperato per fargli del male: «Alessandro il ramaio. Il Signore gli renderà secondo le sue opere. Guardatene anche tu, perché è stato un accanito avversario della nostra predicazione», e la nostalgia per gli amici era forte: «Cerca di venire presto da me. Affrettati a venire prima dell’inverno», disse all’amico Timoteo, «solo Luca è con me» (cfr. 2Tm 4,9-20).

La condanna

Questa volta il processo ebbe luogo. Paolo fu condannato a morte per lesa maestà. La pena era la decapitazione da eseguirsi in una località lungo la via Ostiense detta “Ad aquas salvias”. Alcune fonti antiche tramandano che Paolo sarebbe stato decapitato lo stesso giorno del martirio di Pietro, il trentasettesimo anno dopo la passione del Signore (Girolamo, “De viris illustribus”), cioè nel 67, l’ultimo anno del regno di Nerone. Un’edicola ormai distrutta su un tratto della via Ostiense ricordava il luogo dove Paolo e Pietro si sarebbero salutati, abbracciandosi per l’ultima volta, prima di essere giustiziati; oggi è rimasta solo una lapide.

La tradizione vuole che nel momento della decollazione la sua testa, rimbalzando tre volte a terra, abbia fatto sgorgare miracolosamente tre zampilli d’acqua. Da qui il nome di Tre fontane per quella località. Nel IV-V secolo su quel luogo venne costruita la chiesa di San Paolo ad Tres Fontes e al suo interno era chiara l’indicazione delle tre sorgenti d’acqua, su livelli diversi del terreno. Subito dopo l’esecuzione, il corpo di Paolo fu portato in una località cimiteriale, per persone di ceto medio (dagli schiavi ai militari), lungo la via Ostiense e lì seppellito. È probabile che da subito venne costruito un piccolo monumento sopra la sua tomba, di cui parla anche Eusebio di Cesarea nella sua “Storia ecclesiastica”: egli racconta del presbitero Gaio che, per controbattere a un eretico che vantava tombe illustri in Asia Minore, dichiarò: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli. Se vorrai recarti sul Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa». Per “trofei” si intendeva “tombe gloriose in segno di vittoria”, prendendo il termine dal linguaggio militare.

La devozione

I cristiani, come anche per Pietro, iniziarono a farsi seppellire accanto alla sua tomba. Successivamente le sue ossa vennero chiuse, per volontà dell’imperatore Costantino, in una cassa bronzea. Sopra di essa vi fece erigere una basilica che, nel corso dei secoli, subì numerose modifiche: l’attuale basilica di San Paolo fuori le mura protegge ancora, sotto l’altare di Arnolfo di Cambio, il sepolcro dell’Apostolo. È curioso che ad oggi la cassetta non sia ancora stata aperta (come invece è avvenuto nel caso di san Pietro sotto il Vaticano). Da alcuni scavi compiuti, però, sappiamo che sopra la cassa vi è (chi dice dall’epoca di Costantino, chi dal V secolo) una lastra di marmo con l’epigrafe PAULO APOSTOLO MART (a Paolo apostolo e martire). Mediante tre fori nella lastra i fedeli potevano avvicinare per contatto un proprio oggetto direttamente alla tomba di Paolo.

Alcune fonti antiche attestano che le ossa di Paolo, insieme a quelle di Pietro, “traslocarono” per una quarantina d’anni a causa della persecuzione (anno 258) promossa dall’imperatore Valeriano: per difendere queste sacre reliquie, i cristiani le avrebbero trasportate in un’altra località cimiteriale lungo la via Appia, detta “ad catacumbas” (da cui il nome “catacomba”). Per questo motivo, proprio qui l’imperatore Massenzio e il suo successore Costantino fecero costruire una basilica (la “Memoria Apostolorum”, oggi San Sebastiano, in onore di un ufficiale romano martirizzato). Entrando sulla destra c’è una lapide di papa Damaso (366-384), nella quale si dice che «i santi [Pietro e Paolo] dimorarono qui in passato»; nei locali sottostanti l’altare, recentemente scoperti, si celebravano dei banchetti in onore dei defunti, alla maniera pagana: numerose iscrizioni, visibili ancora oggi, testimoniano la devozione dei primi cristiani verso i due apostoli: «Pietro e Paolo, pregate per Vittore», «Pietro e Paolo, proteggete i vostri servi». Nel V secolo papa Sisto III qui volle una comunità monastica che assicurasse la preghiera in uno dei luoghi più cari alla memoria cristiana.
Data inserimento: 24/09/2009

Paolo era un giudeo? Tra pregiudizi e revisionismo

io non sono in grado di giudicare pienamente questo articolo, tuttavia anche a me, leggendolo, sembra che Paolo « non lasciò mai la sua religione », per il resto vi offro questa lettura, in fondo c’è il riferimento e il link al testo originale inglese, per chi conosce la lingua (io poco) può leggere anche i commenti; dal sito:

http://www.custodia.fr/SBF-Taccuino-Paolo-era-un-giudeo.html

SBF Taccuino -
 
Paolo era un giudeo? Tra pregiudizi e revisionismo
 
Messo on line il venerdì 26/02/2010 a 14h10 da  Eugenio 

Una nuova generazione di studiosi sostiene che Paolo, considerato per molto tempo il progenitore dell’anti-semitismo, non lasciò mai la sua religione.

Agli ebrei non piace l’apostolo Paolo. Essi possono accettare Gesù; questi era un rabbi magnanimo le cui parole furono fraintese per fargli dire cose che non intendeva dire. Il travisatore fu Paolo, e non può essere perdonato. Come un convertito zelante che ha messo in relazione la Torah con la morte, Paolo è considerato il padre dell’anti-giudaismo (la critica teologica del giudaismo come religione), l’antenato dell’anti-semitismo (l’odio contro il popolo ebreo), e l’inventore della teologia della croce (una scusa per molti massacri di ebrei). Perfino Friedrich Nietzsche, che non era amico degli ebrei, disse che Paolo falsificò la storia di Israele in modo che apparisse come un prologo della sua (di Paolo) missione, definendolo “il genio dell’odio, dal punto di vista dell’odio, e dell’inflessibile logica dell’odio”.

Sembra che oggi si possa parlare di Paolo come giudeo. Proprio come gli storici che, studiando Gesù, ne hanno scoperto una versione più ebraica nel corso degli ultimi cinquant’anni, provando a immaginarlo come un individuo nel suo proprio spazio e tempo (la Palestina del primo secolo in preda alla febbre apocalittica), così una nuova generazione di revisionisti paolini ha scoperto un Paolo più ebreo, un prodotto dello stesso spazio e tempo. Paolo Non Era Un Cristiano è il titolo di un libro pubblicato lo scorso autunno; ciò che egli era – e mai smise di essere – secondo la studiosa Pamela Eisenbaum e i revisionisti del Nuovo Testamento, era un giudeo rispettoso della legge. Egli non si convertì mai al cristianesimo, perchè non esisteva tale religione a quel tempo. (Paolo ci arrivò in breve dopo la morte di Gesù). Ciò che Paolo fece fu mutare il suo legame da una confessione ebraica a un’altra, dal farisaismo al gesuismo (Vietato parlare di cristianesimo).

Paolo non annullò la legge ebraica, come più tardi Lutero avrebbe sostenuto, non mise la grazia al di sopra delle opere o la giustificazione attraverso la fede al di sopra della giustificazione attraverso la legge. Anche se Paolo fece queste cose, non intendeva comunque farle per il mondo intero. Egli attaccò la legge ebraica solo nel contesto di un dibattito molto ristretto che imperversava nei primi decenni in cui era attivo il movimento di Gesù. Alcuni attivisti ebrei del movimento di Gesù riferirono che i loro accoliti pagani dovettero convertirsi al giudaismo prima di potersi unire al movimento. Paolo non fu d’accordo per niente. Egli sostenne che questi pagani dovevano seguire solo l’equivalente prerabbinico delle leggi noadiche – i sette editti contro idolatria, adulterio, ecc. che tutti i non ebrei ci si aspettasse seguissero. Dopo aver ascoltato la chiamata di Gesù – il primo e ancora il più grande revisionista, Krister Stendahl, afferma che Paolo visse una chiamata, nel modo di un pastore protestante, non ebbe una conversione – Paolo l’accolse per vagare (to roam) in Asia Minore e predicare il Vangelo ai pagani. Egli era talmente contrario al fatto che i pagani diventassero ebrei della Torah, che consacrò le sue Lettere contro quelli che volevano proprio questo. Costoro, se ne può dedurre, lo seguirono di città in città, raccontando a membri della sua comunità che sbagliava riguardo al giudaismo, cosa che naturalmente lo adirava (non erano gli altri ad essere adirati con lui, ndr.).

Se tutto ciò è vero, ne segue che quando Paolo condanna gli ebrei, sta lanciando la sua invettiva ai suoi intriganti compagni missionari di Cristo ebrei, non agli ebrei, un popolo che respinge duramente (italic nel testo). Quando egli dice che il giudaismo è stato sostituito, egli intende il giudaismo come stile di vita cui i pagani aspiravano (? ndr.), non il giudaismo praticato dagli ebrei. (Negli Atti gli ebrei perseguitano Paolo per la predicazione del Vangelo. Gli Atti non sono considerati una fonte per Paolo (una novità per l’adattatore ndr.), dal momento che l’autore che probabilmente li scrisse, Luca, visse quasi mezzo secolo dopo di lui, da quel momento il movimento di Gesù stava sopprimendo con impegno le sue radici ebraiche).

Se Paolo pensava di essere un giudeo, perchè combattè la conversione dei pagani?

Fu proprio il fatto di non volere che greci e romani adottassero lo stile di vita ebraico a rendere più difficile la sua evangelizzazione, tuttavia lo fece.

Far si che greci e romani adottassero l’impegnativo stile di vita ebraico rese più difficile la sua evangelizzazione, ma lo fece.

Il fatto era che Paolo aveva una sola teoria riguardo a Gesù e sui pagani. Se si fosse chiesto al revisionista Paolo cosa pensasse, avrebbe risposto: Quando viene il Giudizio (e Paolo pensava che fosse alle porte), Dio redimerà ancora gli ebrei che hanno obbedito ai suoi comandamenti. Cosa Gesù ha cambiato nel piano di Dio è per i non ebrei. Essi non saranno più esclusi dal Regno per essere giudicati della loro sregolatezza e idolatria e così via. Dio ha mandato loro Gesù che è morto per i loro (non di tutti! ndr.) peccati e adesso anche loro possono essere salvati, nella misura in cui lo accettano e vivono una vita cristiana giusta e onesta.

Si ritiene che Paolo sia il genio che superò il particolarismo ebraico e ideò un universalismo religioso, ma il “nuovo” Paolo non fece questo. Egli non credeva che il Dio ebreo (Jewish God) smise di essere ebreo (Jewish). Non pensò che Gesù sostituì l’impegno di Dio con il suo popolo prescelto. Ciò che Gesù fece principalmente fu morire per il goyim (pagani). Eisenbaum ha scritto che ciò che la Torah fa per gli ebrei, Gesù lo fa per i pagani.

Paolo deve essersi considerato giudeo. Dà un’immagine distorta pensare che Paolo si converta da ebreo con una approfondita cultura greco-romana in un cristiano anti-ebreo, che inveisce contro la legge ebraica alla pari di qualcuno che la incontra per la prima volta. Bisogna considerarlo ancora coinvolto nell’antisemitismo? Fu un giudeo, il cui messaggio è stato forse travisato dagli autori del Vangelo e dai primi padri della chiesa, o fu un demagogo che si lasciò andare a insulti che potevano essere travisati?

Questa è una domanda a cui è difficile rispondere. Paolo fu uno scrittore difficile e un pensatore non sistematico, che buttò giù lettere in risposta alle crisi nelle sue comunità piuttosto che esporre le sue idee in una forma ordinata. Dipende molto dal tono, se si è visti come critici benevoli o freddi, e perfino i migliori esperti, studiosi del primo secolo greco, non sono d’accordo nel definire il tono di Paolo.

Una possibilità inaspettata per gli ebrei e con cui dovranno misurarsi è che quello di Paolo può essere stato un Vangelo ebraico. Ciò suggerisce, alla fine, che forse è proprio dell’ebreo predicare ai non ebrei. Lo studioso ebreo Michael Wyschogrod, in un saggio su cosa Paolo significa per gli ebrei, sostiene che da Paolo si apprende che Israle ha la responsabilità di rendere possibile ai pagani di obbedire al suo Dio e di vivere in armonia con lui.

Quando Paolo scrive nella Lettera ai Romani: “… io non avrei conosciuto il peccato, se non per mezzo della legge; perché io non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non concupire”, egli comprendeva che quanto è proibito resta acutamente vivo e riprende vita proprio quando non può essere ottenuto. Sarebbe passato un millennio prima che i rabbini si lasciassero andare a una rivelazione in prima persona come questa.

Secondo i revisionisti questo Paolo tormentato non è mai esistito. Se esistette, non fu che un’utile finzione per persone come Agostino, che avevano bisogno di qualcuno per giustificare la loro propria conversione e la guerra contro il peccato. Se Paolo non rinnegò la Legge, allora non avrebbe potuto parlare delle sue proprie difficoltà nei suoi confronti. In nessun altro scritto fuorchè nella Letterea ai Romani Paolo definisce se stesso un giudeo mancato. Difatti ci sono passi in cui egli si vanta della sua eccellenza come fariseo.

Quindi perchè parla in prima persona? I revisionisti sostengono che usa una figura della retorica greca chiamata prosopopea, che sarebbe stata familiare ai suoi contemporanei ma non intesa dai lettori non educati ai modi del discorso ellenici. Egli finge di non pretendere che la sua argomentazione possa essere persuasiva. Paolo immagina che quanto scrive stia nella testa di un pagano che, per la prima volta, prova ad osservare la Legge, e scopre grazie ad essa di essere un peccatore inguaribile.

I revisionisti possono aver ragione quando affermano che Paolo deve aver recitato una parte, ma non è escluso che l’apostolo volesse intendere proprio quello che scrisse. Se Paolo fu un attore o un convertito che ripudiava il suo passato di giudeo, le sue parole hanno il peso di verità strappate a un corpo ostinato: “ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra”. Cristiano o giudeo, Paolo capì che ciò che Dio ha richiesto al suo popolo era estremamente difficile, e in qualche modo impossibile da conseguire. Parlare di Paolo come giudeo può anche significare di ammettere che tale ambivalenza è parte dell’esperienza giudea.

Adattamento: R.P.

Fonte: Judith Shulevitz, Tablet (11 novembre 2009):

http://www.tabletmag.com/arts-and-culture/books/20214/who-was-paul/

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