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IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO (per la festa della Conversione di San Paolo Apostolo)

http://digilander.libero.it/ortodossia/peccato.htm#

(STUDIO DELLA CHIESA ORTODOSSA; POSTO SOLO: L’INTRODUZIONE, LA CREAZIONE DECADUTA, LA GIUSTIZIA DI DIO E LA LEGGE, IL SEGUITO, PURE INTERESSANTE, NON LO METTO, SE VOLETE LEGGERLO POTERE ANDARE AL SITO)

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO

La traduzione è tratta da: St. Vladimir’s Seminary Quaterly,
vol. IV, nn. 1-2, 1955-1956.

INDICE:

Introduzione
La Creazione decaduta
La giustizia di Dio e la Legge
Il destino dell’uomo e l’antropologia
Il destino dell’uomo
L’antropologia di san Paolo
Osservazioni sintetiche
Conclusioni
Note
——————————

Introduzione
Riguardo la dottrina del peccato originale com’è contenuta nell’Antico Testamento e chiarita dall’unica Rivelazione di Cristo nel Nuovo Testamento, nel cristianesimo occidentale, specialmente in quello fondato sullo sviluppo dei presupposti scolastici, continua a regnare una grande confusione che, negli ultimi secoli, sembra aver guadagnato molto terreno nelle problematiche teologiche dell’ Oriente ortodosso. In alcune scuole questo problema è stato rivestito di un’aurea di mistificante vaghezza a tal punto che perfino alcuni teologi ortodossi sembrano accettare la dottrina sul peccato originale vedendola semplicemente come un grande e profondo mistero di fede (cfr. Androutsos, Dogmatike, pp. 161-162). Quest’atteggiamento è divenuto certamente paradossale, particolarmente da quando tali cristiani, che non possono definire il nemico dell’umanità [il Demonio], sono gli stessi che affermano illogicamente che in Cristo esiste la remissione di questo misterioso peccato originale. E’ sicuramente un’ opinione molto distante rispetto alla certezza con la quale san Paolo ha affermato che noi « non ignoriamo i pensieri » (noemata) del Demonio (1).
Se si mantiene vigorosamente e con fermezza che Gesù Cristo è l’unico Salvatore ad aver portato la salvezza in un mondo bisognoso d’essere salvato, si deve evidentemente sapere che è la natura del bisogno ad aver procurato tale salvezza (2). Sarebbe davvero sciocco esercitare dottori e infermieri a guarire malattie se nel mondo non esistesse alcuna malattia. Analogamente un salvatore che proclama di salvare delle persone che non hanno alcun bisogno di salvezza, è un salvatore soltanto per se stesso.
Indubbiamente una delle cause più importanti dell’eresia sta nel fallimento a capire l’esatta natura della situazione umana descritta nell’Antico e nel Nuovo Testamento per la quale gli eventi storici della nascita, degli insegnamenti, della morte e risurrezione e della seconda venuta di Cristo, rappresentano l’unico rimedio. Il fallimento di tale comprensione implica automaticamente la distorta comprensione di quanto Cristo ha fatto e continua a fare per noi e della nostra conseguente relazione con Lui all’interno del Regno di salvezza. L’importanza d’una definizione corretta sul peccato originale e sulle sue conseguenze non può mai essere esagerata. Qualsiasi tentativo di minimizzarla o di alterare il suo significato comporta automaticamente un indebolimento e, parimenti, un completo malinteso sulla natura della Chiesa, dei sacramenti e del destino umano.
In ogni indagine che voglia approfondire il pensiero di san Paolo e degli altri agiografi apostolici può esserci la tentazione d’esaminare i loro scritti con definiti presupposti, benché molto spesso inconsci, contrari alle testimonianze bibliche. Se ci si accosta alla testimonianza biblica, all’opera di Cristo e alla vita della comunità primitiva con predeterminate nozioni metafisiche riguardo alla struttura morale di quello che i più definiscono « mondo naturale » e, di conseguenza, con idee fisse riguardo al destino umano e alle necessità dell’individuo e dell’umanità in genere, dalla vita e dalla fede della Chiesa antica, si coglieranno indubbiamente solo gli aspetti che si adattano bene al proprio quadro di riferimento. Allora, se si desidera mantenere costantemente autentica la propria interpretazione delle Sacre Scritture, si dovrà necessariamente procedere a spiegare esaurientemente ogni elemento estraneo ai concetti biblici e, quindi, secondario e superficiale, intendendolo semplicemente come il prodotto d’alcuni malintesi sulla dottrina di certi Apostoli, d’un gruppo di Padri, o di tutta la Chiesa primitiva in genere.
Un approccio appropriato all’insegnamento neotestamentario di san Paolo riguardo il peccato originale non può essere trattato in modo fazioso. E’ incorretto, per esempio, sottolineare eccessivamente la frase di Romani 5, 12 « eph’ho pantes hemarton » per provare che esiste un certo sistema di pensiero riguardo alla legge morale e alla colpa senza prima stabilire il peso delle convinzioni di san Paolo riguardo ai poteri di Satana e alla vera situazione, non solo dell’uomo, ma di tutta la creazione. Sbaglia pure chi tratta il problema della remissione del peccato originale inserendo il pensiero di san Paolo in una struttura antropologica dualistica ignorando, al contempo, i fondamenti ebraici dell’antropologia paolina. Similmente, un tentativo d’interpretare la dottrina biblica della caduta nei termini d’una filosofia edonistica sulla felicità è già condannata al fallimento per il suo rifiuto di riconoscere non solo l’anormalità ma, cosa più importante, le conseguenze della morte e della corruzione.
Un approccio corretto alla dottrina paolina sul peccato originale deve prendere in considerazione la comprensione di san Paolo:

1) sullo stato decaduto della creazione, inclusi i poteri di Satana, la morte e la corruzione;
2) sulla giustizia di Dio e la legge e, infine,
3) sull’antropologia e il destino dell’uomo e della creazione.
Con ciò non si vuole suggerire che nel presente studio ciascun tema sarà trattato dettagliatamente. Tali temi, piuttosto, saranno affrontati solo alla luce del problema principale del peccato originale e della sua trasmissione secondo san Paolo.

La Creazione decaduta
San Paolo afferma energicamente che tutte le cose create da Dio sono buone (3). Allo stesso tempo, insiste sul fatto che non solo l’uomo (4) ma pure tutta la creazione è decaduta (5). Sia l’uomo che la creazione attendono la redenzione finale (6). Così, nonostante il fatto che tutte le cose create da Dio siano buone, il Diavolo diviene temporaneamente (7) « dio di questo secolo » (8). Un basilare presupposto di san Paolo è che, sebbene il mondo è stato creato da Dio come una realtà buona, esso si trova ancora sotto il potere di Satana. Il Demonio, comunque, non ha alcun ruolo assoluto poiché Dio non ha abbandonato la Sua creazione (9).
Secondo san Paolo, la creazione non è quanto Dio intendeva fosse « poiché la creatura è soggetta alla vanità non per volontà propria ma per causa di chi l’ha assoggettata » (10) Perciò la cattiveria può esistere, almeno temporaneamente, come un elemento parassita a fianco o all’interno di quanto Dio ha creato originalmente come buono. Un ottimo esempio di ciò è colui che vorrebbe fare il bene secondo l’ »uomo interiore » ma ne è impossibilitato per l’insito potere del peccato nella carne (11). Benché la realtà creata sia buona e venga ancora mantenuta e governata da Dio, la creazione per se stessa è lontana dalla normalità o dalla naturalità se, per « normale », intendiamo la natura secondo l’originale e finale destino della creazione. Colui che governa questo mondo, contrariamente al fatto che Dio sostiene ancora la creazione e conserva per se un resto di essa (12), è il Demonio (13).
Cercare di rinvenire in san Paolo una certa filosofia naturale con un universo equilibrato da fisse e inerenti leggi ragionevoli secondo le quali l’uomo può vivere serenamente ed essere felice, significa fare violenza alla fede dell’apostolo. Per san Paolo non esiste alcun mondo naturale con un sistema inerente di leggi morali, poiché tutta la creazione è stata sottoposta alla vanità e al cattivo dominio di Satana subendo il potere della morte e della corruzione (14). Per questa ragione tutti gli uomini sono divenuti peccatori (15). Non esiste alcun uomo che non sia peccatore semplicemente perché vive secondo la legge della ragione o la norma mosaica (16). La possibilità di vivere secondo la legge universale implica pure la possibilità d’essere senza peccato. Tuttavia, per san Paolo, questo è un mito poiché Satana non rispetta le leggi della ragione che fanno vivere rettamente (17) e ha sotto la sua influenza tutti gli uomini che nascono sotto il potere della morte e della corruzione (18).
Che sia creduto o meno, il presente, reale ed attivo potere di Satana dovrebbe provocare il teologo biblista. Egli non può ignorare l’importanza attribuita da san Paolo al potere demoniaco. Facendo diversamente non si comprende per nulla il problema del peccato originale e della sua trasmissione e si finisce pure per equivocare il pensiero degli scrittori del Nuovo Testamento e la fede di tutta la Chiesa antica. Riguardo al potere di Satana per opera del quale viene introdotto il peccato nella vita d’ogni uomo, sant’Agostino, per combattere il pelagianesimo, ha chiaramente mal interpretato san Paolo. Il potere di Satana, la morte e la corruzione dallo sfondo teologico dov’erano posti sono stati collocati in primo piano per rispondere alla controversia sul problema della colpa personale nella trasmissione del peccato originale. In tal modo, san’Agostino ha introdotto un falso approccio filosofico-moralistico che è estraneo al pensiero di san Paolo (19) e che non è stato accettato dalla tradizione patristica orientale (20).
Per san Paolo Satana non è semplicemente un potere negativo nell’universo. E’ una realtà personale con volontà (21), pensieri (22) e metodi falsi (23), contro il quale i cristiani devono intraprendere un’intensa battaglia (24) poiché possono essere ancora tentati da lui (25). Egli è dinamicamente attivo (26) e combatte per la distruzione della creazione senza attendere con semplice passività in uno spazio circoscritto per accogliere coloro che decidono razionalmente di non seguire Dio e le leggi morali inerenti ad un universo naturale. Satana è pure capace trasformare se stesso in angelo di luce (27). Ha a sua disposizione miracolosi poteri di perversione (28) e ha per collaboratori eserciti di poteri invisibili (29). Egli è « il bene di questo secolo » (30), colui che ha ingannato la prima donna (31). E’ lui che ha condotto l’uomo (32) e tutta la creazione nel sentiero della morte e della corruzione (33).
Il potere della morte e della corruzione, secondo Paolo, non è negativo ma, al contrario, positivamente attivo. « Il pungiglione della morte è il peccato » (34) che, a sua volta, fa regnare la morte (35). Non solo l’uomo ma tutta la creazione è stata assoggettata alla tirannia del suo potere (36) e ora attende la redenzione. Perciò la creazione stessa sarà consegnata dalla schiavitù della corruzione (37). Assieme con la distruzione finale di tutti i nemici di Dio, la morte — l’ultima e probabilmente la maggior nemica — sarà distrutta (38). Allora la morte sarà inghiottita dalla vittoria (39). Per san Paolo la distruzione della morte è parallela alla distruzione del Demonio e delle sue forze. La salvezza dalla prima significa la salvezza dagli altri (40).
E’ ovvio che le espressioni paoline riguardanti la creazione decaduta, Satana e la morte non offrono alcuno spazio a qualsiasi tipo di dualismo metafisico o a qualsiasi divisione mentale con la quale si farebbe di questo mondo un dominio intermedio quasi esso fosse, per l’uomo, una pietra di guado tra la presenza di Dio e il regno di Satana. L’idea di tre piani nella storia in cui Dio con i suoi seguaci e gli angeli occuperebbero quello superiore, il Demonio la base e l’uomo nella sua carne il piano intermedio, non trova alcun posto nella teologia paolina. Per Paolo tutte le tre realtà si compenetrano. Non esiste alcun mondo intermedio e neutro dove l’uomo possa vivere secondo la legge naturale ed essere giudicato per ricevere la felicità alla presenza di Dio o per meritare il tormento in abissi tenebrosi. Al contrario, tutta la creazione è dominio di Dio ed Egli non può essere contaminato dal male. Tuttavia, nel suo dominio esistono altre volontà che Egli ha creato le quali possono scegliere sia il Regno di Dio sia il regno della morte e della distruzione.
Contrariamente al fatto che la creazione di Dio è essenzialmente buona, il Demonio ha contemporaneamente e parassitariamente trasformato questa stessa creazione in un temporaneo regno per se stesso (41). Il Demonio, la morte e il peccato stanno regnando in questo mondo, non in un altro. Il regno delle tenebre e quello della luce si stanno facendo guerra nel medesimo luogo. Per questa sola ragione l’unica vittoria possibile sul Diavolo è la risurrezione dalla morte (42). Non esiste alcuna fuga dal campo di battaglia. L’unica scelta possibile per ogni uomo è combattere attivamente il Demonio condividendo la vittoria di Cristo, o accettare le falsità del Diavolo volendo credere che tutto va bene ed è tutto normale (43).

La giustizia di Dio e la Legge
Secondo quant’è stato detto, per san Paolo la creazione decaduta ha una natura non duplice. Ne consegue che non esiste alcun sistema morale di leggi inerenti ad un universo normale e naturale. Perciò quello che l’uomo accetta come giusto e buono, partendo dalle sue osservazioni sulle relazioni umane nella società e nella natura, non può essere confuso con la giustizia di Dio. La giustizia di Dio è stata rivelata unicamente e pienamente solo in Cristo (44). Nessun uomo ha il diritto di sostituire la propria concezione della giustizia a quella divina (45).
La giustizia di Dio, com’è rivelata in Cristo, non opera secondo un’obiettiva regola di condotta (46) ma, piuttosto, secondo le relazioni personali di fede e d’amore (47). « La legge non è fatta per il giusto ma per gli ingiusti e i disobbedienti, per gli empi e i peccatori… » (48). La legge non è un male ma un beneficio (49) pure spirituale (50). Tuttavia non è abbastanza perché possiede una natura temporanea e pedagogica (51). Essa dev’essere adempiuta in Cristo (52) e superata con un amore personale secondo l’immagine dell’amore di Dio rivelato in Cristo stesso (53). La fede e l’amore in Cristo devono essere personali. Per questa ragione la fede senza l’amore è vuota. « Se avessi tutta la fede, sì da trasportare le montagne, e poi mancassi d’amore non sarei nulla » (54). Similmente gli atti di fede privi d’amore non sono d’alcun profitto. « Se pure disperdessi, a favore dei poveri, quanto possiedo e dessi il mio corpo per essere arso, ma non avessi l’amore, non ne avrei alcun giovamento » (55).
Non esiste possibilità di vita, seguendo delle regole oggettive. Se, seguendo la legge, vi fosse stata qualche possibilità non ci sarebbe stato bisogno della redenzione in Cristo. « La rettitudine sarebbe stata data nella legge » (56) « Se fosse stata data una legge che avesse il potere di vivificare » (57). allora non sarebbe stata data ad Abramo la promessa della salvezza ma direttamente la salvezza stessa (58). La vita non esiste dove sussiste la legge. La vita è, piuttosto, l’essenza di Dio « l’unico che possiede l’immortalità » (59). Perciò solo Dio può dare vita e lo fa liberamente secondo la propria volontà (60), alla sua maniera e al tempo che sceglie come più opportuno (61).
D’altra parte, è un grave errore attribuire alla giustizia di Dio la responsabilità della morte e della corruzione. In nessun luogo Paolo attribuisce a Dio l’inizio di questi eventi. Al contrario, la natura è stata sottoposta alla vanità e alla corruzione dal Diavolo (62) che, attraverso il peccato e la morte del primo uomo, si è inserito parassitariamente nella creazione della quale faceva già parte anche se, ancora, non ne era il tiranno. Per Paolo la trasgressione del primo uomo ha aperto la via all’ingresso della morte nel mondo (63); tuttavia questa nemica (64) non è certamente il frutto perfetto di Dio. Né può la morte di Adamo, o quella di ciascun uomo, essere considerata la conseguenza d’una decisione punitiva da parte di Dio (65). San Paolo non suggerisce mai una simile idea!
Per giungere ai presupposti basilari del pensiero biblico è necessario abbandonare ogni schema giuridico di giustizia umana con il quale si attribuisce la punizione o la ricompensa secondo le oggettive regole della moralità. Avvicinandosi al problema del peccato originale con uno schema così ingenuo si dovrà credere che ogni lettore attribuisca ad una penalità comune un’offesa comune ragion per cui tutti condividono la colpa di Adamo (66). Questo, però, significa ignorare la vera natura della giustizia divina e negare il potere reale del Diavolo.
Le relazioni che esistono tra Dio, l’uomo e il Diavolo non seguono leggi e regolamenti ma si accordano alla libertà personale. Il fatto che esistano leggi che proibiscono l’uccisione non determina l’impossibilità che tale evento non possa accadere una volta e neppure centinaia di migliaia di volte. Se l’uomo può trascurare l’osservanza di regole e disposizioni di buona condotta, sicuramente non ci si può attendere dal Diavolo l’osservanza di tali regole, visto che quest’ultimo può aiutare l’uomo a prescinderne. La versione paolina del Demonio non coincide certo con quella di chi rispetta semplicemente delle leggi naturali ed esegue la volontà di Dio per sottrarsi alla punizione delle anime in inferno. Ben al contrario, il Demonio combatte Dio attivamente attraverso metodi in cui impiega la maggior falsità possibile cercando di distruggere le opere di Dio con tutta l’astuzia e il potere in suo possesso (67). Così la salvezza per l’uomo e la creazione non può venire da un semplice atto di perdono su qualche giuridica imputazione di peccato, né può provenire dal pagamento di qualche soddisfazione al Diavolo (Origene) o a Dio (Roma). La salvezza può provenire solo dalla distruzione del Demonio e del suo potere (68).
Secondo san Paolo, è Dio stesso che ha distrutto « i principati e le potenze » inchiodando gli scritti dei decreti che erano contro di noi sulla croce di Cristo (69) « poiché è stato Dio che in Cristo ha riconciliato a se gli uomini non imputando loro le mancanze commesse » (70). Benché fossimo peccatori, Dio non s’è rivolto contro di noi, ma ha proclamato la sua giustizia a coloro che credono in Cristo (71). La giustizia di Dio non è accordata a quegli uomini che producono opere dalla legge (72). Per san Paolo la giustizia e l’amore di Dio non sono separati dall’inosservanza di qualche dottrina giuridica d’espiazione. La giustizia di Dio e l’amore di Dio, come sono stati rivelati in Cristo, sono la stessa cosa. Così, nella lettera ai Romani (3, 21-26) l’espressione « amore di Dio » potrebbe essere molto facilmente sostituita da « giustizia di Dio ».
E’ interessante notare che ogni volta in cui san Paolo parla della collera di Dio si riferisce sempre a quella che è rivelata a coloro che sono divenuti disperatamente schiavi, per loro propria scelta, alla carne e al Diavolo (73). Benché la creazione sia tenuta prigioniera nella corruzione, coloro che vivono senza la legge, adorando e vivendo erroneamente, sono senza scusa poiché « le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità » (74); « perciò Dio li abbandonò nelle concupiscenze dei loro cuori lasciando ch’essi disonorassero sconciamente i loro corpi a vicenda… » (75). E ancora: « Dio li abbandonò a sentimenti reprobi » (76). Tutto ciò non significa che Dio ha fatto divenire questi uomini quel che essi sono, quanto piuttosto che li ha abbandonati nello smarrimento totale della corruzione e del potere del Diavolo. Bisogna interpretare così anche altri simili passi (77).
L’abbandono di Dio di un popolo già indurito nel proprio cuore contro le opere divine non è ristretto ai gentili ma riguarda pure i giudei (78). « Poiché, davanti a Dio, non sono giusti coloro che sentono parlare della legge ma saranno salvati solo quelli che la praticheranno » (79). « Coloro che hanno peccato nella legge saranno giudicati dalla legge » (80). I gentili, comunque, pur non essendo sotto la legge mosaica non sono scusati dalla responsabilità del peccato personale poiché essi « non avendo la legge sono legge a se stessi; essi mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza e i loro pensieri per cui vicendevolmente ora s’accusano, ora si difendono » (81). All’ultimo giudizio tutti gli uomini, sotto la legge o meno, udenti o meno, saranno giudicati da Cristo secondo il vangelo predicato da Paolo (82) e non secondo un sistema di leggi naturali. Pure attraverso le invisibili realtà divine — « le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità » — non esiste alcuna cosa simile ad un corpo di leggi morali inerenti nell’universo. I gentili che « non hanno la legge » ma che « fanno per natura le cose contenute nella legge » non rispettano un sistema naturale di leggi universali. Essi, piuttosto, « mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza ». Anche qui si può vedere la concezione paolina delle relazioni personali tra Dio e l’uomo. « Dio stesso le ha manifestate in loro » (83) ed è Dio che sta ancora parlando all’uomo decaduto al di fuori della legge, attraverso la sua coscienza e nel suo cuore il quale, per Paolo, è il centro dei pensieri umani (84) e, nei membri del corpo di Cristo (85), il luogo in cui abita lo stesso Cristo e lo Spirito Santo (86).

Sant’Agostino: Il Paradiso di cui parla San Paolo

http://www.augustinus.it/italiano/genesi_lettera/genesi_lettera_12.htm

SANT’AGOSTINO

LIBRO DODICESIMO

Tema del libro; il paradiso di cui parla San Paolo.


1. 1. Commentando il libro della sacra Scrittura intitolato La Genesi dal principio fino all’espulsione del primo uomo dal paradiso, abbiamo composto undici libri sia affermando e difendendo ciò che per noi è certo, sia ricercando ed esprimendo le nostre opinioni o esitazioni su ciò che è incerto. Quanto abbiamo potuto e come l’abbiamo potuto [spiegare], l’abbiamo esposto e messo per iscritto non tanto per prescrivere a ciascuno che cosa pensare sui punti oscuri, quanto per mostrare la necessità d’essere istruiti noi stessi su ciò di cui noi dubitavamo, e per distogliere il lettore dal fare affermazioni temerarie su problemi per i quali non siamo riusciti a presentare una dottrina sicura. In questo dodicesimo libro, al contrario, ormai liberi dalla preoccupazione, da cui eravamo impediti, di spiegare punto per punto il testo delle Sacre Scritture, tratteremo con maggior libertà ed ampiezza la questione del paradiso perché non si creda che abbiamo voluto evitare di chiarire ciò che pare insinuare l’Apostolo, che cioè il paradiso sia situato al terzo cielo, quando dice: So che quattordici anni fa un uomo in Cristo, non so se con il corpo o se fuori del corpo, lo sa Dio, fu rapito fino al terzo cielo. So inoltre che quest’uomo, non so se con il corpo o senza il corpo, solo Dio lo sa, fu rapito in paradiso e udì parole ineffabili che a un uomo non è possibile pronunciare 1.

Il terzo cielo è forse identico al paradiso?
1. 2. A proposito di queste parole il primo quesito che di solito ci si pone è che cosa intende dire l’Apostolo quando parla del « terzo cielo », e in secondo luogo se vuol farci intendere che lì è il paradiso oppure vuol dire che, dopo essere stato rapito al « terzo cielo », fu rapito anche nel paradiso dovunque questo si trovi; sicché essere rapito al « terzo cielo » non sarebbe la stessa cosa ch’essere rapito nel paradiso, ma prima sarebbe stato rapito al « terzo cielo » e poi di lì nel paradiso. È un problema tanto oscuro che, a mio avviso, non può essere risolto se uno – basandosi non [solo] sulle parole dell’Apostolo citate più sopra, ma anche su altri eventuali passi della sacra Scrittura o su ragioni evidenti – non riuscirà a trovare un argomento capace di provare che cosa è o non è il paradiso; se cioè è sito nel « terzo cielo », poiché non appare chiaro neppure se lo stesso « terzo cielo » è da considerarsi come un luogo materiale o forse come una condizione spirituale. Si potrebbe in realtà affermare che un uomo avrebbe potuto essere rapito con il suo corpo solo in un luogo materiale ma poiché [in questo passo] l’Apostolo afferma anche di non sapere se fu rapito nel corpo o fuori del corpo, chi oserebbe affermare di sapere ciò che l’Apostolo afferma di non sapere? Tuttavia se lo spirito senza il corpo non può essere rapito in luoghi materiali né un corpo in luoghi spirituali, la stessa incertezza dell’Apostolo – dal momento che nessuno dubita che fa quell’affermazione parlando di se stesso – ci costringe in un certo senso ad ammettere che il luogo ove fu rapito l’Apostolo era tale che non si potrebbe sapere né distinguere se fosse materiale o spirituale.

Le visioni nel sogno.
2. 3. Quando infatti nel sogno o nell’estasi si formano immagini corporee, queste non si distinguono affatto dai corpi se non quando, ripreso l’uso dei sensi del corpo, la persona riconosce d’essere stata tra quelle immagini ch’essa non percepiva per mezzo dei sensi del corpo. Chi, infatti, destatosi dal sonno, non si accorge subito che le cose viste in sogno erano [puramente] immaginarie, sebbene – quando le vedeva nel sogno – non fosse capace di distinguerle dalle visioni degli oggetti percepiti dagli individui che sono desti? Io tuttavia so che a me è capitato – e non dubito quindi che anche altri possa aver avuto o possa avere la stessa mia esperienza – di veder qualche cosa in sogno e d’essere conscio che la vedevo in sogno e che le immagini, che di solito c’ingannano ritenendole reali, non erano dei veri corpi, ma anche dormendo ero perfettamente sicuro e convinto che quelle immagini erano solo fantasie che mi venivano in sogno. Ciononostante io talvolta mi sono ingannato: come quando, vedendo ugualmente nel sogno un mio amico, mi sforzavo di persuaderlo di questa stessa verità, che cioè le cose che noi vedevamo, non erano corpi ma solo immagini di persone sognanti, sebbene m’apparisse anche lui certamente tra quelle immagini nella stessa loro forma. Cionondimeno io dicevo altresì che non era neppure vero che noi fossimo a conversare insieme e che anch’egli nel sonno vedeva allora qualche altra cosa e ignorava assolutamente se io vedevo quegli oggetti. Quando però mi sforzavo di convincerlo ch’egli non era lì in persona, d’altra parte ero anche propenso a pensare ch’egli era lì poiché non avrei certamente potuto conversare con lui se avessi avuto l’esatta impressione ch’egli in persona non era lì. Per conseguenza la mia anima, benché in modo misterioso fosse sveglia mentre io dormivo, poteva essere lo zimbello solo d’immagini corporee come se fossero dei veri corpi.

Visioni nell’estasi.
2. 4. A proposito dell’estasi ho potuto sentire quanto dichiarava un tale, un campagnolo a mala pena capace d’esprimere ciò di cui aveva avuto esperienza: egli sapeva ch’era sveglio e vedeva qualcosa ma non con gli occhi del corpo. Per dirlo con le sue parole e per quanto io posso ricordarmele: « A veder lui – mi raccontava – era l’anima mia, non erano i miei occhi; io non sapevo tuttavia se fosse un corpo o l’immagine d’un corpo ». Egli non era capace di discernere di che si trattasse ma era tanto semplice e sincero che lo ascoltavo come se fossi stato io stesso a vedere ciò che egli mi narrava d’aver visto.

Visioni riferite dalla Scrittura.
2. 5. Se perciò Paolo vide il paradiso così come a Pietro apparve il vassoio calato giù dal cielo 2, a Giovanni apparvero tutte le visioni descritte nell’Apocalisse 3, a Ezechiele apparve la pianura piena d’ossa di morti e la loro risurrezione 4, a Isaia apparve Dio assiso [sul suo trono] e davanti a lui i Serafini e l’altare da cui fu preso il carbone ardente che purificò le labbra del Profeta 5, è evidente che [Paolo] non poteva sapere se vedeva quelle cose nel corpo o fuori del corpo.

Di qual natura fu la visione dell’Apostolo.
3. 6. Ma se quelle realtà furono viste da San Paolo fuori del suo corpo e non erano corpi, possiamo chiederci ancora se fossero immagini di cose corporee oppure una sostanza che non ha alcuna somiglianza con i corpi, così com’è Dio, com’è lo spirito o l’intelligenza o la ragione dell’uomo, così come sono le virtù della prudenza, giustizia, castità, pietà e tutte le altre realtà di qualsiasi specie che noi enumeriamo, distinguiamo, definiamo con l’intelligenza o con il pensiero senza percepirne non solo i lineamenti o i colori ma neppure il suono, l’odore e il sapore, senza che il tatto ne abbia la sensazione di caldo o di freddo, di molle o di duro, di liscio o di ruvido, ma le percepiamo per mezzo di un’altra visione, di un’altra luce, di un’altra evidenza, di gran lunga più eccellente e più sicura di tutte le altre.

Perché l’Apostolo non dice come poté vedere quanto vide?
3. 7. Ritorniamo dunque alle medesime parole dell’Apostolo ed esaminiamole più attentamente fissando anzitutto nel nostro intelletto la inconcussa convinzione che il suo discernimento della natura corporea e incorporea era immensamente più perfetto di quel che noi riusciamo a conoscere per quanti sforzi facciamo. Se dunque egli sapeva che per mezzo del corpo non possono affatto vedersi le realtà spirituali né fuori del corpo possono vedersi quelle corporali, per qual motivo non precisò in qual modo poté vederle quando si riferisce proprio alle realtà vedute? Se infatti era sicuro ch’erano realtà spirituali, perché non era ugualmente sicuro d’averle viste fuori del corpo? Se invece sapeva ch’erano realtà corporali, come mai non sapeva anche che non avrebbe potuto vederle se non per mezzo del corpo? Perché dunque dubita se le vide con il corpo o fuori del corpo, se non forse perché dubita ugualmente se quelle realtà fossero corpi o somiglianze di corpi? Vediamo dunque prima, in tutto il contesto del passo che esaminiamo, di che cosa egli non dubita e così, quando resterà solo ciò di cui dubita, dalle sue certezze apparirà forse anche il motivo del suo dubbio.

Paolo assicura d’essere stato rapito realmente al terzo cielo.
3. 8. So – egli dice – che un uomo in Cristo quattordici anni fa, non so se con il corpo o fuori del corpo, solo Dio lo sa, fu rapito fino al terzo cielo 6. Egli dunque sa che quattordici anni prima un uomo in Cristo era stato rapito fino al terzo cielo. Di ciò egli non ha il minimo dubbio e quindi non dobbiamo dubitare neppure noi. Paolo però dubita d’essere stato rapito con il suo corpo o fuori del corpo; se perciò egli ne dubita, chi di noi oserà esserne certo? Ne verrà forse anche di conseguenza che possiamo dubitare dell’esistenza del terzo cielo, in cui dice che quell’uomo fu rapito? Se infatti gli fu mostrata [in un sogno ispirato] la realtà oggettiva, gli fu mostrato il terzo cielo; se invece gli fu mostrata solo un’immagine somigliante a realtà materiali, quello non era il terzo cielo, ma la visione si svolse secondo un determinato ordine in modo che a Paolo sembrò di salire al primo cielo e poi di vederne un altro al di sopra di quello e di salirvi e di nuovo gli parve di vederne un altro ancora più alto e giunto a quest’ultimo l’Apostolo poté dire di essere stato rapito al terzo cielo. Ma che quello ov’era stato rapito fosse il terzo cielo, Paolo non ebbe alcun dubbio e volle che neppure noi ne dubitassimo. Ecco perché inizia il suo racconto dicendo: Io so; data questa premessa ciò che egli dice di sapere non lo crede vero se non chi non crede all’Apostolo.

Il terzo cielo non è un simbolo n, l’immagine di una realtà materiale.
4. 9. Paolo dunque sa che quell’uomo fu rapito fino al terzo cielo. Per conseguenza il luogo ove fu rapito è realmente il terzo cielo e non un simbolo materiale come quello mostrato a Mosè, il quale però era tanto consapevole della differenza esistente tra la sostanza di Dio e la creatura visibile, con cui Dio si faceva vedere ai sensi umani e corporali, da dire: Mostrati a me in persona 7; per di più non era neppure l’immagine d’una sostanza corporale come quella che vedeva Giovanni con lo spirito, a proposito della quale domandava cosa fosse e gli veniva risposto: « È una città », oppure: « Sono popoli », o qualcos’altro, quando vedeva la bestia o la donna o le acque o qualche altro oggetto. Paolo invece dice: So che un uomo fu rapito al terzo cielo 8.

Il terzo cielo non è un’immagine spirituale.
4. 10. Se invece con il termine « cielo » avesse voluto denotare un’immagine spirituale somigliante a una sostanza corporale, sarebbe potuta essere così anche un’immagine del suo corpo quella in cui fu rapito e salì al terzo cielo. Parlerebbe dunque in questi termini anche del proprio corpo, benché si trattasse solo di un’immagine del cielo, e non si sarebbe preoccupato di precisare che cosa sapeva e che cosa non sapeva; sapeva cioè che quell’uomo era stato rapito fino al terzo cielo ma non sapeva se con il corpo o fuori del corpo, ma avrebbe semplicemente narrato la visione chiamando gli oggetti da lui visti con i nomi di altri oggetti a cui quelli rassomigliavano. Anche noi, quando raccontiamo i nostri sogni o qualche rivelazione avuta in sogno, diciamo: « Ho visto un monte », « Ho visto un fiume », « Ho visto tre persone » o altre cose del genere dando alle immagini il nome degli oggetti a cui erano simili; l’Apostolo invece dice: « Questo lo so; quest’altro non lo so ».

Né il terzo cielo né il corpo apparvero a Paolo come immagini.
4. 11. Ma se tutte e due le cose gli apparvero sotto forma di un’immagine, ambedue gli erano ugualmente note o ugualmente ignote; se tuttavia egli vide realmente il cielo – e perciò gli era noto – in qual modo il corpo di quell’uomo poté apparirgli solamente sotto forma di un’immagine?

Di che natura era il cielo ove fu rapito Paolo.
4. 12. Poiché, se Paolo vedeva il cielo materiale, per qual motivo non si rendeva conto se lo vedeva con gli occhi del corpo? Se invece era incerto se lo vedeva con gli occhi del corpo o dello spirito (e perciò dice: Se [ciò avvenne] con il corpo o fuori del corpo io non lo so 9), come mai non gli era incerto anche se vedeva realmente il cielo materiale o questo gli si mostrava solo sotto forma di una immagine? Così pure, se vedeva una sostanza incorporea non sotto l’aspetto d’una immagine corporea ma così come si vede la giustizia, la sapienza e altre cose della stessa specie, e di tal natura era il cielo, è anche evidente che nulla di tale specie può vedersi con gli occhi del corpo. Per conseguenza, se sapeva d’aver visto qualcosa di tal genere, non poteva dubitare d’averlo visto in modo diverso che mediante gli occhi del corpo. So – egli dice – che un uomo in Cristo, quattordici anni fa… Questo lo so, e non ne dubiti nessuno che mi crede. Ma se nel corpo o fuori del corpo io non lo so, Dio solo lo sa 10.

Si discute se il cielo fosse corpo o spirito.
5. 13. Cos’è dunque, [o Paolo] ciò che tu sai e distingui da ciò che ignori, affinché quanti a te credono non siano ingannati? So – dice – che quell’uomo fu rapito fino al terzo cielo 11. Ma quel cielo o era un corpo o era uno spirito. Se era un corpo e fu visto con gli occhi del corpo, perché mai allora Paolo sa che è quel cielo ma non sa d’averlo visto con il corpo? Se invece era spirito, o gli fu presentata l’immagine d’un corpo – e allora resta tanto l’incertezza se fosse un corpo, quanto l’incertezza se lo vedesse con il corpo – oppure fu visto come è vista con la mente la sapienza senza bisogno di nessuna immagine corporea e tuttavia [in tal caso] è certo che non si sarebbe potuto vedere per mezzo del corpo. Perciò tutte e due le cose o sono vere o sono incerte; oppure come mai può esser certo ciò che fu visto, incerto invece il mezzo con cui fu visto? È evidente che Paolo non poté vedere una natura incorporea per mezzo del corpo. I corpi, al contrario, anche se non possono vedersi senza le loro qualità corporee visibili, vengono visti di certo per mezzo del corpo ma in modo assolutamente diverso – se c’è una visione di tal sorta –. Per conseguenza sarebbe strano che quest’altra sorta di visione potesse assomigliare così perfettamente a una visione oculare da trarre in inganno l’Apostolo o costringerlo a dubitare fino al punto che, avendo visto il cielo corporeo in modo diverso da quello che si vede con gli occhi del corpo, potesse dire d’essere incerto se lo vide con il corpo o fuori del corpo. Diversi modi di ratti estatici.
5. 14. Poiché dunque l’Apostolo che si preoccupò tanto di precisare che cosa sapeva e che cosa non sapeva, non avrebbe potuto mentire, non ci resta forse altro se non intendere che l’oggetto della sua ignoranza era il seguente: se cioè mentre era rapito al cielo egli era nel suo corpo – come l’anima dell’uomo è nel corpo quando si dice che il corpo è in vita ma l’anima è estraniata dai sensi del corpo mentre è sveglio o dorme o è in estasi – o se realmente era fuori del corpo in modo che questo restava nella morte finché – al termine di quella visione – l’anima si sarebbe riunita alle sue membra esanimi. In tal caso egli non si sarebbe svegliato come uno che si desta dal sonno né sarebbe tornato a [percepire con] i propri sensi come uno dopo essere stato rapito in estasi, ma sarebbe tornato veramente a vivere di nuovo dopo essere morto. Per conseguenza ciò che Paolo vide quando fu rapito al terzo cielo – e afferma anche di sapere – lo vide nella sua realtà e non sotto un’immagine. Egli però era incerto se il rapimento fuori del corpo lasciò il suo corpo veramente morto o se la sua anima vi restò sempre in qualche modo presente come essa si trova in un corpo vivente finché la sua mente sarebbe stata rapita per vedere e udire i segreti ineffabili della visione; ecco perché, forse, egli afferma: Se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio 12.

L’enigma di Damasco: Cosa avvenne davvero su quella strada (Romano Penna)

http://www.scuolacattolicaoggi.org/SCO/2008/08%20-%20Agosto/02%20-%20Anno%20Paolino.pdf

L’enigma di Damasco

COSA AVVENNE DAVVERO SU QUELLA STRADA

di Romano Penna

Come di molti personaggi dell’antichità, non conosciamo l’anno esatto della nascita di Paolo, e tanto meno quello della morte. Però tutta una serie di dati sicuri e di vari indizi ci permette di fissarne con buona approssimazione sia gli estremi sia le tappe intermedie. Quando scrive il biglietto a Filemone, probabilmente nell’anno 54 (o, secondo una cronologia più bassa, verso il 62), egli si dichiara « vecchio », in greco presbùtes  (Filemone, 9); e quando Luca negli Atti degli Apostoli narra della lapidazione di Stefano all’inizio degli anni Trenta, annota anche la presenza di Saulo che viene qualificato come « giovane », in greco neanìas  (Atti, 7, 58). Le due denominazioni sono evidentemente generiche, ma, secondo i computi  antichi sull’età dell’uomo, la prima dovrebbe indicare grosso modo uno attorno alla sessantina e la seconda uno attorno alla trentina. Ne deduciamo che egli dovette nascere negli ultimi anni dell’era precristiana ed essere quindi di pochi anni più giovane di Gesù. Nato a Tarso in Cilicia (cfr Atti, 22, 3) come ebreo della diaspora di lingua greca e con un nome latino (cambiato per assonanza da Saulo in Paolo), per di più insignito della cittadinanza romana (cf  Atti, 22, 25-28), egli appare collocato sulla frontiera di tre culture diverse e forse anche per questo disponibile a feconde aperture universalistiche, come si rivelerà in seguito. Forse derivandolo dal padre, egli apprese anche un lavoro manuale consistente nel mestiere di  skenopoiòs, letteralmente « fabbricatore di tende » (cfr Atti, 18, 3), probabilmente lavoratore della lana ruvida di capra per farne stuoie o tende, forse per uso militare ma soprattutto privato (cfr  Atti, 20, 33-35).  Del resto, nell’antichità Tarso era famosa per la lavorazione tessile specialmente del lino (cfr Dione di Prusa, Discorsi, 34, 21), tanto che alcuni papiri testimoniano l’aggettivo tarsikàrios per indicare un tessitore di lino. Verso i 12-13 anni, l’età in cui il ragazzo ebreo diventa bar mitzvà (« figlio del precetto »), Paolo lasciò Tarso e si trasferì a Gerusalemme per essere educato ai piedi di Rabbi Gamaliele il Vecchio secondo le più rigide norme del fariseismo (cfr Galati, 1, 14; Filippesi, 3, 5-6; Atti, 22, 3; 23, 6; 26, 5), imbevendosi di un grande zelo per la Toràh mosaica. È sulle basi di una forte ortodossia religiosa, là acquisita, che egli intravide nel nuovo movimento che si richiamava a Gesù di Nazaret un grande rischio per l’identità 2 giudaica. Da una parte, Paolo aveva conosciuto la forte critica di Stefano al Tempio di Gerusalemme (cfr Atti, 6, 14; 7, 47-50). Dall’altra, egli non poteva ammettere un Messia crocifisso, che si doveva ritenere soltanto scandalo e maledizione (cfr 1 Corinzi, 1, 23; Galati, 3, 13); se poi questi era ormai positivamente collegato con gli ignoranti della Legge (gli cammê ha-’aretz) e persino con i peccatori così che per essere giusti davanti a Dio bisognava credere in Gesù, allora la Torah finiva per non essere più né sufficiente né  tanto meno necessaria. Ciò spiega il fatto che egli abbia fieramente « perseguitato la chiesa di Dio », come per tre volte ammetterà nelle sue lettere (1 Corinzi, 15, 9; Galati, 1, 13, Filippesi, 3, 6).  Peraltro è difficile immaginarsi concretamente in che cosa consistesse questa persecuzione. Per esempio, ciò che scrive Luca in  Atti 9, 1-2 (« Saulo, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci della Via ») fa difficoltà a combaciare con i dati storici, come rilevano i commentatori. Infatti, sotto i procuratori romani il Sinedrio non aveva giurisdizione fuori della terra d’Israele né Paolo poteva godere di un mandato ufficiale senza essere membro del Sinedrio stesso. Si ipotizza perciò che egli sia stato semplicemente inviato a Damasco da una sinagoga di Giudei « ellenisti » di Gerusalemme, forse con una lettera di raccomandazione da parte del sommo sacerdote, per mettere in guardia le sinagoghe locali contro il pericolo della nuova eresia ed esortarle a  prendere misure adeguate, anche severe.  Certo è che proprio sulla strada di Damasco, all’inizio degli anni Trenta, forse nel 32, si verificò il momento decisivo della vita di Paolo. Là avvenne una svolta, anzi un capovolgimento di valori. Allora egli, inaspettatamente, cominciò a considerare « danno » e « spazzatura » tutto ciò che prima costituiva per lui il massimo ideale, la ragion d’essere della sua esistenza (cfr  Filippesi, 3, 7-8). Che cos’era successo? Abbiamo a questo proposito due tipi di fonti. Il primo tipo, il più popolare, sono i racconti dovuti alla penna di Luca, che per ben tre volte narra l’evento (cfr Atti, 9, 1-19; 22, 3-21; 26, 4-23), indugiando su alcuni dettagli pittoreschi, come la luce dal cielo, la caduta a terra, una voce che chiama, la nuova condizione di cecità, e la sua guarigione come di squame tolte dagli occhi, il digiuno. È difficile che ci sia Paolo in persona all’origine di queste narrazioni, sia perché egli non ne parla mai in questi termini, sia perché in Galati, 1, 13 rimanda i suoi lettori a qualcosa di sentito dire.  Perciò è ben possibile che Luca abbia utilizzato un racconto nato probabilmente nella comunità di Damasco (si pensi al colorito locale dato dalla presenza di Ananìa e dai nomi sia della via sia del proprietario della casa in cui Paolo soggiorna:  Atti, 9, 11), la quale compose in un primo tempo un racconto di conversione che metteva in rilievo la straordinaria trasformazione avvenuta nell’ex persecutore e che divenne poi anche il racconto della vocazione di un nuovo evangelizzatore.  Il secondo tipo di fonti è quello più « autentico », in quanto consiste nella testimonianza del diretto interessato, e sono le lettere di Paolo stesso. Più volte infatti egli fa riferimento a quella straodinaria esperienza, e si tratta sempre di accenni molto 3 brevi, non descrittivi, che puntano soltanto al senso di ciò che allora avvenne (cfr Romani, 1, 5:  « mediante Cristo Gesù ricevemmo la grazia dell’apostolato »; 1 Corinzi, 9, 1:  « non ho io visto Gesù, il Signore nostro? »; 1 Corinzi, 15, 8:  « ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto »; 2 Corinzi, 4, 6:  « Dio che disse « Rifulga la luce dalle tenebre » rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che brilla sul volto di Cristo »; Filippesi, 3, 7:  « ciò che per me era un guadagno lo stimai una perdita a motivo di Cristo »); il testo più diffuso si legge in Galati, 1, 15-16:  « Quando a Dio, che mi mise a parte fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, piacque di rivelare il Figlio suo in me, perché lo annunziassi fra le genti, immediatamente non consultai carne o sangue né salii a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, ma mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco ». Come si vede, in tutti questi passi egli non indulge a dettagli narrativi, ma interpreta sempre quel momento non tanto come un fatto di conversione, poiché non ne impiega mai il lessico specifico (con i verbi metanoèin-epistrèfein e derivati), quanto come fondamento del suo apostolato, come incarico di evangelizzazione, e quindi come un evento di missione (con un lessico di visione, apparizione, rivelazione, illuminazione).  Ci si può chiedere come spiegarsi il cambiamento verificatosi in Paolo sulla strada di Damasco. Nel clima romantico dell’Ottocento si preferiva ricorrere allo schema dell’uomo tormentato, che finalmente trova una via d’uscita alle proprie angosce adottando una soluzione estrema. Per fare questo si interpretava in senso autobiografico ciò che si legge in Romani, 7, 7-25, dove Paolo parla alla prima persona singolare:  « Io non faccio quello che voglio,  ma quello che detesto… Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi  rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra » (vv.15.22.23).  Senonché, l’esegesi odierna di questa pagina paolina è molto più guardinga e dubbiosa, sia perché il testo è scritto al presente (quindi letteralmente dovrebbe riferirsi non al passato anteriore alla conversione), sia perché il passo appartiene non a un contesto autobiografico bensì a una riflessione di principio sul valore della Legge (sicché l’Io può benissimo spiegarsi con la figura  retorica  della  enallage  così  da  includere una esperienza universale), sia perché in un altro passo sicuramente autobiografico Paolo dice al contrario di essere stato « irreprensibile quanto alla Legge » (Filippesi, 3, 6:  qui emerge addirittura la fierezza e la gioia di una identità giudaica vissuta in pienezza come « un guadagno »). Si può sempre pensare che quanto egli scrive in Romani, 7, 7-25 rappresenti semplicemente la coscientizzazione successiva (cristiana) di un vecchio conflitto inconscio nei confronti della Legge, mentre Filippesi, 3, 4-6 rappresenterebbe soltanto la tipica coscienza del Paolo precristiano.  Ma  le  cose  sono  più  complesse.  Le  testimonianze personali di Paolo sull’evento di Damasco sono costantemente incentrate sulla precisa figura di Gesù Cristo. Egli non parla d’altro, al punto da confessare persino di essere stato « ghermito da Cristo Gesù » (Filippesi, 3, 12). Si trattò dunque essenzialmente di un incontro di « persone », mentre invece i concetti, le « idee », pur implicite, giocarono un ruolo secondario. E-4 gli vide la gloria di Dio brillare sul volto di Cristo (cfr  2 Corinzi, 4, 6). Da questo punto di vista, l’esperienza di Paolo si deve spiegare anche in riferimento a certe categorie della mistica giudaica della merkavàh, cioè del « carro », che affonda le sue radici nella visione del primo capitolo di Ezechiele. Là il profeta dice di aver visto un carro trainato da quattro esseri viventi « e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane (…) Tale mi apparve l’aspetto della gloria del Signore » (1, 26.28):  qui, cioè, si osa associare la gloria celeste di Dio a un essere umano, sia pur indeterminato, e ciò spiega le riserve del rabbinismo su questa pagina.  In ogni caso, non si può trascurare la  dimensione psicologica dell’esperienza di Paolo, spesso trattata in termini di allucinazione (benché di norma agli storici e ai teologi manchino gli studi in materia di psicologia, così come gli psicologi sono perlopiù digiuni di tecniche storiografiche e di teologia). Uno studio di pochi anni fa cerca di fare chiarezza in materia, sia distinguendo tra allucinazione e illusione, in quanto esse non vanno identificate, sia precisando onestamente che la non oggettività del fenomeno (visione, udito, odorato, tatto) riguarda solo l’osservatore esterno ma non il soggetto che ne fa esperienza,  e sia badando anche ai condizionamenti socioculturali del soggetto interessato.  Quanto a Paolo, va preso atto che le sue dichiarazioni sull’evento sono rare (non in tutte le lettere) e molto sobrie (prive di descrizioni); in più, bisogna constatare che egli non adduce mai di fronte ai propri interlocutori l’esperienza da lui vissuta per fondare su di essa la propria autorità, né per garantire una qualche tesi teologica, né per rafforzare una qualche presa di posizione disciplinare; anzi, semmai, succede esattamente il contrario. Occorre perciò guardarsi dal giudicare l’evento della strada di Damasco con le categorie della psicopatologia. L’unico dato  sicuro sul piano della fattualità storica, detto in termini junghiani, è che esso ha avuto una funzione prospettica tale da determinare il resto della vita di Paolo, e da farlo in modo del tutto positivo e fecondo:  là egli ha fatto esperienza di un incontro e ha maturato una convinzione che ha ribaltato la sua esistenza, sia resettando l’intero suo patrimonio ideale sia riorientando le sue energie verso un nuovo scopo. 
(©L’Osservatore Romano – 29 giugno 2008)

UN ANNO CON SAN PAOLO (2008-2009): LE PAGINE AUTOBIOGRAFICHE

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/ghidelli_annopaolino1.htm#PAGINE AUTOBIOGRAFICHE

MONS. CARLO GHIDELLI : UN ANNO CON SAN PAOLO (2008-2009)

CAPITOLO TERZO – PAGINE AUTOBIOGRAFICHE

Chi, nell’intraprendere questo cammino, vuol partire con il piede giusto, farà bene a individuare prima le pagine autobiografiche di Paolo: sono molte e tutte assai belle. Mettendole insieme, una dopo l’altra, si possono ricostruire praticamente tutte le tappe della sua vita e della sua ricerca. È un suggerimento che mi permetto di dare a coloro che sono seriamente intenzionati a conoscere le Lettere di Paolo e non hanno strumenti tecnici e scientifici appropriati. Forse questa è l’unica strada percorribile: chi l’ha già percorsa ne ha ricavato grandi frutti.
Tra le molte pagine in cui Paolo parla di se stesso ne scelgo una perché mi sembra la più completa e la più significativa: si tratta di Filippesi 3,1-14. Qui l’autore distingue in modo estremamente chiaro tre momenti della sua vita: il passato (vv. 4-6), il presente (vv. 7-11) e il futuro (vv. 12-14). Dovremmo imparare anche noi, almeno nei momenti più importanti della nostra piccola storia personale, a rileggere la nostra vita alla luce della parola di Dio, se non altro per ringraziare dei doni ricevuti e per chiedere perdono della mancanze commesse e delle omissioni fatte; sempre comunque per innalzare il nostro inno di lode e di ringraziamento al Signore.
Paolo non ha mai rinnegato il proprio passato di giudeo, ma solo qui enumera tanti titoli: « Circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge, quanto a zelo persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’ osservanza della legge» (vv. 5-6). Come Saul, primo re d’Israele di cui porta il nome, Paolo discende dalla tribù di Beniamino, benemerita fra tutte le tribù perché rimasta sempre fedele alla dinastia di Davide. Come tanti suoi coetanei Paolo si era totalmente dedicato al culto di Dio in modo settario e cieco. Come tanti altri ebrei Paolo aveva considerato un privilegio irrinunciabile quello di appartenere alla religione ebraica. Come tanti altri farisei Paolo praticamente aveva fatto della legge – la Torah – un idolo, e ne era divenuto schiavo, con tutte le conseguenze.
Per il presente, Paolo si sente portato ad adottare criteri valutativi del tutto nuovi; si direbbe che egli ha dovuto sovvertire la scala dei valori: «Quello che poteva essere per me un guadagno l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo» (v. 7). Ancor più: «Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo» (v. 8). Anche per noi, come per lui, si tratta di sapere chi sta al centro della nostra vita, chi abbiamo deciso di mettere al vertice della nostra ricerca. Se è Gesù, allora tutto, nella nostra vita, prende un senso, cioè un significato e un orientamento nuovo; tutto finirà col contribuire alla nostra crescita umana e alla nostra maturità cristiana.
Quanto al futuro, Paolo non si avventura in previsioni avventate; si accontenta solo di tenerlo intimamente connesso con il suo presente: «Non che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perlezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (v. 12). Sembra essere questo l’unico modo corretto anche per noi se vogliamo preparare un futuro che non sia pieno di sorprese negative, bensì ricco dei doni di Dio, quei doni che il Signore, nella sua bontà misericordiosa, non ci lascerà certamente mancare.
Nell’epistolario paolino, oltre a questa ci sono molte altre pagine autobiografiche, dalle quali conviene partire per una lettura sistematica dell’intera sua produzione letteraria. Una volta fatto questo primo passo e superate le prime difficoltà, sarà più facile leggere una per una le sue Lettere e comprenderne il significato profondo. Infatti, solo chi si è familiarizzato con il linguaggio e con la psicologia di Paolo può permettersi di leggere le sue Lettere, anche le più difficili; e capirle, entrando In profonda sintonia spirituale con chi scrive.
Un’altra annotazione si impone: quella che noi andremo a comporre non sarà una mera elencazione dei dati biografici di Paolo ma sarà quasi una autobiografia spirituale dell’apostolo, tale cioè da farci conoscere la sua identità vera e profonda, quella che egli, a partire dal grande evento di Damasco, ha man mano acquisito per tappe progressive, passando attraverso molteplici prove ed esperienze mistiche che lo hanno assimilato a Cristo, suo Signore.

Il nostro « debito » con Paolo: Ha « bucherellato » l’Impero salvando le genti

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_sequeri36.htm

Il nostro « debito » con Paolo

Ha « bucherellato » l’Impero salvando le genti 

Pierangelo Sequeri

(« Avvenire », 28/6/’09)

Paolo di Tarso ha « inventato » il cristianesimo? Ricordiamo l’esasperazione di Friedrich Nietzsche, nei confronti di un Dio dell’avvilimento, della « rappresaglia », dei sacrifici umani, «quem Paulus creavit». Paolo deve averlo creato, secondo Nietzsche, perché nulla di ciò si trova nel « Vangelo » di Gesù. Nietzsche coglie a suo modo nel segno. Però manca totalmente il bersaglio, con Paolo.
Nel nucleo centrale del suo pensiero, « vulcanico » e roccioso, il Dio di Paolo è esattamente il Dio di Gesù: alla lettera. Quello stesso che per evitare sacrifici umani offre se stesso ai risentimenti di un « sacro » impazzito, che vuole smentirlo proprio su « agape ». Il Dio di Paolo è il Dio di « agape », del quale non si può pensare il più grande, secondo la formula di Anselmo d’Aosta. Per questo, dessi pure «il mio corpo alle fiamme», nell’atto di un supremo « martirio », se non ho « agape » «non sono niente» (« 1 Cor 13″). E persino – udite – «se avessi una fede che sposta le montagne». (Su questo aspettiamo un grande libro, colleghi « biblisti » e « teologi » quanti siamo – lo dico anche a me stesso – che ancora non abbiamo).
Di fatto, la domanda ha potuto avere un senso (polemico e, rispettivamente, « apologetico ») quando i credenti e i loro « critici » leggevano poco i testi. E molto di più leggevano i « bigini » che se n’erano fatti. Rimane vero, con tutto questo, che Paolo è persona – e personalità – prodigiosamente creativa, nell’orizzonte aperto dalla rivelazione di Gesù. Paolo ha messo al sicuro la singolarità del « cristianesimo », per ogni mondo possibile.
Vogliamo esemplificare, fuori da ogni « manierismo teologico »? Intanto non avremmo l’icona della « forma occidentale ». Inedita avventura di affetti e pensieri dell’umano, in cui le « dialettiche » dell’ »evangelo » hanno innervato due possenti creazioni dello spirito. In primo luogo, riabilitando religiosamente la grandiosa macchina « laica » della « cittadinanza liberale » (il « diritto romano »: messo in salvo dal suo stesso mondo, ormai a pezzi). Nessun altro pensiero religioso avrebbe potuto, se non quello che distingue radicalmente, senza contrapporli « pregiudizialmente », Cesare e Dio. (E il celebre « enunciato » è di Gesù, non di Cavour). In secondo luogo, metabolizzando religiosamente la prodigiosa conquista filosofica della « razionalità morale », che mette in rapporto il singolo con l’appello incondizionato della giustizia.
Lo spessore – giustamente drammatico – che viene conferito da Paolo al severo confronto della coscienza con se stessa, per la retta decifrazione della « legge » (con la minuscola e con la maiuscola), interpreta l’appello di Gesù alla libertà della coscienza che decide la vita. La coscienza cerca la giustizia sempre di fronte a Dio, « devoti » o « pagani » quanti siamo. E sempre le è accessibile, nell’onestà del cuore, la propria ingiustizia (« Rm 7″). Vale per la religione e per la « morale », per la verità e per l’amore.
Sarebbe solo l’inizio, se ci si vuole incamminare. L’ »Anno » che Benedetto XVI, con felice intuizione, ha proposto di dedicare alla viva « riappropriazione » di questa « colonna » dell’avventura cristiana, ha aperto il suo varco. L’ »Anno » si chiude, giustamente. Ma il « filo » da tessere va tenuto ben saldo. Poca conoscenza e troppi fraintendimenti, ancora. Con tutto il rispetto per Galileo e per Darwin, siamo in debito d’onore con Paolo: credenti e non credenti, quanti siamo, in questa parte del mondo che ci sembra, a tratti, così « s-finita ». Paolo, quasi dal niente, e con poco più che il suo Signore crocifisso e risorto, ha tessuto una « rete » miracolosa: « bucherellando » l’ »Impero » come un « colabrodo ». E salvando « le genti ». 

SAN PAOLO APOSTOLO – LA VITA IN CRISTO

dal sito:

http://www.sulmonte.org/wp-content/uploads/2010/11/vita-in-cristo-in-san-PAOLO.doc

SAN PAOLO APOSTOLO – LA VITA IN CRISTO

San Paolo conia l’espressione « in Cristo » per indicare l’unione dei cristiani con Cristo e mostrare come questi sono trasferiti nella vita stessa di Cristo. « per renderci conto della formula « in Cristo », noi dobbiamo guardarci dal mettere l’accento sopra l’esperienza, pur privilegiata, di Paolo. Secondo lui in effetti ogni cristiano è in relazione ontologica con il Cristo, quale che sia la coscienza che egli ne abbia. È la fede nel Cristo e l’incorporazione battesimale all’origine di questo beneficio. Esse trasferiscono l’uomo in un nuovo ambiente vitale, dove il suo essere e le sue facoltà sono trasformate ». Il cristiano è « in Cristo »; vivere in Cristo, in un rapporto personale con lui, è per Paolo la verità di quella realtà nuova creata nell’uomo giustificato dalla fede e dal battesimo. Le sue affermazioni dicono la novità del cristiano sul piano del suo essere. Si tratta della novità che è il battezzato stesso. Egli « in Cristo » è già una « nuova creatura », chiamato a rispondere con la propria vita morale alla nuova creazione operata in lui dallo Spirito. Il confronto del testo di Rom 6 con altre lettere dell’epistolario paolino, in particolare le lettere ai Colossesi e ai Galati, conferma e mette ancor più in evidenza il fondamento battesimale della vita in Cristo. Si può affermare infatti che la verità fondamentale secondo cui l’ espressione paolina « in Cristo » deve essere compresa, non riguarda solo l’ « essere in Cristo » del battezzato, ma anche la « vita in Cristo » donata al battezzato, che proprio per questo è costituito come « vivente in Cristo Gesù ». Su questo si fonda e sviluppa il progetto e l’impegno etico di « vivere in Cristo ».
Nella lettera ai Colossesi l’Apostolo presenta gli imperativi morali come conseguenza dall’ essere risuscitati con Cristo; egli dichiara nuovamente che il cristiano partecipa del mistero pasquale di Cristo attraverso il battesimo, presentato ancora più esplicitamente come resurrezione del credente. « In lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui siete insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti » (Col 2, 12). L’evidente parallelismo con il cap. 6 della lettera i Romani conferma il valore che Paolo attribuisce al battesimo, ma questo testo sottolinea una più forte unione a Cristo e alla sua risurrezione, come presente e già avvenuta nel battesim026. Nel futuro escatologico ci sarà la manifestazione piena della vita nuova partecipata nel battesimo e ancora avvolta nel mistero, ma ora su questa vita già da risorti si fonda e si mostra possibile l’impegno morale dei battezzati, chiamati a vivere da risorti con Cristo. « Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai
nascosta con Cristo in Dio » (Col 3, 1-3). Ciò che risulta evidente, nella tensione tra presente e futuro, insieme all’affermazione di un presente già in Cristo ma ancora nascosto, rimane l’affermazione che « l’intima appartenenza a Cristo è già realtà; essa infatti ha già avuto il suo fondamento nel battesimo, in cui il cristiano è stato inserito nella morte e risurrezione di Cristo »27.
Nell’ epilogo della lettera ai Galati, scritto da Paolo di suo pugno, l’Apostolo ribadisce il suo pensiero con « grossi caratteri » (Gal 6, 11). Questo particolare – secondo una fondata interpretazione – può indicare che si tratta di un testo importante per comprendere il suo pensiero. Egli afferma che ciò che conta per il cristiano è « l’essere nuova creatura » (Gal 6, 15). Questo viene spiegato a partire dalla testimonianza che l’Apostolo dà di se stesso (cfr. Gal 6, 14), per il legame che questa nuova identità ha con la croce di Cristo e che ha il significato e il valore di una vera circoncisione (cfr. Col 2, 11). A chi lo accusava di cercare il favore degli uomini, Paolo mostra ciò che ispira la sua condotta. Dopo la morte di Cristo, circoncisione e non circoncisione non contano più nulla. Per l’Apostolo ciò che vale ormai è l’opera della croce che ha distrutto il passato per instaurare un ordine nuovo. « Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura » (Gal 6,14-15). Ogni vanto del passato, anche la circoncisione della carne, è diventato inconsistente, poiché ora vale la <  Nella stessa lettera si parla del battesimo come di un evento salvifico nel quale il cristiano ha "indossato Cristo", si è rivestito di lui, per appartenere a lui. "Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più giudeo nè greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, ma tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (GaI 3, 27-28). Mediante il battesimo, il cristiano comunica alla persona di Cristo e al suo essere: "chi è battezzato "in Cristo" viene fatto entrare nell' evento salvifico che fa tutt'uno con nome "Cristo"; gli viene assegnato questo evento"29. I cristiani sono rivestiti di Cristo nel senso che sono assimilati alla sua vita, con l'impegno di "indossare Cristo", conformando cioè la loro vita al modello di Cristo. Nella stessa lettera, Paolo conferma questo suo pensiero con la forza della sua esperienza, testimoniando che Cristo vive in lui, perché egli è stato crocifisso con Cristo (cfr. Gal 2, 19-20). I cristiani, tuttavia, non sono soltanto crocifissi con Cristo, ma partecipano alla sua vita e questa vita è vita nello Spirito. In questi termini nella stessa lettera ai Galati viene presentata e spiegata la novità della vita in Cristo: "Coloro che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (Gal 5, 24-25).  
Il cristiano è una nuova creatura per un dono di vita nuova, accolto nella fede e realizzato nel battesimo. Si tratta di un evento sacramentale, che opera una reale trasformazione del cristiano.
È una novità che Paolo afferma anche nella seconda lettera ai Corinzi, dove proclama che "quindi se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ne sono nate di nuove" (2 Cor 5, 17). Per comprendere meglio questo versetto occorre guardare anche a ciò che lo precede, in cui ritroviamo l'espressione - a noi ormai familiare - che il cristiano ormai non vive più per se stesso. "Cristo è morto per tutti, perché quelli che vivono, non vivano più per se stessi, ma per colui che
è morto e risuscitato per loro" (2 Cor 5, 15). I cristiani sono dei "viventi" perché partecipano alla vita di colui che è morto e risorto per loro; sono guadagnati per una nuova esistenza, quella di Cristo in loro. Per questo Paolo testimonia di non conoscere nessuno secondo la carne, poiché ormai egli vive per Cristo; per lui vivere è Cristo (Fil 1, 21) e tutto egli conosce e giudica in lui. È la novità vivente e vitale di colui che è stato conquistato da Cristo, del battezzato che è un uomo nuovo e la cui conoscenza si fonda sul cambiamento del suo essere e del mondo nel suo insieme31.
Dall' analisi di questi testi dell' epistolario paolino sul battesimo risulta evidente che il sacramento del battesimo rappresenta un "atto unico", fondante e attivo in tutta la vita del battezzato, mediante il quale si opera in lui una novità di vita, l'inizio di una vita nuova nella partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo. Per questo evento sacramentale, l'esistenza cristiana può essere definita un "vivere in Cristo", per vivere la vita di Cristo. Per il battesimo, sacramento della pasqua, si determina una nuova situazione ontologica: il cristiano è una nuova creatura (cfr. Gai 5, 6; 6, 15; 2 Cor 5, 17), sperimenta un nuovo intervento creatore di Dio (cfr. Col 3, 10), diventa un uomo nuovo rispetto a ciò che era prima e che non esiste più (cfr. Rom 6, 6; Col 3, 9; Gal 2, 19). Quindi per il battezzato l'essere "in Cristo" non significa semplice relazione psicologica, sentimentale, né fusione o assorbimento, ma comunione personale e vitale, così da essere inserito e incorporato in Cristo, per divenire un essere solo con lui (Gal 3, 27-28). Perciò l'espressione "in Cristo" contiene ed esprime quella relazione esistenziale del cristiano che nel battesimo è posto in rapporto vitale con Cristo, attraverso un evento sacramentale iniziale e unico, ma sempre attuale nella sua efficacia. Secondo la piena verità del suo significato ontologico e morale, l'espressione "vita in Cristo" permette di comprendere che la natura e l'identità della vita morale, che si sviluppa a partire dal dono sacramentale, è una "vita nuova in Cristo", in cui è contenuta e comunicata tutta la verità salvifica e santificante dell' essere in Cristo. "Si tratta sempre per il battezzato di mettere la sua vita in armonia con l'economia dell'era di grazia nella quale è stato introdotto, che è la regola fondamentale dell'etica paolina". TI cristiano vive la vita stessa di Cristo "fuoriuscita" dal suo costato nella vittoria pasquale sul peccato e sulla morte, una vita perciò di riconciliazione con Dio nello Spirito e di partecipazione all'amore trinitario di Dio. Ed è in questo suo essere che si fonda e si sviluppa il suo operare. "Si tratta di affermare l' assolutezza e la radicalità dell' essere in Cristo, dal quale ne seguiranno le conseguenze. Però ciò che è tipicamente paolino è questa radicalità dell'affermazione antropologica cristocentrica e cristocentrata. È pertanto una questione più di fondo, riguardante soprattutto l'idea di uomo".
Ma la "vita nuova in Cristo" è una vita che domanda di essere vissuta. Il battezzato manifesta e realizza la novità ontologica della sua partecipazione alla vita pasquale di Cristo quando in lui diventa memoria esistenziale, quando si manifesta come esistenza nuova, come nuova vita in Cristo.

Paolo a Roma: Collaboratori della Chiesa nell’annuncio del Vangelo

dal sito:

http://www.romasette.it/modules/news/article.php?storyid=4741

Paolo a Roma: Collaboratori della Chiesa nell’annuncio del Vangelo
di Andrea Lonardo

Paolo, anche dalla prigione, continua ad inviare lettere. Non si sente solo nella sua fatica apostolica, ma continuamente travasa la sua esperienza personale nel seno della Chiesa, accogliendo insieme l’aiuto e la testimonianza dei fratelli in Cristo.
È straordinario, in questa prospettiva, il piccolo biglietto a Filemone, nel quale Paolo si rivolge appunto a Filemone, chiamato «nostro caro collaboratore», alla sorella Appia, ad Archippo ed alla comunità che si riunisce nella loro casa, per presentare la situazione dello schiavo Onesimo fuggitivo, ma ora disposto a ritornare sui suoi passi.
Paolo si definisce nella lettera «vecchio e ora anche prigioniero in Cristo» (Flm 9). Il biglietto potrebbe essere stato scritto a Roma, oppure, secondo altri studiosi, in una prigionia efesina della quale gli Atti non hanno conservato memoria. Questa seconda ipotesi è stata avanzata a motivo del fatto che Filemone è un colossese e un invio della lettera da Roma presupporrebbe un lungo tragitto dell’epistola. Certo è che l’apostolo, comunque lontano e in carcere, sente il suo legame personale ed ecclesiale con le diverse comunità e a queste si rivolge, per venire in aiuto della difficile situazione in cui versa lo schiavo Onesimo.
Paolo non solo ha dei fratelli nelle lontane chiese da lui fondate, ma ne ha altri che gli sono vicini anche nella prigionia. La finale della stessa lettera a Filemone contiene i saluti che Paolo rivolge. Ed egli non è solo a ricordarsi di Filemone e degli altri colossesi, ma: «Ti saluta Epafra, mio compagno di prigionia per Cristo Gesù, con Marco, Aristarco, Dema e Luca, miei collaboratori» (Flm 1,23-24).
Come il lontano Filemone, così anche i fratelli che sono compagni di prigione con lui o comunque vicini a Paolo in catene, vengono chiamati synergoí, “collaboratori”. Paolo utilizza questa espressione molte volte nel suo epistolario. Essa ha innanzitutto una qualificazione teologica: si tratta di una collaborazione che non è semplicemente una vicinanza puramente affettiva a Paolo in quanto persona, ma è un servizio svolto a partire da una chiamata che proviene da Dio stesso ed esercitata con la grazia e la forza del Signore.
Nel suo epistolario, Paolo afferma esplicitamente di se stesso, utilizzando la stessa espressione «Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio» (1 Cor 3,9). E ancora «E poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio» (2 Cor 6,1), ma attribuisce poi lo stesso titolo ad altri: «Abbiamo inviato Timoteo, nostro fratello e collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo, per confermarvi ed esortarvi nella vostra fede» (1 Ts 3,2).
Un secondo aspetto del termine è che esso indica delle persone che svolgono un servizio che è ecclesiale, che è un servizio di comunione nella chiesa. Essi non semplicemente aiutano Paolo a titolo personale, perché gli è cara la figura dell’apostolo, ma sono “collaboratori” poiché gli è cara la Chiesa stessa. Proprio la preposizione syn, “con”, contenuta nel termine synergoí (“coloro che lavorano insieme”) indica espressamente questa loro caratteristica.
Ma essi vivono questa fatica in una prospettiva missionaria, perché ogni uomo possa giungere ad ascoltare e ad accogliere il Vangelo del Signore Gesù. “Collaboratori” sono espressamente chiamati Aquila e Priscilla (Rm 16,3) che hanno annunciato il Vangelo nelle diverse città in cui erano giunti, dopo l’espulsione da Roma avvenuta a motivo dell’editto dell’imperatore Claudio
Nel termine “collaboratore” appare così evidente sia il primato di Dio, sia la comunione ecclesiale che è il contesto di ogni servizio, sia la coscienza che la Chiesa esiste per l’annuncio del Vangelo e non per se stessa. Per questi motivi, proprio questo termine potrebbe essere oggi nuovamente utilizzato ad indicare e caratterizzare il servizio svolto nella comunità cristiana dai laici che assumono delle specifiche responsabilità nell’edificazione della Chiesa e nell’annuncio del Vangelo.
È divenuto abituale, in tempi recenti, l’utilizzo nel linguaggio comune del termine “operatori”, ma esso sembra sottolineare esclusivamente l’aspetto pratico, operativo, e, inoltre, non ha nessun radicamento nella tradizione ecclesiale. Precedentemente è stato in voga il termine “ministeri”, ma esso sembra attirare troppo l’attenzione sul servizio liturgico e, comunque, accentua una prospettiva intra-ecclesiale (alcune annotazioni per un uso non indiscriminato del termine “ministeri” sono venute dall’esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici di Giovanni Paolo II n. 23). L’espressione “animatori”, in alcuni casi, è stata utilizzata al posto delle precedenti, ma essa mette in ombra che è lo Spirito colui che anima la vita della Chiesa e, comunque, anche questo termine, non appartiene al linguaggio ecclesiale della tradizione.
Proprio il termine “collaboratori” è, invece, frequentemente usato nel Nuovo Testamento ed è, forse, adatto ad esprimere la ricchezza teologica del servizio svolto nella Chiesa. L’espressione è stata, nel magistero recente, utilizzata dall’esortazione apostolica post-sinodale “Christifideles laici” di Giovanni Paolo II che la utilizza nel titolo del n. 61: “Collaboratori di Dio educatore”.

21 aprile 2009

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