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La conversione di San Paolo? Ad opera di un brigante.

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La conversione di San Paolo? Ad opera di un brigante.

Di don Massimo Vacchetti – (2009)

Nell’anno giubilare dei duemilanni della nascita di San Paolo, la giornata di oggi assume un valore singolare. La Liturgia della Chiesa contempla due circostanze in cui ricorda l’apostolo delle genti: il 29 giugno il suo martirio assieme a quello di Pietro, il 25 gennaio quando ricorda la sua conversione. E’ un fatto unico che la liturgia più che fare memoria di un santo (nel giorno del suo dies natalis) celebra un fatto, un avvenimento. La storia di Paolo è una vicenda che riguarda un uomo. E’ lui che è ha visto la luce, ne è rimasto accecato, si è, convertendosi a Gesù, battezzato e ha annunciato il Vangelo in tutto il mondo allora conosciuto. Ma allo stesso tempo, sentiamo che questo fatto riguarda anche me perché quel suo annuncio, l’annuncio di Gesù morto e risorto, è arrivato come un lunghissimo eco anche a me. La vicenda di un uomo, nato a Tarso una città della Cilicia nell’attuale Turchia che s’intreccia con la mia. Per dirmi che la vita mia s’intreccia – che io ne sia consapevole o no – con il mondo intero. La vocazione di Paolo è quella di un uomo che se fosse stato possibile avrebbe infiammato tutti i paesi non solo nell’estensione dello spazio, ma nell’estensione del tempo. E in qualche modo c’è riuscito. Il suo nome vero è Saulo. E’ un giudeo, nato fuori dalla Palestina. Pare che i suoi genitori fossero scappati dalla Galilea quando i romani conquistarono la terra promessa. Tarso è una città importante. Saulo conosce bene l’ebraico in quanto figlio di una famiglia ebrea, il greco lingua madre degli abitanti i Tarso. Consce presumibilmente anche il latino godendo Tarso di una prerogativa privilegiata che è quello di conferire la cittadinanza romana, un privilegio singolare che l’apostolo farà valere così da giungere, scortato in catene, nella città imperiale. E’ un giovane colto e pieno di entusiasmo. Siccome è un ragazzo in gamba, viene mandato a Gerusalemme in Giudea per imparare bene le Sacre Scritture. Suo maestro è Gamaliele, uno che gode di una notevole fama al riguardo. La sua fede s’irrobustisce fino a detestare tutte le forme di eresia tra cui – così la riteneva – quella cristiana. Così partecipa alla morte di Stefano, un giovane della comunità cristiana che si prestava ad aiutare le vedove prive di sostentamento e in varie forme perseguita i discepoli di quel Gesù che per lui altro non è che un brigante e un bestemmiatore. Una volta racconta così il suo accanimento contro i cristiani: “Anch`io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch`io ho votato contro di loro. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all`eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere”. Una di queste città straniere è Damasco dove l’attendono un gruppetto di cristiani intimoriti forse dalle voci riguardo quest’uomo così impetuoso e risoluto. Durante il viaggio – è lui stesso a raccontarlo – “verso mezzogiorno, all`improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Risposi: Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti. Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. Io dissi allora: Che devo fare, Signore? E il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia”. Questo è l’episodio che ricordiamo oggi. “Chi sei? Sono Gesù”. Come a dire: “tu mi ritieni morto. Sono vivo. Eccomi!” Saulo è raggiunto dalla luce di Cristo vivo. E’ questa la chiave di volta di tutta la vicenda personale di Paolo e del suo annuncio. Cristo è vivo ed è luce. Su quella strada che doveva portarlo a portare un altro corpo mortale a quella banda di menzogneri, Gesù gli ha atteso un agguato. Come un brigante, Gesù lo ha atteso al varco e lo ha assalito. Mi viene in mente la famosa parabola che racconta Gesù. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono” (Lc 10,30) Come quell’uomo sulla strada tra Gerico e Gerusalemme, così Saulo sulla strada che da Gerusalemme portava a Damasco. Nella parabola di Gesù, il brigante lascia l’assalito alla pietà di un passante occasionale, buon samaritano. In questa circostanza, il brigante mentre disarciona, rialza; mentre ferisce, risana; mentre umilia, innalza; mentre arresta, manda; mentre acceca, rivela; mentre crocifigge, fa rinascere. Questa è la festa dell’ironia di Dio che rovescia le nostre logiche. Invece che prendere il più fedele e pio dei cristiani, ha scelto il peggiore dei persecutori capovolgendo il destino della sua vita e della nostra. Che Dio, nella sua ironia, ci tenda un agguato che ci cambi la vita.

VIRTUS IN INFIRMITATE PERFICITUR (2 Cor. 12,7-10) – IN MEDITARE CON PAOLO DI STANISLAO LYONNET

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STANISLAO LYONNET

MEDITARE CON PAOLO

VIRTUS IN INFIRMITATE PERFICITUR (2 Cor. 12,7-10)

Una delle espressioni che più profondamente e con più sicurezza consentono di penetrare nell’anima di San Paolo è quella che si usa chiamare la magna charta dell’apostolo: Virtus in infirmitate perficitur. Queste parole rappresentano il vertice dell’intera pericope di 2 Cor. 12,7-10, nella quale l’Apostolo passa in rassegna le difficoltà che gli si frappongono sulla strada del suo ministero.
7 Affinché la grandezza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, mi è stata messa nella carne una spina, un angelo di Satana, incaricato di schiaffeggiarmi perché non mi insuperbisca. 8 Tre volte riguardo a questo pregai il Signore, perché lo allontanasse da me. 9 Ora, egli mi ha risposto: Ti basta la mia grazia, poiché la (mia) potenza si mostra appieno nella debolezza! Molto volentieri, adunque, mi glorierò nelle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo. 10 Per questo mi compiaccio delle (mie) debolezze, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per la causa di Cristo; perché quando son debole è ben allora che sono forte.
Qui di seguito dapprima esporremo brevemente il passo, e poi vedremo come le affermazioni di San Paolo ricevano luce da quanto sappiamo della sua vita, e come si inseriscono in una precisa linea di spiritualità biblica.
Siamo verso il 56-57. Paolo evoca in questa pagina alcune grazie mistiche, ricevute, dice, «or sono quattordici anni», dunque verso il 42-43, cioè poco prima dell’inizio del suo ministero apostolico (la sua prima missione ebbe inizio nel 45), grazie che probabilmente erano destinate, nel pensiero di Dio, a prepararlo alla sua missione ormai prossima. Ora, in connessione immediata con queste grazie, Paolo confida ai fedeli di Corinto di averne ricevuta un’altra non meno importante.
v.7 «Perciò, affinché la grandezza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, mi è stata messa nella carne una spina, un angelo (messaggero) di Satana, incaricato di schiaffeggiarmi perché non mi insuperbisca».
Una spina (scolops, stimulus). A che cosa allude San Paolo? Partendo dalla versione della Volgata (datus est mihi stimulus carnis meae, col genitivo) (1), molti latini hanno pensato che Paolo intendesse parlare di tentazioni contro la castità. Ma questa interpretazione non ha alcuna possibilità di essere vera.
Molti moderni, invece, riferendosi a una possibile interpretazione del passo di Gal. 4,13: «Sapete che vi annunziai il Vangelo la prima volta in occasione di una mia malattia», vedono volentieri in questa «spina» una malattia, probabilmente cronica, forse febbri malariche.
Ma piuttosto che appoggiarsi a un tale testo, che non ha relazione certa con il nostro, è metodo migliore consultare prima il contesto immediato del passo. Esso infatti ci fornisce qualche preziosa indicazione.
San Paolo aggiunge nello stesso v. 7 che questa spina è un messaggero di Satana, cioè qualcosa che egli considera come un ostacolo al suo apostolato. Satana è difatti colui che «toglie la parola dal cuore degli uomini per impedire che, credendo, si salvino» (Lc. 8,12). Di lui parla anche 1Tess. 2,18: «Infatti per una o due volte abbiamo determinato di venire da voi, ma Satana ce l’ha impedito»; e ancora 2 Cor. 4,4: «Il dio di questo mondo ha accecato le menti degli infedeli, perché non rifulga ad essi lo splendore del vangelo della gloria di Cristo…».
Nel v. 10 poi, Paolo sembra dare ogni chiarimento necessario, parlando, in termini generali, di «debolezze, oltraggi, necessità, persecuzioni, angustie» (non di malattia!). Sono tutte le sofferenze, le tribolazioni inerenti alla vita apostolica, delle quali ha parlato, per es., nel capitolo precedente (11,23-27): «Di più poi nei travagli, di più nelle prigioni; oltremodo di più sotto le battiture… in pericoli tra i falsi fratelli…». Notiamo la menzione delle persecuzioni (2).
Il v. 8 contiene la preghiera di Paolo: «Tre volte, riguardo a questo, pregai il Signore, perché lo allontanasse da me». Preghiera insistente, ripetuta «tre volte», come ha fatto il Signore al Getsemani, che mostra quanto Paolo ne soffrisse e come considerasse questa «spina» un grande ostacolo per il suo apostolato.
Al v. 9 abbiamo la risposta di Gesù: «Ora egli mi ha risposto: ‘Ti basta la mia grazia…’». Il Signore, implorato, sembra respingere la domanda dell’Apostolo. Invece in realtà la esaudisce. Paolo chiedeva che si allontanasse da lui questa spina, perché vedeva in essa un ostacolo al suo apostolato; orbene, ciò che Paolo credeva un ostacolo era in realtà la condizione più favorevole perché l’apostolato potesse aver il suo perfetto compimento. «Poiché – aggiunge il Signore – la mia potenza si mostra appieno nella debolezza»: la potenza di Dio non può dispiegare le sue virtualità, raggiungere tutti i suoi effetti, se non nella debolezza dell’uomo, dello strumento apostolico. È un paradosso evangelico, un aspetto della dottrina della fede. Perciò Paolo nel v. 9 continua: «Ben volentieri, adunque, io mi glorierò nella mia debolezza, affinché abiti in me la potenza di Cristo».
Mi glorierò» kauchesomai, cioè «riporrò tutta la mia fiducia nella mia debolezza».
«Affinché abiti in me la potenza di Cristo»; il verbo usato qui da Paolo, episkenoo, è lo stesso che indica la presenza della «gloria di Jahvé» sull’arca e, nel N. T., la presenza del Verbo di Dio sulla nostra terra: «E il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi» (Io. 1,14). L’Apostolo, conscio della sua debolezza, diventa come un’incarnazione della potenza di Cristo!
Si capisce allora come Paolo possa così continuare ( v. 10): «Per questo io mi compiaccio delle mie debolezze, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per la causa di Cristo, perché quando son debole è ben allora che sono forte».
Questo è il significato generale delle parole di San Paolo. Ma per poter penetrarne tutta la profondità non sarà inutile inserirle nella sua vita, la quale ne costituisce un commento straordinariamente significativo.
Di fatto, se Paolo ha formulato questa legge dell’apostolato con espressioni così vivide, così chiare, è forse perché Dio l’ha rivelato al suo Apostolo attraverso l’esperienza concreta. Prima di formularla Paolo l’ha vissuta. E non c’è da meravigliarsi che ne abbia fatto confidenza in una lettera ai Corinti, perché l’ha vissuta in modo particolare, ci sembra, proprio a Corinto, nella fondazione stessa di questa chiesa. Basta ricordare brevemente le circostanze di tale fondazione, quali sono riferite da San Luca in quel breviario della vita apostolica che sono gli Atti (16,11-18,11).
L’arrivo di Paolo a Corinto fu preceduto da una serie di scacchi dolorosi. Siamo durante il secondo viaggio missionario, verso il 50. Paolo, venendo dall’Asia Minore, ha per la prima volta messo piede sul suolo dell’Europa. Passato da Troade in Macedonia, ha predicato a Filippi, dove ha guarito una giovane schiava posseduta da uno «spirito pitone» che procurava molto guadagno ai suoi padroni, facendo l’indovina (16,16). Incarcerato insieme a Sila, suo compagno, e poi liberato e pregato di lasciare la città (16,40), giunse a Tessalonica, dove i Giudei avevano una sinagoga (17,1). Tutto comincia bene: non poche conversioni di Giudei e soprattutto di proseliti e di gentili…(17,4). Ma i Giudei, mossi da invidia, dice il testo, «presero alcuni pessimi uomini del volgo e provocarono un tumulto e misero a rumore la città… Non avendo trovato Paolo e Sila nella casa di Giasone, dove alloggiavano, trascinarono Giasone stesso ed alcuni fratelli davanti ai capi della città…» (v. 5).
Paolo deve approfittare della notte per fuggire di nuovo e cosi evitare ai fratelli altri incidenti.
A Berea (17,10) trovarono i Giudei «animati da sentimenti più nobili di quelli di Tessalonica… Molti fra essi credettero…». Ma i Giudei di Tessalonica, inteso che ebbero il successo di Paolo, «si portarono pure colà e andavano agitando e sollevando le folle». Nuova partenza (17,13 s.) e arrivo, questa volta, ad Atene (17,15 ss.). Qui Paolo supera se stesso nel celebre discorso dell’Areopago (17,22-32), nel quale mostra un’abilità umana eccezionale, potendo far leva anche su circostanze favorevoli. «Percorrendo la vostra città – egli può dire – ho trovato un altare con questa iscrizione: A un dio ignoto. Quello che voi venerate senza conoscerlo, io lo annunzio a voi! …», e riferisce – caso unico! – anche un verso dei loro poeti (v. 28). Tutto inutile. L’insuccesso è quasi totale. Malgrado l’una o l’altra conversione, Paolo capisce che non c’è niente da fare e, per la prima volta, lascia la città di sua spontanea iniziativa (18,1).
Prende la via sacra che passa per Eleusi, dove evidentemente non si ferma, e raggiunge la città di Corinto, ricca, dedita ai commerci, cosmopolita e di pessima fama (18,1-5). Prende alloggio nel quartiere giudaico e ha la buona fortuna di incontrare due sposi già cristiani, giunti da poco dall’Italia, cacciati come Giudei dall’imperatore Claudio: Aquila e Priscilla.
«Siccome esercitavano il suo stesso mestiere, andò a stare con loro e si misero a lavorare insieme». Ogni sabato Paolo disputa nella sinagoga con i Giudei. Anzi (18,3), quando Sila e Timoteo portano i soccorsi dalla Macedonia, si dedica tutto alla predicazione (18,5). Ma ancora una volta urta contro un’opposizione inattesa.
A questo punto la serie degli insuccessi provoca in lui uno «choc». Ecco il testo: «Facendo essi opposizione e scagliando ingiurie, Paolo scosse le sue vesti e disse loro: Il vostro sangue ricada sul vostro capo. Io sono puro. D’ora in poi mi rivolgerò ai gentili» (18,6). Il gesto di scuotere le vesti Paolo l’aveva già fatto ad Antiochia (13,51), e lo ripeterà poi ad Efeso (20,26) in circostanze simili. Ma qui soltanto aggiunge al gesto parole di imprecazione: «Il vostro sangue ricada sul vostro capo! ». Per lui, che scriverà ai Romani di provare, davanti all’incredulità di Israele, «una grande tristezza e un continuo dolore nel… cuore», e vorrebbe essere lui stesso «anatema dal Cristo» per i suoi «fratelli secondo la carne…» (Rom. 9,2-3), un tale grido è espressione di un animo quasi disperato, sul punto di abbandonare tutto: se i Giudei di Corinto non volevano sentir parlare di Gesù, che cosa si poteva aspettare dai pagani della città? Ma proprio nel crollo di ogni prospettiva umana interviene la grazia a dare all’ Apostolo abbattuto nuovo vigore.
Gli Atti raccontano che in queste circostanze Paolo, durante la notte, ebbe una visione del Signore, cioè di Gesù risorto; e Gesù gli disse: «Non temere, ma parla, e non tacere, perché io sono con te e nessuno ti metterà le mani addosso per farti del male; parla, perché ho un popolo grande in questa città!» (18,9-10). Paolo allora, senza alcuna speranza umana, forte unicamente della fiducia in Dio, come Abramo, obbedisce alla voce del Signore. E Corinto sarà una delle chiese più fiorenti da lui fondate. «Ho un popolo grande in questa città ».
A conferma del racconto degli Atti sta una confidenza fatta da Paolo stesso ai Corinti, quando, evocando gli inizi della predicazione ai membri della futura comunità, dice: «Fratelli miei, quando venni da voi, non mi presentai ad annunziare la testimonianza di Dio con sublimità di linguaggio o di sapienza… Io stesso mi trovai fra voi in uno stato di debolezza, di timore e di trepidazione, e il mio parlare, come la mia predicazione, non si basava su persuasivi argomenti di sapienza, ma su una dimostrazione di spirito e di potenza, affinché la vostra fede non si fondasse sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio» (1Cor. 2,1-5). Queste parole hanno il loro degno commento in quelle che già abbiamo lette, e che potrebbero chiamarsi la magna charta dell’apostolato: «La mia potenza si mostra appieno nella debolezza»; «quando sono debole, è ben allora che sono forte»; «molto volentieri mi glorierò delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo».

Magna charta dell’apostolato. Di fatto non ci troviamo davanti al caso singolare di un apostolo, sia pure il più grande, San Paolo. Si tratta, in realtà, di una legge generale, insegnata attraverso tutta la Bibbia, legge di cui tutti i grandi servi tori di Dio – cioè coloro dei quali Dio ha voluto servirsi per operare la salvezza del mondo – hanno fatto l’esperienza.
Un esempio particolarmente chiaro è quello di Gedeone, nel libro dei Giudici, ossia dei «liberatori» o «salvatori» d’Israele. Il popolo di Dio è arrivato, finalmente, nella terra promessa, ma questa terra è da conquistare, e sembra che gli Ebrei abbiano ottenuto da Dio le prime vittorie solo per esser più sicuramente preda dei loro nemici. Anzi in questo preciso momento essi sono in balia dei Madianiti, così che «dovevano scavarsi spelonche, antri e fortezze sui monti» (Giud. 6,2). Israele invoca il soccorso di Dio, che invia il suo angelo a Gedeone. Il dialogo fra il messo divino e Gedeone non manca di drammaticità. «Il Signore è con te, prode campione!… – Ahimè, Signore mio, se veramente il Signore è con noi, come mai siamo colpiti da tanti mali? dove sono tutti i suoi prodigi, che i nostri padri ci narrano? Ora, invece, ci ha abbandonati e dati nelle mani di Madian. Allora il Signore lo guardò e disse: Orsù, con la forza che ti comunico libera Israele dai Madianiti! – Rispose Gedeone: Di grazia, Signore, con che mezzo potrò io mai liberare Israele? Ecco, la mia famiglia è la infima di Manasse ed io il più piccolo della casa di mio padre! – … Io sarò con te e tu abbatterai Madian come se fosse un sol uomo» (Giud.6,12-I6). Gedeone obbedisce, percorre le tribù di Israele e raduna quanti più può. Un buon numero: 32 mila! Veramente il Signore era con lui. Pieno di fiducia, «levatosi di buon mattino con tutti i suoi uomini, pose gli accampamenti contro i Madianiti. Allora il Signore disse a Gedeone: Troppa gente è con te, perché io possa dare Madian in tuo potere. Israele si glorierebbe contro di me, dicendo: È stato il mio valore che mi ha salvato!» (Giud.7,2). Questo sfoggio di potenza è un ostacolo da eliminare. Ecco allora la progressiva e drastica riduzione del numero degli armati. «Da’ questo ordine: Chiunque è timoroso ed ha paura, si ritiri e torni indietro. Se ne ritirarono allora 22 mila e ne rimasero solo 10 mila… La gente è ancora troppa! …»(7,3-4). Di riduzione in riduzione, il numero scende a 300. «Con questi uomini, io vi libererò e darò Madian nelle tue mani…» (7,7). Se la potenza dell’esercito era un ostacolo, la debolezza umana è ora una condizione favorevole, anzi necessaria, per il buon successo.
La stessa legge si applica al caso di David, prima alla sua chiamata (1 Sam. 16,1.6.11), poi al combattimento con Golia, quando il giovanetto grida all’avversario: «Tu vieni a me armato di spada, di lancia e di giavellotto, io vengo a te nel nome del Signore, che tu hai sfidato» (1 Sam. 17,45). Gli esempi sono innumerevoli. Basta ricordare, nel vangelo, il racconto della vocazione degli Apostoli al tempo della pesca miracolosa: «Abbiamo faticato tutta una notte senza prender nulla» (Lc. 5,5), esclama Pietro. Ebbene, proprio adesso vi trovate nelle condizioni favorevoli di strumenti di Dio. D’ora innanzi sarete «pescatori d’uomini».
Di fatto, la prima applicazione che, scrivendo ai Corinti, San Paolo fa di questa legge della «potenza di Dio nella debolezza dell’uomo» è proprio alla vocazione stessa dei cristiani: «Quello che per il mondo è debole, Iddio lo scelse per confondere quello che è forte» (1 Cor. 1,27). Dio sceglie gli strumenti umanamente meno capaci o che si credono tali: Gedeone, David, coloro a cui gli uomini non pensavano. Cosi i dodici apostoli: tra i Giudei erano gli ultimi da scegliere per convertire dei compagni che detestavano e dai quali erano detestati! Perciò solo poco a poco riuscirono a capire di essere veramente mandati ai gentili (cfr. le esitazioni di Pietro in Atti 10).
Ma Paolo, lui, non era forse strumento perfettamente preparato anche sotto il profilo umano? Si. Però dobbiamo prima notare che si riteneva preparato per la conversione dei Giudei, non dei pagani. Lo mostra il fatto accaduto dopo la sua conversione, di cui egli stesso fa confidenza nel discorso ai Giudei di Gerusalemme: «Tornato a Gerusalemme, mentre stavo pregando nel tempio, fui rapito in estasi e vidi il Signore che mi diceva: Affrettati a partire da Gerusalemme, perché essi non riceveranno la tua testimonianza a mio riguardo. E io risposi: Signore, loro stessi sanno che io facevo mettere in prigione e battere con verghe nelle sinagoghe quelli che credevano in te… Ma egli mi replicò: Va’, io ti invierò lontano, alle nazioni» (Atti 22, 17-21). Soprattutto le capacità umane di Paolo furono continuamente ostacolate da queste necessità, angustie, persecuzioni di cui parla cosi spesso. Sembra che egli abbia esperimentato la sua debolezza radicale, la sua impotenza, proprio attraverso questi ostacoli, suscitati sulla sua strada sin dall’inizio (cfr. 2 Cor. 11,24-27): ostacoli «da parte dei Giudei», che impedivano la sua predicazione ai gentili, come abbiamo visto, e che lo faranno arrestare a Gerusalemme; ostacoli, anche, «da parte dei pagani». Ricordiamo il procuratore Felice, che lo tiene due anni in carcere a Cesarea, nella speranza di averne del denaro: «perciò lo mandava spesso a chiamare» (Atti 24,26). Ostacoli, in modo particolare, da parte dei «fratelli», di coloro cioè che avrebbero dovuto aiutarlo. Sono i cristiani di origine giudaica, anzi «predicatori», che accusano Paolo di predicare un cristianesimo edulcorato, infedele alla rivelazione di Dio nell’Antico Testamento.
Il Signore permise che Paolo incontrasse questi avversari sin dagli inizi del suo ministero, ad Antiochia di Siria, donde deve salire a Gerusalemme per difendersi davanti agli Apostoli (Atti 15,1-2; cfr. Gal. 2,1.12), durante tutta la sua vita fino all’ultima tappa della seconda prigionia romana.
Così, per esempio, in Galazia è presentato come uno che cerca di piacere agli uomini e perciò annacqua il vangelo autentico, come un apostolo di secondo grado, che non aveva conosciuto il Cristo (Gal. 1,20; 2,6). A Corinto è accusato di dubbio versatilismo, arroganza e superbia (2 Cor. 1; 3,1); e i suoi avversari cristiani hanno talmente staccato la comunità dal suo Apostolo, che, non osando ritornarvi per paura di non essere ricevuto, manda avanti Tito per informarsi della situazione! A Gerusalemme teme che la comunità non accetti la colletta delle chiese della gentilità, raccolta con tanta cura e tanta fatica: perciò domanda ai Romani di pregare «affinché il soccorso che porta a Gerusalemme sia gradito ai santi» (Rom. 15,31). Ed il timore non era senza fondamento come prova l’accoglienza che riceve dalla comunità secondo la testimonianza stessa degli Atti: «Tu vedi, o fratello, le migliaia di Giudei che hanno creduto, e tutti sono zelanti della legge. Ora, sono venuti a sapere che tu insegni a tutti i Giudei che si trovano in mezzo ai gentili, di separarsi da Mosè, dicendo ad essi di non far circoncidere i loro figli e di non seguire le consuetudini. Che cosa, dunque, fare?» (Atti 21,20-21). Anzi la stessa opposizione lo segue a Roma – se, come si suppone generalmente, la lettera ai Filippesi è stata mandata da Roma: «Alcuni predicano il Vangelo per una certa invidia e per spirito di contesa… spinti da spirito di parte, per motivi non retti, immaginandosi di aggiungere sofferenze alle mie catene» (Fil. 1,15-17). In ogni caso, a Roma i suoi avversari hanno così ben lavorato, che, quando l’Apostolo vi fu per la seconda volta prigioniero, non sembra esser stato assistito quasi da nessun0 (3). Basta leggere la commovente 2Tim., scritta, forse, qualche settimana prima del suo martirio e a ragione chiamata «il testamento spirituale di San Paolo»: «Tu sai come tutti quelli che sono dell’Asia mi hanno abbandonato…» (1,15) «Affrettati a venire da me al più presto, perché Demas mi ha abbandonato per amore di questo mondo e se n’è andato a Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Soltanto Luca è con me… Alessandro, il ramaio, mi ha fatto molto male… Guardati anche tu da lui, perché si è opposto molto vivamente alla nostra parola. Nella mia prima difesa nessuno mi ha assistito: che ciò non venga loro imputato! Mi ha però assistito il Signore e mi ha dato forza, affinché la predicazione per mezzo mio fosse compiuta e venisse ascoltata da tutti i gentili; ed io sono stato liberato dalle fauci del leone. Il Signore mi libererà da ogni opera cattiva e mi conserverà per il suo regno celeste. A lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen!» (4,9-18).
Mai, forse, nella sua vita 1′Apostolo si è sentito così isolato, così solo; mai, forse, ha esperimentato fino a questo punto il senso di debolezza, di impotenza. E il Signore gli permette di offrire, di fronte a tutti i gentili in questo tribunale romano, un’ultima, suprema e solenne testimonianza! Meglio, una penultima testimonianza, perché l’ultima, la suprema, sarà il suo martirio stesso, quando la spada del carnefice lo unirà per sempre al suo Signore (Cfr. Rom. 8, 35). Allora ancora una volta esperimenterà fino a qual punto «la potenza si mostra appieno nella debolezza».

[1]. Il testo greco ha invece il dativo te sarki senza l’aggettivo possessivo.
[2]. V. anche 1 Cor.4,9-13.
[3]. V. A. PENNA, Le due prigionie romane di San Paolo in «Rivista Biblica» 9 (1961) pp. 193-208 (specie p. 204).

Paolo, studente sotto Gamaliele (per la festa di San Pietro e Paolo 2012)

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=14543

Paolo, studente sotto Gamaliele

don Daniele Muraro

(18/01/2009)

Vangelo: Gv 1,35-42

Abbiamo già passato la metà dell’anno paolino, solennemente inaugurato da papa Benedetto il 28 giugno scorso e che terminerà il 29 giugno di quest’anno. In occasione del bimillenario di san Paolo, nato come Saulo nella cittadina siriana di Tarso fra il 7 e il 10 dopo Cristo, tutta la Chiesa è invitata a guardare a questo grande Apostolo che ci ha lasciato un patrimonio ineguagliato di spiritualità e dottrina.
Dovremmo essere già familiari con il pensiero di san Paolo dal momento che dalle sue lettere sono tratti quasi tutti i testi della seconda lettura nella messa festiva. Forse siamo meno in confidenza con la persona di san Paolo. Sembra quasi che il torrente delle sue parole e di tutti i suoi ragionamenti spinga la nostra considerazione lontano dai fatti privati di Paolo e ci solleciti unicamente a fare delle riflessioni astratte.
Eppure anche la vicenda umana di colui che è stato definito l’Apostolo delle Genti ha molto da insegnare a noi cristiani che viviamo la stessa fede di lui duemila anni dopo.
Nel Vangelo abbiamo sentito la chiamata di san Pietro. Ce la racconta san Giovanni, presente al fatto, e che già da qualche ora si era messo sulle orme di Gesù. “Erano circa le quattro del pomeriggio” precisa san Giovanni riandando con la memoria molti anni dopo al momento in cui era entrato per la prima volta nella casa che il Signore occupava a Cafarnao.
Anche per san Paolo si può indicare un momento preciso in cui il Signore lo chiamò e da persecutore del Vangelo egli diventò Apostolo di Gesù Cristo. A quell’epoca Saulo di Tarso era un uomo fatto, che stava per raggiungere i trent’anni, con le idee molto chiare sulla missione da portare a termine: estirpare la Chiesa nascente conducendo in catene ed eliminando tutti i credenti nella nuova dottrina che fosse riuscito a trovare. Ma di questo parleremo la settimana prossima, 25 gennaio, festa appunto della conversione di san Paolo.
Il racconto della prima lettura, con la chiamata di Samuele, ci può servire invece per illuminare gli anni dell’infanzia e dell’adolescienza del nostro Apostolo, quando egli viveva all’ombra della legge e del Tempio ed era pieno di zelo per la religione dei suoi padri.
Il personaggio storico del profeta Samuele si colloca circa un millennio prima del tempo di Gesù e san Paolo. Di lui conosciamo anche l’infanzia, addirittura le circostanze della nascita e la promessa che la madre aveva fatto a Dio che se avesse messo al mondo un figlio l’avrebbe consacrato al servizio del Signore.
All’età di tre anni Samuele viene portato presso il Tempio di Silo e consegnato alla custodia del sacerdote Eli. Al momento dell’episodio oggetto della lettura Samuele avrà avuto una decina d’anni, forse qualcuno meno, forse qualcuno più. Egli dorme in una stanza del Tempio quando si sente chiamare per nome. Allora si alza e corre da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Il vecchio Eli rimanda il ragazzo: “Non ti ho chiamato, torna a dormire!”. La scena si ripete ancora per due volte finché Eli comprende che è il Signore a chiamare il ragazzo e gli suggerisce che cosa fare: “Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: ‘Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta’”.
Samuele va a dormire al suo posto. Viene il Signore, si ferma accanto a lui e lo chiama come le altre volte: «Samuele, Samuele!». Samuele risponde subito come gli aveva indicato il suo maestro Eli. Da quel momento il Signore fu con lui e Samuele divenne un profeta rispettato e autorevole.
Anche di Saulo conosciamo il nome del maestro: Gamaliele, il rabbino più famoso del suo tempo, che lo aveva educato nelle più rigide norme della legge paterna e nelle sottigliezze delle disquisizioni dottrinali.
Alla scuola di Gamaliele Saulo diventa un esperto della legge, aggiungendo alla sua qualifica di fariseo, cioè di fedele osservante, anche quella di scriba, letterato, e mirando forse a diventare lui stesso un rabbino, sull’esempio dello stesso Gamaliele.
Rabbì (letteralmente significa “il mio grande”) era chi teneva aperta una scuola, frequentata a richiesta da alunni che pagavano una retta. Il padre di Saulo, fabbricatore di tende e fariseo pure lui, aveva voluto dare il meglio per il suo figlio, su cui riponeve molte speranza.
Saulo era cittadino romano fin dalla nascita e questo era stato un altro regalo che gli aveva fatto suo padre per così dire. Forse fu anche per questa prerogativa che il sinedrio di Gerusalemme, cioè i capi, scelsero Saulo per la delicata missione a Damasco ed lo dotarono allo scopo di lettere di accredito e di autorizzazione.
Passo dopo passo di Saulo prima della conversione possiamo tracciare dunque questo ritratto: da buon ebreo seguiva la legge, da scriba con ambizioni di rabbino seguitava a studiarla anche oltre il suo stretto dovere, da fariseo perseguiva un ideale di perfezione moralistico e orgoglioso, e infine da fanatico era arrivato a perseguitare la Chiesa di Dio.
Con la conversione nella vita di Saulo si opera una capovolgimento completo. Egli non perseguita più, semmai viene perseguitato, persegue il suo nuovo ideale, ma non come uno che fa di testa sua, piuttosto come uno che quasi viene trascinato e chi lo muove è Cristo. Seguita a predicare il Vangelo di Dio, ma come uno che obbedisce ad un comando che gli viene dato e alla fine si dichiara soddisfatto di poter seguire Gesù con una morte simile alla sua in vista di essere ricompensato un giorno con la resurrezione che solo il Signore può dare.
Possiamo concludere che san Paolo fu davvero un grande, ma non secondo il suo progetto umano, bensì per volontà di Gesù che lo chiamò e per così dire lo espropriò di se stesso.
“Voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo”: quello che san Paolo dice ai Corinti egli lo ritiene vero anzitutto per se stesso e questo annuncio può diventare motivo di meditazione anche per noi.
Per essere cristiani davvero dobbiamo essere del Signore con tutto noi stessi e san Paolo ci mostra concretamente che cosa vuol dire questa appartenenza a Gesù senza riserve.

Cenni storici su Pozzuoli e lo sbarco di San Paolo

http://www.santamariapozzuoli.it/Paolo.html

(da una Parrocchia)

Cenni storici su Pozzuoli e lo sbarco di San Paolo

Pozzuoli
Emporio della potente Cuma, soltanto con l’arrivo di fuggiaschi di Samo (530 a.c.), che dettero alla località il nome augurale di Dicearchia (giusto governo), fu incrementata la crescita economica e urbanistica della città.
Nel 421 a.c., l’intera zona flegrea cadde sotto il dominio delle popolazioni campane e, nel 338, sotto quello di Roma, che capì l’importanza commerciale e militare del golfo Flegreo solo dopo il tentativo di conquista di Annibale (215 a.c.).
Puteoli, (piccoli pozzi), divenne l’approdo più importante del Mediterraneo, tanto da essere appellata Delus minor e litora mundi hospita.
Le arti del vetro, della ceramica, dei profumi, dei tessuti, dei colori e del ferro trovarono larga diffusione, per la presenza di maestranze locali educate a tradizione fenice, ellenistiche ed egiziane. La città prosperò fino a quando il porto rispose alle esigenze del commercio romano, ma subì un duro colpo con l’apertura di quello di Ostia. Con l’accentuazione del bradisismo discendente, che sommerse le opere portuali, e con la caduta di Roma, Puteoli divenne piccolo centro di pescatori e, nel Medio Evo, i Campi Flegrei furono solamente meta di soggiorni termali. Soltanto dopo l’eruzione del Monte Nuovo (1538), Pozzuoli iniziò una lenta ripresa socio economico-urbanistica, per opera del viceré spagnolo don Pedro Alvarez de Toledo.

Lo Sbarco di san Paolo a Pozzuoli
Il Cristianesimo penetrò a Puteoli, mentre erano ancora in vita i maggiori artefici dell’evangelizzazione dell’Occidente, testimoni diretti della predicazione di Gesù.
La notissima testimonianza degli Atti degli Apostoli è la più nobile ed esaltante:
« Il giorno seguente si levò lo scirocco e così l’indomani arrivammo a Pozzuoli. Qui trovammo alcuni fratelli, i quali ci invitarono a restare con loro una settimana. Partimmo quindi alla volta di Roma »                                                                                                                

Atti degli Apostoli 28, 13-14
Paolo sbarca a Pozzuoli nel 61 d. C. da una nave oneraria di Alessandra. Condotto al carcere da Festo, governatore della Giudea, si era appellato al tribunale di Nerone. Dopo vari scali e un naufragio a Malta, la nave aveva toccato Reggio e si era diretta verso il litorale campano. Entrando nel golfo partenopeo attraverso le Bocche di Capri, Paolo poté ammirare la mole della villa Jovis e delle altre residenze imperiali di Augusto e di Tiberio.
Il molo di Pozzuoli era affollato di curiosi e perditempo: così lo descriveva Seneca a Lucillo.
La nave trasportava assieme alle consuete svariate mercanzie un gruppo di prigionieri. L’Apostolo era atteso da un gruppo di amici, più propriamente “fratelli », i cristiani di Pozzuoli.
Luca non fornisce particolari su quel soggiorno né qualche nome dei fratelli di fede presenti all’incontro, ma si trattenne con i cristiani di Pozzuoli sette giorni, durante i quali li raffermò nella fede e li esortò a resistere al male.
Sul molo del porto di Pozzuoli, sulla parte esterna dell’abside, della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, si ammirano due lapidi: una, del 1918, ricorda l’approdo di Paolo di Tarso a Puteoli, con i simboli dell’apostolo, e l’altra la sosta di papa Giovanni Paolo II avvenuta, proprio nei pressi, il 12 novembre 1990. Tra le due epigrafi giganteggia la maiolica di Giuseppe La Mura, raffigurante l’arrivo di san Paolo sul molo puteolano, inaugurata il 29 giugno 1991.
Successivamente, in occasione del Giubileo dell’anno 2000, essendo Vescovo Mons. Silvio Padoin, nell’area sottostante fu posizionato un cippo in pietra con una targa in bronzo sulla quale è riportato il passo degli Atti degli Apostoli che ricorda la venuta di Paolo a Pozzuoli e la sua breve permanenza nella nostra città prima di essere condotto a Roma.

A PAOLO DI TARSO
ANNO 2000

DOPO TRE MESI SALPAMMO (DA MALTA)
SU UNA NAVE DI ALESSANDRIA
CHE AVEVA SVERNATO NELL’ISOLA,
RECANTE L’INSEGNA DEI DIOSCURI.
APPRODAMMO A SIRACUSA.
DOVE RIMANEMMO TRE GIORNI
E DI QUI, COSTEGGIANDO,
GIUNGEMMO A REGGIO.
IL GIORNO SEGUENTE
SI LEVO’ LO SCIROCCO
E COSI’ L’INDOMANI
ARRIVAMMO A POZZUOLI.
QUI TROVAMMO ALCUNI FRATELLI
I QUALI CI INVITARONO A RESTARE
CON LORO UNA SETTIMANA.
PARTIMMO QUINDI
ALLA VOLTA DI ROMA.

(Atti degli Apostoli, 28, 11- 14)

SAN PAOLO: IL GRANDE PELLEGRINO

http://www.fmboschetto.it/religione/il_grande_pellegrino.htm

SAN PAOLO: IL GRANDE PELLEGRINO

(non è particolarmente nuovo, ma a me h aiutato spiritualmente)

Se diciamo « pellegrino » pensiamo subito ai nostri cari santuari, a un luogo in cui si arriva. Ma « pellegrino » significa letteralmente uno che attraversa i campi, cioè uno che viaggia, che va di luogo in luogo. In questo senso, chi più pellegrino di san Paolo? A piedi, a cavallo, su un carro, per nave, con tutti i mezzi di trasporto di duemila anni fa, l’instancabile apostolo ha percorso in lungo e in largo il mondo allora conosciuto, affrontando ostacoli, persecuzioni,  carcere, disastri di ogni genere. Egli stesso li rievoca nella sua seconda lettera ai Corinti: « Cinque volte ho ricevuto i trentanove colpi dai giudei, tre volte mi hanno fustigato con le verghe, una volta lapidato, tre volte ho fatto naufragio… Quanti viaggi a piedi tra i pericoli! Pericoli dei fiumi, pericoli degli assassini, percoli dai miei compatrioti, pericoli dai Gentili, pericoli nelle città, pericoli nelle solitudini del deserto, pericoli del mare, pericoli dei falsi fratelli, nelle fatiche e nelle avversità, nella fame e nella sete, nei tanti digiuni, nel freddo e nella nudità ».
     Il mondo allora conosciuto – Europa, Asia, Africa -  gravitava intorno al Mediterraneo. E Paolo di Tarso ne percorse le vie e le acque fino a conoscerne quasi ogni angolo, ogni città o villaggio che potesse accogliere l’Annuncio. Gerusalemme, Damasco, Antiochia, Seleucia, Cipro, Pafo, Antiochia di Pisidia, Filippi, Atene, Corinto, Efeso, Malta, e via via fino in Italia, fino a Roma, verso il martirio.  Se non l’avessero decapitato in età ancora non tarda, Paolo sarebbe stato capace di varcare l’oceano e arrivare in America, spinto dal fuoco divorante che gli ardeva dentro.
     Perché parlare ancora di san Paolo?  Perché compie duemila anni. Il 2008-2009 è infatti l’ « anno Paolino », il grande giubileo proclamato per il bimillenario della nascita del santo apostolo. La data è approssimativa, d’accordo; ma poco importa.  Per un anno, da giugno a giugno, si parlerà molto di lui, del grande pellegrino che consumò sandali e vita sulle vie della fede, dell’annuncio, del martirio.
   Non a caso la sua conversione avvenne su una strada. La « via di Damasco », passata in proverbio per definire qualcosa di improvviso e di folgorante, qualcosa che cambia tutto. Paolo di Tarso si chiamava in realtà Saulo, Saul, come il grande e terribile re dell’Antico Testamento. Era della sua stessa tribù (di Beniamino) e gli somigliava un po’ per il temperamento passionale e problematico. Era un uomo colto e un ebreo devotissimo: allievo del grande Gamaliele. E ardeva di santo sdegno contro la nuova setta di fanatici che insidiava la santità della Legge, sulle orme di quello strano profeta nazareno che lui, Saulo, non aveva conosciuto di persona, ma che tanti danni stava facendo tramite i suoi seguaci postumi. Una mala erba da estirpare senza pietà. Quando il giovane Stefano morì sotto i colpi di pietra, Saulo reggeva i vestiti dei lapidatori.
    Ma neppure le appassionate parole di Stefano avevano fatto breccia nel suo cuore. Occorreva incontrare « lui », quello che non aveva incontrato in vita. « Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? » La folgorazione, il buio, la crisi, il deserto, la nuova vita. Fino al martirio. Ma la decapitazione era solo il suggello cruento di un martirio di ogni giorno, nel corpo e nell’anima. Il martirio di « dover » portare l’Annuncio, a chi ascolta e chi no, a tempo e fuori tempo, tra tempeste di mare e bufere di uomini, a dispetto della cattiva salute e della poca vista, contro amici, nemici, parenti, istituzioni, non esclusa la stessa nascente Chiesa cristiana (che, tra l’altro, si disse « cristiana » proprio a partire dal viaggio di Paolo ad Antiochia). Tasto doloroso.
   Ma Paolo – si volle chiamare così, « piccolo », per umiltà – non fu solo un instancabile, eroico pellegrino. Fu il primo, sistematico teologo della nuova fede, dopo il mistico Giovanni (nessun teologo raggiungerà mai questi due, per genialità e grandezza); tanto fondamentale nell’ « inculturazione » del cristianesimo nella società e nella cultura dell’epoca – quella cultura greco-latina che abbiamo ancora, e quanto, nel sangue – da indurre certi filosofi neoidealisti del secolo scorso a sostenere che il cristianesimo lo ha addirittura inventato lui.
    E fu  uno straordinario, geniale comunicatore, preso a modello fin nell’età dei mass media da giornalisti, editori, papi (papa Montini volle essere un altro Paolo, un « pellegrino annunciatore » come lui).  La sua parola appassionata – scritta o a voce – trascinava. Scriveva in greco, la lingua internazionale dell’epoca, perché voleva convertire il mondo, dilatare la redenzione di « Israele » a dimensioni planetarie. Oggi forse scriverebbe in inglese.  Quanto gli piacerebbe Internet! Quanto gli piacerebbe il sito www.annopaolino.org, curato dalla basilica romana di San Paolo fuori le Mura, cuore del bimillenario! Oggi, in un attimo giunge in tutte le case del mondo quell’Annuncio che lui, Paolo, portava faticosamente affrontando fatiche e ostacoli a non finire.  Pensate, se avesse avuto i mezzi di oggi, televisione, radio, telefono, stampa, computer, Internet, posta elettronica. Ma non aveva altro che se stesso e le sue lettere. Dove non arrivava lui, arrivavano quelle. Aspettate con ansia, lette con emozione, conservate religiosamente, fino ai nostri giorni. Lettere che insegnavano, sostenevano, confortavano, ravvivavano la presenza dell’Apostolo passato di lì e ormai lontano, e intanto ponevano le basi della grande nuova teologia. Lettere d’amore, dettate da una fiamma tanto grande da non poter essere contenuta, una fiamma divorante, totale, assoluta, incendiaria. Come leggere senza sentirsene contagiati? (Se qualcuno ci riusciva, Paolo ne soffriva autentico strazio. Sordità e infedeltà dei fratelli ci hanno procurato splendide « sgridate » epistolari.)
    Il contatto con quell’anima ardente scottava cuori e istituzioni. Pietro, uomo semplice e capo della nuova gerarchia, ne rimase sconcertato. Un altro apostolo? Anzi due, contando Barnaba? Ma gli apostoli siamo noi. Dodici, come le tribù d’Israele. Quando ne mancava uno l’abbiamo eletto noi. Una struttura già ben definita. E stabilita da Gesù stesso, no? (Quante volte sentiremo ripetere questa frase, in venti secoli.)
   Per fortuna l’amore supera tutto, vedi prima lettera ai Corinti. La storia li ha resi inseparabili, l’apostolo gerarchico e l’apostolo mistico: « San Pietro e Paolo », non hanno neppure una festa per ciascuno. San Paolo è il capostipite dei chiamati dopo la morte di Gesù, il primo esempio di vocazione come l’intendiamo noi, alla moderna: una voce interiore che non lascia dubbi e che ti capovolge la vita. E che spesso costringe a fare i conti col « sistema ». Per primo, san Paolo ha vissuto il dramma di chi si sente, si sa « investito » da Dio e non dalle istituzioni. Quanti possibili santi si sono rovinati per questo, ribellandosi, separandosi! San Paolo non si rovinò. Rimase ostinatamente, appassionatamente unito alla nascente Chiesa. Ma per tutta la vita e le lettere, certo dell’investitura divina, continuò a ripetere: anch’io sono un apostolo! « Paolo, apostolo non da parte degli uomini, né per mezzo di un uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e da parte di Dio Padre ». Tanto che oggi, quando si dice « l’Apostolo » per antonomasia, si intende proprio lui, Paolo.
   Figura gigantesca. Ma complessa, tormentata, ineguale. Il suo stile – efficacissimo – riflette l’uomo. Passione, dolcezza, rigore, veemenza, contraddizioni. Non nella fede, che è diamantina, ma nel carattere, nelle relazioni umane, nella prassi da suggerire in concreto nell’ambito politico familiare, sociale. Pensiamo quanto ha pesato su venti secoli di cristianesimo sua visione non serena della donna. Eppure ne aveva incontrate, di figure forti di donne, Prisca, la diaconessa Febe. E Maria? Possibile che non l’abbia incontrata? Non la nomina mai.
   « Era la mentalità del suo tempo » si dice a sua scusa. Ma il profeta, nelle cose grandi, nell’essenziale, non ha mai la mentalità del suo tempo, o non sarebbe un profeta. In quelle ha la mentalità dell’eterno, della verità universalmente valida. E in quelle dovremmo prenderlo alla lettera, non quando si adegua alle convenzioni del tempo. E in quelle Paolo giganteggia. « Non c’è dunque più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna… » Dinamite. Siamo ben lontani dall’averne tratto tutte le conseguenze. Dopo venti secoli.
    Pellegrinò per il mondo ed ora il mondo (intero) pellegrinerà per lui. A Roma ci attende. Con la sua tomba, le sue reliquie, le catene che portò per liberare noi. Vi saranno pellegrinaggi, manifestazioni, liturgie, momenti di riconciliazione, conferenze, concerti. O figli dell’era di Internet, su quel sito troverete tutte le indicazioni necessarie. Chissà che, non visto, vi abbia collaborato anche lui.
 Elena Cristina Bolla

SAN PAOLO (una presentazione da « Catholic Almanac », tradotto dall’inglese)

http://www.12apostlesofthecatholicchurch.com/paul.html

(questa è una traduzione di Google, però automatica, ci sono diversi errori, con cerco di correggere perché si capisce)

SAN PAOLO

Il paragrafo che segue è tratto dal « Almanacco cattolica »

Paul: Nato a Tarso, di una tribù di Beniamino, cittadino romano, ha partecipato alla persecuzione dei cristiani fino al momento della sua miracolosa conversione sulla via di Damasco, chiamato da Cristo, che si manifestò a lui in modo speciale, è diventato gli apostoli delle genti, tra i quali ha fatto la maggior parte della sua predicazione nel corso di tre viaggi missionari attraverso le principali zone a nord della Palestina, Cipro, Asia Minore e in Grecia; 14 epistole portano il suo nome, due anni di reclusione a Roma, a seguito di iniziale l’arresto a Gerusalemme e il confinamento a Cesarea, si è concluso con il martirio, per decapitazione, al di fuori delle mura della città in 64 o 67 durante la persecuzione neroniana, in arte, è raffigurato in vari modi con San Pietro, con una spada, nella scena della la sua conversione, 29 giugno (con S. Pietro), Jan 25 (di conversione).

I – Saulo (Paolo) di fondo e prima esperienza di Gesù Cristo.
II – Recupero dalla cecità, il battesimo di Paolo e gli effetti.
III – Come tutta la vita Paul è cambiata dopo la sua conversione.
IV – Paul zelo senza sosta, la pace e l’amore per Gesù Cristo, la Chiesa ei suoi membri.
V – Come gli scritti di Paolo rivelare la sua unione trasformante con Dio.
Quanto segue è tratto da « Vite dei Santi » di Butler e curato da Michael Walsh con un in avanti dal Cardinale Basil Hume, OSB, Arcivescovo di Westminster, Harper & Row, Publishers, San Francisco.

L’Apostolo delle genti era un Ebreo della tribù di Beniamino. Alla sua circoncisione l’ottavo giorno dopo la sua nascita ha ricevuto il nome di Saulo, e di essere nato a Tarso di Cilicia, che era il privilegio di un cittadino romano. I suoi genitori lo mandarono da giovane a Gerusalemme, e lì fu istruito nella legge di Mosè di Gamaliele, un fariseo dotto e nobile. Così Saul è diventato un osservatore scrupoloso della legge, e ha fatto appello anche ai suoi nemici per testimoniare il modo conforme ad esso la sua vita era sempre stata. Anche lui ha abbracciato il partito dei farisei, che era di tutti gli altri il più grave, pur avendo ricevuto, in alcuni dei suoi membri, i più contrari alla umiltà del Vangelo. E ‘probabile che Saul appreso nella sua giovinezza il commercio, che ha praticato anche dopo il suo apostolato – vale a dire quello di rendere le tende. In seguito Saul, superando i suoi compagni nello zelo per la legge ebraica e le tradizioni, che pensava che la causa di Dio, è diventato un persecutore e nemico di Cristo: egli era uno di quelli che hanno preso parte l’omicidio di Santo Stefano. Nella furia del suo zelo egli ha chiesto al sommo sacerdote di una commissione di arrestare tutti gli ebrei a Damasco, che ha confessato Gesù Cristo, e condurre legati a Gerusalemme.
Saul era quasi al termine del suo viaggio a Damasco, quando, verso mezzogiorno, lui e la sua società erano su un tratto circondato da una gran luce dal cielo. Hanno visto tutti questa luce, e di essere colpito con stupore cadde a terra. Poi Saul udì una voce che per lui era articolato e distinti, anche se non capito dal resto: ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti’ Saul rispose: ‘Chi sei, o Signore?’ Cristo ha detto, ‘Gesù di Nazareth, che tu perseguiti. E ‘difficile per te recalcitrare contro il pungolo.’ Cristo lo ha detto a sorgere e procedere nel suo viaggio verso la sua destinazione, dove sarebbe imparare ciò che si aspettava da lui. Quando si alzò da terra Saul ha rilevato che anche se i suoi occhi erano aperti, non vedeva nulla.
Ci fu un cristiano a Damasco molto rispettato per la sua vita e virtù, il cui nome era Anania. Cristo è apparso a questo discepolo e gli ordinò di andare a Saul, che era allora nella casa di Giuda in preghiera. Anania tremava al nome di Saul, non essendo estraneo al male che aveva fatto a Gerusalemme, o la commissione su cui aveva viaggiato a Damasco. Ma lui è andato a Saul, e che le sue mani su di lui disse: ‘Fratello Saulo, il Signore Gesù, che ti è apparso il tuo viaggio, ha mandato me che tu possa ricevere la vista e sia colmo di Spirito Santo’. Subito qualcosa di simile a scaglie caddero dai suoi occhi, ed egli recuperò la vista.
Saulo si alzò, fu battezzato, e mangiò. Rimase alcuni giorni con i discepoli a Damasco, e cominciò subito a predicare nelle sinagoghe che Gesù era il Figlio di Dio, con grande stupore di tutto ciò che lo ascoltavano, che ha detto, ‘non è questo colui che a Gerusalemme perseguitato coloro che invocò il nome di Gesù, e che è venuto qui per portare via i prigionieri? ‘ Così un bestemmiatore e un persecutore è stato fatto un apostolo, e scelsero di essere uno dei principali strumenti di Dio nella conversione del mondo.
Dio può cambiare i peccatori a santi, immediatamente o dopo un ritardo. Noi non crediamo che Paolo è diventato un santo subito, ma sappiamo che era pieno di Spirito Santo che gli avrebbe permesso di diventare un potenziale seguace di Gesù e lasciare il suo precedente modo di vita che era stata proprio di fronte. Paolo era cieco e impotente. Lui non ha fatto disperare. Egli pregò. Era in casa di Giuda in preghiera prima del suo battesimo. Paolo stava pregando quando era cieco.
Questo converson drammatica di Saul a Paolo può capitare a chiunque, quando siamo umili, porre le domande giuste e obbedire a Dio che ci porterà a dire che cosa fare con le nostre vite.
Ovviamente, questo particolare tipo di conversione è molto insolito, ma Dio è onnipotente e può cambiare un assassino da seguire dopo di lui. Tutte le cose sono possibili a Dio e Gesù viene dopo di noi nel suo modo speciale, che sarà a beneficio di noi, e Dio significa business. Naturalmente, dobbiamo essere aperti, sinceri, le direzioni seguire e ascoltare la luce che irrompe su di noi.
Questa luce ha colpito Saul e gli altri, ma è stato solo Saul che ha sentito la voce. Perché? Non lo sappiamo.
Dio può comunicare a noi, ma dobbiamo voler ascoltare il messaggio e rispondere ad esso. Saul ha collaborato con la grazia della conversione. Come facciamo a saperlo? Paul era impotente. Paul è stata devastata. Paolo è stato umiliato. Eppure, Paolo stava pregando. Paul ha permesso alla luce di penetrare lui e lo preparano ad accettare la conversione.
Questo è stato solo il primo giorno della sua conversione. Ogni giorno gli esseri umani hanno bisogno di convertire, ricevere la luce, sentire le parole di Dio e di agire su di loro per piacere a Dio..
Questo esempio di Paolo è dato a noi assicurarci che non importa quanto possiamo attualmente opporsi a Dio, Dio vuole vincere noi, come Gesù ha vinto Paul di essere suo amico speciale e seguace. Può succedere anche quando ci sono amici o nemici di Dio, quando noi odiamo i cristiani come Saul ha fatto, e anche se abbiamo perseguitato la Chiesa di Cristo. Dio ci vuole ancora di collaborare con la grazia di san Paolo ha fatto. Egli ci indica la strada e delle reali possibilità della sua vita che ora si riferiscono.
La conversione al di sopra di San Paolo è un punto di svolta della sua vita. Da un’esperienza che nulla è rimasto lo stesso. Era come misteriosa venuta come era nel rapidità che è venuto.

La scrittura di seguito è tratto da un sacerdote francescano, Leonard Foley, OFM, dal suo libro intitolato: « Santo del giorno ».

Intera vita di Paolo può essere spiegato in termini di una esperienza – il suo incontro con Gesù sulla via di Damasco. In un istante, vide che tutto lo zelo della sua personalità dinamica veniva sprecato, come la forza di un pugile oscillante selvaggiamente. Forse non aveva mai visto Gesù, pur essendo solo alcuni anni più vecchio. Ma aveva acquistato l’odio di un fanatico di tutto ciò che Gesù stava per, come ha cominciato a molestare la Chiesa: « … entrando casa dopo casa e trascinando uomini e donne, li consegna al carcere » (At 8:03 b). Ora egli stesso è stato « inserito », possedeva, tutta la sua energia sfruttata per un unico obiettivo – essere schiavo di Cristo nel ministero della riconciliazione, uno strumento per aiutare gli altri a vivere l’unico Salvatore.
Una frase ha determinato la sua teologia: « Io sono Gesù, che tu perseguiti » (At 9:05 b). Gesù fu misteriosamente identificato con la gente – il gruppo amorevole delle persone Saul era stato funzionano giù come criminali. Gesù, vide, era il compimento misterioso di tutti era stato ciecamente perseguire.
Da allora, il suo lavoro era solo a « tutti i presenti perfetto in Cristo. Per questo lavoro io e la lotta, in accordo con l’esercizio del suo potere lavorare dentro di me ». (Colossesi 2:28 b-29). « Per il nostro vangelo non è venuto a voi solo a parole, ma anche con potenza e con Spirito Santo e [con] molta convinzione » (1 Tessalonicesi 1:5 a).
Vita di Paolo è diventato un instancabile proclamare e vivere il messaggio della croce: i cristiani baptismally morire al peccato e sono sepolti con Cristo, sono morti per tutto ciò che è peccaminoso e irredento nel mondo. Sono realizzati in una nuova creazione, già condividendo la vittoria di Cristo e un giorno a salire dai morti come lui. Attraverso questo Cristo risorto al Padre effonde lo Spirito su di loro, che li rende completamente nuovo.
Così grande messaggio di Paolo per il mondo era: Tu sei salvato interamente da Dio, non da nulla si può fare. Salvare la fede è il dono di impegno totale, libero, personale e amorevole a Cristo, un impegno che porta poi frutta in più « lavori » che la legge potrebbe mai contemplare.
Questo famoso missionario delle genti nella foto sopra è un grande modello per tutte le creature per tutti sono caduti dalle grazie divine. Paolo è stato chiamato come siamo oggi da Dio per manifestare il talento e doni che Dio ci ha dato. Questo avverrà quando ci abbandoniamo a Dio Onnipotente è tutto potente volontà e sono dispiaciuto per i peccati passati e cercare Dio con tutto il cuore e l’anima come ha fatto Saul.
Paolo è una testimonianza che Dio ci insegue senza sosta per farci santo e gradito alla sua Chiesa e l’umanità, anche quando abbiamo entrambi perseguitati. Egli è il primo grande missionario delle genti dopo la sua conversione drammatica. Paolo ricorda ai pagani che erano ancora popolo eletto da Dio e figli della promessa. Non ha mai perso di vista le sue profonde radici ebraiche, ma ha sottolineato con forza che la legge è stato sostituito con il Cristo che sola ci può salvare con la sua pace e il potere.
San Paolo aveva assistere a questo risparmio di energia e la grazia da una luce accecante dal cielo. Questa è stata un’esperienza che lo lasciò cieco e impotente. Gesù gli apparve in una visione che ha cambiato tutta la sua vita.
Paul era stato il più farisaico dei farisei, il più legalistica degli avvocati Mosaico. Quando sottoposta a Cristo, Paolo è diventato campione di Cristo e predicava il Vangelo ai popolazione non ebraica come nessun altro prima di lui.
Nessuno dei seguaci di Cristo divenne più zelanti e coraggiosi, non più percorsa di questa potente guerriero per Cristo. Paul sopportato sofferenze persecuzioni, umiliazioni e quotidiana e debolezza. Aveva molte quotidiane fatiche, tribolazioni e periodi di prova come ambasciatore di Cristo.
Cristo ha trasformato Paul gradualmente, attraverso i suoi scontri e le ostilità mentre andava a predicare, scrivere e difendere l’Uomo-Dio, Gesù Cristo. Non aveva mai visto in vita reale, ma certamente per mezzo della fede è venuto a comprendere e sperimentare la Sua profonda unione con lui.
Chiunque legga San Paolo capirà che è stato alzato fino a un livello molto alto di conoscenza e nell’amore di Dio.. I suoi scritti del Nuovo Testamento in Romani rivela la giustizia di Dio.
In 1 e 2 Corinzi Paolo spiega che Gesù è la roccia che ha seguito Israele e Colui che dà la vittoria trionfante.
Paolo sapeva attraverso la sua esperienza che Cristo è la libertà che imposterà uno libero che ha descritto in Galati.
In Efesini, Paolo elaborerà come Cristo è il capo della Chiesa e un meraviglioso esempio del Corpo Mistico.
Attraverso le lettere di Filippesi e Colossesi, ci dice che Gesù è la nostra vera gioia e la completezza.
In Tessalonicesi, il Messia è la nostra ultima speranza e la pazienza e la disciplina per la sopravvivenza.
Una delle reclute di Paolo è giovane Timothy, e attraverso questi due libri a lui intitolate, Paolo ci assicura l’importanza della nostra fede in Gesù e la sua stabilità.
Per mezzo degli ultimi tre epistole, Tito, Filemone e Ebrei, Paolo evidenzia che Cristo è la verità, il nostro benefattore ed Egli è la nostra perfezione.
Nessun santo è stato più articolato, in grassetto o audace. Lo Spirito mosso e motivato ogni suo passo. Fu torturato, provato e testato con percosse incalcolabili e, infine, è stato decapitato dopo molti anni di prigionia e croci. Egli portò tutti con amore e considerato un privilegio di soffrire per suo fratello, Jesus.
La Basilica di San Paolo fuori le Mura, la seconda chiesa più grande romano dopo il Vaticano, si trova vicino alla riva del fiume Tevere. Sorge sul luogo di sepoltura dell’Apostolo delle genti e non ha mai smesso di essere meta di pellegrini e visitatori comuni. San Paolo fu sepolto nel piccolo cimitero adiacente a Via Ostiense, non lontano dalla zona chiamata Ad Aquas Salvias (oggi noto come Tre Fontane) dove fu martirizzato nel 67AD.
Dal libro dal titolo « La Basilica di San Paolo fuori le Mura » di Anna Maria Cerioni, Roberto Del Signore, troviamo questa affermazione, contenuta nell’introduzione: « Paolo è il più grande annunciatore del mistero della salvezza e il medico ineguagliabile del Corpo mistico di Gesù Cristo che è la Chiesa « .
« Soprattutto non dobbiamo trascurare il fatto che la tomba di San Paolo si trova sotto l’altare maggiore (in Basilica, come Pietro in Vaticano). È stato san Paolo, patrono comune di Roma, apostolo che ha portato il Vangelo alle Nazioni , che tegether con Pietro Principe degli Apostoli, offrì a Dio la prova suprema del suo amore cristiano girando l’anima di Roma, viola con il proprio sangue « .
Una statua di San Paolo impugnando una spada lunga che attraversa il suo cuore si trova di fronte alla Basilica. Il suo lavoro di una vita di parlare, vivere e scrivere le sante parole e gli esempi di Gesù Cristo era la sua passione quotidiana. Portava le parole di Cristo con tutto il suo cuore, mente e anima e vissute al meglio. Come San Pietro, l’altro principe degli Apostoli, Paolo ha combattuto la buona battaglia nella diffusione della fede mediante la sua vita e la morte e perseverato fino alla fine, rivelando il suo grande amore per Dio e del prossimo.
La vita e la creazione di gridare e riflettere la bellezza infinita e la gloria del Creatore infinito. Dio è Salvatore del mondo e redime tutti i popoli con la sua santa che, vita e risurrezione. Gesù Cristo è amante della vita e ci offre la pace anche in mezzo alla morte, la guerra e il crimine.
Missione di Paolo e quella di chi imita con generosità Gesù, troverà la pace abbondante e illimitata e l’amore nella loro vita. Questo potente e consolante la gioia, l’energia e la forza si sposterà, guidare e uniscono uno completamente con Nostro Signore e Salvatore nel fare santa volontà di Dio.
L’unione con Dio è lo stato più alto possibile che una creatura possa raggiungere ed è facilmente raggiungibile se si è single, sposato, laici, religiosi o sacerdoti. Si tratta di uno stato di beatitudine in mezzo ogni sofferenza il dolore e dolori inerenti alla vita. Non importa quanto giovane o vecchio sei o anche se si è disabili o in grado. Non ci sono requisiti formativi per gli appassionati o per coloro che ardentemente cercare l’unione con Dio se non il desiderio, la buona volontà e la carità verso tutti. Dio è santo e infinitamente desideroso di ciascuno di essere vestita in quella santità stessa.

Dio, non siate rivestiti di luce,
Come una fiera indumento,
E ai tuoi occhi santa
I santi indossare la tua bellezza;
Le heav’ns e tutti in esso espressi
La gloria della vostra santità.

Dammi una veste di luce
Che io possa camminare con voi:
Luminoso come le stelle sono luminose,
Puro come la loro luce è puro;
La cui struttura non si macchia di peccato,
Ma resta sempre incontaminato.

O Cristo, alzo gli occhi;
Il tuo amore per me è il mio;
Nel tuo grande sacrificio
La mia speranza rimane solo;
La veste è mio, la mia anima a vestirsi,
Di giustizia eterna.

L’Inno di sopra tratto dalla pubblicazione « Magnificat », edizione, maggio 2003.

Gli scritti degli Apostoli ai pagani siano portate a conoscenza del più fedele di qualsiasi altro scrittore. Nelle letture liturgiche durante tutto l’anno gli scritti di Paolo sono costantemente davanti a noi. Oggi, alcuni mettono in dubbio le origini paoline di diverse delle sue epistole. Sia come sia, tutti i suoi quattordici libri rimangono parte integrante del canone del Nuovo Testamento approvato dalla Chiesa universale. Nessuno deve mai dubitare l’autenticità e la genuinità della Bibbia, che è sanzionato dalla Chiesa.
Il testo di copertura e ricco di ciò che Paolo scrive è completo e omelisti volte hanno la tendenza a spiegare ed esporre sulle letture epistola più che l’elegante bellezza del vangelo che sembra semplice, ordinaria e Stark. Gesù ‘parole del Vangelo sono profondo e sconfinato, eppure semplice. A volte non si può scandagliare in profondità eterne e il significato perché le parole del nostro Dio si parla in parabole e racconti.
La teologia di Paolo e la filosofia non sono textbookish. Ciò che Paolo ha scritto circa, ha vissuto tanto che era assolutamente in grado di tradurre in parole l’esperienza spirituale datogli dallo Spirito di Dio.
Paolo parla spesso sulle altezze, profondità, larghezza di argomenti che vanno oltre la sua comprensione personale. Ammette di parlare e scrivere di una certa saggezza. Non è una saggezza del suo tempo o le nostre. E ‘la sapienza di Dio che è sempre una saggezza misteriosa e nascosta. Di questa saggezza, « occhio non vide né orecchio udì », né ha tanto resi conto l’umanità ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano.
Dio ha rivelato questa saggezza ad oggi Paolo e noi attraverso lo Spirito stesso, perché lo Spirito scruta ogni cosa, anche le cose profonde di Dio. Paolo ci dice: chi conosce sé più profondo di un uomo, ma proprio spirito dell’uomo che è in lui? Allo stesso modo, nessuno sa cosa si trova nelle profondità di Dio, ma lo Spirito di Dio.
I cristiani sanno che che tutta la Scrittura è ispirata da Dio. Per questo motivo, quando si legge Paul o ad uno degli autori ispirati del Nuovo Testamento o ci potrebbe essere la lettura per la prima volta, anche se forse abbiamo sentito e letto in precedenza. La ragione di ciò è che lo Spirito di Dio fa tutte le cose di nuovo! Quello che può guadagnare in comprensione, significato e l’interpretazione può essere così sorprendente che sembra che non abbiamo mai capito o visto in questo nuovo modo.
I soggetti che le coperture Paolo sono piuttosto ampio, molti libri del Nuovo Testamento. Reading Paolo è diverso da quello di leggere qualunque non-scrittori biblici soprattutto perché uno sta leggendo parole ispirate. Questo non significa che altri scrittori non sono ispirati, ma la Bibbia ha sempre avuto un posto preminente nella lettura sacra.

Il seguente è tratto dal libro di Joan Carroll Cruz’z intitolato Misteri, prodigi e miracoli nelle Vite dei Santi. Pubblicato da Tan Books e Publishers, Inc., Rockford, Illinois 61105.
Capitolo 33 si chiama « Wells, Springs e Acqua Santa » e la sezione di San Paolo inizia dicendo:.
Un oratorio sotterraneo di quattro camere e si trova sotto la chiesa di Santa Maria in Via Lata contiene dipinti della prigionia di San Paolo (d.circa 65), così come i resti di un antico palazzo. Qui si trova una fontana che si dice che sia apparso miracolosamente in risposta alle preghiere di St. Paul, quando battezzò i suoi convertiti. Durante il Medioevo il pozzo è stato spesso utilizzato quando c’erano carenze idriche a Roma.

La chiesa romana di San Paolo Alle Tre Fontane (San Paolo delle Tre Fontane) è stato costruito nel 16 ° secolo sul luogo dove fu decapitato san Paolo. Nel santuario è la colonna di marmo bassa a cui si dice che il santo sia stato legato al momento della sua esecuzione. Anche trovato vi è un blocco di marmo su cui è stato decapitato. San Gregorio Magno cita l’esecuzione di St. Paul e il luogo di esecuzione, ma a volte più tardi, la leggenda narra che la testa decapitata delimitata sul pendio erboso, la leggenda narra che la testa decapitata delimitata sul pendio erboso. Nei tre luoghi in cui il capo del Santo toccati, fontane balzò in piedi, che sono ora protetti da tre edifici in marmo di piccole dimensioni.

Passio Pauli, Passio Christi – (Card. Carlo Maria Martini)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_confessioni_di_paolo8.htm

Passio Pauli, Passio Christi

(Card. Carlo Maria Martini)

La parola « passio Pauli », passione di Paolo, si usa comunemente per indicare i capitoli degli Atti degli Apostoli che vanno dal 21 al 28, cioè l’ultima parte del libro: dalla prigionia a Gerusalemme alla prigionia a Roma.
Vogliamo estendere la «passione di Paolo» anche alle sofferenze successive che conosciamo in parte dagli accenni delle lettere e in parte dalla tradizione. È singolare che gli Atti degli Apostoli non ci narrino tutta la vita di Paolo, ma si fermino ad un certo punto, introducendo poi i capitoli sulla sua « passione ». L’attività apostolica è descritta in tanti capitoli quanti sono quelli che descrivono l’imprigionamento, il processo, fino alla prigionia a Roma.
Anche nei Vangeli, la Passione di Cristo ha un trattamento amplissimo rispetto alla brevità della vita narrata in precedenza. L’evangelista corre per brevi note su due o tre anni della vita pubblica di Cristo, mentre descrive la Passione quasi ora per ora, minuto per minuto.
Comprendiamo da questo fatto l’importanza che l’evangelista, la Chiesa primitiva, danno alla Passione di Cristo e alla passione di Paolo.
Gli evangelisti hanno compreso che Cristo era Messia e rivelatore del Padre soprattutto nella Passione.
Lo stesso accade per Paolo, testimone di Cristo non soltanto nei discorsi travolgenti o dotti o pieni di tenerezza ma anche quando viene imprigionato, portato davanti ai tribunali, trasferito da un carcere all’altro, con sorte incerta, con limitazioni gravi della libertà, con il timore della morte.
Come grazia specifica di questa meditazione possiamo chiedere di comprendere la frase misteriosa della lettera ai Filippesi: «Perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze» (Fil 3,10). Paolo desidera conoscere Gesù entrando in misteriosa comunione anche fisica con le sue sofferenze.
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Tu conosci, Padre di misericordia, quanto è importante per noi la misteriosa comunione con le sofferenze del Cristo. Tu sai come ci è difficile, lontana dalla nostra mentalità, smentita continuamente dal linguaggio quotidiano. Per questo ti chiediamo umilmente, insieme con Paolo, di aprirci gli occhi della mente e del cuore perché conosciamo Cristo, la potenza della sua Risurrezione, la comunicazione alle sue prove, per potere con lui offrire la nostra vita per il corpo di Cristo.
Illumina, o Signore, la nostra mente perché possiamo comprendere le parole della Scrittura, riscalda il nostro cuore perché avvertiamo che non sono lontane ma, in realtà, le stiamo vivendo e sono la chiave della nostra esperienza presente, della situazione di tante persone oggi nel mondo.
Te lo chiediamo, Padre, insieme con Maria, Madre addolorata, con Paolo, per la gloria di Gesù, morto e risorto per noi, che vive e regna nella Chiesa e nel mondo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
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Similitudini e diversità della «Passio Christi» e della «Passio Pauli»
Cerchiamo di vedere alcune tappe della Passione di Cristo paragonandola con quella di Paolo. Sottolineo tre momenti:

- l’arresto di Cristo e l’arresto di Paolo;
- Cristo e Paolo ai tribunali;
- le sofferenze fisiche e morali di Cristo e di Paolo.

L’arresto di Cristo e l’arresto di Paolo
« Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: « Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo? ». Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: « Signore, dobbiamo colpire con la spada? » » (Lc 22, 47-49).
Paolo si trovava nel tempio, aspettando i giorni della Purificazione, «quando i Giudei della provincia di Asia, vistolo nel tempio, aizzarono tutta la folla e misero le mani su di lui gridando: Uomini di Israele, aiuto! Questo è l’uomo che va insegnando a tutti e dovunque contro il popolo, contro la legge e contro questo luogo; ora ha introdotto perfino dei Greci nel tempio e ha profanato il luogo santo! » (At 21, 2727). Tutta la città è in subbuglio. Paolo è trascinato fuori del tempio, chiudono le porte, cercano di ucciderlo. Quando giunge il tribuno con la coorte, lo arrestano e lo legano con due catene. Da questo momento, Paolo è in prigione per lunghissimo tempo. Che cosa hanno in comune le due scene pur nella loro diversità?
In entrambi i casi, l’arresto è proditorio, ingiusto; è un arresto fatto alle spalle, con un agguato. Agguato per Gesù ed agguato anche per Paolo, suscitato ad arte dai suoi nemici.
Per entrambi l’arresto avviene nel momento in cui si spendevano per il loro popolo. Per Gesù avviene nella ‘notte della preghiera, per Paolo nel momento dell’offerta quando, dopo aver portato doni per il suo popolo, ha spinto la sua condiscendenza fino a volersi purificare nel tempio. Sono toccati nell’istante della loro dedicazione apostolica, del loro servizio.

Cristo e Paolo davanti ai tribunali
Gesù passa vari tribunali: il Sinedrio, il tribunale di Pilato, l’interrogatorio con varie accuse alle quali prima risponde e, da un certo momento in avanti, tace. Il processo di Paolo è descritto più ampiamente ed è segnato da una lunga serie di discorsi: il discorso fatto sui gradini del tempio al cap. 22 degli Atti, quello davanti al Sinedrio nel cap. 23, davanti a Felice nel cap. 24, l’arringa davanti a Festo nel cap. 25 e davanti al re Agrippa nel cap. 26. Una serie di apologie di Paolo che si difende, a differenza di Gesù che dice solo brevi parole.
È interessante notare la diversità delle situazioni: Paolo non è un pedissequo imitatore di Gesù. Sente di avere in sé lo Spirito di Dio e, ispirandosi alla vita del Maestro, vive le situazioni con propria responsabilità e si comporta con dignità e con fermezza. Imita Gesù nella dignità, nel senso della giustizia, nella nobiltà d’animo; però agisce in altro modo, nell’ampiezza e nel calore con cui difende se stesso, nel tentativo di confondere gli avversari; e riesce a dividere il Sinedrio facendo litigare fra loro i suoi accusatori.
Gesù testimonia in brevissime parole la perseveranza nell’affermazione della propria missione e il coraggio della parola: «Tu lo dici, tu dici che io sono re; vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della potenza di Dio ».
In tutti e due i processi, vediamo che dietro a una parvenza di giustizia prevalgono interessi personali, paure, scontri di ambizioni individuali o di gruppi. Sia Gesù che Paolo sono sottoposti alle incertezze del giudizio umano; se Paolo poteva avere qualche speranza – l’aveva sempre fomentata nelle sue lettere, là dove insiste sul rispetto dell’autorità -, si accorge che il tornaconto personale, avido e meschino, prevale anche in chi dovrebbe garantire il diritto.

Le sofferenze fisiche di Cristo e di Paolo
Le sofferenze di Gesù sembrano molto più grandi perché sono descritte ampiamente nel resoconto della Passione. Di Paolo si può solo intuire la situazione pesante dell’essere in prigione: di fatto ha già avuto in precedenza sofferenze notevoli nelle flagellazioni o nelle lapidazioni alle quali è stato sottoposto. Egli le riferisce quasi considerandole come un avvenimento che si aspettava.
Paolo dà più rilievo alle sofferenze morali, soprattutto alla solitudine. Questo aspetto è quello che maggiormente indica cosa accomuna la nostra passione con la passione di Cristo e di Paolo.
Certamente le sofferenze morali più gravi che Cristo sopporta sono dovute all’abbandono totale in cui viene lasciato da parte degli uomini. Tutti fuggono: solo Pietro lo segue da lontano e poi lo rinnega. Gesù che in fondo si era abituato ad avere sempre qualcuno che lo sosteneva – e questa è un’abitudine che ci si fa – si vede rapidamente ridotto alla solitudine più estrema. La solitudine è accresciuta dal misterioso abbandono di Dio che si esprime nel grido: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ». È stato scritto moltissimo per cercare di comprendere che cosa significa.
Le pagine più drammatiche e più belle sono forse quelle di Hans Urs von Balthasar nel suo «Mistero pasquale»: egli cerca di interpretare, partendo da queste parole, il venerdì santo di Gesù, l’oscurità che si abbatte nella sua anima e la discesa agli inferi.
Balthasar parte dal principio che possiamo interpretare la passione di Gesù a partire dalla passione dei santi: comprendendo le oscurità, le desolazioni, i momenti drammatici di esperienza di abbandono che i grandi santi hanno vissuto, possiamo cogliere qualcosa di ciò che Gesù ha sperimentato prima di tutti, per tutti, a conforto e sostegno di tutti.
Che cosa dire della sofferenza morale di Paolo?
Paolo sperimenta lungo la sua passio, intesa fino alla fine della sua vita, un abbandono progressivo dei discepoli. Lui, che è così pieno di carica vitale, esce in affermazioni che non riescono a nascondere che è stanco e ha l’impressione di aver sofferto al limite delle forze; dice: «Cerca di venire presto da me sono parole di chi veramente non ne può più – perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito. il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia – come dire: eccomi qua solo -. Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero ». E continua: «Alessandro, il ramaio, mi ha procurato molti mali. Il Signore gli renderà secondo le sue opere; guardatene anche tu, perché è stato un accanito avversario della nostra predicazione. Nella mia difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro» (2 Tim 4, 9-11.14-16). Quest’ultima è la frase più dura.
È un Paolo diverso da quello che siamo abituati a conoscere; è stanco anche fisicamente, prostrato dalla prigionia, come appare anche nelle altre lettere « pastorali» a Timoteo e a Tito. A noi qui non interessa stabilire se questi scritti sono di sua mano, se riportano frasi sue; li prendiamo come la Chiesa ce li ha tramandati, come espressione della figura dell’Apostolo così come la Chiesa primitiva l’ha conosciuta e ce la trasmette.
Certamente ci danno l’immagine di un Paolo in parabola discendente. Non è più l’entusiasta della lettera ai Galati, della lettera ai Romani, con le grandi sintesi teologiche. È un uomo che lotta contro le difficoltà quotidiane, nella solitudine, e lascia trapelare anche un certo pessimismo. Denuncia ciò che sta avvenendo e prevede dei mali futuri; il tono oscuro e deplorativo ha preso il posto della speranza, della baldanza, dell’ardore.
Questa prova attraverso cui Paolo è passato, è una prova reale, nella quale riconosce che non ha più un possesso completo delle sue forze, dell’ottimismo, dell’entusiasmo, ma deve fare i conti con la fatica e l’accumularsi di pesi e delusioni. Dio ci vuole mostrare in lui il segno che l’uomo viene purificato in tanti modi e questa è una profonda forma di purificazione.
Ci possiamo chiedere se Paolo abbia provato anche abbandono da parte di Dio, le tenebre interiori, la desolazione, la notte dello spirito. Autobiograficamente non è possibile determinarlo. Tuttavia, parla più volte delle forze oscure del male che cercano di ottenebrare l’uomo, che lo insidiano e non lo risparmiano. Egli conosce, quindi, queste potenze delle tenebre che insidiano continuamente l’intimo di ciascuno di noi.
Se ci basiamo su quello che Balthasar dice di Gesù, dobbiamo pensare che probabilmente anche Paolo ha vissuto momenti in cui la fede è stata avvolta da tenebre e ha dovuto camminare col solo ricordo di tutta la ricchezza posseduta e della forza di Dio non più sensibilmente presente.

La passione del cristiano
Mi ha colpito, qualche tempo fa, un libro che descrive la prova della fede di Teresa di Lisieux. L’ultima parte della vita di questa santa è stata profondamente oscura e, dopo i doni meravigliosi che aveva avuto da Dio, è entrata in uno stato quasi incomprensibile. Ella stessa dice che è una prova dell’anima indicibile ed ha quasi paura di parlarne. Poi scrive: «Suppongo di essere nata in un paese circondato da una bruma spessa, mai ho contemplato l’aspetto ridente della natura inondata, trasfigurata dallo splendore del sole; …d’un tratto le tenebre che mi circondano, divengono più spesse, penetrano nell’anima mia e la avviluppano in tal modo che non riesco più a ritrovare in essa l’immagine così dolce della mia Patria: tutto è scomparso! Quando voglio riposare il cuore stanco delle tenebre che lo circondano; ricordando il paese luminoso al quale aspiro, il mio tormento raddoppia; mi pare che le tenebre, assumendo la voce dei peccatori mi dicano facendosi beffe di me: Tu sogni la luce, una patria dai profumi più soavi, tu sogni di possedere eternamente il Creatore di tutte queste meraviglie, credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte che ti darà non già ciò che speri, ma una notte più profonda, la notte del niente ». E ancora: «Quando canto la! felicità del Cielo, il possesso eterno di Dio non provo gioia alcuna, perché canto semplicemente ciò che voglio credere. A volte, è vero, un minimo raggio scende a illuminare la mia notte, allora la prova si interrompe per un attimo, ma subito dopo, il ricordo di questo raggio, invece di rallegrarmi, rende ancora più fitte le mie tenebre ». «È l’agonia pura – dice il 30 settembre, giorno della morte – senza alcuna traccia di consolazione» .
Sono parole che ci colpiscono. Forse una delle più -dure è quella riferita al processo di beatificazione da una consorella che l’aveva sentita: «Se sapeste in quali tenebre sono immersa; non credo nella vita eterna, mi sembra che dopo questa vita mortale non vi sia più nulla. Tutto è scomparso per me, non mi rimane altro che l’amore ».
Ha l’impressione di non credere più, però sente che l’amore c’è: non è una contraddizione, è la purificazione terribile della carità. Sono esperienze che fanno parte del cammino cristiano.
Possiamo trovare anche in altri santi confessioni di questo tipo.
S. Paolo della Croce durante la sua ultima malattia esce in espressioni che fanno davvero pensare. Confida a un confratello: «Oggi mi sentivo impeti gagliardissimi di andarmene disperso e fuggiasco per queste selve, stimolato a gettarmi da una finestra – quindi tentazioni di suicidio -, e continue gagliardissime tentazioni di disperazione ». E ancora: «Un’anima che ha provato carezze celesti e poi si trova a dover stare del tempo spogliata di tutto, anzi, arrivare a segno di trovarsi, a suo parere, abbandonata da Dio, che Dio non la voglia più, non si curi più di lei e che sia molto sdegnato, onde le pare che tutto ciò che fa una tal anima sia tutto malfatto. Ah, non so spiegarmi come desidero! Le basti sapere che questa è una sorte quasi di pena di danno, pena che supera ogni pena».
E poi; «L’impressione di non avere più né fede né speranza né carità, di sentirsi come sperduto nel profondo di un mare in tempesta senza avere chi gli porga una tavola per sfuggire al naufragio, né dall’alto né dalla terra. Non ha nessun lume di Dio, incapace di un minimo buon pensiero, incapace di trattare alcun argomento di vita spirituale, desolato come i monti di Gelboe e sepolto nel ghiaccio. Nelle orazioni stesse vocali non so far altro che passare i grani della corona».
Racconta un suo confratello: «Entrando nella sua camera quando stava infermo, con voce da muovere a compassione anche le tigri disse per tre volte: « Sono abbandonato » ».
Certamente conta molto il carattere delle persone. Chi è molto sensibile in certi momenti di fatica, di depressione e di malattia giunge a parlare così di sé. Comunque è vero che Dio permette misteriosamente nei suoi santi la prova dell’abbandono. È una situazione reale e quando avviene deve farci pensare che è il cammino percorso da Cristo sulla croce, percorso da Paolo e percorso da tanti santi.
Paolo, scrivendo a Timoteo, subito dopo aver detto: «Tutti mi hanno abbandonato» aveva affermato: « Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza… Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli» (2 Tim 4, 17-18).
La potenza dello Spirito in lui gli aveva permesso di superare un momento in cui poteva essere tentato addirittura di disperazione. Non possiamo però sapere se l’ultimo quarto d’ora della sua vita sia stato un tempo di luminosità, di chiarezza, oppure di tenebra. Il mistero del cammino umano va verso l’esperienza della morte.
Proprio per questo dobbiamo riflettere su di noi, sulle sofferenze attraverso le quali altri possono passare e sulla necessità di saper prestare aiuto. Un malato, soprattutto grave, difficilmente apre il suo animo: forse solo a qualcuno di cui ha piena fiducia. La missione è di suscitare questa fiducia per poter essere collaboratori nelle prove contro la fede e contro la speranza che l’uomo prossimo alla morte può vivere.
Si racconta che Teresa di Gesù Bambino verso la fine della sua vita rimase in preda ad un’ agitazione e angoscia inesprimibili, che spaventarono le consorelle. La sentirono dire: «Quanto bisogna pregare per gli agonizzanti! Se si sapesse! ».
Ecco come la vita dei santi può aiutarci a penetrare meglio la passio Christi e la passio Pauli.

Come Paolo ha vissuto la comunione con la passione di Cristo
- Dalle lettere in cui Paolo parla delle sue sofferenze ricaviamo, prima di tutto, che ha da Dio il dono di viverle con grande spirito di fede, valutandone il significato alla luce del piano salvifico. «…il Salvatore nostro Gesù Cristo… del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro. È questa la causa dei mali che soffro» (2 Tim 1, 9-11).
Se soffro, soffro per Cristo e « non me ne vergogne: so infatti a chi ho creduto e sono convinto che egli è capace di conservare fino a quel giorno il deposito che mi è stato affidato» (2 Tim 1, 12).
- Lo spirito di fede è intriso di senso ecclesiale per ciò che soffre. « Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio Vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù insieme alla gloria eterna» (2 Tim 2, 8-10). lo soffro ma per gli altri, per tutta la Chiesa, per l’opera di Cristo. «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi: di realizzare la sua parola» (Col 1, 24-25).
Il profondissimo senso di missione che è la molla interiore di tutto ciò che fa per la Chiesa, non lo abbandona neanche in questi momenti, ma gli dà la grazia di considerarli come il completamento del servizio che vuol compiere fino in fondo.
molti altri, affinché non soccombano nella prova.

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