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AVVENGONO ANCORA CONVERSIONI COME QUELLA DI SAN PAOLO?

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AVVENGONO ANCORA CONVERSIONI COME QUELLA DI SAN PAOLO?

CONVERSIONI COME QUELLA DELL’APOSTOLO DELLE GENTI SULLA “VIA DI DAMASCO” ACCADONO ANCORA OGGI…

 16 APR 2013

1. San Paolo è stato “folgorato” da un’apparizione di Cristo sulla “via di Damasco”. Questa esperienza mistica ha trasformato uno dei persecutori più accaniti dei cristiani in un ardente e infaticabile apostolo di Cristo. Negli Atti degli Apostoli, quinto libro del Nuovo Testamento, l’episodio della conversione di Paolo viene riportato tre volte, soprattutto al capitolo 9: “Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo…” (Atti 9, 1s).?? Saulo-Paolo era un ebreo istruito, cittadino romano. Aveva studiato a Gerusalemme e aveva ascoltato alcuni predicatori parlare di un uomo chiamato Gesù, crocifisso dai romani qualche anno prima. Siamo verso l’anno 34 della nostra era, nel pieno della persecuzione della Chiesa primitiva. Saulo ottenne dal Sinedrio (il tribunale ebraico con sede nel Tempio) la missione di perseguitare i cristiani della Siria. Si trovava sulla via che portava a Damasco, dove avrebbe avuto luogo la sua “caduta”.
“E cadendo a terra udì una voce che gli diceva: ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?’. Rispose: ‘Chi sei, o Signore?’. E la voce: ‘Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare’” (Atti, 4s). Saulo si rialzò, ma uscì da questo incontro momentaneamente cieco. Tre giorni dopo, a Damasco, venne curato da un discepolo, Anania, si convertì al cristianesimo e si fece battezzare. “Và, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele”, aveva detto il Signore ad Anania in una visione per vincere la sua reticenza a battezzare il grande persecutore.
E questo è ciò che Paolo fece da quel momento in poi, con uno zelo maggiore di quello con cui prima aveva perseguitato, suscitando adesione o rifiuto, mettendo in pericolo la propria vita. “Nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio. E tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: ‘Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti?’” (Atti 9, 20s). La “via di Damasco” non è certamente il cammino più abituale verso Dio, ma questo tipo di esperienze non è così raro. Anche al giorno d’oggi molte persone che dicevano di non credere o credevano molto poco possono testimoniare esperienze mistiche improvvise che le hanno trasformate profondamente.
2. Le grazie della conversione improvvisa possono presentarsi in tutte le situazioni e in ogni stato di vita. Claudel nel 1886, André Frossard nel 1935 o Bruno Cornacchiola nel 1947 ne sono esempi famosi. André Frossard (1915-1995), appartenente a un contesto socio-culturale molto distante dalla fede cattolica (suo padre fu uno dei fondatori storici del Partito comunista francese), varcò l’ingresso della cappella delle Figlie dell’Adorazione di Parigi e si convertì in un istante, a causa non di una visione, ma di uno sguardo nuovo sul mondo e su di sé… Scrisse allora una testimonianza rimasta celebre: “Dio esiste, io l’ho incontrato”.§La conversione di Paul Claudel (1868-1995) alla fine del XIX secolo ha avuto luogo dietro uno dei pilastri di Notre Dame di Parigi, un giorno di Natale, ma il futuro diplomatico e poeta non provava allora alcuna ostilità nei confronti del cattolicesimo; in qualche modo, si era preparato – umanamente – a una tale conversione.
Del tutto imprevedibile è stata invece la conversione di Bruno Cornacchiola (1913-2001), un protestante estremista che odiava davvero la Chiesa e il papa (che aveva anche progettato di uccidere), che vide la Vergine nei pressi dell’abbazia trappista delle Tre Fontane a Roma. Era l’aprile 1947. Bruno era a passeggio con i suoi figli. Mentre cercava di scrivere un duro articolo contro la Vergine Maria, i bambini si allontanarono, e li ritrovò all’ingresso di una grotta con le mani giunte, pallidi e in estasi, con lo sguardo rivolto all’interno della cavità. “Bella Signora… Bella Signora”, dicevano. Bruno, prima irritato e poi preoccupato, finì per entrare nella grotta, e inginocchiatosi disse a sua volta: “Bella Signora, bella Signora”. Davanti a lui si profilò la figura di una donna giovane, avvolta nello splendore di una luce dorata. Affascinato da ciò che vedeva, cadde anch’egli in estasi. La Vergine, contrariamente a ciò che aveva fatto con i bambini, si mise a parlare con lui, dicendogli dolcemente: “Tu mi perseguiti, ora basta! Entra nell’Ovile [...] Si preghi assai e si reciti il rosario quotidiano per la conversione dei peccatori, degli increduli e per l’unità dei cristiani”.
?“In questa grotta mi è apparsa la Madre divina… Ella mi invita con amore a rientrare nella Chiesa cattolica, apostolica e romana”, incise Bruno sulla roccia della grotta quello stesso giorno. Bruno ebbe altre apparizioni, una delle quali l’anno successivo in presenza di un sacerdote. Da quel momento la sua conversione fu irrefrenabile, e tra mille vicissitudini si recò a Roma a chiedere perdono a papa Pio XII per averlo voluto uccidere. Circa trent’anni dopo, nel 1978, incontrò Giovanni Paolo II, che gli disse: “Tu hai visto la madre di Dio, ora devi essere santo!”.
3. Queste conversioni riguardano anche ebrei che spesso, a causa di rivelazioni particolari, continuano ad esserlo ma riconoscono in Gesù il Salvatore atteso da Israele, venendo chiamati “ebrei messianici”. Al giorno d’oggi in Israele ci sono ebrei che mantengono la propria identità ebraica ma riconoscono Gesù Cristo come il Messia di Israele (vengono chiamati “ebrei messianici”). La loro conversione giunge spesso in modo carismatico, per apparizioni, rivelazioni o visioni private, a immagine di quanto è accaduto in passato a molte personalità ebraiche di spicco: ?Israel Zoller (1881-1956), ad esempio, era ebreo di nascita, di origine polacca, gran rabbino di Trieste e poi di Roma durante la II Guerra Mondiale, docente di esegesi biblica all’Università di Padova. Cristo gli apparve all’improvviso nell’ottobre 1944, quando si trovava all’interno della grande sinagoga romana, il giorno dello Yom Kippur. Israel si convertì al cattolicesimo a 65 anni e prese il nome di Eugenio Pio come omaggio a papa Pio XII per la sua opera a favore degli ebrei di Roma durante il conflitto.
Un altro convertito, Alphonse Ratisbonne (1814-1884), un giovane ebreo della metà del XIX secolo, ebbe una visione della Vergine Maria entrando in una chiesa di Roma. La Vergine gli si presentò con le mani aperte e tese, facendogli segno di inginocchiarsi. “La Vergine sembrava dirmi: va bene! Non mi parlò, ma io compresi tutto”, scrisse in seguito. Subito dopo, il giovane decise di convertirsi al cattolicesimo, aggiungendo il nome di Maria al proprio. Entrò nella Compagnia di Gesù nel giugno 1842 e ricevette l’ordinazione sacerdotale nel 1848. In seguito si stabilì in Palestina, dove consacrò la propria vita al catecumenato dei convertiti di origine ebraica.
L’americano di origine ebraica Roy Schoeman, nato nel 1951 in una famiglia fuggita dalla Germania nazista, rappresenta un altro caso di conversione improvvisa. Lo spiega nel suo libro “Le salut vient des juifs” [“La salvezza viene dagli ebrei”, ndt]: “Durante una lunga camminata nella natura ricevetti la grazia più eccezionale della mia vita (…). Mi trovai coscientemente e materialmente in presenza di Dio. Vidi davanti a me la mia vita fino a quel giorno, tutto ciò che mi rendeva felice e ciò che mi intristiva. Capii in un istante che l’obiettivo della mia vita era amare e servire il mio Signore e mio Dio”. E aggiunge: “Il nome di quel Dio che mi si rivelò, senso e obiettivo della mia vita, non lo concepivo come il Dio dell’Antico Testamento che era nella mia immaginazione fin dall’infanzia. Chiesi di conoscere il suo nome, per sapere quale religione mi avrebbe permesso di servirlo e adorarlo”.
Roy Schoeman chiese al Signore di fargli conoscere il suo nome, ma a una condizione: che non fosse Cristo e non dovesse diventare cristiano. Un anno dopo, però, ricevette in sogno “la seconda grazia più grande” della sua vita: lui che diceva di non sapere molto del cristianesimo e di non provare una speciale simpatia per questo si risvegliò “perdutamente innamorato della beata Vergine Maria” e senza desiderare “altro che diventare totalmente cristiano”. Per saperne di più, si può ascoltare la lettura di un frammento del suo libro “Le Miel du rocher, seize témoignages d’accomplissement de la foi d’Israël dans le Christ” [“Il miele della roccia, sedici testimonianze di compimento della fede di Israele in Cristo”, n.d.t.], pubblicato dalle edizioni François-Xavier de Guibert nel 2008 (diffuso dalla “Radio Vaticana”).
4. Tali conversioni si verificano anche tra i musulmani, che tuttavia si vedono spesso costretti a mantenere un atteggiamento discreto. Joseph Fadelle è l’autore della toccante opera “Le prix à payer” [“Il prezzo da pagare”, n.d.t.]. Iracheno convertito dall’islam al cristianesimo, si è rifugiato in Francia e deve nascondersi per evitare che venga eseguita la fatwa pronunciata contro di lui. Il suo vero nome è Mohammed al-Sayyid al-Moussaou, ed è nato in una delle famiglie più importanti dell’aristocrazia sciita dell’Iraq, discendente dall’imam Ali, cugino del Profeta.
Nel 1987, durante il servizio militare, incontrò Massoud, un cristiano con il quale discusse di cristianesimo e islam. In seguito, ha spiegato, una notte fece un sogno destabilizzante: un uomo vestito di bianco, dall’altra riva di un torrente, gli tendeva la mano e gli diceva: “Io sono il pane di vita”. Turbato, aprì la Bibbia di Massoud e, estremamente colpito da ciò che lesse, la “divorò” e si convertì. Con sua moglie, anche lei convertita, si inserì con difficoltà nella Chiesa dell’Iraq, e dopo essere stato arrestato, picchiato, frustato e torturato dalla propria famiglia dovette fuggire a seguito di un tentativo di omicidio da parte di suo fratello.
Un altro caso di conversione imprevedibile è quello dell’egiziana Nahed Mahmoud Metwalli, che perseguitava i cristiani e le cristiane dall’alto del suo incarico di vicedirettrice dell’istituzione principale di insegnamento per bambine del Cairo (4.000 allieve), nel quartiere di Zeitoun, non lontano dalla basilica costruita dopo le apparizioni mariane del 1968-69.
“Le perseguitavo con forza e le trattavo con estrema severità”, ha confessato in un messaggio indirizzato dal suo esilio in Olanda a tutti i musulmani dell’Egitto, dove viene rispettato il diritto alla libertà di coscienza. “Credevo che fosse mio dovere agire in quel modo. Fino al giorno in cui ho incontrato il Signore Gesù. Mi si è rivelato e gli ho donato la mia vita, a causa dell’immensità della sua tenerezza e del suo amore. Ho abbandonato il mio Paese, la mia famiglia e tutto a causa di Cristo e della testimonianza nel suo nome”, ha aggiunto.
È stata una nuova segretaria, cristiana, ad aprirle gli occhi grazie al suo comportamento esemplare. Un giorno, mentre stava parlando con lei nel suo ufficio, ironizzando sull’immagine di Maria che portava su una medaglietta, le due donne hanno visto apparire davanti a loro la Vergine, vestita di azzurro con un velo, una visione alla quale è seguita, un altro giorno, una visione di Cristo stesso, che ha detto a Nahed: “Resta in pace, avrai una missione che ti verrà rivelata al momento opportuno”.
Nahed ci mise un po’ a comprendere ciò che aveva visto, ma la sua conversione era già iniziata e il suo comportamento di persecutrice cambiò totalmente, fino alla completa conversione, sigillata dal Battesimo, il 30 novembre 1988. La persecutrice divenne allora oggetto di persecuzione nel suo Paese, subendo vari tentativi di sequestro e finendo per rifugiarsi in Europa, dove si è consacrata all’evangelizzazione, attualmente nei Paesi Bassi.

Il Vangelo secondo Paolo: fede, speranza, carità (di Luigi Padovese)

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Il Vangelo secondo Paolo: fede, speranza, carità

di Luigi Padovese

inPREMESSA

In alcuni studi sulla storia del pensiero cristiano antico è stato rilevato l’accresciuto interesse per Paolo e per il suo epistolario, che caratterizza le opere degli scrittori ecclesiastici del IV secolo. Sono ben 21 i commentari delle lettere paoline di questo tempo dei quali abbiamo notizia certa [1]. Circa le possibili motivazioni di questa concentrazione le risposte date sono diverse. In particolare il riferimento alla persona di Paolo è addotto come modello di conversione e di vita cristiana in un’epoca in cui la Chiesa va assumendo la fisionomia di una “potenza” terrena producendo la reazione di quanti vogliono vivere con rigore e radicalità l’ideale da essa proposto. Nel momento in cui l’appartenenza al cristianesimo incomincia a divenire pura formalità, senza scosse o rivolgimenti di coscienza, l’apostolo acquista un interesse sempre maggiore divenendo il principale referente del cristiano convertito. Il Paolo di Basilio, di Giovanni Crisostomo, d’Ilario, di Agostino, è anzitutto il modello da imitare in un cammino di fedeltà al messaggio evangelico rispecchiato nelle lettere dell’apostolo. Quando nelle Regole Morali, compendio dei doveri del cristiano, Basilio di Cesarea proporrà per 16 volte la questione identitaria e pratica di che cosa è proprio del cristiano (Ti idion Christianou?), sarà soprattutto negli scritti di Paolo che reperirà la maggior parte delle risposte [2]. Lo stesso avviene anche per altri teologi e pastori in momenti diversi della storia cristiana. Si consideri, ad esempio, l’influenza che l’epistolario paolino ha acquisito per gli umanisti ed i Riformatori del ’500 presso i quali il ritorno ad fontes è stato inteso come un ritorno a Paolo ed ai vangeli [3]. Eppure l’apostolo, mediante vita e lettere, oltre ad essere assurto a simbolo della non omologazione della Chiesa a questo mondo, ha alimentato anche i movimenti che al suo interno hanno tenuta viva la tensione tra carisma ed istituzione. La “sapienza” o “filosofia di Cristo” – formula d’impronta paolina cara ai Padri ed alla letteratura monastica medievale – è divenuta emblematica della radicalità nella sequela evangelica. Non meraviglia dunque che Paolo sia stato assunto anche a modello degli asceti cristiani. Basti accennare alla Vita Antonii, scritta da Atanasio (tra il 355 e il 361), vero e proprio manifesto -1www.letterepaoline.it – ideologico e pratico del monachesimo, in cui l’apostolo figura come il perfetto imitatore di Cristo che Antonio, e quindi ogni monaco, deve seguire [4]. Paolo, pertanto, con le sue lettere ha svolto all’interno della comunità cristiana una funzione di vigilanza e di correzione contro ogni forma di snaturamento del messaggio cristiano, ma è stato anche stimolo e richiamo ad una radicalità di fede espressa nell’imitatio Christi. Questi due aspetti, fedeltà del messaggio evangelico e imitazione di Cristo, sono compendiati nella trilogia di fede, speranza e carità che l’apostolo richiama tre volte e che gli servono per specificare e sintetizzare il fondamento e le modalità del vivere cristiano [5]. Legando inscindibilmente tra loro fede, speranza e carità egli raggiunge ogni singolo aspetto della vita credente: la fede quale definizione dell’essere cristiano e della sua identità personale, la speranza come l’attesa fiduciosa e sicura di quanto la fede proclama, “abbandono fiducioso in un Dio che salva”, la carità, infine, quale fede tradotta in azione ed avente come modello il Crocifisso. Non si tratta perciò di tre virtù giustapposte ma d’un’unica indivisibile realtà che solo per necessità didattica consideriamo partitamente. 

LA FEDE DI PAOLO
Tra gli autori del Nuovo Testamento l’apostolo è certamente quello che parla più spesso di “fede”. Tale vocabolo ricorre 142 volte rispetto alle 101 ricorrenti nel Nuovo Testamento. Ma in che consiste questa fede? La risposta è il vangelo, ossia la buona novella trasmessa oralmente circa la persona di Gesù, la sua passione, morte e resurrezione. Se nell’annuncio primitivo ad Israele o ai fedeli della diaspora, si tratta della proclamazione di fede in un Dio unico, il punto di partenza d’ogni confessione cristiana è la fede in Cristo [1]. Non mancano nelle lettere di Paolo formule di fede trinitaria, anch’esse però si appoggiano sulla realtà del Cristo risorto al quale appartiene il potere di fare delle opere che competono solo a Dio per mezzo dello Spirito Santo inviato ai credenti [2] La controprova circa il carattere cristologico delle prime professioni di fede è offerto dal fatto che in tutte le primitive formule è menzionato il Cristo, ma non in tutte compare il Padre [3]. E si tratta di brevi formule di acclamazione, facili da ricordare, indicanti un fatto: “Gesù è il Signore” (1Cor 12,3) [4], oppure un evento: “Gesù morì e risorse”(1Ts 4,14), “Dio ha risuscitato Gesù dai morti” (Rom 10,9). Talvolta, fatto ed evento sono associati (cf. Rom 1,3s.). Se da queste brevi e più antiche formule di fede cristologica si passa a ricercare gli elementi peculiari della predicazione missionaria primitiva, li si ritroverà nel kerygma annunciato da Paolo ai Corinzi (1Cor 15, 3-6) comprendente: 1) il richiamo alla morte ed alla resurrezione di Gesù; 2) la testimonianza scritturale dei due eventi; 3) il richiamo ai testimoni. È scomparso il tema del Regno, o meglio, l’annuncio del Regno è divenuto l’annuncio di Gesù: quello giunge mediante questo. All’apostolo non interessa l’uomo Gesù, che non vuole conoscere “secondo la carne” (2Cor 5,16). Focalizza piuttosto la sua attenzione su passione, morte e resurrezione di Gesù quali eventi che mostrano l’azione divina in Lui. Ma v’è di più: nell’annuncio paolino tali eventi sono ancorati alla vita di ciascuno mediante l’osservazione che essi avvennero “per le nostre colpe” (Rom 4,25), “per la nostra giustificazione”(Rom 4,25). “Mi ha amato ed ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). La vicenda di Cristo e la storia personale di ciascuno sono così inscindibilmente intrecciate. Se nella religiosità antica è l’uomo che ha bisogno e va in cerca di Dio, nell’annuncio cristiano si presenta l’inverso: Dio, l’Abbà, attraverso Cristo, cerca l’uomo per salvarlo. Questo è il nucleo del credo annunciato da Paolo ma anche la ragione dello scandalo cristiano che egli non passa sotto silenzio o addolcisce, anche se ciò potrebbe rendergli la vita meno difficile. Lo dichiara ai Galati 5,11: «Quanto a me, fratelli, se dicessi che la circoncisione è necessaria, gli ebrei non mi perseguiterebbero più, ma in questo caso la croce di Cristo non sarebbe più per loro motivo di scandalo». Paolo è ben cosciente che la fede in Cristo contrasta tanto con la concezione paganeggiante di Dio che si pensa sia appagato da un formale ossequio religioso, quanto con un’idea di Dio, provvidente e buono, che tuttavia non potrà mai abbassarsi al nostro livello fino al punto di nascere povero da una insignificante donna ebrea e di morire come un delinquente sul supplizio della croce, riservato agli schiavi (servile supplicium). L’apostolo è consapevole delle resistenze che il suo annuncio produce, quando dichiara che «la parola della croce è stoltezza per i perduti, per noi, i salvati, è potenza di Dio» (1Cor 1,18). La stoltezza risiede nella croce predicata come azione salvifica di Dio che confonde l’uomo il quale presume di procurarsi la salvezza da sé [5]. Eppure è proprio questa fede difficile che, secondo Paolo, dà la giustizia. Così infatti si esprime in Gal 3,11 e in Rom 1,17, dove dichiara che «il giusto per fede vivrà», cioè colui che è reso giusto a motivo della (sua) fede (in Cristo) vivrà [6]. La giustizia è data a chi accoglie questo difficile annuncio di Dio che ci salva attraverso la croce. Mai nessuna fede in Dio è in grado d’impegnare tanto concretamente quanto il fatto di credere nel Dio nato povero e morto crocifisso. La fede cristiana, insomma, non rimane nell’ambito della pura credenza, del solo pensiero, non è astrazione. Proprio perché si fonda sulla concretezza di Cristo che non era un fantasma e la cui croce non era un’illusione, impone di compromettersi con Colui al quale aderisce. È una fede che non accetta interpretazioni spiritualistiche poiché incarna una reale protesta contro tutte le ingiuste forme di selezione e di pressione naturale e sociale (ricchi e poveri, schiavi e liberi, uomini e donne). In essa, infatti, «colui che è senza potere viene proclamato signore del mondo, la vittima sacerdote, il condannato giudice, l’emarginato il centro della comunità» [7]. Può una tale fede rimanere senza incidenza nella vita dei cristiani? Se lo è, allora il problema è se uno è veramente cristiano. Dietro la convinzione che si è giustificati se si accoglie questo Gesù come Salvatore, si coglie l’esperienza personale di Paolo che sulla via di Damasco è chiamato da Cristo senza alcun merito. È l’esperienza della gratuità o della grazia – termine che nel linguaggio paolino ricorre 100 volte sulle 154 del NT – e che ha il senso fondamentale di “benevolenza” [8]. La cosiddetta “conversione” di questo orgoglioso fondamentalista ebraico che aveva identificato l’amore per la Legge con l’aggressione ai dissidenti cristiani [9], non significa passaggio da uno stato di dissipazione morale ad una vita austera, e neppure indica un cambio di religione, ma adesione «a una persona viva e liberante come Gesù Cristo, capace di orientare in una nuova direzione non solo le energie umane di cui si dispone, ma anche i propri valori religiosi di origine» [10]. Da questo punto di vista si capisce perché l’apostolo, in riferimento alla sua vicenda personale, non parli di un “convertirsi, ravvedersi”, “ricredersi”, “cambiare”. L’esperienza di Damasco è piuttosto “chiamata”, “elezione, “rivelazione” nella quale anche la fase precristiana trova senso; è servita, infatti, a trarre dall’ebreo fanatico l’apostolo delle genti e dallo scrupoloso ed intransigente legalista l’annunciatore della libertà cristiana. La conversione dell’apostolo – se si vuole usare ancora questo termine – è iniziativa assoluta di Dio, non dell’uomo, ed implica «riorganizzazione dei suoi migliori valori ideali attorno a Cristo, che fa irruzione nella sua vita» [11]. C’è così un rapporto di continuità/discontinuità rispetto al passato, ma anche la convinzione che tutto il cammino umano è risposta a Dio che si rivela e chiama. In questo senso si capisce meglio perché Paolo parli di vocazione che trascende la discontinuità [12]. Ai Galati trasmette proprio questa convinzione d’essere stato scelto da Dio fin dal seno di sua madre, chiamato con la sua grazia, e fatto oggetto della rivelazione del Figlio perché la annunci alle genti (cf. Gal 1,15). Se l’evento di Damasco ha significato per l’apostolo il passaggio dalla cecità alla luce, è anche vero che nella penetrazione del mistero di Cristo egli ha avuto bisogno dei suoi compagni di fede. È nel contatto e anche nel confronto con essi che egli è maturato. L’unità interiore presente nel suo pensiero non ha escluso un divenire, una crescita. Come è stato scritto, il fatto «che nell’annuncio del suo vangelo Paolo resti fedele a sé stesso non significa che egli permanga costantemente nelleoggettivazioni teologiche della sua riflessione… la fedeltà al suo compito lo obbliga a una sempre nuova riflessione, a un sempre nuovo inizio teologico. Il vangelo non può essere superato, ma lo stadio di una riflessione teologica lo può assai bene. E riflessione teologica vuol dire anche congedarsi dalle idee teologiche alle quali un tempo si era affezionati. Che la teologia si fa continuamente nel campo di tensione di continuità e discontinuità Paolo lo ha ben capito!» [13]. La maturazione della fede in Cristo per Paolo si è prodotta all’interno della comunità cristiana e non senza di essa. Egli ne era ben cosciente. È questa la ragione che per due volte lo spinge a confrontarsi con Pietro e Giacomo (cf. Gal 1,18) e quattordici anni più tardi con costoro, con Giovanni e con «le persone più autorevoli (della comunità di Gerusalemme) per non correre o aver corso invano» (Gal 2, 2). La Chiesa è per l’apostolo qualcosa di costitutivo per l’esistenza cristiana. Non è pensabile un cristianesimo “separato”, cioè una divisione in gruppi disparati che si tengono solo esteriormente legati mediante la comune confessione di Gesù Cristo. In realtà la comunità di Dio nel Nuovo Patto già dalla sua costituzione e concezione di base si edifica fin dall’inizio unitariamente sul “fondamento degli apostoli e dei profeti” e raccoglie tutti i membri e i gruppinell’edificio di cui la pietra angolare e chiave di volta è Cristo (cf. Ef 2,20). La fede cristiana, non può dunque prescindere dalla comunità. 

LA SPERANZA DI PAOLO
È nel III sec. a.C. che ad Alessandria è stato tradotta parte dell’Antico Testamento dall’ebraico al greco. Nella traduzione in greco del salterio i soli termini “speranza” e “sperare” sono stati utilizzati per tradurre 28 termini ebraici. Questo termine s’è così caricato di una ampia portata semantica perché mostra diverse sfaccettature. La speranza biblica raccolta nasce dalla convinzione che Dio è padrone della storia e del tempo della storia. Pertanto, il libro che narra le vicissitudini di Israele e la storia del suo rapporto con Dio è per Israele il libro della speranza che sorregge soprattutto nel momento della prova [1]. Poiché Dio è sempre fedele a sé stesso (cf. Eb 3,6), riesce possibile, anzi doveroso ricercare nella storia le ragioni della speranza. «Tutto quel che leggiamo nella Bibbia – dichiara Paolo – è stato scritto nel passato per istruirci e tener viva la nostra speranza, con la costanza e l’incoraggiamento che da essa ci vengono» (Rom 15,4). La speranza biblica si alimenta di memoria ed è ben diversa da quanto nel mondo greco s’intende per speranza, considerata piuttosto futurologia, ossia la tendenza di mettersi al riparo dal futuro considerandone tutti i possibili rischi. Sulla base del presente, insomma, ci si tutela per il domani. «La elpís (speranza) dell’uomo saggio… si fonda sulla physis (natura) esplorata scientificamente. La tendenza, prettamente greca, a garantirsi dal futuro inserendosi razionalmente e organicamente nell’ordine cosmico trova qui la sua espressione caratteristica» [2]. Per Paolo il fondamento e la ragione ultima della speranza è la fede in Gesù Cristo morto e risorto, che illumina il presente ed il futuro: «Egli è la nostra speranza» (Ef 1,12). Non sorprende che questo concetto, comprendente diversi aspetti, sia centrale negli scritti dell’apostolo (36 volte compare il termine “speranza” e 19 volte il verbo “sperare”) e neppure meraviglia che sia divenuto oggetto di continua riflessione da parte di filologi, biblisti e patrologi [3]. È particolarmente nella lettera ai Romani che Paolo presenta la speranza nei suoi elementi di attesa, fiducia, pazienza. Non è una trattazione astratta, dal momento che Paolo scrive tenendo presente le aspettative, le necessità, le prove concrete delle sue comunità a confronto con un mondo avverso al quale dare prova concreta che Cristo già regna e che le forze disumanizzanti del male saranno completamente vinte. Salvezza presente e futura sono congiunte insieme nella speranza che fa da ponte tra le due. È lo Spirito ad alimentarla e ad accrescerla in noi. «La speranza – scrive ai Romani – non porta alla delusione perché Dio ha messo il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci ha dato» (Rom 5,5). Non è attesa di un possibile bene futuro, bensì come aspettazione certa di un bene in atto: è un fermento che già opera nella pasta benché non si veda che dai suoi effetti e che attende anche il nostro contributo, come tutti i doni di Dio che non maturano senza la collaborazione umana. Deve, pertanto, divenire operativa (cf. Col 1,4-5) e non esiste se non congiunta alla fede ed alla carità (cf. 1Co 13,13). Non è aspettazione passiva, fatta di pigra inerte attesa, estraniante dall’impegno nel presente. A quei Tessalonicesi che la pensavano così, l’apostolo scrive: «Non dobbiamo dormire come gli altri, ma stare svegli e lucidi di mente… mettendoci la corazza della fede e dell’amore e l’elmo della speranza della salvezza» (1 Ts 5,5-6.8). Mentre ci apre al futuro, serve a vivere meglio il presente, anche se non può limitarsi ad esso, dal momento che, secondo Paolo, «se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini» (1Cor 15,19). A questo riguardo va osservato che mentre i non credenti nella sofferenza si scoraggiano e disperano, i cristiani, proprio attraverso di essa, maturano nella forza, «e questa forza – commenta Paolo – ci apre alla speranza» (cf. Rom 5,2-5). Umanamente questo comportamento può risultare incomprensibile: come può nascere o perdurare la speranza nelle contrarietà e nella sofferenza? Eppure è proprio questa che aiuta a vivere la sofferenza come un valore. La speranza colora la realtà, modifica il dolore da realtà puramente negativa in realtà positiva, perché dà ad esso un significato. Questa speranza che anima il cristiano può inoltre permettergli di parlare nel mondo con tutta franchezza: è la virtù dei martiri. Come dichiara Paolo: «poiché abbiamo questa speranza, possiamo parlare con grande franchezza» (2Cor 3,12). Il cristiano che ha posto tutta la sua fiducia nel Risorto, non ha nulla da perdere e da temere. La speranza escatologica si tramuta così in agire storico: diviene il fondamento della “parresia”, del parlar chiaro, della critica costruttiva; non estrania dal mondo ma neppure circoscrive in esso. È la fede che guarda in avanti e che mantiene viva nel cristiano la tensione verso quei beni che Dio ha preparato per coloro che lo amano. 

LA CARITÀ DI PAOLO
Come per la fede e la speranza, anche la carità trova il suo aggancio nella persona di Gesù al punto che nell’inno alla carità di 1Cor 13 ogni espressione riferita all’amore si può applicare alla sua vita, parole ed azioni. In accordo con il Sermone della montagna, l’amore precede tutti i carismi che non hanno valore se esso manca. Il quadro che Paolo fornisce dell’amore (cf. 1Cor 13,4-7) non è di una virtù cardinale cristiana, ma quello della piena partecipazione all’agape di Dio Padre che, attraverso Cristo, ama in modo del tutto gratuito (Rom 5,6) anche chi non lo merita (Rom 5,10), sino ad acconsentire alla morte del Figlio «affinché il mondo abbia la vita» (Rom 5,8). Gesù è perciò l’incarnazione dell’amore di Dio (Rom 8, 39). È sulla croce che questo amore, manifestato nell’obbedienza di Cristo al Padre, trova la sua massima espressione (Fil 2,8). Il comandamento cristiano dell’amore trova la sua motivazione cristologica in Colui che serve e si sacrifica per noi. «Su questo punto l’etica e la teologia della croce di Paolo stanno in intima dipendenza vicendevole» [1]. Da qui scaturisce per il cristiano l’impegno all’amore reciproco (1Cor 8,3; Rom 8,28) che non è possibile se non è lo Spirito a farcene dono (Rom 5,5). L’amore del prossimo, dunque, non è semplice filantropia ma nasce a contatto con la realtà dell’oblazione totale di Cristo. La fede in Lui diventa così efficace nell’amore (Gal 5,6). Con altre parole Paolo dichiara che nell’amore trova adempimento la legge che non è quella mosaica, bensì la legge di Cristo (Gal 6,2) [2]. Questa va che interpretata a partire dall’amore e non l’amore a partire dalla legge, come nel giudaismo [3]. L’amore cristiano si carica così di più contenuti sia rispetto all’amore com’è inteso nell’Antica Alleanza, ma anche rispetto al semplice amore umano, dal momento che esso è fondato sull’evento della morte e resurrezione di Cristo e sul dono dello Spirito. È superato il precetto dell’amore di se stessi come misura dell’amore del prossimo (“Ama il prossimo tuo come te stesso”). Paolo, in effetti, «non fa mai dell’amore di sé la norma dell’amore del prossimo» [4]. Come potrebbe dinanzi a quel Cristo che – come dichiara – «ha consegnato se stesso per me?» (Gal 2,20). Nemmeno considera l’amore come una virtù civica, frutto di un processo pedagogico o come “eros”, nel senso di amore di quanto è vero, bello, buono. E neppure considera l’amore come sentimento, come legame emozionale nel senso del soggettivismo moderno, bensì come solidarietà con tutti e come opposizione ad ogni forma di discriminazione. L’amore divino trasforma i cristiani in suoi interpreti ed agenti [5]. Scrivendo ai Tessalonicesi Paolo li esorta all’amore «degli uni verso gli altri e verso tutti» (1Ts 3,12) e nella lettera ai Galati invita «a fare del bene a tutti, specialmente ai fratelli di fede» (Gal 6,10). Le opere dell’amore, per l’apostolo, non costituiscono poi prestazioni eccezionali ma sono rivolte a tutti e non ad una élite, come emerge dalla lettera ai Corinzi in cui Paolo tratteggia il carattere dell’amore cristiano che è generoso, benevolo, non conosce invidia, superbia, scortesia, egoismo, irascibilità, astio, piacere dell’ingiustizia (cf. 1Cor 13,4-7). È l’incorporazione a Cristo manifestata nel comportarsi come lui – dottrina centrale del pensiero paolino – che mentre rende possibile una nuova relazione con Dio, fonda pure la relazione dei cristiani tra di loro, dando origine ad una comunità dove i singoli, pur mantenendo le particolarità individuali si trovano in una situazione di eguaglianza e in un rapporto dialogico e immediato. Questa diversità nell’unità è resa mediante l’immagine del corpo in cui ogni membro trova la sua collocazione e dove l’amore fa da collante (cf. 1Cor 12,12-27). La differenziazione non è però discordanza poiché ormai «non c’è più giudeo o greco, schiavo o libero, uomo o donna» (Gal 3,28). Paolo raccoglie nel termine di “fratelli”, tanto ricorrente nelle sue lettere, il nuovo tipo di rapporto all’interno della comunità. Nell’antichità, sia l’immagine del corpo che l’utilizzo dell’espressione di “fratello” non era ignota, eppure in Paolo assume una particolare intensità e viene presentata con estrema coerenza. Se infatti l’altro viene sperimentato come membro dell’unico corpo, lo si può amare come se stessi. Se lo si considera fratello, si possono trasferire su di lui quelle emozioni e attenzioni che di norma spettano a quanti sono geneticamente fratelli [6]. In tal caso la sua felicità ed il suo dolore vengono percepiti come parte della propria felicità e dolore. «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri» (Rom 12,15-16; cf. Gal 6,2: «Portate gli uni i pesi degli altri: così adempirete la legge di Cristo»). È sulla base di questa idea di fraternità che l’apostolo valuta i diversi comportamenti all’interno della Chiesa. La carità verso i poveri cristiani di Gerusalemme è presentata ai cristiani di Corinto come un fare uguaglianza. «Qui – scrive – non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza» (2Cor 8,13). La fratellanza spirituale che l’apostolo proclama, trova la sua realizzazione nella vita quotidiana. Per l’apostolo è vero che «l’amore sopporta tutto, ma anche per lui non sopporta differenza tra i cristiani» [7]. In una comunità di fratelli l’amore trova espressione nella reciprocità e nell’umiltà sull’esempio di Cristo che abbassò se stesso rinunciando al proprio stato. Lo afferma nella lettera ai Galati in cui dichiara: «Per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri» (5,13). L’umiltà che di norma è l’atteggiamento di chi è sottomesso, diviene per Paolo una virtù sociale mostrata nella kenosi di Gesù prodotta dall’amore. «Nella congiunzione tra i due valori dell’amore e dell’umiltà diventano visibili la struttura portante e la novità del nuovo ethos (dover essere) cristiano primitivo» [8]. Certo, l’apostolo nel presentare l’esempio di Cristo come modello di amore che si offre e si umilia è al corrente dei conflitti all’interno delle sue comunità, inaccettabili all’interno d’un gruppo che si ritiene costituito da uguali. La proposta che egli offre per risolvere tali difficoltà – caratteristica delle sue lettere – sarà quella del cosiddetto “patriarcalismo d’amore”, che «lascia sussistere le disuguaglianze sociali, ma le compenetra con uno spirito di rispetto, di considerazione e di premura personale. Il riguardo per la coscienza altrui, anche quando è “debole” e segue norme superate, rappresenta senza dubbio uno dei tratti più simpatici di questo patriarcalismo d’amore» [9]. Riassumendo quanto detto, è possibile affermare che Paolo ci indica un’etica cristo-noma e comunitaria, perché prodotta dall’evento salvifico di Cristo, ossia dalla fede in Lui che opera attraverso l’amore (Gal 5,6). Paolo indica altresì una spiritualità che non propugna una perfezione individuale (Dio-io), ma che esige anche una perfezione sociale (Dio-noi), costruita sulla idea che tutti facciamo parte di un unico e medesimo corpo (cf. Ef 2,21-22; 4,1-16), legati dalla stessa vocazione e dallo stesso destino (cf. 1Cor 12,25-26; 2Cor 1,5-6; Fil 2,17). 

CONCLUSIONI
Nell’introduzione al Commento alla lettera di Paolo ai Romani, Giovanni Crisostomo dichiarava: «Soffro e mi fa pena che non tutti conoscano quest’uomo come e quanto merita… Quel che io so – aggiungeva – devo attribuirlo al fatto di avere continuamente fra le mani i suoi scritti e di studiarli, come sono solito fare, con il più grande trasporto d’affetto. È proprio quanto suole avvenire a quelli che si amano, i quali appunto per questo, conoscono più e meglio degli altri le azioni delle persone amate». Queste considerazioni del Crisostomo, mentre esprimono il suo entusiasmo per Paolo, sono per noi un invito a meglio conoscerlo. Il richiamo ad alcuni aspetti della triade fede/speranza/carità, nella quale l’apostolo sintetizza elementi costitutivi dell’identità del cristiano, mostra la consequenzialità del suo pensiero che è anzitutto frutto di una esperienza. Non è senza ragione che egli insegna le sue “vie in Cristo” (1Cor 4,17) cioè quanto può aiutare le comunità a condurre una vita cristiana. Alcune direttive dell’apostolo non hanno più ragione d’essere, perché circoscritte nel tempo e nella cultura di allora (il problema delle carni sacrificate agli idoli, l’obbligo del velo per le donne, ecc.). Altre, invece, hanno una validità universale anche se l’ambito della loro concretizzazione può essere diverso. L’esempio ci è fornito proprio dalla triade fede/speranza/carità. Un confronto con la fede di Paolo può renderci più consapevoli che l’elemento specifico e differenziante del cristianesimo è dato dalla persona di Gesù. L’analisi degli altri contenuti della fede non deve mai farci dimenticare cos’è essenziale e quanto non lo è. Nella gerarchia delle verità cristiane la realtà del Cristo morto e risorto sta per noi al primo posto. Non c’è altra strada che porti a Dio se non questa umanità del Cristo nella quale è assunta l’umanità e la croce di ogni uomo: «Ciò che avete fatto a uno di questi piccoli, l’avete fatto a me». Non dobbiamo poi mai dimenticare che al centro dell’annuncio cristiano sta la croce di Cristo, «scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani (1Cor 1,23). Si illuderebbe chi pensasse che dopo 2000 anni di cristianesimo questo scandalo non esiste più. Esso rimane e deve servire a purificare la nostra fede, ma anche a contestare i falsi idoli di chi ignora la sofferenza degli innocenti e soffoca la libertà. Al tempo stesso la fede nella resurrezione ci ricorda che non siamo degliarrivati e che l’immortalità e la vita beata non si trova qui, in illusori paradisi artificiali, come vorrebbe farci credere la pubblicità invasiva del mercato con i suoi prodotti. Come scriveva Giovanni Paolo II, nella bolla del giubileo Incarnationis mysterium, «L’incarnazione del figlio di Dio e la salvezza che Egli ha operato con la sua morte e resurrezione sono il criterio per giudicare la realtà temporale e ogni progetto che mira a rendere la vita dell’uomo sempre più umana». Il linguaggio ecclesiale odierno è orientato ad accentuare le “ragioni della speranza” e trova proprio in Paolo un indispensabile supporto perché l’apostolo le ha comprese ed applicate alla vita concreta della sue comunità. Anche la prossima enciclica del Papa avrà per oggetto questa fondamentale virtù cristiana. La ragione è evidente: molti uomini dinanzi alle tragedie presenti, sono sempre meno abituati ad aspettarsi qualcosa da un futuro escatologico, vivono in una serena assenza di speranza e la vita attuale appare come l’unica e l’ultima occasione dove quel che conta è trarre da essa tutto il possibile, non perdere nulla, sperimentare tutto quello che si può. Sempre di più, sempre più in fretta, sempre più superficialmente. Questo atteggiamento porta in sé qualcosa di disperato, soprattutto quando l’appagamento non arriva subito o diventa impossibile. Si afferma così la tentazione dello scetticismo e della sfiducia e l’apertura al futuro, componente essenziale dell’uomo “essere di speranza”, quando non è del tutto rimossa [1], viene ristretta al particolare, all’oggi. Contro questa tentazione l’apostolo ci richiama alle due verità su cui si erge la speranza cristiana: nel sapersi scelti da Dio prima della creazione del mondo (Ef 1,4), nel sapersi destinati ad essere simili al Figlio suo per partecipare alla sua gloria (cf. Rom 8,30). La porta d’ingresso nel mondo è l’elezione; la porta d’uscita l’eredità promessa (Ef 1,14). Si entra in quanto scelti, si esce in quanto figli e, come tali, eredi con Cristo (cf. Rom 8,17). Eppure queste attestazioni, alle quali possiamo offrire pieno assenso intellettuale, ancora non bastano: occorre che la nostra speranza vada nutrita e cresca nel confronto con la speranza degli altri. Da questo punto di vista potremmo parlare della “ecclesialità della speranza”: una virtù, insomma, che si con-divide, si com-partecipa. Quell’articolo del Credo che predica la “comunione dei santi” va perciò letto anche come una comunicazione di speranza: apprendiamo a sperare da quanti hanno imparato a farlo prima di noi e, a questo proposito, proprio Paolo ci è maestro. In relazione alla carità l’apostolo ci rimanda alla rivoluzione più considerevole prodottasi nell’umanità: la convinzione introdotta da Gesù che Dio ama singolarmente ciascuno: non soltanto in quanto parte di un gruppo, di un popolo, di un tutto. Il mondo pagano crede agli dèi, ma a nessuno è venuta in mente l’idea che si possa essere amati personalmente da Dio. Tutto cambia se si pensa che si è al centro del suo interesse. Tutto cambia: il senso della vita, il significato della sofferenza, della malattia, della morte. Chi – come l’apostolo – sperimenta questo amore, non può che annunciarlo. E oggi questo comporta inserire nella società dinamiche di gratuità, di accoglienza, di misericordia e di perdono: dare quello che abbiamo ricevuto e continuamente riceviamo. Il Padre che ha offerto il proprio Figlio e l’ha consegnato alla morte c’insegna una morale della solidarietà, dove il rapporto io-altro (“Non fare all’altro quello che non vuoi sia fatto a te) è rovesciato nel rapporto altro-io e dove il rapporto io-per-te non implica un tu-per-me. È gratuità che non si aspetta riconoscimenti o un contraccambio. È, insomma, l’atteggiamento del Padre che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e che Gesù c’invita ad imitare («Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste»: Mt 5,48). Paolo l’ha ben capito ed è per questo che senza vanto, ma con piena consapevolezza che nessuno poteva smentire, non cessa di rivolgere ad ogni cristiano l’invito fatto ai Corinzi: «Diventate miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1; cf. pure 1Cor 4,16). 

Nota a Premessa
1] Cf . M.G. Mara, Agostino interprete di Paolo, Milano 1993, p. 13. 
[2] Cf. M. Girardi, Tormento ed estasi; sedici domande di Basilio di Cesarea sull’identità cristiana (Reg. Mor. 80,22), in “Annali di Storia dell’Esegesi” 23/1 (2006), pp.118-119.127. 
[3] Cf G. Pani, Le modificazioni dell’identità cristiana tra Medioevo ed Età moderna in rapporto all’epistolario paolino, in “Annali di Storia dell’Esegesi” 23/1 (2006), pp. 266-268. [4] Sul tema cf. M.G. Mara, Il ruolo di Paolo nella proposta monastica della Vita Antonii, in L. Padovese (cur.), Atti del I Simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 1993, pp. 129-138. Si veda pure P. Siniscalco, Parola di Dio e spiritualità monastica nella Vita Antonii di Atanasio, Salonicco 1995, pp. 177-185. Analizzando il testo della Vita Antonii, Siniscalco osserva come l’impegno del lavoro manuale, il tema del combattimento contro il demonio, il senso della provvisorietà delle cose terrene e la tensione verso il futuro definitivo trovano un supporto nelle lettere di Paolo. [5] I testi in cui la triade compare esplicitamente in Paolo sono 1Ts 1,3; 5,8; 1Cor 13,13. Sul tema l’utile presentazione di R. Fisichella, La triade Fede, Speranza e Carità in Paolo – Una riflessone teologica, in L. Padovese (cur.), Atti del III Simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 1995, pp. 74-86. 
Note su Fede
[1] La conferma ci è offerta anche dal fatto che il battesimo, stando a Gal 3,27 e Rom 6,3, veniva effettuato “in Cristo” o “nel nome di Gesù” (1Cor 1,13b-15). In At 2,38 Pietro dichiara: “Pentitevi e ciascuno si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo” (cf. pure At 10,48). Se originariamente la formula “essere battezzato nel nome di Gesù”, serviva – sembra – a distinguere il battesimo cristiano da quello del Battista, è possibile che successivamente vi sia stata un’evoluzione verso un significato più profondo, come lascia supporre Paolo (cf. 1Cor 1,12-16): un rapporto di questo rito che rimette i peccati con l’espiazione compiuta sul Calvario. Cf. S. Légasse, Alle origini del battesimo – Fondamenti biblici del rito cristiano, trad. it. Milano 1994. 
[2] Sul tema cf. P. Grech, Formule trinitarie in San Paolo, in L. Padovese (cur.), Atti del IV Simposio di Tarso su San Paolo Apostolo, Roma 1996, pp. 133-138. Grech rileva come l’individuazione di tali formule in Paolo sia ancora oggetto di discussione. Resta il fatto che Paolo è il più antico autore del Nuovo Testamento a trasmetterle. «I generi letterari in cui occorrono queste formule sono i seguenti: un’acclamazione monoteista (1Cor 12,4-6), benedizione finale (2Cor 13,13), Sendungsformel (Gal 4,6), annunzio di resurrezione (Rom 8,11),chiamata profetica (Rom 15,16), e ringraziamento (2Cor 1,21). Il dato comune a tutti i detti trinitari è che Dio salva per mezzo di Cristo con la santificazione dello Spirito Santo» (ivi, pp. 134-135). [3] O. Cullmann, La fede ed il culto della Chiesa primitiva, trad. it. Roma 1974, pp. 108-109. 
[4] Cf. 1Cor 8,6; Rom 10,9. 
[5] Cf. H. Conzelmann, Teologia del Nuovo Testamento, trad. it. Brescia 1972, pp. 313-314. 
[6] Cf R. Penna, “Il giusto per fede vivrà”. La citazione di Ab2,4 (TM e LXX) in Gal 3,11 e Rom. 1,17, in L. Padovese (cur.), Atti del V Simposio su San Paolo Apostolo, Roma 1998, pp. 91-94. 
[7] Così G. Theissen, Come cambia la fede. Una prospettiva evoluzionistica, trad. it. Torino 1999, p. 169. 
[8] Cf. M. Mazzeo, Il vangelo della grazia nell’annuncio di Paolo, in P. Zilio – L. Borgese (eds.), La salvezza. Prospettive soteriologiche nella tradizione orientale ed occidentale, Venezia-Mestre 2008, p. 66. 
[9] Cf. G. Theissen, La religione dei primi cristiani, trad. it. Torino 2004, p. 280. 
[10] R. Penna, Tre tipi di conversione raccontati nell’antichità: Polemone di Atene, Izate dell’Adiabene, Paolo di Tarso, in L. Padovese (cur.), Atti del IV Simposio di Tarso su San Paolo apostolo, Roma 1996, p. 91. 
[11] Cf. ibid., pp. 91-92. 
[12] Cf. G. Pani, Conversione di Paolo o vocazione? La documentazione della lettera ai Romani, in L. Padovese (cur.), Atti del II Simposio di Tarso su San Paolo Apostolo, Roma 1994, pp. 74-75. Sempre di Pani, si veda lo studio precedente: Vocazione di Paolo o conversione?, in L. Padovese (cur.), Atti del I Simposio di Tarso su San Paolo Apostolo, Roma 1993, pp. 47-63. 
[13] H. Hübner, La legge in Paolo, trad. it. Brescia 1995, pp. 106-107. Scrivendo ai Galati l’apostolo dichiara che il senso della Legge, data non da Dio, ma dagli angeli (cf. Gal 3,19), è quello di provocare trasgressioni e di rendere schiavi (cf. Gal 3,19 s.). Rispetto a questa posizione iniziale Paolo, nella lettera ai romani, modifica il suo parere osservando che la Legge è santa, giusta e buona (7,12) e spirituale (7,14). Essa non induce più al peccato, ma porta il peccato alla coscienza del peccatore (7,7). La posizione antinomista espressa in Gal dall’apostolo avrebbe portato coerentemente ad una rottura con Giacomo e con i giudeocristiani (cf. H. Hübner, op. cit., p. 52). Di fatto,nella lettera ai Romani Paolo non polemizza né cerca il confronto, bensì il dialogo.Forse proprio un confronto con Giacomo l’aveva convinto della possibilità di connettere l’adesione a Cristo con l’osservanza della legge: cf. H. Hübner, op.cit., pp. 113-114. 
Note su Speranza
[1] Cf. J.H. Nicolas, Espérance, p. 1208. 
[2] R. Bultmann, Elpís, in Grande lessico del Nuovo Testamento, ed. it. Brescia 1967, p. 513. 
[3] Cf. W. Turek, L’influsso di Paolo su Tertulliano nell’evoluzione del concetto di speranza, in L. Padovese (cur.), Atti del IV Simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 1996, pp. 169-170. 
Note a Carità
[1] H.D. Wendland, Etica del Nuovo Testamento, trad. it. Brescia 1975, p. 101. 
[2] Cf R. Schnackenburg, Il messaggio morale del Nuovo Testamento, vol. 2, I primi predicatori cristiani, trad. it. Brescia 1990, pp. 57-58. 
[3] Cf. H.D. Wendland, op. cit., p. 106. 
[4] Ibid., p. 104. 
[5] Ibid., p. 102. 
[6] Cf. G. Theissen, Come cambia la fede, cit., pp. 204-205. 
[7] G. Theissen, La religione dei primi cristiani, cit., p. 101. 
[8] Ibid., p. 105. 
[9] G. Theissen, Forti e deboli a Corinto, in Sociologia del cristianesimo primitivo, trad. it. Genova 1987, p. 257.
Nota a Conclusione

[1] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sodale Pastores gregis, VII, 72. 15

Le tenebre dell’uomo Paolo (Carlo Maria Martini)

 dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_confessioni_di_paolo3.htm
 
CARLO MARIA MARTINI
 
Le tenebre dell’uomo Paolo

Ci proponiamo in questa meditazione di approfondire un aspetto dell’evento di Damasco: «la cecità» che segue immediatamente la conversione. Le tenebre non soltanto del Paolo storico, ma di Paolo come uomo che vive questo momento di tenebra.
Il tema è difficile perché tocca le tenebre che sono in noi e che non vorremmo mai affrontare. È un tema penitenziale. Chiediamo la grazia dello Spirito Santo per entrarvi con verità e con apertura di cuore:
O Signore, tu ci scruti e ci conosci, sai quanto siamo incapaci di comprendere il tuo e il nostro mistero. Conosci la nostra incapacità a parlare di queste cose con verità. Ti chiediamo, o Padre, nel nome di Gesù: manda a noi il tuo Spirito che scruta le profondità dell’uomo, che sa ciò che c’è dentro di noi, perché ci renda capaci di conoscerci come siamo conosciuti da te nelle profondità del nostro male, con amore e con misericordia. Fa’ che noi guardiamo con occhio vero ciò che c’è in noi di peso, opacità e opposizione a te; fa’ che sappiamo guardarlo nella luce misericordiosa che viene dalla morte e risurrezione del tuo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore, che con lo Spirito vive e regna con te per tutti i secoli. Amen.
È stato importante definire la conversione di Paolo come « rivelazione e illuminazione ». Ora ci domandiamo come mai dopo la conversione Paolo è cieco.
Questo fatto è sottolineato, con una certa enfasi, dal racconto degli Atti: «Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Cosi, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda» (At 9, 8-9). Si direbbe che l’illuminazione di Cristo, invece di riempirlo di gioia, di luce, di chiarezza, lo abbatte, quasi gli fosse caduta addosso una grave malattia; è incapace a vedere, a nutrirsi, è bisognoso di essere condotto.
La stessa cosa viene ripresa più avanti: «E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco» (At 22, Il). E acquistò la vista quando Anania gli si accostò dicendogli: «Saulo, fratello, torna a vedere! E in quell’istante io guardai verso di lui e riebbi la vista» (At 22, 13).
Perché Paolo è colpito da cecità dopo che gli è stato rivelato il mistero luminoso di Cristo?
La cecità nella Scrittura è chiaramente collegata col peccato, col disorientamento dell’uomo, con il suo barcollare incapace di trovare una direzione. È un castigo: Elimas a Cipro viene colpito da cecità per castigo: « Saulo, detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi su di lui e disse: « O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia, figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia, quando cesserai di sconvolgere le vie diritte del Signore? Ecco, la mano del Signore è sopra di te: sarai cieco e per un certo tempo non vedrai il sole » » (At 13, 9-11). Nel caso di Elimas però il significato simbolico della cecità è molto ben spiegato: egli deve smettere di sconvolgere le vie diritte del Signore, di opporsi, con il suo modo di agire, alla vera immagine di Dio. Quindi è il simbolo dell’uomo incapace di trovare la via giusta, dell’uomo prigioniero delle forze di Satana, «figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia », « pieno di frode e di ogni malizia ». È chiaramente l’immagine del peccato, di ciò che nel peccato parte dall’interno: «frode e malizia »; di ciò che parte dall’esterno: «figlio del diavolo »; e nelle conseguenze: «nemico di ogni giustizia ».
Per la cecità di Paolo non è facile invece rispondere, perché gli Atti degli Apostoli non ce la spiegano, ma si limitano a descrivere il fatto a cui l’Apostolo non sembra mai accennare nelle sue lettere.
Cercando di riflettere e di entrare nel suo animo, possono emergere due motivi.
La cecità come riflesso dello splendore di Dio
C’è anzitutto un motivo biblico ricorrente: «L’uomo non può vedere Dio senza morire ». La visione di Dio è luce ma per la carnalità dell’uomo è motivo di spavento e fa percepire all’uomo tutta l’oscurità in cui si trova. A contatto con Dio che è luce, l’uomo si riconosce tenebra. Paolo vive cosi il cammino penitenziale che non era mai stato capace di vivere prima. La conoscenza della gloria di Cristo si riflette nella conoscenza della propria oscurità, vissuta da Paolo simbolicamente, con un simbolo reale, finché la parola della Chiesa, la parola di Anania, non interverrà a dargli il senso della sua accettazione nella Chiesa e della sicurezza di camminare nella via di Dio.
La cecità è il riflesso negativo della gloria di Dio che gli è stata manifestata. È tipico della conversione cristiana il fatto che l’uomo venga a conoscere molto di più se stesso e a spaventarsi delle proprie tenebre quando conosce la luce di Dio, che non attraverso un esame rigoroso, quasi una psicanalisi delle proprie profondità. È al contatto col volto di Cristo che l’uomo si scopre tenebra!
La cecità come cammino penitenziale
Il secondo motivo che può spiegare la cecità è la partecipazione di Paolo al peccato del mondo, la sua inserzione nell’umanità peccatrice.
Ci chiediamo come l’ha vissuta e come gli si è presentata.
Non è necessario lavorare di fantasia, perché Paolo ha avuto modo di esprimere in diverse occasioni la propria visuale della peccaminosità di ogni uomo, dell’abisso di tenebre che è in agguato, sempre, in ciascuno di noi. Esso è vinto soltanto dalla forza di Dio, ma potrebbe riemergere ad ogni momento se Dio non fosse continuamente vincente. E quando la forza di Dio è da noi rifiutata o trascurata, allora torna a galla ciò che Paolo chiamerà il peccato personificato.
Riflettere sulle tenebre che sono nel cuore dell’uomo non è semplicemente fare una meditazione descrittiva di qualcosa che è lontano da noi, ma è realtà che è in noi, anzi è in agguato dentro di noi. La dolorosa esperienza storica di ciascuno di noi sa che questo essere in agguato può trasformarsi, certe volte, rapidamente ed in maniera imprevista, in realtà. È questo un discorso impopolare e difficile da tradurre in linguaggio quotidiano.
Noi oscilliamo sempre fra due posizioni. Da una parte talora deploriamo la malizia dell’uomo, quando vediamo fatti sconcertanti. Intendo accennare alle violenze, a forme di crudeltà tipiche del terrorismo, la crudeltà stessa delle prigioni, con le uccisioni tra detenuti, dove si raggiunge una situazione da inferno e le persone si odiano, pur essendo sottoposte alla stessa pena. Noi stessi rimaniamo attoniti di fronte a certi omicidi barbari che succedono vicino a noi, nel tempo e nello spazio. Dall’altra parte ci culliamo nell’idea degli uomini di buona volontà: tutti hanno buona volontà, tutti sono abbastanza buoni.
Non riusciamo mai a cogliere veramente il fondo di queste due posizioni e ad accordarle tra loro: ci muoviamo un po’ in senso moralistico-deplorativo e un po’ in senso di bonaria comprensione per tutto. Spesso ci manca lo sguardo che sappia vedere il male dell’uomo, ma con misericordia, e non soltanto in maniera deplorativa e pessimistica.
Quali sono dunque le dimensioni delle tenebre e dell’oscurità di cui Paolo ci parla nelle sue lettere, riflettendo su quanto gli è accaduto nel momento della conversione?
Possiamo esprimerle secondo tre livelli diversi:
a) il livello del peccato personale;
b) il livello del peccato fondamentale;
c) il livello del peccato strutturale.

Il peccato personale
A tal proposito i testi da segnalare sono due: «Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio» (Gal 5, 19-21). Siamo al livello dei peccati singoli, personali: è un elenco impressionante dei quattordici atteggiamenti negativi dell’uomo, che Paolo trae dalla esperienza sua e del suo tempo. Una visuale molto realistica ed insieme pessimistica dell’uomo che si muove nell’ambito dei propri interessi.
Sono le opere della carne. Sono le opere che nascono nell’uomo che vive nell’ambito del proprio puro tornaconto. L’uomo si rivela allora come un essere pieno di «fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia… ». È uno sguardo drammatico sulla società e la gente del suo tempo.
L’altro testo riprende questo quadro con nuove pennellate, facendo una lista di ventuno atteggiamenti negativi: «Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, d’omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia» (Rm 1, 2831). È una descrizione che sembra persino retorica tanto è gonfiata nelle parole, ma reale, dei fatti e della società del suo tempo.
Rileggendo queste due liste ci domandiamo che tipo di descrizione è. Sono peccati sociali, cioè peccati nel comportamento verso il prossimo: tutto il modo distorto dell’uomo di agire verso il fratello, frutto di una errata cognizione di Dio, e in ultima analisi di una sbagliata concezione della vita fondata sull’egoismo.
L’Apostolo vuole dimostrare alla gente del suo tempo – che era orgogliosa tanto quanto la nostra, che pensava di avere cultura, civiltà, diritto, leggi, di essere infinitamente superiore ai barbari – che sono dei poveri uomini in preda ad ogni forma di depravazione perché cercano il proprio tornaconto personale.
Paolo fa una descrizione delle cose così come le vive e le vede, ma sa benissimo che ciò che descrive ha radice anche in lui. Secondo la parola fondamentale di Gesù nel cap. 7 di Marco ai vv. 21-22: «Dal cuore dell’uomo nascono queste cose ». E non soltanto dal cuore di un uomo che per caso è nato in situazione disgraziata, ma dal cuore di ogni uomo.
Confrontando la lista paolina con quella di Gesù, cogliamo l’insegnamento fondamentale: tutte queste cose sono dentro di noi.
Sapere che sono dentro di noi ci spinge a prenderle molto più sul serio e a riflettere con attenzione. Pensiamo per esempio a un tema che ricorre in tutte e due le liste: l’invidia. Oppure ai dissensi, divisioni, fazioni. Com’è vero che sono sentimenti che albergano nel nostro cuore! Clemente Romano scrive che Paolo è stato ucciso per invidia: non è stata la persecuzione, la cattiveria dei pagani, ma l’invidia di alcuni che, essendo suoi rivali, lo hanno denunciato. Ciò vuol dire che la comunità cristiana era soggetta a dissensi, rivalità, divisioni, fazioni che ad un certo punto si avvalevano dei pagani per le proprie manovre e le proprie vendette. C’era certamente l’autorità pagana che portava avanti la persecuzione ma non sarebbe arrivata a tanto, nei riguardi di Paolo, se i cristiani fossero stati più uniti.
La stessa morte di Pietro viene attribuita ad invidia, a delazioni e a spinte venute dall’interno del gruppo dei credenti giudeo-cristiani, o di gruppi rivali.
Pensiamo ad altre parole di quella lista: diffamatori e maldicenti, e ci accorgiamo che spesso lo siamo anche noi nel modo di parlare degli altri.
Se continuiamo a rileggere l’elenco, scopriamo come esso è vicino all’esperienza nostra di ogni giorno e che talora questi atteggiamenti emergono in maniera clamorosa, proprio perché è mancata la vigilanza e l’attenzione a cogliere il male dentro di noi e a sottoporlo continuamente alla luce di Dio. Non c’è niente di più dannoso come il venir meno alla vigilanza evangelica che è una delle virtù fondamentali.
Anche il prete che non vigila o che comincia a non vigilare più su di sé, che pensa con la forza dell’abitudine di aver trovato un certo modo di vivere, può soccombere sotto il peso di qualcuna di quelle forze negative descritta da Paolo, che emergono e si affermano in lui.
Queste opere della carne che troviamo nelle lettere dell’ Apostolo servivano da liste penitenziali sulle quali si esaminavano i catecumeni e su cui si confrontavano i cristiani nella loro esperienza di penitenza.
Questo livello del peccato personale ci tocca tutti, perché sono cose immediatamente percepibili nei loro effetti di ingiustizia e sono in noi con le loro radici, nelle propensioni negative che abbiamo.

Il peccato fondamentale
Paolo va ancora in profondità e, seguendo l’insegnamento di Gesù, denuncia il peccato fondamentale che sta alla radice di tutti gli altri: «E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno» (Rm 1, 28).
È questo uno degli aspetti del peccato radicale a cui l’uomo è inclinato e a cui ciascuno di noi è profondamente proteso e inevitabilmente attratto, se la forza di Dio non venisse in nostro soccorso.

Qual è questo peccato fondamentale?
Si può esprimerlo in tanti modi e ciascuno a partire dalla propria esperienza. È «il peccato» di cui Giovanni parla nel quarto vangelo usando quasi sempre il singolare. È, sostanzialmente, il non voler riconoscere Dio come Dio, è il peccato che sta alla radice della rivolta di Satana: non riconoscere che la nostra vita è determinata solo dall’ascolto di Dio.
La radice nascosta, e quindi non facilmente esplicitabile, di tutto ciò che è chiamato laicismo sta proprio qui. Non si tratta di una propensione cattiva, come ad esempio nella scelta del furto, dell’ingiustizia, della menzogna. Il peccato sta nel dire che non c’è bisogno dell’ascolto di Dio, che non è la Parola di Dio a determinare la vita ma, ultimamente, la nostra sola scelta.
Ecco il peccato fondamentale da cui tutto il resto deriva, al quale sono sottese tutte le mancanze personali. Per Paolo la distorsione fondamentale è quella di non riconoscere il Dio del Vangelo; . è la tendenza a negare che l’uomo è fatto per l’ascolto di Dio, a vivere della sua Parola; è il rifiuto istintivo e diabolico in sé, perché irragionevole, di lasciarsi amare e salvare da Dio e di vivere del suo amore. Questo rifiuto può assumere, come in Paolo, persino il colore dello zelo: vantandosi della sua tradizione, della sua onorabilità, egli di fatto rifiutava la misericordia di Dio come determinante per la sua vita.
È il peccato che veramente ha bisogno di essere curato nell’uomo, perché sia curata la radice delle opere della carne. Ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia, invidia non sono semplici fragilità e debolezze ma derivano da un’origine più profonda.
L’uomo è maledettamente scontento di sé e la sua scontentezza è venuta fuori in forme paradossali, abnormi. Questa scontentezza di sé è, in radice, il rifiuto di essere amato, di lasciarsi amare; il fissarsi talmente nella propria autonomia da farsene un idolo, con tutte le reazioni di tristezza o di disperazione che ne seguono e con tutte le conseguenze di crudeltà, di ingiustizia che sono l’apice della malvagità umana. Solo così possiamo spiegare i grandi massacri, anche recenti, della storia, le uccisioni spietate che sono avvenute e che avvengono in momenti di rivolgimenti politici, sociali, in cui si sfoga un’interiore disperazione dell’uomo. Chi è scontento di sé infierisce sugli altri.
Grazie a Dio solo raramente noi incontriamo nella vita questi casi limite: però li incontriamo, ci sono e fanno la storia. Ciò che è avvenuto infatti nei campi di concentramento al tempo di Hitler non si può spiegare se non con questo sorgere del demoniaco rifiuto di Dio.
Paolo parlando di questo peccato ci sconcerta perché, riferendolo a se stesso e ad ogni uomo, sottolinea che è invincibile.
« Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato.
Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. lo so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7, 14-19).
È una impotenza umana storica, misteriosa, paradossale fino a sfiorare l’assurdo. L’uomo desidera il bene ma si accorge che non lo realizza. Condizionato dalle vicende, dalle tensioni, dalle difficoltà, dalle opposizioni che deve superare, si indurisce e, indurendosi, si rinchiude in sé, si arriccia contro le difficoltà, si rinchiude nel possesso e nell’autodifesa e così rifiuta la dipendenza da Dio, dalla sua Parola e dalla sua misericordia.
Nei casi peggiori resta travolto e nega la trascendenza di Dio. Nei casi migliori, l’uomo arriva a vivere il dualismo per cui nei momenti buoni gli sembra di essere teso all’ascolto della Parola, e poi, nell’incalzare delle circostanze, specialmente avverse – amarezze, delusioni, odii, contrasti, ingiustizie che subisce e che ha voglia di ritorcere – si difende ad ogni costo, si oppone agli altri e soprattutto non fa più riferimento alla Parola di Dio.
Paolo ha toccato con quel « peccato che abita in me » la profonda miseria dell’uomo, difficile a capirsi, però sperimentabile negli effetti, nelle conseguenze, nelle situazioni storiche.

Il peccato strutturale
È la condizione dell’uomo storico per cui, di fatto, nelle durezze della vita si restringe in se stesso e, senza volerlo, diventa avido, ingiusto, difensore del proprio bene ad ogni costo. Non è evidentemente soltanto il frutto della malizia individuale ma è la condizione culturale nel senso vasto della parola, sociale, dell’uomo storico. È il peccato inserito nei sistemi di vita, nella mentalità, nelle idee ricevute; è un modo di essere e di vivere che la Scrittura chiama « mondo », in senso negativo, in cui, aldilà delle belle parole, prevale il tornaconto, il bisogno di sopraffare gli altri, di contrattaccare, di polemizzare per primo per non essere sottomesso. Questa realtà conflittuale noi non l’abbiamo scelta e potremmo, come don Abbondio, pensare di esserne a lato. Resta però il fatto che ci accorgiamo di non poterla sfuggire.
La condizione umana che lo stesso Paolo analizza in modo molto drammatico, non possiamo dire che non sia vera; se riflettiamo con attenzione vediamo che noi stessi ne siamo condizionati. Non poche delle idee ricevute come ovvie sono frutto di questa mentalità, non poche delle nostre scelte istintive sono dovute a questa mentalità. Quando esaminiamo la storia del passato e ci meravigliamo che si siano compiute alcune scelte, anche nella storia della Chiesa – come la tortura o la guerra – dovremmo capire che quella gente viveva secondo le idee ricevute. Era praticamente impossibile per loro sottrarsi ad una certa mentalità, che poteva portare a commettere ingiustizie. Fa parte del cammino storico dell’uomo il vivere sottomessi alla mentalità del proprio tempo e compiere delle scelte inavvertite che forse fra uno o due secoli appariranno sbagliate ma che oggi, istintivamente, compiamo.
Questo peccato strutturale, inserito nella vita sociale, economica e nella mentalità, Paolo lo denuncia, ed è un aspetto della realtà perché, mentre lo denuncia, afferma che nel più profondo del cuore dell’uomo c’è una mentalità opposta: l’apertura a Dio.
L’uomo è prima aperto a Dio che chiuso; però storicamente la chiusura a Dio è quella che scoppia e si manifesta in determinate circostanze.
La salvezza che Dio offre all’uomo è il ritrovare, il rivivere per grazia e per misericordia, nella pienezza dell’incontro con Cristo, la potenzialità di quell’apertura originaria che crea la mentalità del bene, la cultura positiva.
L’uomo non può riconoscere tutto questo se prima non ha la percezione del male. Tale conoscenza del male non dev’essere fonte di pessimismo sistematico; essa è un fatto che ci permette un giudizio vero sulla realtà.
Può spiegare meglio ciò che ho detto sul peccato strutturale e sul modo con cui ci avvolge, un esempio della vita di Gesù. È l’episodio che prelude alla passione: «Gesù si trovava a Betania nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l’unguento sul suo capo. Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: « Perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva benissimo vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri! « . Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: « Lascia tela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona » » (Mc 14, 3-6).
Si tratta di un giudizio su un’azione particolare. Gesù e la donna si trovano soli e coloro che li circondano, agendo per motivi istintivi, condannano quel gesto, non lo sanno capire. È un caso tipico della forza della mentalità che si comunica dall’uno all’altro e non permette l’apertura alla verità di un gesto che ha un significato profetico. Agendo con le convinzioni ordinarie, con quello che sembra il comune buon senso, tutti si mettono contro Gesù che rimane solo.
Paolo vive in sé, e con il mondo con cui si sente solidale, tutta la realtà di questa mentalità comune quando dice: «lo sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? » (Rm 7, 24). In altri termini: non c’è scampo per me di fronte alla realtà di questa situazione. E subito aggiunge: «Sia-. no rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! » (Rm 7, 25).
Nella sua cecità l’Apostolo è penetrato, fino in fondo – al di là di quello che è dato all’uomo normale nel mistero delle tenebre dell’uomo e ha così potuto comprendere la potenza della luce di Cristo e delle sue capacità di rifare un mondo nuovo.
Nell’esperienza delle tenebre ha percepito la potenza dell’illuminazione battesimale a cui, allora, si è sottoposto volentieri per mano di Anania, ricevendo nella Chiesa e dalla Chiesa la potenza di salvezza.
L’enciclica «Dives in misericordia », parlando della inquietudine e delle fonti di inquietudine, dice:
«Evidentemente un fondamentale difetto o piuttosto un complesso di difetti, anzi un meccanismo difettoso, sta alla base dell’economia contemporanea e della civiltà materialistica, la quale non consente alla famiglia umana di staccarsi da situazioni così radicalmente ingiuste» (n. Il). Il Papa applica alla realtà della famiglia umana quella incapacità che Paolo applicava all’uomo: vedo, voglio e non posso. Viene estesa ad una situazione di struttura la realtà che l’uomo sperimenta già nel fondo di sé, nel peccato strutturale che sta in lui.

Barbaglio: “Il pensare di Paolo”

dal sito:

http://www.giuseppebarbaglio.it/articoli/n%2036-boxBarbaglio.pdf

Barbaglio: “Il pensare di Paolo”

Paolo è il vero fondatore del cristianesimo? È un pastore o un teologo? Dove ha trovato gli elementi fondamentali del suo pensiero? A Damasco o nella comunità di Antiochia? Che senso hanno le sue lettere? Il suo è un pensiero sistematico, o improvvisato e casuale? È possibile rinvenire un centro del suo argomentare? Non sono poche e di poco conto le domande che si impongono ad un cristiano che desidera approfondire un corpus letterario e teologico così importante del Nuovo Testamento. A tutto ciò aiuta a rispondere un bel libro di Giuseppe Barbaglio, un profondo conoscitore della figura e del pensiero dell’apostolo delle genti.1 In una prima parte del suo lavoro egli studia le caratteristiche formali del pensare di Paolo (pp. 15-100). Esso non si presenta come un pensiero strutturato filosoficamente, ma come un pensare teologico, un « fare teologia » non in vista di una dottrina ben definita (magari incentrata sulla sola fide, gabbia ermeneutica che da secoli imprigiona i suoi scritti), ma dinamicamente inserita in un processo dialogico, una strategia argomentativa, che lo vede interloquire con varie comunità. A partire non da una tabula rasa, ma da una ricca tradizione biblico-giudaica, messa a confronto con le ricchezze culturali del mondo greco-romano e con la vivacità teologica della comunità
di Antiochia, Paolo offre un pensare teologico espresso in forma epistolare. Questa è la forma più adatta con la quale interagire con i destinatari per rispondere alle loro domande e problematiche, e per indurli a un cambiamento di posizioni. « Provocato » e « occasionale » (ma non casuale o incidentale), il pensare di Paolo è « provocatorio » e dialogico, un pensare sempre motivante e argomentante. Paolo non è il fondatore del cristianesimo, ma colui che ha elaborato un pensare ermeneutico o interpretativo. L’unità del suo fare teologia non è dovuta a un tema (sola fide, escatologia ecc.) ma ad un fattore formale, il processo con cui egli pensa Dio e Cristo. La sua è un’ermenutica del vangelo. Paolo rilegge e ridefinisce razionalmente i punti fondamentali del vangelo nelle sue valenze più varie. Esso è predicazione cristiana, cioè polarità di parola efficace e di provocato ascolto di fede; è narrazione dell’evento Cristo, incentrato sul mistero della sua morte, risurrezione e parusia; è potenza divina di salvezza attiva nella predicazione degli evangelizzatori, rivelazione della indiscriminante giustizia di Dio. Il pensare di Paolo è occasionale e non sistematico, ma sempre coerente. Cristo è l’unico ed esclusivo mediatore salvifico per tutti, su un piede di pari dignità e condizioni d’accesso. In quanto crocifisso e risorto egli rappresenta l’intera umanità, rinnovata nel mistero pasquale. L’indicativo della grazia comporta l’imperativo di una risposta da persona viva perché libera nello Spirito. Tutto si realizza secondo le Scritture e si rende presente nell’evangelizzatore conformato al Cristo. Solus Christus, sola fides, sola gratia Christi. Nella seconda parte del libro (pp. 101-318) Barbaglio illustra in concreto, a partire da numerosi blocchi letterari delle sette lettere paoline indisputate, in che modo Paolo pensa e interpreta il vangelo di Cristo. Il cantus firmus del vangelo viene modellato sulle concrete necessità e situazioni delle comunità con le quali egli interloquisce. Una piccola summa del « fare teologia » proprio di Paolo, un vangelo vivo e attuale anche per oggi. (R. Mela)
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1 Barbaglio G., Il pensare di Paolo (La Bibbia nella storia 9bis), EDB, Bologna 2004, € 24,00. Il libro si pone in ideale continuità con il poderoso
volume che lo ha preceduto, sempre dello stesso autore: La teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare (La Bibbia nella storia 9), EDB, Bologna 1999 (22001),
pp. 784, € 50,50.

LA FEDE IN S. PAOLO (per voi e per me)

questo studio è molto bello; io spesso certo testi da postare nel mio blog dal punto di vista dell’importanza dello studio, prediligendo – come forse notate – la biblica, i Padri della Chiesa, la liturgia, il mondo ebraico e la relazione di Paolo con esso ed altre cose di interesse obiettivo; anche questo studio è, ovviamente, di interesse obiettivo, ma io in questi giorni…mi sentivo non proprio confusa nella fede, ma alla ricerca – nuovamente – come spesso mi è accaduto – del fondamento di essa; spesso accade che si passa ad una fede razionale, logica, io inoltre respingo abbastanza l’emotività; come avrete vissuto anche voi, in questi ultimi tempi, ci siamo trovati « affastellatii » come sopraffatti da tanti eventi, notizie « dubbi », emozioni anche, dalla Chiesa e nella Chiesa; buoni sicuramente la maggior parte; io avevo bisogno di ritrovare la radice di quello che sto vivendo nel Signore; questo studio quindi ve lo presento come « soggettivo », come qualcosa che ho cercato per me;

 

http://www.custodia.org/IMG/pdf/La-fede-in-S.Paolo.pdf

LA FEDE IN S. PAOLO

 

1) PREMESSE

Nell’affrontare un tema paolino così importante, in vista di un approfondimentodella nostra fede cristiana, ritengo che una premessa sia necessaria. Essa si articola sutre punti fondamentali:

1º) nel trattare della fede in S. Paolo bisogna assolutamente liberarsi da alcuni presupposti di tipo polemico, che spesso hanno contrapposto i cristiani ai giudei, i cattolici ai protestanti: intendiamo pertanto trattare della fede in S. Paolo seguendo un’interpretazione esegetica piana, il più possibile aderente ai testi, in modo da favorire l’approfondimento spirituale.

2º) In base a ciò credo che il tema della fede non sia una questione teorico-astratta, di cui si possa farne a meno o a cui possiamo dare o non dare la nostra adesione, ma un messaggio esistenziale-religioso che investe la vita di ogni uomo, non un messaggio di altri tempi elaborato da Paolo, ma la testimonianza di un messaggio sempre vivo, sempre attuale che ci tocca personalmente, ci interpella, ci sollecita, ci coinvolge peruna decisione essenziale per la nostra vita di credenti e per la vita delle nostre comunitàecclesiali a cui apparteniamo.

3°) Infine, bisogna sottolineare che la fede, nonostante la grande importanza che riveste nel pensiero di Paolo, non è il « cuore », il « centro » portante della sua teologia e della sua spiritualità; il « centro » è e rimane sempre Cristo: la fede è orientata a lui e fondata su lui, e l’espressione della fede trova la sua completezza e la sua perfezione »nel Cristo Gesù ». Raramente Paolo parla di « fede in Dio » (1Tes 1,8), di « credere inDio » (Rm 4,8.17: riferiti ad Abramo; 4,24; Gal 3,6: riferito ad Abramo; Col 2,12), di »fede nell’evangelo » (Fil 1,27; 1Tes 2,4), « fede nella verità » (2Tes 2,12-13). Anche queste espressioni hanno senso pieno solo alla luce di Cristo. Paolo pensa tutto, compresa la fede, solo e sempre nella luce di Gesù Cristo, perché « lui Dio ha posto quale espiazione mediante la fede nel suo sangue » (Rom 3,25). La fede cristiana, pertanto, è fede nell’opera salvifica di Dio compiuta « nel Cristo Gesù » e quindi solo chi crede in lui è salvo.

2) « CREDERE IN CRISTO »

Tale espressione paolina è densa di significato e ci induce ad una serie di riflessionistimolanti per la nostra vita cristiana:

a) Il dinamismo della fede

Il vocabolario paolino della fede, come del resto anche quello neotestamentario, è estremamente dinamico. Ciò è già evidente nel termine « credere », dato che il verbo in se stesso indica l’azione di una persona che presta fede ad un altro, gli dà il suo assenso, si abbandona a lui e in lui. La stessa cosa avviene per il termine greco »pistis », che noi traduciamo con « fede ». Esso è nella lingua greca un sostantivo astratto di azione e quindi non indica uno stato o una situazione in cui ci si viene a trovare e in cui si rimane fermi o immobili, ma un movimento interno della persona verso qualcuno, una risposta a chi per primo ci ha interpellato, una relazione vitale con qualcuno. Una fede statica è inconcepibile per Paolo, un controsenso. Per lui la fede è movimento, avvenimento salvifico, relazione con qualcuno, vita; un « correre per afferrare Cristo, che prima l’ha afferrato » (Fil 3,12), un « correre verso la meta, per conseguire il premio di quella superna vocazione di Dio in Cristo Gesù » (Fil 3, 14), « un vivere nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20), un cominciare permezzo dello Spirito per arrivare alla perfezione del Cristo Signore (Gal 3,3; Ef 4,13). Inbreve: per Paolo la fede è vita, e « la mia vita è Cristo » (Fil 1,21).

b) Il rapporto personale di fede

La formula « in Cristo Gesù », unita a « credere » e a « fede », è stata interpretata spesso dagli esegeti come esprimente « l’oggetto della nostra fede ». Tale interpretazione è ambigua, dato che si parla di una persona, del Cristo Gesù, fondamento unico, realtà intima, vita stessa della nostra fede, nostra vita. D’altra parte, anche se possono sembrare quisquilie e ricercatezze da esegeta, non sta scritto « io credo Cristo », che al massimo indicherebbe il riconoscimento della sua esistenza, e neppure: « io credo a Cristo » (comunque cf. 2Tm 1,12) che indica il ritenere per vero ciò che egli dice e ilfidarsi di lui, ma sta scritto: « io credo in Cristo », in cui la preposizione greca eis indica sempre un movimento verso qualcuno o qualcosa, cioè un entrare in rapporto vitale e personale con il Cristo. « Credere in Cristo Gesù » significa considerare lui come il testimone verace della fede, il fondamento della fede e in conseguenza il seguire lui e le sue vie, l’essere partecipi di lui e del suo cammino verso Dio, e infine essere partecipi della sua vita divina: « Voi conoscete bene la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, ilquale si fece povero per voi, pur essendo ricco, per arricchire voi con la sua povertà » (2Cor 8,9). Di più: « credere in Cristo » significa che lo riconosco talmente esistente da entrare in rapporto di intimità e di amicizia con lui, da lasciare che lui operi in mepienamente con la sua potenza salvifica, che « Cristo viva in me e io in lui » (Gal. 2, 20). Agostino l’ha detto con la solita incisività: « Che significa dunque «credere in lui». Credendo amarlo e diventare suoi amici, credendo entrare nella sua intimità e incorporarsi nelle sue membra » (Comm. a Giov., 29,6).

c) La professione del Kerygma di fede

Tale incontro personale con il Cristo, tale « credere in Cristo Gesù » non è, però, da intendere in senso psicologico o intimistico, ma in senso storico-teologico, precisamente come accettazione di ciò che Gesù è e rappresenta per la fede cristiana, per me che ho creduto in lui e credendo sono entrato in comunione con lui. È accettazione del mistero della sua persona divino-umana: « io credo nel Figlio di Dio, nato da donna, nato sotto lalegge (Gal. 4,4), che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 1,4; 2,20), « che annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo e diventando simile agli uomini, eumiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di Croce » (Fil 2, 6-11). È accettazione della sua missione di « Cristo » con cui Dio ha riconciliato a sé il mondo (2Cor 5,19) e ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà (Ef 1,9). È accettazione soprattutto della sua morte e resurrezione, con cui egli è divenuto Signore dei morti e dei vivi (Rom 14,9; Fil 2,11): « noi crediamo che Gesù è morto e risuscitato » (1Tes 4,14). La fede diviene professione del Kerygma fondamentale dell’esistenzacristiana: « Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuocuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo » (Rom 10,9), sarai unito al mistero di Cristo: « Se dunque siamo morti con Cristo, noi crediamo che vivremo pure con lui …Pensate che siete morti al peccato e che dovete vivere per Dio in Gesù Cristo » (Rom6,8-11). La morte e la resurrezione di Gesù sono il mistero centrale della fede: sono il nostro incontro con Cristo morto e risorto per noi, l’incontro determinante e decisivodella nostra esistenza (1Cor 15,14-17). Proprio per questo, esso va proclamato con labocca e con il cuore (Rom. 10,9), anzi urlato con coraggio dinanzi a tutti: « io credo in Gesù Cristo morto e risorto per me ».

d) Aprirsi al futuro di Dio

Nella visione dinamica della fede che Paolo ci propone, tale confessione del « Cristo morto e risorto per me » investe e determina tutta l’esistenza del cristiano: il suo passato, il suo presente e soprattutto il suo futuro. La fede investe la totalità del nostro essere personale: Cristo ha salvato tutto l’uomo e tutte le dimensioni spazio-temporali della sua esistenza. Per questo, quando il cristiano professa: « io credo in Gesù Cristo », egli esprime in primo luogo una convinzione di fede sul suo passato di schiavitù al peccato, alla carne, al mondo, alla morte. Egli grida a tutti: io credo in Cristo che mi ha liberato dal peccato, da questa potenza oscura (Col 1,13), perversa e demoniaca, che afferra le profondità dell’animo umano, rendendolo schiavo dell’egoismo, della cattiveria, dell’impurità, dell’empietà (Rom 7,7-8,4; Gal 5,19-20); dalla carne e dai suoi desideri contrari agli impulsi dello Spirito (Rom 8,3-17; Gal 5,16-26); dalla legge intesa comepotenza (1Cor. 15,56) che attualizza e fa regnare il peccato nella carne (Rom 7,7-8; 8,23), commina la maledizione (Gal 3, 13), conduce alla morte (Rom 8,2); dal « mondo che sovrasta malvagio » (Gal 1,4; 6,14); dalla morte, l’ultimo nemico (1Cor 15,26). Cristo ci ha liberato, « per vivere per Dio » (Gal 2,19) e perché « la vita regni nei nostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in noi » (Rom 8,2.9-11). In tal modo, il mio presente viene investito dalla fede, divenendo determinazione del mio agire (Col 3,17.23), del mio pensare (Fil 2,1-5; 4,2; Rom 12,16), del mio sentire (Fil 2,5), del mio soffrire (Fil 1,29; Col 1,24; 2Cor 12,10), del mio gioire (Rom 15,13; Gal 5, 22; Fil 3,1; 4,4-7; 1Tes 1,6), del mio gloriarmi (1Cor 1,30; 2Cor 12,5-10), in una parola del mio vivere ed esperimentare la storia e il mondo (1Cor 3,22-23). Nella fede il mio presenteha un senso e si apre ad un compimento più grande. L’essere umano si apre al futuro di Dio: la vita diviene possibilità (Fil 1,20b), impegno (2Cor 11,22-29), superamentoincessante fino a che comparirà Cristo, vita nostra, per farci partecipi della sua gloria(Col 2,4) e « Dio sarà tutto in tutti » (1Cor 15,28).

3) FEDE E VANGELO

Si può affermare, in base a quanto si è detto, che per Paolo le fede non è altro che l’incontrarsi con il Cristo risorto da morte e il testimoniarlo nella propria vita di ognigiorno. In una parola, la fede cristiana si manifesta come accettazione profonda ed esistenziale della resurrezione di Cristo, a tal punto che Paolo può scrivere: « Se Cristo non è risorto, vana è la nostra predicazione, vana anche la nostra fede. Noi risultiamo essere falsi testimoni di Dio, perché abbiamo testimoniato di Dio che egli ha risuscitato Cristo, che invece non è risuscitato, se realmente i morti non risuscitano. Infatti, se imorti non risuscitano, neppure Cristo è risuscitato. Se Cristo non è risuscitato, non valela vostra fede e così voi siete nei vostri peccati » (1Cor 15,14). Il testo è molto ricco di contenuti: 1º) Paolo sottolinea che, se cade la professione di fede « nel Cristo morto e risorto per noi », non cade semplicemente un articolo qualsiasi della nostra fede, ma cade tutta la nostra fede, perché viene meno il fondamento su cui essa poggia; 2º) senza »Cristo morto e risorto per noi » la fede sarebbe priva di senso, perché la salvezza non sarebbe avvenuta, anzi sarebbe un’illusione, una immaginazione fuorviante, un equivoco, un mito tra tanti: « saremo i più miserabili di tutti gli uomini » (1Cor 15,19); 3º) non solo la fede cadrebbe, ma anche la predicazione, ad essa strettamente connessa, risulterebbe vana e menzognera, in quanto essa è fondamentalmente annuncio delVangelo di salvezza: « Cristo è morto e risorto per i nostri peccati ». Tale realtà è moltoimportante nell’approfondimento spirituale della nostra fede, in quanto ci introduce inalcuni suoi aspetti essenziali:

a) La fede nasce dall’ascolto

È un’idea su cui Paolo ritorna continuamente nel suo epistolario ed essa ha la stessa risonanza teologica dell’espressione deuteronomistica: « Ascolta, Israele », che introduce l’antica alleanza tra Dio e il suo popolo per la mediazione di Mosè e dei profeti. In 1Cor15,11-12, parlando del Kerigma fondamentale della fede (1Cor 15,3-8), Paolo scrive: « È questo che, tanto io che quelli, predichiamo e che voi avete creduto. Se si predica che Cristo è risuscitato da morte, come mai alcuni di voi dicono che non esiste la resurrezione da morte? ». In Gal 3,2.5: « Questo vorrei sapere da voi: lo Spirito l’avete ricevuto in virtù delle opere della Legge o in virtù dell’ascolto di fede? » e ancor più chiaramente in Rom 10,14b: « E in che modo crederanno in Colui, del quale non hanno sentito parlare? E in che modo ne sentiranno parlare, se non c’è chi predica?’ Esiste, per Paolo, un legame stretto tra predicazione e fede, tra « tradizione » che comunica il Vangelo di Gesù Cristo e la fede che nell’ascolto accoglie tale Vangelo di salvezza. Ditale legame Paolo è convintissimo. Per lui, nella parola dell’Apostolo è il Signore stessoche parla, chiama, ammaestra, introduce nel mistero salvifico di Dio, opera la salvezza (cfr 2Cor 13,3; 1Tes 4,2): « non oserei parlare se non di quello che Cristo operò permezzo mio, allo scopo di trarre i gentili all’obbedienza, sia con la parola che con leopere mediante la potenza dei miracoli e dei prodigi, in virtù dello Spirito di Dio » (Rom 15,18-19); e ai Tessalonicesi scrive: « Rendiamo continue grazie a Dio, perché avendo ricevuto da noi la Parola di Dio nella predicazione, l’accoglieste non come parola di uomini ma, come è veramente, quale Parola di Dio, che anche al presente opera inmezzo a voi che credete » (1Tess 2,13); e ai Galati, difendendo il suo apostolato: « Vi dichiaro apertamente, fratelli, che il Vangelo da me predicato non viene dall’uomo, perché io non l’ho affatto ricevuto né imparato da un uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo » (Gal 1,11). Soltanto la fede può percepire e percepisce difatto la parola di Dio nella parola dell’uomo. La fede ode e comprende che la parola disalvezza annunciata non è dell’apostolo che la comunica, ma di Dio che la pronuncia per la salvezza di tutti mediante gli intermediari umani, gli ambasciatori del suo amore: « Per Cristo dunque noi fungiamo da ambasciatori, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Per Cristo vi supplichiamo: riconciliatevi con Dio » (2Cor 5,20). La paroladell’apostolo è, pertanto, la parola di Dio, la parola di Cristo, che chiama tutti gli uominidi tutti i tempi alla salvezza (cr Ef 1,13-14).

b) La fede è accoglienza del Vangelo di salvezza

La conseguenza è chiara: chi accoglie la parola dell’apostolo, accoglie la parola di Dio, la parola di Cristo, il Vangelo di salvezza. E il Vangelo non è un insegnamento: è Gesù che parla e ammaestra l’uomo in vista del Regno di Dio, della comunione intima con il Padre. Il Vangelo non è un’etica: è Gesù che conduce l’uomo per mezzo del suo Spirito, che produce l’amore, coronamento di ogni altra virtù (Gal 5,22-23). Il Vangelo non è una salvezza misterica: è Gesù che libera, redime, salva l’uomo dalla schiavitù del peccato e in conseguenza da ogni altra schiavitù. Nel Vangelo si è manifestata e simanifesta ‘la potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede » (Rom 1,16); si disvela la giustizia di Dio, cioè l’azione salvifica di Dio in Gesù Cristo: « ora si è manifestata la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo per tutti quelli che credono » (Rom3,21). La fede, pertanto, è orientata essenzialmente al Vangelo di salvezza; è accoglienza dell’opera salvatrice, liberatrice e giustificante di Dio compiuta in Gesù Cristo; è accettare Gesù salvatore e lasciarlo operare profondamente ed esistenzialmente in noi. Nella fede Dio chiama l’uomo, lo giustifica e per mezzo di Cristo gli concede la sua grazia e lo rende da peccatore giusto e da schiavo figlio di Dio (Gal 4,3-5): « Coloro che ha chiamati, questi ha pure giustificati, coloro poi che ha giustificati, questi pure ha glorificati » (Rom 8,30).

c) La fede è obbedienza al vangelo

Ma la fede non è un semplice ascolto o un’accoglienza qualsiasi, è soprattutto obbedienza (Rom 1,5; 1,8; 16,19.26; 2Cor 10,5-6 ecc.). In italiano non si può rendere il collegamento della lingua greca tra « fede che ascolta » (akoé) e « fede che obbedisce » (hupakoé), ma il senso è chiaro: la fede è un ascolto accentuato, deciso, che comporta una sottomissione (hupo), una decisione e un impegno per Dio. La fede è una vera conversione dalla disobbedienza alla obbedienza totale e radicale per Dio. In ciò avviene un’assimilazione perfetta a Cristo, una partecipazione non solo al suo essere Figlio, ma anche ai suoi sentimenti più profondi: « Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo, il quale umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di Croce » (Fil 2,5.8). Nell’obbedienza, il cristiano si spoglia di ogni sua sicurezza e di ognialtro riferimento alle possibilità umane, e si affida totalmente a Dio. Il cristiano diviene imitatore perfetto di Gesù, seguace ben disposto ad accettare la follia della croce, « sapienza e potenza di Dio » per coloro che nella fede sono stati chiamati alla salvezza (1Cor 1,17.24-25). Gesù è il suo fondamento, la croce di Gesù la sua gloria (1Cor 1,31; Gal 6,14), la sua imitazione un’accettazione convinta di Gesù e della suaradicale obbedienza amorosa: di fronte al Crocifisso, testimone verace della fede, l’affidarsi a Dio nell’obbedienza acquista un senso di totalità e di definitività. Nella fede, infatti, « portiamo nel nostro corpo la morte di Gesù, affinché anche la vita di Gesùsia manifestata nel nostro corpo. Sempre infatti noi che viviamo siamo esposti allamorte per Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale … Avendo lo stesso spirito di fede secondo che è scritto: «Ho creduto, perciò hoparlato», anche noi crediamo e perciò parliamo, sapendo che Colui il quale risuscitò ilSignore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù… Per questo non ci scoraggiamo, maanche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno » (2Cor 4,11-18).

4) LA FEDE, FONDAMENTO DELLA VITA CRISTIANA

L’affermazione paolina: « l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno » è un’ulteriore sottolineatura del carattere dinamico della fede. Essa non è solo un atto istantaneo che introduce il credente nella vita cristiana, ma insieme l’inizio e lo sviluppo progressivo (cr Fil 1,25), « di fede in fede » (Rom 1, 17), del vivere continuamente sotto l’azione efficace e salvifica di Dio che giustifica, del nostro « essere e vivere in Cristo », del nostro « camminare nello Spirito » lasciandoci plasmare dalla sua azione di grazia, inmodo da esistere in risposta e come risposta alla sua chiamata. La fede orienta e determina tutta l’esistenza del cristiano nel suo procedere storico, tanto che non c’è alcuna dimensione del suo essere che non sia informata dalla fede, cioè dall’obbedienzaa Dio e dall’affidarsi totalmente alla sua grazia. La fede è così il fondamento e « la misura » (Rom 12,3) del vivere, nel continuo confronto con le varie situazioni concrete, in modo da realizzare in essa la nostra vera umanità e il nostro essere figli di Dio.

a) Il coraggio della fede

Pascal, riflettendo proprio sulla fede, l’ha definita « un salto nel buio », una « scommessa » per Dio. Decidersi per qualcosa o per qualcuno richiede coraggio. Ma ciò può considerarsi valido per gli inizi della fede, quando l’uomo, superata una certa resistenza mentale ed esistenziale, decide di affrontare la meravigliosa avventura con Dio. Parlare, invece, di « coraggio della fede » per chi ha già scelto di « vivere nell’obbedienza della fede » può sembrare fuori luogo. Eppure non è così: per vivereogni giorno la propria fede in Dio, in Cristo ci vuole coraggio. Esso è richiesto dalla stessa struttura dinamica della fede, in quanto per il credente ogni momento della sua vita è una « decisione per Dio ». Una decisione dell’intelligenza, della volontà, del cuore, costantemente diretti e orientati verso Dio come l’ago della bussola verso il Nord. PerPaolo, tale orientamento è possibile, solo se il cristiano si lascia penetrare e guidaredallo Spirito, la forza meravigliosa e prodigiosa donata al credente (cfr Gal 3,2.5) comefonte della nuova vita e come norma costante e dinamica del suo camminare: « Quantiinfatti si lasciano condurre dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio » (Rom 8,14). « Quelli che sono secondo lo Spirito, aspirano alle cose dello Spirito … e ciò a cui tendelo Spirito è vita e pace … è vita per la giustizia » (Rom 8,5-9). Lo Spirito Santo è pertanto il coraggio della decisione del credente, in quanto lo spinge all’intelligenza della fede nel suo vivere quotidiano: « Noi non abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, affinché conosciamo le cose che Dio ci ha gratuitamente largite; e di queste parliamo, non con parole suggerite dalla sapienza umana, ma con quelle insegnate dallo Spirito, adattando a uomini spirituali dottrine spirituali » (1Cor 2,12-13); spinge la volontà del credente a camminare in maniera degnadi Cristo: « Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni econcupiscenze. Se viviamo per opera dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito » (Gal 5, 24-25), per produrre « il frutto dello Spirito, l’amore » (Gal 5,22-23); spinge il suo cuore ad elevare il grido della sua figliolanza divina: « Ora, poiché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori per gridare: Abba! Padre! » (Gal 4,6). In tale visione, lo Spirito Santo non è soltanto un eccellente maestro di vita, ma anche un operatore e un donatore di vita: è il coraggio della nostra fede, lascintilla vitale e potente che fa scattare la nostra decisione per Dio e per Cristo. Grazieallo Spirito, il credente nasce, cresce e arriva all’uomo perfetto, alla misura dellapienezza della maturità di Cristo » (Ef 4,13).

b) Fede, sacramenti e comunità

La nascita e la crescita del credente per Paolo avvengono nei sacramenti, in particolar modo nel battesimo e nella Eucaristia, sacramenti che presuppongono già » l’accoglienza della parola », della fede (cfr 1Cor 10,1-4). Fede e sacramenti sono così intimamente legati: essi significano, annunciano e operano la piena affermazione della fede, cioè l’annuncio e l’accoglienza della morte e resurrezione di Cristo in vista delnostro « vivere per Dio ». Ciò è evidente nel battesimo, per mezzo del quale il credente entra con Cristo nella sua morte, per morire definitivamente al peccato, e partecipa allavita del Risorto: « Forse ignorate che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, nellamorte di lui siamo stati battezzati? Per mezzo del battesimo siamo stati dunqueseppelliti con lui nella morte, affinché, come Cristo risuscitò dai morti per la gloria delPadre, così anche noi camminiamo in novità di vita » (Rom 6,3-4; cfr anche Rom 6,511). Si noti, in questo ricchissimo testo, l’insistenza di Paolo sulla morte e resurrezionedi Cristo, nucleo centrale della nostra fede, e alla luce di esso l’insistenza ancora sullaconseguenza, sempre connessa con la fede, del « morire e vivere con Cristo », del »camminare in Cristo », del « vivere per Dio in Cristo ». Nel battesimo, infatti, il credente « si riveste di Cristo » e diviene « uno in Cristo » (Gal 3,27-28) per vivere da « figlio di

Dio » (cfr Gal 3,26-4,7). Una possibilità nuova nasce per il cristiano: muore all’esistenza schiava del peccato, vive nella fede la vita di libertà dei figli di Dio in Cristo e nello Spirito. E non basta: proprio perché ogni credente diviene « uno nel Cristo » in virtù dello Spirito Santo, egli è inserito nel « corpo di Cristo » che è la Chiesa (Col 1,18): « un solo Corpo e un solo Spirito, così come anche siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. Uno solo il Signore, una la fede, uno il battesimo » (Ef 4,4-6). Un cristiano che vive isolato nella propria fede è inconcepibile per Paolo, sarebbe la negazione dell’ »essere e vivere in Cristo »: « In realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo » (1Cor 12,13). Simile a quello descritto è ilrapporto dell’Eucaristia, sacramento della crescita del credente, con la fede. In 1Cor 11,23-26, Paolo trasmette un « insegnamento del Signore », che suscita e alimenta la fede, attraverso la parola dell’apostolo: « Io infatti ho ricevuto dal Signoreciò che vi ho trasmesso, cioè che il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito presedel pane e, avendo reso grazie, lo spezzò e disse: «questo calice è la nuova alleanza nelmio sangue; fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me». Tutte le volte infatti che mangerete di questo pane e berrete di questo calice, voi annunciate la mortedel Signore fino a che egli ritorni » (1Cor 11,23-26). Tre osservazioni importanti per ciòche concerne il nostro tema: 1º) l’eucaristia è « annuncio della morte del Signore fino ache egli ritorni », in altri termini del Kerygma fondamentale della nostra fede, cioè della morte, resurrezione, ritorno del Signore esaltato e glorioso; 2º) è partecipazione alCorpo e al Sangue di Cristo, cioè alla sua vita di Signore, morto, risorto ed esaltato pernoi a gloria di Dio; 3º) è celebrato « in memoria di Gesù », che non è una semplice evocazione del mistero della sua morte e resurrezione, ma una memoria creatrice evivificante, che ci fa crescere in lui nell’esistenza quotidiana, in attesa della sua venuta, per renderci partecipi pienamente della sua vita divina. D’altra parte, in 1Cor 10,16-17, anche l’eucaristia non stabilisce solo un rapporto individuale tra il credente e Cristo, maanche un rapporto tra i credenti fra loro quale membra dell’unico Corpo di Cristo: « Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse una comunione al sangue di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infattipartecipiamo dell’unico pane » (1Cor 10,1617). Così nella fede il Cristo, che si fa nostrocibo e nostra bevanda, ci assorbe in sé, rendendoci « uno in lui », e ci associa ai fratelli, formando di noi un solo corpo, la Chiesa, comunione di credenti.

c) Fede e morale

Si è fatto spesso cenno al rapporto intimo che intercorre tra fede e agire credente. Seriprendiamo il discorso non è per ripetere quanto già si è detto, ma per sottolineare qualche nuovo aspetto che emerge da tale rapporto e che può essere utile per l’intelligenza spirituale della fede. In primo luogo, Paolo caratterizza il rapporto « fede morale » come un « rimanere saldi nella fede, nel Signore » (cfr 1Cor 16,13; Gal 5,1; Fil 1,27; 4,1; 1Tes 3,8). Tale espressione paolina non deve indurci a pensare ad una concezione statica della fede. La fede, per Paolo, è e rimane una realtà decisamente dinamica. Proprio per questo, il « rimanere saldi nella fede » trova un’esemplificazione pratica e dottrinale nell’esempio di Abramo. Egli rimane fedele a Dio nel suo essere enel suo operare e Dio glielo computa a giustizia (Rom 4,3; Gal 3,6). Egli « rimane saldo in Dio » nella concretezza della sua vita. In tal modo, il « rimanere saldo » non è una semplice attesa della « speranza della giustificazione » (Gal 5,5), anche se in virtù della fede, ma una concreta e attiva realizzazione di questa giustificazione accettando nella propria vita il piano salvifico della promessa di Dio in Cristo, in una fede agente permezzo della carità (Gal 5,6), in un cammino di fede amorosa che produce gioia, pace, benignità, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza (Gal 5,22-23), in un progressivo e deciso morire alle esigenze della carne (Gal 5,17.24-25) per vivere per Dio nello Spirito. Pertanto, il « rimanere saldi nella fede » si può definire come un’esistenzafondata sulla fede in Cristo, vissuta nella speranza dell’adempimento della promessa di Dio per mezzo dello Spirito, attuata nell’amore secondo la radicalità di Dio espressa nella « legge di Cristo » (Gal 6,2). Con tale espressione Paolo non vuole affatto ristabilire la legge o la giustificazione in virtù delle opere della legge. La giustificazione, la salvezza, la libertà vengono concesse da Dio solo in virtù della fede in Cristo Gesù, ma tale fede non è mai disincarnata dalla realtà. Essa opera (1Tes 1,3; 2Tes 1,11) e spinge il credente adoperare nella carità, unica legge del cristiano. Questi non è individuo senza legge, un fuorilegge, ma uno che ha accettato e lascia operare in sé « la legge di Cristo », meglio: « la legge che è Cristo ». Non un principio esterno di moralità, ma una persona vivente che lo rende « conforme a sé » (cfr 1Cor 9,21) per mezzo della « legge dello Spirito di vita nel Cristo Gesù ». Non si tratta, pertanto, di rimpiazzare una legge con un’altra, né dicompiere questa o quell’altra opera per avere la salvezza, ma di vivere con radicalità, dietro l’esempio di Cristo e sotto la guida dello Spirito, la legge dell’amore, « la legge di Cristo », che per primo « ci ha amato e ha dato se stesso per noi » (Gal 2,20). « L’opera della fede » (1Tes 1,3; 2Tes 1,11) è l’amore che la anima. Paolo lo afferma chiaramente in Gal 5,6: « ciò che conta è la fede operante/se opera per mezzo della carità ». Il principio essenziale della vita cristiana non cambia: è la fede. Ma non unafede qualsiasi o una fede astratta, ma la fede che qualifica se stessa operando per mezzo dell’amore. Così, fede e amore, anche se non si debbono confondere tra loro, non possono essere separate: la fede fonda la nostra esistenza in Cristo, l’amore la rendeviva per la potenza dello Spirito santo, sotto la cui guida diveniamo fecondi di ogni opera buona e attendiamo la pienezza della giustificazione di Dio.  

Paolo era un vero fariseo (Il rapporto con la legge)

dal sito:

http://www.stpauls.it/vita/0909vp/0909vp32.htm

Il rapporto con la legge

Paolo era un vero fariseo

di PAOLO DE BENEDETTI 
    
Tra gli articoli sull’Apostolo ci mancava il punto di vista di un cristiano di radici e fedeltà ebraiche come De Benedetti, che ci parla dell’autocoscienza ebraica di Paolo, dell’adesione alla corrente farisaica e della sua tensione messianica. 

Che Paolo fosse e si sentisse ebreo, appare da diverse sue affermazioni, a cominciare dalla dichiarazione che, secondo Atti 22,3, fece sui gradini del tempio al momento dell’arresto: «Fratelli, io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi». E poco dopo, davanti al sinedrio: «Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti» (Atti 23,6). Da queste due dichiarazioni emerge non soltanto la sua autocoscienza ebraica, ma anche la sua adesione alla corrente farisaica (in cui, secondo alcuni studiosi moderni, si era formato Gesù): Gamaliele il Vecchio era nipote di Hillel, il grande maestro che, a differenza del contemporaneo Shammaj, era noto per la sua dolcezza e moderazione.
La tradizione farisaica non era compatta e omogenea. Una citazione talmudica distingue sette tipi di farisei: «Il fariseo shikmi (che, come il biblico personaggio Sichem, si converte per opportunismo); il fariseo niqpi (che cammina a piccoli passi per ostentare umiltà); il fariseo kizai (che per non vedere le donne cammina a testa bassa e quindi picchia contro i muri e si copre di sangue); il fariseo pestello (che cammina curvo come il pestello nel mortaio); il fariseo che grida sempre (qual è il mio dovere perché io lo possa compiere?); il fariseo per amore e il fariseo per timore» (Talmud babilonese, Sotah 22b).
Ma che cosa dice la Scrittura a proposito dei precetti? «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme perché tu viva» (Dt 30,15-16). Ascoltando tali precetti – dopo la rivelazione sinaitica – il popolo disse a Mosè: «Tutto ciò che il Signore ha parlato, eseguiremo e ascolteremo» (Es 24,7). Dove si deve notare la precedenza dell’ »eseguire » sull’ »ascoltare », della prassi sulla riflessione.

Il rapporto di Paolo con la legge

Qual è la posizione di Paolo sui precetti? «Quelli che si richiamano alle opere della legge, stanno sotto la maledizione [...] e che nessuno possa giustificarsi davanti a Dio per la legge, risulta dal fatto che il giusto vivrà in virtù della fede [...]. Cristo ci ha salvati dalla maledizione della legge» (Gal 3,10-11.13). A questa e altre numerose negazioni della legge, Paolo alterna valutazioni di altro senso (per esempio in Rm 7,7.14-16). Tutto ciò deriva, a mio parere, da un’esperienza giovanile turbata e forse traumatica dell’osservanza dei precetti, come quella esemplificata nella citazione talmudica proposta sopra. Mi pare evidente che nella sua giovanile presenza farisaica il rapporto di Paolo con la legge non sia stato quello del « fariseo per amore ».
La sua colpa (che ha avuto conseguenze gravissime nelle interpretazioni cristiane dell’ebraismo) sta nell’aver generalizzato ed esclusivizzato il modello del fariseo kizai, e nell’aver ignorato una tradizione orale che insiste su quello che potremmo chiamare il significato sacramentale del precetto: il precetto, come il sacramento, non ha il suo significato nell’atto o nella materia prescritti, ma nella « provenienza ». Ossia: il precetto, come il sacramento, è un memoriale, una memoria attiva ed efficace, della volontà di Dio. Quando mi astengo, per esempio, da cibi proibiti, il vero senso del precetto è che io mi ricordo di Dio. Mi sia consentito riprendere in proposito quanto ho scritto nella mia Introduzione al giudaismo (Morcelliana 1999, pp. 74 -75). La presenza,l’incarnazione della volontà di Dio – potremmo dire di Dio in quanto volontà – è la radice biblica della halakhà, « norma ». Come afferma E. Levinas, la halakhà è un accesso all’intellettuale – direi alla conoscenza di Dio – a partire dall’obbedienza.
Leggiamo uno dei precetti biblici più incompresi dai non ebrei: «Parla ai figli di Israele e di’ loro che si facciano delle frange agli angoli delle loro vesti, per tutte le loro generazioni, e mettano alla frangia di ogni angolo un filo di porpora azzurra. E della frangia avverrà che quando la guarderete vi ricorderete di tutti i comandi del Signore, e li eseguirete, e non devierete dietro il vostro cuore e dietro i vostri occhi, al seguito dei quali vi siete prostituiti» (Nm 15,38-39). Se Paolo non avesse sofferto una situazione psicologica disturbata come quella del fariseo kizai, avrebbe compreso che i due versetti sono il cuore della Torà, perché contengono tre elementi assolutamente fondamentali: un comando di Dio, un comando spoglio di senso etico, e un collegamento del comando al ricordo. Potremmo aggiungere: al ricordo di Dio come voce. Proprio perché il valore dei precetti sta nella provenienza, si capisce quel detto midrashico secondo cui «non bisogna soffermarsi a ponderare sul valore dei precetti».
Il grande rabbi Jochanan ben Zakkaj, contemporaneo di Paolo, diceva: «Né il morto contamina né l’acqua purifica [che sono due principi della Torà] ma è il decreto del Re dei re, come dice il Santo benedetto sia: « Ho decretato i miei decreti e ho prescritto le mie prescrizioni, né l’uomo può violare il mio decreto »» (Midrash Rabbà a Numeri 19,8).
E due secoli dopo Rav – altro grande maestro della tradizione orale – diceva a proposito delle regole di macellazione rituale: «Forse importa al Santo, benedetto sia, che chi scanna l’animale lo colpisca al collo o lo colpisca alla nuca? Così, i precetti non sono stati dati se non allo scopo di purificare le creature» (Midrash Rabbà 6,2). Questi precetti « punteggiano » l’esistenza quotidiana, indipendentemente dall’eventuale formazione teologica del singolo: potremmo dire perciò che in un certo senso sono un modo che Dio ha di arrivare all’uomo comune. Ecco perché è stato affermato che Dio sta nel precetto (e, aggiungiamo noi, non soltanto nella morale).
La posizione, o meglio l’alternanza di posizioni di Paolo sui precetti (che, lo ripetiamo, è responsabile di gravissimi fraintendimenti dell’ebraismo da parte dei cristiani) è tuttavia, paradossalmente, un fattore intra-giudaico. Infatti il giudaismo si è sempre nutrito di discussioni anche violente, di divergenze profonde, come quelle famose, nel primo secolo, tra la scuola di Hillel e quella di Shammaj. Se i cristiani leggessero più criticamente le discordanti asserzioni di Paolo sui precetti, forse anch’essi, come i discepoli dei due maestri, sentirebbero una voce dal cielo che afferma: «Queste e quelle sono parole del Dio vivente». Ma ci vuole ancora pazienza e libertà.

La sua tensione messianica

Se l’ebraicità di Paolo emerge anche dalle sue ossessioni, c’è un altro elemento ebraico del pensiero paolino, che lo pone tra le più grandi – se non la più grande – personalità del Nuovo Testamento. Mi riferisco alla sua tensione messianica, tipica del medio giudaismo e radice perenne del cristianesimo. Essa trova il suo culmine in un passo della lettera ai Romani che vorrei fosse riletto da ogni ebreo e da ogni cristiano ogni giorno: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa, e nutre la speranza di essere liberata dalla corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati» (Romani 8,19-24).
E non dimentichiamo che questa è anche la speranza messianica di Dio.

Paolo De Benedetti  

LA FEDE IN S. PAOLO (da custodia Terra Santa)

dal sito:

http://www.custodia.org/IMG/pdf/La-fede-in-S.Paolo.pdf

LA FEDE IN S. PAOLO

 

1) PREMESSE

Nell’affrontare un tema paolino così importante, in vista di un approfondimento della nostra fede cristiana, ritengo che una premessa sia necessaria. Essa si articola su tre punti fondamentali:

1º) nel trattare della fede in S. Paolo bisogna assolutamente liberarsi da alcuni presupposti di tipo polemico, che spesso hanno contrapposto i cristiani ai giudei, i cattolici ai protestanti: intendiamo pertanto trattare della fede in S. Paolo seguendo un’interpretazione esegetica piana, il più possibile aderente ai testi, in modo da favorire l’approfondimento spirituale.

2º) In base a ciò credo che il tema della fede non sia una questione teorico-astratta, di cui si possa farne a meno o a cui possiamo dare o non dare la nostra adesione, ma un messaggio esistenziale-religioso che investe la vita di ogni uomo, non un messaggio di altri tempi elaborato da Paolo, ma la testimonianza di un messaggio sempre vivo, sempre attuale che ci tocca personalmente, ci interpella, ci sollecita, ci coinvolge per una decisione essenziale per la nostra vita di credenti e per la vita delle nostre comunità ecclesiali a cui apparteniamo.

3°) Infine, bisogna sottolineare che la fede, nonostante la grande importanza che riveste nel pensiero di Paolo, non è il « cuore », il « centro » portante della sua teologia e della sua spiritualità; il « centro » è e rimane sempre Cristo: la fede è orientata a lui e fondata su lui, e l’espressione della fede trova la sua completezza e la sua perfezione « nel Cristo Gesù ». Raramente Paolo parla di « fede in Dio » (1Tes 1,8), di « credere in Dio » (Rm 4,8.17: riferiti ad Abramo; 4,24; Gal 3,6: riferito ad Abramo; Col 2,12), di « fede nell’evangelo » (Fil 1,27; 1Tes 2,4), « fede nella verità » (2Tes 2,12-13). Anche queste espressioni hanno senso pieno solo alla luce di Cristo. Paolo pensa tutto, compresa la fede, solo e sempre nella luce di Gesù Cristo, perché « lui Dio ha posto quale espiazione mediante la fede nel suo sangue » (Rom 3,25). La fede cristiana, pertanto, è fede nell’opera salvifica di Dio compiuta « nel Cristo Gesù » e quindi solo chi crede in lui è salvo.

2) « CREDERE IN CRISTO »

Tale espressione paolina è densa di significato e ci induce ad una serie di riflessioni stimolanti per la nostra vita cristiana:

a) Il dinamismo della fede

Il vocabolario paolino della fede, come del resto anche quello neotestamentario, è estremamente dinamico. Ciò è già evidente nel termine « credere », dato che il verbo in se stesso indica l’azione di una persona che presta fede ad un altro, gli dà il suo assenso, si abbandona a lui e in lui. La stessa cosa avviene per il termine greco « pistis », che noi traduciamo con « fede ». Esso è nella lingua greca un sostantivo astratto di azione e quindi non indica uno stato o una situazione in cui ci si viene a trovare e in cui si rimane fermi o immobili, ma un movimento interno della persona verso qualcuno, una risposta a chi per primo ci ha interpellato, una relazione vitale con qualcuno. Una fede statica è inconcepibile per Paolo, un controsenso. Per lui la fede è movimento, avvenimento salvifico, relazione con qualcuno, vita; un « correre per afferrare Cristo, che prima l’ha afferrato » (Fil 3,12), un « correre verso la meta, per conseguire il premio di quella superna vocazione di Dio in Cristo Gesù » (Fil 3, 14), « un vivere nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20), un cominciare per mezzo dello Spirito per arrivare alla perfezione del Cristo Signore (Gal 3,3; Ef 4,13). In breve: per Paolo la fede è vita, e « la mia vita è Cristo » (Fil 1,21).

b) Il rapporto personale di fede

La formula « in Cristo Gesù », unita a « credere » e a « fede », è stata interpretata spesso dagli esegeti come esprimente « l’oggetto della nostra fede ». Tale interpretazione è ambigua, dato che si parla di una persona, del Cristo Gesù, fondamento unico, realtà intima, vita stessa della nostra fede, nostra vita. D’altra parte, anche se possono sembrare quisquilie e ricercatezze da esegeta, non sta scritto « io credo Cristo », che al massimo indicherebbe il riconoscimento della sua esistenza, e neppure: « io credo a Cristo » (comunque cf. 2Tm 1,12) che indica il ritenere per vero ciò che egli dice e il fidarsi di lui, ma sta scritto: « io credo in Cristo », in cui la preposizione greca eis indica sempre un movimento verso qualcuno o qualcosa, cioè un entrare in rapporto vitale e personale con il Cristo. « Credere in Cristo Gesù » significa considerare lui come il testimone verace della fede, il fondamento della fede e in conseguenza il seguire lui e le sue vie, l’essere partecipi di lui e del suo cammino verso Dio, e infine essere partecipi della sua vita divina: « Voi conoscete bene la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, il quale si fece povero per voi, pur essendo ricco, per arricchire voi con la sua povertà » (2Cor 8,9). Di più: « credere in Cristo » significa che lo riconosco talmente esistente da entrare in rapporto di intimità e di amicizia con lui, da lasciare che lui operi in me pienamente con la sua potenza salvifica, che « Cristo viva in me e io in lui » (Gal. 2, 20). Agostino l’ha detto con la solita incisività: « Che significa dunque «credere in lui». Credendo amarlo e diventare suoi amici, credendo entrare nella sua intimità e incorporarsi nelle sue membra » (Comm. a Giov., 29,6).

c) La professione del Kerygma di fede

Tale incontro personale con il Cristo, tale « credere in Cristo Gesù » non è, però, da intendere in senso psicologico o intimistico, ma in senso storico-teologico, precisamente come accettazione di ciò che Gesù è e rappresenta per la fede cristiana, per me che ho creduto in lui e credendo sono entrato in comunione con lui. È accettazione del mistero della sua persona divino-umana: « io credo nel Figlio di Dio, nato da donna, nato sotto la legge (Gal. 4,4), che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 1,4; 2,20), « che annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo e diventando simile agli uomini, e umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di Croce » (Fil 2, 6-11). È accettazione della sua missione di « Cristo » con cui Dio ha riconciliato a sé il mondo (2Cor 5,19) e ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà (Ef 1,9). È accettazione soprattutto della sua morte e resurrezione, con cui egli è divenuto Signore dei morti e dei vivi (Rom 14,9; Fil 2,11): « noi crediamo che Gesù è morto e risuscitato » 1Tes 4,14). La fede diviene professione del Kerygma fondamentale dell’esistenza cristiana: « Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo » (Rom 10,9), sarai unito al mistero di Cristo: « Se dunque siamo morti con Cristo, noi crediamo che vivremo pure con lui … Pensate che siete morti al peccato e che dovete vivere per Dio in Gesù Cristo » (Rom 6,8-11). La morte e la resurrezione di Gesù sono il mistero centrale della fede: sono il nostro incontro con Cristo morto e risorto per noi, l’incontro determinante e decisivo della nostra esistenza (1Cor 15,14-17). Proprio per questo, esso va proclamato con la bocca e con il cuore (Rom. 10,9), anzi urlato con coraggio dinanzi a tutti: « io credo in Gesù Cristo morto e risorto per me ».

d) Aprirsi al futuro di Dio

Nella visione dinamica della fede che Paolo ci propone, tale confessione del « Cristo morto e risorto per me » investe e determina tutta l’esistenza del cristiano: il suo passato, il suo presente e soprattutto il suo futuro. La fede investe la totalità del nostro essere personale: Cristo ha salvato tutto l’uomo e tutte le dimensioni spazio-temporali della sua esistenza. Per questo, quando il cristiano professa: « io credo in Gesù Cristo », egli esprime in primo luogo una convinzione di fede sul suo passato di schiavitù al peccato, alla carne, al mondo, alla morte. Egli grida a tutti: io credo in Cristo che mi ha liberato dal peccato, da questa potenza oscura (Col 1,13), perversa e demoniaca, che afferra le profondità dell’animo umano, rendendolo schiavo dell’egoismo, della cattiveria, dell’impurità, dell’empietà (Rom 7,7-8,4; Gal 5,19-20); dalla carne e dai suoi desideri contrari agli impulsi dello Spirito (Rom 8,3-17; Gal 5,16-26); dalla legge intesa come potenza (1Cor. 15,56) che attualizza e fa regnare il peccato nella carne (Rom 7,7-8; 8,2-3), commina la maledizione (Gal 3, 13), conduce alla morte (Rom 8,2); dal « mondo che sovrasta malvagio » (Gal 1,4; 6,14); dalla morte, l’ultimo nemico (1Cor 15,26). Cristo ci ha liberato, « per vivere per Dio » (Gal 2,19) e perché « la vita regni nei nostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in noi » (Rom 8,2.9-11). In tal modo, il mio Col 3,17.23), del mio pensare (Fil 2,1-5; 4,2; Rom 12,16), del mio sentire (Fil 2,5), del mio soffrire (Fil 1,29; Col 1,24; 2Cor 12,10), del mio gioire (Rom 15,13; Gal 5, 22; Fil 3,1; 4,4-7; 1Tes 1,6), del mio gloriarmi (1Cor 1,30; 2Cor 12,5-10), in una parola del mio vivere ed esperimentare la storia e il mondo (1Cor 3,22-23). Nella fede il mio presente ha un senso e si apre ad un compimento più grande. L’essere umano si apre al futuro di Dio : la vita diviene possibilità (Fil 1,20b), impegno (2Cor 11,22-29), superamento incessante fino a che comparirà Cristo, vita nostra, per farci partecipi della sua gloria (Col 2,4) e « Dio sarà tutto in tutti » (1Cor 15,28).

3) FEDE E VANGELO

Si può affermare, in base a quanto si è detto, che per Paolo le fede non è altro che l’incontrarsi con il Cristo risorto da morte e il testimoniarlo nella propria vita di ogni giorno. In una parola, la fede cristiana si manifesta come accettazione profonda ed esistenziale della resurrezione di Cristo , a tal punto che Paolo può scrivere: « Se Cristo non è risorto, vana è la nostra predicazione, vana anche la nostra fede. Noi risultiamo essere falsi testimoni di Dio, perché abbiamo testimoniato di Dio che egli ha risuscitato Cristo, che invece non è risuscitato, se realmente i morti non risuscitano. Infatti, se i morti non risuscitano, neppure Cristo è risuscitato. Se Cristo non è risuscitato, non vale la vostra fede e così voi siete nei vostri peccati » (1Cor 15,14). Il testo è molto ricco di contenuti: 1º) Paolo sottolinea che, se cade la professione di fede « nel Cristo morto e risorto per noi », non cade semplicemente un articolo qualsiasi della nostra fede, ma cade tutta la nostra fede, perché viene meno il fondamento su cui essa poggia; 2º) senza « Cristo morto e risorto per noi » la fede sarebbe priva di senso, perché la salvezza non sarebbe avvenuta, anzi sarebbe un’illusione, una immaginazione fuorviante, un equivoco, un mito tra tanti: « saremo i più miserabili di tutti gli uomini » (1Cor 15,19); 3º) non solo la fede cadrebbe, ma anche la predicazione, ad essa strettamente connessa, risulterebbe vana e menzognera, in quanto essa è fondamentalmente annuncio del Vangelo di salvezza: « Cristo è morto e risorto per i nostri peccati ». Tale realtà è molto importante nell’approfondimento spirituale della nostra fede, in quanto ci introduce in alcuni suoi aspetti essenziali:

a) La fede nasce dall’ascolto

È un’idea su cui Paolo ritorna continuamente nel suo epistolario ed essa ha la stessa risonanza teologica dell’espressione deuteronomistica: « Ascolta, Israele », che introduce l’antica alleanza tra Dio e il suo popolo per la mediazione di Mosè e dei profeti. In 1Cor 15,11-12, parlando del Kerigma fondamentale della fede (1Cor 15,3-8), Paolo scrive: « È questo che, tanto io che quelli, predichiamo e che voi avete creduto. Se si predica che Cristo è risuscitato da morte, come mai alcuni di voi dicono che non esiste la resurrezione da morte? ». In Gal 3,2.5: « Questo vorrei sapere da voi: lo Spirito l’avete ricevuto in virtù delle opere della Legge o in virtù dell’ascolto di fede? » e ancor più chiaramente in Rom 10,14b: « E in che modo crederanno in Colui, del quale non hanno sentito parlare? E in che modo ne sentiranno parlare, se non c’è chi predica?’ Esiste, per Paolo, un legame stretto tra predicazione e fede, tra « tradizione » che comunica il Vangelo di Gesù Cristo e la fede che nell’ascolto accoglie tale Vangelo di salvezza. Di tale legame Paolo è convintissimo. Per lui, nella parola dell’Apostolo è il Signore stesso che parla, chiama, ammaestra, introduce nel mistero salvifico di Dio, opera la salvezza (cfr 2Cor 13,3; 1Tes 4,2): « non oserei parlare se non di quello che Cristo operò per mezzo mio, allo scopo di trarre i gentili all’obbedienza, sia con la parola che con le opere mediante la potenza dei miracoli e dei prodigi, in virtù dello Spirito di Dio » (Rom 15,18-19); e ai Tessalonicesi scrive: « Rendiamo continue grazie a Dio, perché avendo ricevuto da noi la Parola di Dio nella predicazione, l’accoglieste non come parola di uomini ma, come è veramente, quale Parola di Dio, che anche al presente opera in mezzo a voi che credete » (1Tess 2,13); e ai Galati, difendendo il suo apostolato: « Vi dichiaro apertamente, fratelli, che il Vangelo da me predicato non viene dall’uomo, perché io non l’ho affatto ricevuto né imparato da un uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo » (Gal 1,11). Soltanto la fede può percepire e percepisce di fatto la parola di Dio nella parola dell’uomo. La fede ode e comprende che la parola di salvezza annunciata non è dell’apostolo che la comunica, ma di Dio che la pronuncia per la salvezza di tutti mediante gli intermediari umani, gli ambasciatori del suo amore: « Per Cristo dunque noi fungiamo da ambasciatori, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Per Cristo vi supplichiamo: riconciliatevi con Dio » (2Cor 5,20). La parola dell’apostolo è, pertanto, la parola di Dio, la parola di Cristo, che chiama tutti gli uomini di tutti i tempi alla salvezza (cr Ef 1,13-14).

b) La fede è accoglienza del Vangelo di salvezza

La conseguenza è chiara: chi accoglie la parola dell’apostolo, accoglie la parola di Dio, la parola di Cristo, il Vangelo di salvezza. E il Vangelo non è un insegnamento: è Gesù che parla e ammaestra l’uomo in vista del Regno di Dio, della comunione intima con il Padre. Il Vangelo non è un’etica: è Gesù che conduce l’uomo per mezzo del suo Spirito, che produce l’amore, coronamento di ogni altra virtù (Gal 5,22-23). Il Vangelo non è una salvezza misterica: è Gesù che libera, redime, salva l’uomo dalla schiavitù del peccato e in conseguenza da ogni altra schiavitù. Nel Vangelo si è manifestata e si manifesta ‘la potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede » (Rom 1,16); si disvela la giustizia di Dio, cioè l’azione salvifica di Dio in Gesù Cristo: « ora si è manifestata la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo per tutti quelli che credono » (Rom 3,21). La fede, pertanto, è orientata essenzialmente al Vangelo di salvezza; è accoglienza dell’opera salvatrice, liberatrice e giustificante di Dio compiuta in Gesù Cristo; è accettare Gesù salvatore e lasciarlo operare profondamente ed esistenzialmente in noi. Nella fede Dio chiama l’uomo, lo giustifica e per mezzo di Cristo gli concede la sua grazia e lo rende da peccatore giusto e da schiavo figlio di Dio (Gal 4,3-5): « Coloro che ha chiamati, questi ha pure giustificati, coloro poi che ha giustificati, questi pure ha glorificati » (Rom 8,30).

c) La fede è obbedienza al vangelo

Ma la fede non è un semplice ascolto o un’accoglienza qualsiasi, è soprattutto obbedienza (Rom 1,5; 1,8; 16,19.26; 2Cor 10,5-6 ecc.). In italiano non si può rendere il collegamento della lingua greca tra « fede che ascolta » (akoé) e « fede che obbedisce » (hupakoé), ma il senso è chiaro: la fede è un ascolto accentuato, deciso, che comporta una sottomissione (hupo), una decisione e un impegno per Dio. La fede è una vera conversione dalla disobbedienza alla obbedienza totale e radicale per Dio. In ciò avviene un’assimilazione perfetta a Cristo, una partecipazione non solo al suo essere Figlio, ma anche ai suoi sentimenti più profondi: « Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo, il quale umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di Croce » (Fil 2,5.8). Nell’obbedienza, il cristiano si spoglia di ogni sua sicurezza e di ogni altro riferimento alle possibilità umane, e si affida totalmente a Dio. Il cristiano diviene imitatore perfetto di Gesù, seguace ben disposto ad accettare la follia della croce, « sapienza e potenza di Dio » per coloro che nella fede sono stati chiamati alla salvezza (1Cor 1,17.24-25). Gesù è il suo fondamento, la croce di Gesù la sua gloria (1Cor 1,31; Gal 6,14), la sua imitazione un’accettazione convinta di Gesù e della sua radicale obbedienza amorosa: di fronte al Crocifisso, testimone verace della fede, l’affidarsi a Dio nell’obbedienza acquista un senso di totalità e di definitività. Nella fede, infatti, « portiamo nel nostro corpo la morte di Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nel nostro corpo. Sempre infatti noi che viviamo siamo esposti alla morte per Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale … Avendo lo stesso spirito di fede secondo che è scritto: «Ho creduto, perciò ho parlato», anche noi crediamo e perciò parliamo, sapendo che Colui il quale risuscitò il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù… Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno » (2Cor 4,11-18).

4) LA FEDE, FONDAMENTO DELLA VITA CRISTIANA

L’affermazione paolina: « l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno » è un’ulteriore sottolineatura del carattere dinamico della fede. Essa non è solo un atto istantaneo che introduce il credente nella vita cristiana, ma insieme l’inizio e lo sviluppo progressivo (cr Fil 1,25), « di fede in fede » (Rom 1, 17), del vivere continuamente sotto l’azione efficace e salvifica di Dio che giustifica, del nostro « essere e vivere in Cristo », del nostro « camminare nello Spirito » lasciandoci plasmare dalla sua azione di grazia, in modo da esistere in risposta e come risposta alla sua chiamata. La fede orienta e determina tutta l’esistenza del cristiano nel suo procedere storico, tanto che non c’è alcuna dimensione del suo essere che non sia informata dalla fede, cioè dall’obbedienza a Dio e dall’affidarsi totalmente alla sua grazia. La fede è così il fondamento e « la misura » (Rom 12,3) del vivere, nel continuo confronto con le varie situazioni concrete, in modo da realizzare in essa la nostra vera umanità e il nostro essere figli di Dio.

a) Il coraggio della fede

Pascal, riflettendo proprio sulla fede, l’ha definita « un salto nel buio », una « scommessa » per Dio. Decidersi per qualcosa o per qualcuno richiede coraggio. Ma ciò può considerarsi valido per gli inizi della fede, quando l’uomo, superata una certa resistenza mentale ed esistenziale, decide di affrontare la meravigliosa avventura con io. Parlare, invece, di « coraggio della fede » per chi ha già scelto di « vivere nell’obbedienza della fede » può sembrare fuori luogo. Eppure non è così: per vivere ogni giorno la propria fede in Dio, in Cristo ci vuole coraggio. Esso è richiesto dalla stessa struttura dinamica della fede, in quanto per il credente ogni momento della sua vita è una « decisione per Dio ». Una decisione dell’intelligenza, della volontà, del cuore, costantemente diretti e orientati verso Dio come l’ago della bussola verso il Nord. Per Paolo, tale orientamento è possibile, solo se il cristiano si lascia penetrare e guidare dallo Spirito, la forza meravigliosa e prodigiosa donata al credente (cfr Gal 3,2.5) come fonte della nuova vita e come norma costante e dinamica del suo camminare: « Quanti infatti si lasciano condurre dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio » (Rom 8,14). « Quelli che sono secondo lo Spirito, aspirano alle cose dello Spirito … e ciò a cui tende lo Spirito è vita e pace … è vita per la giustizia » (Rom 8,5-9). Lo Spirito Santo è pertanto il coraggio della decisione del credente, in quanto lo spinge all’intelligenza della fede nel suo vivere quotidiano: « Noi non abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, affinché conosciamo le cose che Dio ci ha gratuitamente largite; e di queste parliamo, non con parole suggerite dalla sapienza umana, ma con quelle insegnate dallo Spirito, adattando a uomini spirituali dottrine spirituali » (1Cor 2,12-13); spinge la volontà del credente a camminare in maniera degna di Cristo: « Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e concupiscenze. Se viviamo per opera dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito » (Gal 5, 24-25), per produrre « il frutto dello Spirito, l’amore » (Gal 5,22-23); spinge il suo cuore ad elevare il grido della sua figliolanza divina: « Ora, poiché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori per gridare: Abba! Padre! » (Gal 4,6). In tale visione, lo Spirito Santo non è soltanto un eccellente maestro di vita, ma anche un operatore e un donatore di vita: è il coraggio della nostra fede, la scintilla vitale e potente che fa scattare la nostra decisione per Dio e per Cristo. Grazie allo Spirito, il credente nasce, cresce e arriva all’uomo perfetto, alla misura della pienezza della maturità di Cristo » (Ef 4,13).

b) Fede, sacramenti e comunità

La nascita e la crescita del credente per Paolo avvengono nei sacramenti, in particolar modo nel battesimo e nella Eucaristia, sacramenti che presuppongono già « l’accoglienza della parola », della fede (cfr 1Cor 10,1-4). Fede e sacramenti sono così intimamente legati: essi significano, annunciano e operano la piena affermazione della fede, cioè l’annuncio e l’accoglienza della morte e resurrezione di Cristo in vista del nostro « vivere per Dio ». Ciò è evidente nel battesimo , per mezzo del quale il credente entra con Cristo nella sua morte, per morire definitivamente al peccato, e partecipa alla vita del Risorto: « Forse ignorate che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, nella morte di lui siamo stati battezzati? Per mezzo del battesimo siamo stati dunque seppelliti con lui nella morte, affinché, come Cristo risuscitò dai morti per la gloria del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita » (Rom 6,3-4; cfr anche Rom 6,5-11). Si noti, in questo ricchissimo testo, l’insistenza di Paolo sulla morte e resurrezione di Cristo, nucleo centrale della nostra fede, e alla luce di esso l’insistenza ancora sulla conseguenza, sempre connessa con la fede, del « morire e vivere con Cristo », del « camminare in Cristo », del « vivere per Dio in Cristo ». Nel battesimo, infatti, il credente « si riveste di Cristo » e diviene « uno in Cristo » (Gal 3,27-28) per vivere da « figlio di Dio » (cfr Gal 3,26-4,7). Una possibilità nuova nasce per il cristiano: muore all’esistenza schiava del peccato, vive nella fede la vita di libertà dei figli di Dio in Cristo e nello Spirito. E non basta: proprio perché ogni credente diviene « uno nel Cristo » in virtù dello Spirito Santo, egli è inserito nel « corpo di Cristo » che è la Chiesa (Col 1,18): « un solo Corpo e un solo Spirito, così come anche siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. Uno solo il Signore, una la fede, uno il battesimo » (Ef 4,4-6). Un cristiano che vive isolato nella propria fede è inconcepibile per Paolo, sarebbe la negazione dell’ »essere e vivere in Cristo »: « In realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo » (1Cor 12,13). Simile a quello descritto è il rapporto dell’ Eucaristia , sacramento della crescita del credente, con la fede. In 1Cor 11,23-26, Paolo trasmette un « insegnamento del Signore », che suscita e alimenta la fede, attraverso la parola dell’apostolo: « Io infatti ho ricevuto dal Signore ciò che vi ho trasmesso, cioè che il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese del pane e, avendo reso grazie, lo spezzò e disse: «questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me». Tutte le volte infatti che mangerete di questo pane e berrete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore fino a che egli ritorni » (1Cor 11,23-26). Tre osservazioni importanti per ciò che concerne il nostro tema: 1º) l’eucaristia è « annuncio della morte del Signore fino a che egli ritorni », in altri termini del Kerygma fondamentale della nostra fede, cioè della morte, resurrezione, ritorno del Signore esaltato e glorioso; 2º) è partecipazione al Corpo e al Sangue di Cristo, cioè alla sua vita di Signore, morto, risorto ed esaltato per noi a gloria di Dio; 3º) è celebrato « in memoria di Gesù », che non è una semplice evocazione del mistero della sua morte e resurrezione, ma una memoria creatrice e vivificante, che ci fa crescere in lui nell’esistenza quotidiana, in attesa della sua venuta, per renderci partecipi pienamente della sua vita divina. D’altra parte, in 1Cor 10,16-17, anche l’eucaristia non stabilisce solo un rapporto individuale tra il credente e Cristo, ma anche un rapporto tra i credenti fra loro quale membra dell’unico Corpo di Cristo: « Il al sangue di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (1Cor 10,1617). Così nella fede il Cristo, che si fa nostro cibo e nostra bevanda, ci assorbe in sé, rendendoci « uno in lui », e ci associa ai fratelli, formando di noi un solo corpo, la Chiesa, comunione di credenti.

c) Fede e morale

Si è fatto spesso cenno al rapporto intimo che intercorre tra fede e agire credenti. Se riprendiamo il discorso non è per ripetere quanto già si è detto, ma per sottolineare qualche nuovo aspetto che emerge da tale rapporto e che può essere utile per l’intelligenza spirituale della fede. In primo luogo, Paolo caratterizza il rapporto « fede-morale » come un « rimanere saldi nella fede, nel Signore » (cfr 1Cor 16,13; Gal 5,1; Fil 1,27; 4,1; 1Tes 3,8). Tale espressione paolina non deve indurci a pensare ad una concezione statica della fede. La fede, per Paolo, è e rimane una realtà decisamente dinamica. Proprio per questo, il « rimanere saldi nella fede » trova un’esemplificazione pratica e dottrinale nell’esempio di Abramo. Egli rimane fedele a Dio nel suo essere e nel suo operare e Dio glielo computa a giustizia (Rom 4,3; Gal 3,6). Egli « rimane saldo in Dio » nella concretezza della sua vita. In tal modo, il « rimanere saldo » non è una semplice attesa della « speranza della giustificazione » (Gal 5,5), anche se in virtù della fede, ma una concreta e attiva realizzazione di questa giustificazione accettando nella propria vita il piano salvifico della promessa di Dio in Cristo, in una fede agente per mezzo della carità (Gal 5,6), in un cammino di fede amorosa che produce gioia, pace, benignità, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza (Gal 5,22-23), in un progressivo e deciso morire alle esigenze della carne (Gal 5,17.24-25) per vivere per Dio nello Spirito. Pertanto, il « rimanere saldi nella fede » si può definire come un’esistenza fondata sulla fede in Cristo, vissuta nella speranza dell’adempimento della promessa di Dio per mezzo dello Spirito, attuata nell’amore secondo la radicalità di Dio espressa nella « legge di Cristo » (Gal 6,2). Con tale espressione Paolo non vuole affatto ristabilire la legge o la giustificazione in virtù delle opere della legge. La giustificazione, la salvezza, la libertà vengono concesse da Dio solo in virtù della fede in Cristo Gesù, ma tale fede non è mai disincarnata dalla realtà. Essa opera (1Tes 1,3; 2Tes 1,11) e spinge il credente ad operare nella carità, unica legge del cristiano. Questi non è individuo senza legge, un fuorilegge, ma uno che ha accettato e lascia operare in sé « la legge di Cristo », meglio: « la legge che è Cristo ». Non un principio esterno di moralità, ma una persona vivente che lo rende « conforme a sé » (cfr 1Cor 9,21) per mezzo della « legge dello Spirito di vita nel Cristo Gesù ». Non si tratta, pertanto, di rimpiazzare una legge con un’altra, né di compiere questa o quell’altra opera per avere la salvezza, ma di vivere con radicalità, dietro l’esempio di Cristo e sotto la guida dello Spirito, la legge dell’amore, « la legge di Cristo », che per primo « ci ha amato e ha dato se stesso per noi » (Gal 2,20). « L’opera della fede » (1Tes 1,3; 2Tes 1,11) è l’amore che la anima. Paolo lo afferma chiaramente in Gal 5,6: « ciò che conta è la fede operante/se opera per mezzo della carità ». Il principio essenziale della vita cristiana non cambia: è la fede. Ma non una fede qualsiasi o una fede astratta, ma la fede che qualifica se stessa operando per mezzo dell’amore. Così, fede e amore, anche se non si debbono confondere tra loro, non possono essere separate: la fede fonda la nostra esistenza in Cristo, l’amore la rende viva per la potenza dello Spirito santo, sotto la cui guida diveniamo fecondi di ogni opera buona e attendiamo la pienezza della giustificazione di Dio.

Publié dans:Paolo - la fede |on 22 juillet, 2010 |Pas de commentaires »
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