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LE SFIDE DELLA VITA RELIGIOSA NELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE (Superiore Generale della Società San Paolo)

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LE SFIDE DELLA VITA RELIGIOSA NELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE

Intervista al superiore generale della Società San Paolo, padre Silvio Sassi

di José Antonio Varela Vidal

ROMA, mercoledì, 29 agosto 2012 (ZENIT.org) – In vista dell’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione, in programma dal 7 al 28 ottobre prossimi, ZENIT ha intervistato padre Silvio Sassi, superiore generale della Società San Paolo, più nota come i “Paolini”.
Fondati dal Beato Giacomo Alberione quasi un secolo fa, i Paolini vengono considerati dei veri e propri “pionieri” nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa, con lo scopo di umanizzare e di evangelizzare gli uomini e le donne di oggi.
Come la vostra congregazione ha accolto la chiamata del Papa alla Nuova Evangelizzazione?
Padre Sassi: Certamente, per la Società San Paolo il tema della nuova evangelizzazione non è qualcosa di sorprendente. Infatti già alla nascita della congregazione nel 1914, il beato Giacomo Alberione, nostro fondatore, volle fare qualcosa di nuovo nella Chiesa per l’evangelizzazione. Tenendo presente che all’inizio del XX secolo le masse si allontanavano progressivamente dalla Chiesa, la sua preoccupazione fu quella di portare il Vangelo, non rimanendo in chiesa ad aspettare la gente, ma andando direttamente dove la gente viveva. Non ci stupisce che in un suo scritto del 1926, il fondatore parla della necessità di una “nuova, lunga e profonda evangelizzazione”. Di conseguenza, “nuova evangelizzazione” non è un vocabolo sconosciuto per noi Paolini, perché è la ragione della nascita del nostro carisma.
Avete anche idea di come vada trasmesso il messaggio agli uomini di oggi?
Padre Sassi: Nel documento di Puebla (1979) l’episcopato latino-americano afferma che: “L’evangelizzazione, annuncio del Regno, è comunicazione”. Oggi, per approfondire questa certezza bisogna tenere conto di tutti gli elementi di una comunicazione, non soltanto del messaggio, che è solo una parte di questo processo. A volte si ha l’impressione che quando si afferma che il messaggio – Cristo ieri, oggi e sempre – è sempre lo stesso: si vuole giustamente riaffermare qualcosa di immutabile nei contenuti della fede. Tuttavia bisogna preoccuparsi anche delle persone alle quali si propongono questi contenuti che cambiano nel tempo. Credo che, come Chiesa, dovremmo preoccuparci dei significati che le persone che vogliamo raggiungere, soprattutto i cosiddetti “lontani”, attribuiscono al messaggio in quanto tale.
Come si può farlo, specialmente in Europa?
Padre Sassi: Nell’Europa occidentale è cambiato lo stile di vita, che in qualche modo era anche il sostegno dello stile dell’evangelizzazione. Era facile dare per scontato che i valori cristiani fossero anche valori umani della società civile. Da tempo ci troviamo in un processo di autonomia delle persone e delle società nei confronti, dei valori cristiani. Credo che uno degli scopi di una nuova evangelizzazione sia un’intesa comune sulle parole della proposta di fede. San Paolo nella sua predicazione sa essere “progressivo”, senza voler dire tutto e subito: “Non vi ho detto tutto, vi parlo ancora come si fa a dei bambini”.
Quindi?
Padre Sassi: Non possiamo immaginare l’evangelizzazione subito nel momento pieno del suo annunzio quando è completa ed esplicita: dogma-morale-culto. Vi è un processo di preparazione o pre-evangelizzazione, che forse necessita un incontro preliminare di significati, per mettersi d’accordo su valori umani che possono sfociare nella fede. Il beato Giacomo Alberione ha sintetizzato la strategia di una pre-evangelizzazione con la comunicazione mediale, ispirandosi a San Paolo, affermando: “Non è necessario parlare solo di fede, ma di tutto cristianamente”.
Quali sono le caratteristiche dei religiosi, di cui ha bisogno oggi la nuova evangelizzazione?
Padre Sassi: Mi limito a parlare dei religiosi che si servono a tempo pieno dei mezzi di comunicazione per evangelizzare. Anche per la testimonianza della fede con la comunicazione occorre la coerenza: non si può essere “attori” nell’evangelizzazione. Le persone che entrano in contatto con i nostri “prodotti di comunicazione” si accorgono di che cosa stiamo parlando e come stiamo parlando loro. Il pubblico si rende subito conto se un prodotto di comunicazione è frutto di attori mercenari o di testimoni che stanno attingendo alla loro esperienza ciò che propongono agli altri. Credo che la migliore definizione del testimone cristiano nella comunicazione sia quella che ci ha dato il beato Alberione, quando, dando origine ad una Congregazione per l’editoria, spiegava la derivazione latina dell’opera di “editare”: trarre fuori da sé per dare agli altri. Non commercio né di idee né di cose sacre, ma “racconto” di ciò che si vive.
Stiamo per celebrare il 50° del Vaticano II. Come ha vissuto la vostra congregazione gli anni “dopo-Concilio”?
Padre Sassi: Il nostro fondatore ha partecipato al Concilio Vaticano II. Quando alla fine del 1963 viene approvato il decreto conciliare sui mezzi di comunicazione sociale (Inter mirifica), don Alberione scrive un commento commosso perché vede l’approvazione conciliare di una forma di evangelizzazione che egli, guidato dallo Spirito e con l’esplicita approvazione della Chiesa, aveva iniziato nel 1914. La gioia del fondatore, dopo tanti anni, è spiegabile anche per il fatto che per riuscire a far accettare l’idea che una Congregazione clericale non assumesse il ministero parrocchiale, ma esercitasse il suo sacerdozio “con la comunicazione”, non incontrava solo sostenitori. La Provvidenza ha voluto che le esitazioni fossero superate grazie all’intervento diretto dei Papi.
Allora?
Padre Sassi: Per noi, raccogliendo l’eredità del fondatore, da una parte ci è di sostegno il fatto che attualmente è mentalità comune nella Chiesa che si debba porre anche la comunicazione al servizio dell’evangelizzazione, dall’altra siamo stimolati dall’esempio del beato Alberione per restare “pionieri” in questa missione, sapendo che la comunicazione è in continua evoluzione, soprattutto con lo stimolo della comunicazione digitale.
Come va lo sviluppo della sua congregazione?
Padre Sassi: Parlando dei membri della Congregazione, attualmente siamo 970, di cui 546 sacerdoti e 230 fratelli perpetui ai quali si devono aggiungere i professi temporanei. A livello numerico, costatiamo alcuni fenomeni che sono uguali, quasi, per tutte le Congregazioni. La Congregazione non vive in una situazione di panico dicendo siamo pochi o siamo tanti. Siamo quelli che il Signore vorrà per la sua missione. Operiamo in 34 nazioni e vi è l’impegno di nuove presenze: Bolivia, Uruguay, Paraguay, Angola, Cuba, Nuova Zelanda, nazioni di lingua inglese in Africa, eccetera. La missione mantiene giovane il carisma!
Davanti alla sfida della nuova evangelizzazione, quale è il suo messaggio per i lettori di ZENIT?
Padre Sassi: Poiché il futuro della comunicazione è la ‘rete’, dobbiamo sentire rivolto a tutta la Chiesa lo stesso invito che il macedone fa in sogno a Paolo: “Passa da noi in Macedonia”. Se non è la ‘rete’ che formula questa supplica, dovrebbe essere la creatività della fede missionaria della Chiesa ad immaginarla.

PAOLO E IL VANGELO DELLA GRAZIA – parte prima

 http://oratoriotirano.wordpress.com/ritagli-dello-spirito/

PAOLO E IL VANGELO DELLA GRAZIA

Don Bruno Maggioni

1- Introduzione

La figura di Paolo, la sua attività, la sua predicazione, la sua robusta riflessione teologica e spirituale riempiono tutto l’orizzonte del primitivo cristianesimo. E’ risaputo che le sue lettere non sono sempre di facile lettura. E i motivi sono diversi: il contesto culturale e religioso nel quale Paolo pensa e scrive, per molti aspetti assai lontano dal nostro; i suoi metodi esegetici, che sono – ovviamente – quelli in uso nelle scuole rabbiniche del suo tempo; la stessa ricchezza della sua riflessione spirituale e teologica, riflessione in evoluzione, che non subito e non sempre trova le forme espressive più chiare e più adatte; infine, il suo stesso modo di procedere, vivacissimo, spontaneo, in nessun modo sistematico, impetuoso: afferra un pensiero, poi lo abbandona, poi vi ritorna.
Le lettere di Paolo sono per lo più interventi occasionali, in risposta agli interrogativi che man mano sorgevano nelle comunità. La teologia paolina si è formata sotto la spinta dei problemi che di volta in volta emergevano nella comunità. E’ teologia vissuta. Per questo non la si può capire se non si conoscono i problemi pastorali dell’apostolo. Il teologo e il pastore sono in Paolo una cosa sola.
Leggendo il Nuovo Testamento ci si imbatte – a proposito di Paolo – in una sorta di antinomia. Egli è riconosciuto ed esaltato, tanto che le sue lettere divennero « Scrittura ». Ma altrettanto certamente egli fu discusso e contrastato . La sua teologia e la sua pastorale suscitarono tensioni al limite con la rottura. Lo dice Paolo stesso nelle sue lettere: per esempio in 2 Cor 11,11-15. Ancora negli anni 80 Luca, scrivendo il libro degli Atti, sente il bisogno di difendere l’apostolo, mostrando che egli fu realmente chiamato, che fu accettato dalla Chiesa (Concilio di Gerusalemme) e che la sua missione fra i pagani fu volontà dello Spirito.
Almeno due testi del Nuovo Testamento testimoniano esplicitamente la stima e nel contempo la cautela di fronte al pensiero di Paolo: 2 Pt 3,15-16 e Gc 2,14-24. Lungo tutta la storia della Chiesa, poi, Paolo continuò ad essere esaltato, ma anche ignorato, non compreso, e il centro della sua lettura della Croce (la salvezza/grazia) fu diversamente accentuato.
Bastano queste poche annotazioni a convincerci che – prima di passare alla lettura e all’esegesi di alcune lettere – sono utili alcune osservazioni generali e un abbozzo di biografia teologico-spirituale di Paolo.
Attraverso questi molteplici approcci è possibile osservare Paolo nel vivo delle sue relazioni; ritengo che questo sia il modo migliore per individuare il centro profondo e fermo che sostiene la sua spiritualità, la sua teologia e la sua attività di instancabile evangelizzatore.
Pur avendo alle spalle una lunga tradizione anticotestamentaria, Paolo legge il volto di Dio nell’evento di Cristo. Qui scopre i tratti della novità che lo sorprende, lo affascina e gli cambia la vita.
Secondo Paolo lo spazio della novità di Dio è il Crocifisso risorto. Che il Crocifisso sia il Signore è la resurrezione che ce lo dice. Ma i tratti nuovi, sorprendenti, del volto del Signore si scoprono guardando al Crocifisso.

                                                           

Il nostro « debito » con Paolo: Ha « bucherellato » l’Impero salvando le genti

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_sequeri36.htm

Il nostro « debito » con Paolo

Ha « bucherellato » l’Impero salvando le genti 

Pierangelo Sequeri

(« Avvenire », 28/6/’09)

Paolo di Tarso ha « inventato » il cristianesimo? Ricordiamo l’esasperazione di Friedrich Nietzsche, nei confronti di un Dio dell’avvilimento, della « rappresaglia », dei sacrifici umani, «quem Paulus creavit». Paolo deve averlo creato, secondo Nietzsche, perché nulla di ciò si trova nel « Vangelo » di Gesù. Nietzsche coglie a suo modo nel segno. Però manca totalmente il bersaglio, con Paolo.
Nel nucleo centrale del suo pensiero, « vulcanico » e roccioso, il Dio di Paolo è esattamente il Dio di Gesù: alla lettera. Quello stesso che per evitare sacrifici umani offre se stesso ai risentimenti di un « sacro » impazzito, che vuole smentirlo proprio su « agape ». Il Dio di Paolo è il Dio di « agape », del quale non si può pensare il più grande, secondo la formula di Anselmo d’Aosta. Per questo, dessi pure «il mio corpo alle fiamme», nell’atto di un supremo « martirio », se non ho « agape » «non sono niente» (« 1 Cor 13″). E persino – udite – «se avessi una fede che sposta le montagne». (Su questo aspettiamo un grande libro, colleghi « biblisti » e « teologi » quanti siamo – lo dico anche a me stesso – che ancora non abbiamo).
Di fatto, la domanda ha potuto avere un senso (polemico e, rispettivamente, « apologetico ») quando i credenti e i loro « critici » leggevano poco i testi. E molto di più leggevano i « bigini » che se n’erano fatti. Rimane vero, con tutto questo, che Paolo è persona – e personalità – prodigiosamente creativa, nell’orizzonte aperto dalla rivelazione di Gesù. Paolo ha messo al sicuro la singolarità del « cristianesimo », per ogni mondo possibile.
Vogliamo esemplificare, fuori da ogni « manierismo teologico »? Intanto non avremmo l’icona della « forma occidentale ». Inedita avventura di affetti e pensieri dell’umano, in cui le « dialettiche » dell’ »evangelo » hanno innervato due possenti creazioni dello spirito. In primo luogo, riabilitando religiosamente la grandiosa macchina « laica » della « cittadinanza liberale » (il « diritto romano »: messo in salvo dal suo stesso mondo, ormai a pezzi). Nessun altro pensiero religioso avrebbe potuto, se non quello che distingue radicalmente, senza contrapporli « pregiudizialmente », Cesare e Dio. (E il celebre « enunciato » è di Gesù, non di Cavour). In secondo luogo, metabolizzando religiosamente la prodigiosa conquista filosofica della « razionalità morale », che mette in rapporto il singolo con l’appello incondizionato della giustizia.
Lo spessore – giustamente drammatico – che viene conferito da Paolo al severo confronto della coscienza con se stessa, per la retta decifrazione della « legge » (con la minuscola e con la maiuscola), interpreta l’appello di Gesù alla libertà della coscienza che decide la vita. La coscienza cerca la giustizia sempre di fronte a Dio, « devoti » o « pagani » quanti siamo. E sempre le è accessibile, nell’onestà del cuore, la propria ingiustizia (« Rm 7″). Vale per la religione e per la « morale », per la verità e per l’amore.
Sarebbe solo l’inizio, se ci si vuole incamminare. L’ »Anno » che Benedetto XVI, con felice intuizione, ha proposto di dedicare alla viva « riappropriazione » di questa « colonna » dell’avventura cristiana, ha aperto il suo varco. L’ »Anno » si chiude, giustamente. Ma il « filo » da tessere va tenuto ben saldo. Poca conoscenza e troppi fraintendimenti, ancora. Con tutto il rispetto per Galileo e per Darwin, siamo in debito d’onore con Paolo: credenti e non credenti, quanti siamo, in questa parte del mondo che ci sembra, a tratti, così « s-finita ». Paolo, quasi dal niente, e con poco più che il suo Signore crocifisso e risorto, ha tessuto una « rete » miracolosa: « bucherellando » l’ »Impero » come un « colabrodo ». E salvando « le genti ». 

S. Paolo ci insegna come giungere alla vera pace

dal sito:

http://www.missioni-africane.org/536__S_Paolo_ci_insegna_come_giungere_alla_vera_pace

S. Paolo ci insegna come giungere alla vera pace

Ci troviamo vicini alla celebrazione della Pasqua, cioè della morte e risurrezione di Gesù, l’avvenimento fondante della nostra fede, quello che le fornisce il senso, la luce e la forza. Quello che ci distingue come cristiani.
San Paolo ci parla spesso della passione e della risurrezione del Signore. Lo fa in vari modi. Spesso ci ricorda quello che saremmo stati senza la Pasqua, presentandoci quello che siamo ora e che dobbiamo essere nel mondo di oggi.
Scrivendo ai cristiani di Efeso, l’apostolo parla del loro paganesimo di un tempo e aggiunge:
“Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini grazie al sangue di Cristo. Egli, infatti, è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva (…) per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui, infatti, possiamo presentarci gli uni e gli altri al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,13-18).
Tutto questo è frutto della Pasqua. Essa agisce facendo cadere i muri, annullando le separazioni, eliminando le contrapposizioni che nascono e durano nel mondo di ogni tempo.
La pace viene dalla Pasqua, ma la risurrezione di Cristo raggiunge il suo scopo quando diffonde la vita nuova e trasforma in Lui ogni persona e ogni cosa.
La pace di Cristo, infatti, non si ottiene solo con gesti umani di riconciliazione. Le buone volontà umane non bastano. Occorre che ognuno si lasci trasformare da Gesù Cristo. E’ solo così che i muri cadono per sempre e le riconciliazioni durano.
Ce lo dice san Paolo: tutti siamo chiamati a sviluppare in noi una vita nuova: ”Per creare in se stesso dei due un solo uomo nuovo”(Ef 2,15).
È stato scritto che “non si ottiene la pace semplicemente con un avvicinamento, ma con una trasformazione” (Bruno Maggioni, biblista, in Il Dio di Paolo, p. 194).
È la trasformazione che Gesù ha potuto realizzare in Paolo al punto che l’apostolo scriveva: ”Non vivo più io, ma Cristo vive in me”(Ga 2,20).

E allora:

Più Cristo vive in me e più in me vive la sua pace.
Più la sua Parola si realizza in me e più cresce in me la giustizia che è condizione della pace.
Più lo Spirito di Cristo trova in me le condizioni per agire e più la sua grazia mi rende “nuovo” e capace di costruire ovunque la pace.
“La pace bisogna costruirla nel proprio cuore” (Maurice Zundel).

p. Bruno Semplicio

Le notti di Paolo (mi sembra veramente bello)

DA: USMI (Unione Superiore Maggiori d’Italia), dal sito:

http://www.usminazionale.it/06-2001/castronuovo.htm

Le notti di Paolo

(6 giugno 2001)

di Filippa Castronuovo
    
Camminiamo nella fede non nella visione

«Camminiamo nella fede e non nella visione…» scrive Paolo (2Cor 5,7). Quest’espressione insinua, per caso, che la fede, più che essere luce nella notte profonda, è un’angosciosa certezza?
E’ un fatto: la vita di Paolo si svolge in una prolungata esperienza di notte, come fatica, incomprensione, oscurità o, come alcuni sostengono, la sua vita è stata una lunga e continuata Via Crucis1. Nella nostra riflessione seguiamo alcune indicazioni di Luca negli Atti degli apostoli2 e di Paolo stesso3. Punto di partenza per entrare nel mondo spirituale di Paolo è l’evento basilare della sua conversione4. Luca la narra tre volte. Ogni narrazione, incastonata nella vita di Paolo, aggiunge nuovi particolari, in un crescendo cristologico dell’avvenimento che lo ha investito.
Due domande e una risposta senza soluzione immediata caratterizzano l’incontro-scontro di Paolo con Gesù.

«Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?».
«Chi sei, tu, o Signore?».
«Entra in città e ti sarà detto…». Da chi? Come? Quando?

Paolo, reso cieco dalla luce abbagliante, entra in città e condotto per mano dai compagni, raggiunge la casa di un cristiano di nome Anania. Da questi riceve, e non da Gesù direttamente o da Pietro, orientamento per la sua vita. La cecità che lo colpisce non è da interpretare solamente in chiave cronicistica, è un’esperienza profonda di tenebre. A contatto con Dio, che è luce, l’uomo non può che vedersi tenebra. «Tu, Signore, rischiari le mie tenebre», prega il salmista (cf Sal 17,29).
I tre racconti lucani evidenziano l’oggettività dell’esperienza paolina. Vi sono dei testimoni: essi o vedono la luce o ascoltano la voce. La totalità dell’esperienza è solo di Paolo, l’unico che entra nella notte, come morte, ed esce nel giorno, come esperienza di vita nuova.
La prospettiva lucana, per la quale Dio dal buio trae la luce, è cara anche a Paolo. Egli stesso interpreta il suo incontro con Cristo, e la novità di vita da esso scaturita, in questi termini:
«Dio che disse “dalle tenebre la luce rifulga”, rifulse nei nostri cuori per l’illuminazione della conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo» (2Cor 4,6).
La luce che prese ad abitare nel cuore di Paolo è Cristo Gesù, splendore del Padre, che, a sua volta, egli dovrà comunicare.

1. Paolo strumento eletto

Nel primo racconto lucano, Gesù ad Anania, titubante e incredulo circa la resa di Paolo, dice:
«Và, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,6).
La missione di Paolo, in quanto vaso d’elezione e strumento eletto, si profila itinerante, costellata da prove e persecuzioni, dalla sofferenza per il nome di Gesù. Sarà un ‘cammino nella fede e non nella visione’ senza successi facili e immediati.  La conversione di Paolo solitamente si colloca tra il 34-35 e la sua prima missione tra il 45-46. Tra la conversione e la prima missione intercorrono 10 anni. Dove è stato Paolo? L’apostolo non accenna a questo periodo. L’unico accenno è quello in 2Cor 11,31-33.
«Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani» (2Cor 11,31-33).
Luca colloca questo episodio subito dopo la conversione e il battesimo ricevuto dalle mani di Anania (At 9, 30). Di qui la domanda: che cosa sarà avvenuto nella prima fase cristiana di Paolo? Coscienti della difficoltà di ricostruire le tappe di questo primo periodo, possiamo ipotizzare che dopo la sua conversione, Paolo comincia a predicare, ma è rifiutato sia a Damasco che a Gerusalemme. Questi primi dieci anni, ricorda il cardinale Carlo Maria Martini5, sono stati anni di difficoltà, di scontri, di disagi… di solitudine, di silenzio, di sconforto. E’ la prima lunga notte per Paolo, cui ne seguiranno molte altre. Un tentativo di uccisione a Damasco, incomprensione a Gerusalemme, solitudine nel deserto. Che avrà vissuto Paolo nel lungo isolamento che egli chiama deserto d’Arabia? Un ricordo di Paolo può illuminare questo periodo di doloroso e affascinante deserto:
«Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie debolezze» (2Cor 12,1-5).
Tra gli interrogativi che affollavano la sua mente e il suo cuore, nella crescente certezza che il crocifisso è veramente il Messia, il Figlio di Dio così come le Scritture avevano predetto, Paolo riceve consolazione e conforto da Dio. E’ un momento di luce e di rinnovata esperienza di Dio, che sboccia in un nuovo cammino. Barnaba va a cercarlo per condurlo nella comunità d’Antiochia. Purificato dalla lunga notte dell’isolamento, sostenuto dall’approfondimento dello scandalo del mistero pasquale, egli comincia ufficialmente la missione e con essa la sua Via Crucis.

La notte più buia di Paolo…

…riguarda la rottura dell’amicizia con Barnaba, l’unico che, quando tutti lo rifiutavano, “lo prese con sé e lo presentò agli apostoli” e si fece garante della sua sincerità (cf At 9,26-27). Per un anno intero lavorano insieme. Paolo da Barnaba impara a vivere in comunità e il metodo della missione. Con lui compie la prima campagna missionaria in una collaborazione quasi idilliaca. Compiuto il viaggio si preparano per il secondo. Barnaba vuole riportare in missione Marco, benché questi, durante il primo viaggio, per timore, fosse tornato indietro. Paolo non è d’accordo. Luca annota: “Il dissenso fu tale che si separarono” (At 15,39). La collaborazione e l’armonia si spezzano per l’irrigidimento di Paolo su di un principio relativo, anzi per un dettaglio apostolico. La missione andrebbe avanti lo stesso anche se Marco dovesse tornare indietro! Quando Paolo arriva alla piena conoscenza di Cristo, scrive: « Se io parlassi tutte le lingue degli angeli, ma non avessi l’amore sarei un nulla… L’amore è paziente, non si adira l’amore» (cf 1Cor 13,1ss). E’ stata necessaria la notte che ha segnato la rottura di una antica amicizia, di un vincolo profondo. Queste ferite nel cuore di Paolo, si fanno memoria che salva6. La notte dell’intolleranza si trasforma nel giorno della maternità che cura e della paternità che incoraggia, ed esorta a camminare verso Dio (cf 1Ts 2,7).

La notte come fatica a discernere le vie della missione

Paolo e Silvano riprendono la seconda campagna missionaria. La missione, ben preparata e organizzata, si presenta piena d’imprevisti. Ogni aspetto chiaro diventa oscuro. Luca narra:
«Attraversarono quindi la Frigia e la regione della Galazia, avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia di Asia. Raggiunta la Misia, si dirigevano verso la Bitinia, ma lo Spirito di Gesù non lo permise loro» (At 16,6-7).
Questo impedimento si rivela di particolare ricchezza missionaria. Paolo, durante la notte, vede il macedone che lo invita a predicare Cristo nella sua terra (At 16,9). Alcuni fatti impediscono lo svolgimento della missione, secondo i piani stabiliti da Paolo e da Silvano. Queste difficoltà sono lette come segni di cui Dio si serve per spostare gli orizzonti della missione, secondo la guida di Dio.

Notte di liberazione e di vita

Paolo giunge a Filippi. Qui viene catturato e condotto nell’angolo più angusto della prigione in mezzo a una folla di prigionieri disperati.
«La folla allora insorse contro di loro, mentre i magistrati, fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli e dopo averli caricati di colpi, li gettarono in prigione… Egli (il carceriere), ricevuto quest’ordine, li gettò nella cella più interna della prigione e strinse i loro piedi nei ceppi. Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli» (cf At 16,23ss).
Il momento più intenso avviene nel cuore della notte. Paolo, stordito dai colpi, sicuramente non trova una posizione di sollievo. Grida di prigionieri arrivano alle sue orecchie. Passa il primo turno di veglia della notte. Paolo soffre per il nome di Gesù. Come ha imparato da ragazzo benedice Dio: «Benedetto Dio che illumina il mondo con il suo splendore»7. Segue il terremoto che spalanca le porte permettendo ai carcerati di fuggire. Il carceriere vuole uccidersi ma Paolo lo assicura che nessun prigioniero è fuggito. Questi ‘preso un lume nella notte’ si getta ai piedi di Paolo, accogliendone il Vangelo. A queste memorie di Luca sembrano corrispondere alcuni ricordi di Paolo nella 1Ts:
«Voi stessi, infatti, fratelli, sapete bene che la nostra venuta in mezzo a voi non è stata vana. Ma dopo avere prima sofferto e subìto oltraggi a Filippi, come ben sapete, abbiamo avuto il coraggio nel nostro Dio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte» (1Ts 2,1-2).

Notte di fuga

Liberati dal carcere sono invitati a fuggire. Fermarsi a Filippi è pericoloso. La folla è inferocita. Partono per Tessalonica. Anche in questa città scoppia un subbuglio.
«Ma i fratelli subito, durante la notte, fecero partire Paolo e Sila verso Berèa. Giunti colà entrarono nella sinagoga dei Giudei… Molti di loro credettero e anche alcune donne greche della nobiltà e non pochi uomini» (At 17,11-12).
Paolo è colmo d’afflizione e di preoccupazione. Avrò fatto bene a fuggire da Tessalonica? Avranno forza questi neofiti di sopportare la persecuzione? Come completare l’annuncio appena iniziato? Questi interrogativi colmano il suo cuore di tristezza e hanno i tratti del buio della notte. Egli scrive:
«Quanto a noi, fratelli, dopo poco tempo che eravamo separati da voi, di persona ma non col cuore, eravamo nell’impazienza di rivedere il vostro volto, tanto il nostro desiderio era vivo. Perciò abbiamo desiderato una volta, anzi due volte, proprio io Paolo, di venire da voi, ma satana ce lo ha impedito…Per questo, non potendo più resistere, abbiamo deciso di restare soli ad Atene e abbiamo inviato Timòteo…» (1Ts 2,17-18;3,1-3).

Notte di lacrime

Paolo passa a Corinto dove si ferma in tutto circa due anni. A questa comunità scrive (cf 1Cor 15,30-32):
«Non vogliamo, infatti, che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. Abbiamo ricevuto su di noi la sentenza di morte… Da questa morte Dio ci ha liberati…» (2Cor 1,8). «Infatti, da quando siamo giunti in Macedonia, la nostra carne non ha avuto sollievo alcun ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori al di dentro» (2Cor 7,5).
Questi versetti comunicano la realtà faticosa della missione, vissuta nella fragilità della realtà umana e lasciano intuire la complessità della comunità di Corinto. La tradizione ci ha trasmesso due lettere di Paolo a questa comunità ma l’apostolo ne ha scritto quattro. Tra queste la cosidetta ‘lettera delle lacrime’ (cf 2Cor 2,3-4). I cristiani a Corinto volevano aderire alla falsa sapienza che riduce la fede a una filosofia; avevano interpretato la libertà cristiana come libertinismo e non come servizio e attenzione al fratello. Stavano costruendosi un sincretismo religioso, una religione ‘fai da te’. Paolo era considerato uno che ‘di lontano con le lettere sembrava forte, ma visto da vicino, valeva poco’ …una persona da poco conto, meschino!
«Ora io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo, io davanti a voi così meschino, ma di lontano così animoso con voi; vi supplico di far in modo che non avvenga che debba mostrare, quando sarò tra voi, quell’energia che ritengo di dover adoperare contro alcuni che pensano che noi camminiamo secondo la carne» (2Cor 10,1-2).
La predicazione di Paolo non avveniva a ‘colpi di miracoli’ o a forza di dimostrazioni razionali. Gli altri predicatori avevano un certo ‘di più’. L’apostolo si difende dimostrando che il vero di più consiste in di più di fatica, di sofferenza, di profonda notte vissuta per il Signore (cf 2Cor 4,8-12; 6,8-10). Il vero di più è la preoccupazione materna e paterna per le Chiese.
«Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2Cor 11,23-29).
Che notte per Paolo quella nella quale i cristiani di Corinto volevano dividersi da lui, il padre nella fede, che li aveva generati a Cristo mediante il Vangelo!
Che esperienza di luce e di pieno giorno quando Tito gli comunica che i figli di Corinto hanno riconosciuto il loro errore e hanno mostrato pentimento per avere offeso Paolo, forse anche pubblicamente!
«Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito, e non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi. Egli ci ha annunziato infatti il vostro desiderio, il vostro dolore, il vostro affetto per me, cosicché la mia gioia si è ancora accresciuta» (2 Cor 7,6-7).

Notte di consolazione

I dolori di Paolo provengono dall’interno della comunità ma anche dall’esterno. Paolo a Corinto, rifiutato dai Giudei, decide di andare dai pagani (cf At 18, 5-6). Nel dolore del rifiuto dei suoi fratelli nella fede dei padri, nel dolore dei cristiani che travolgono il Vangelo, nella notte è consolato:
«E una notte in visione il Signore disse a Paolo: “Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città”. Così Paolo si fermò un anno e mezzo, insegnando fra loro la parola di Dio» (At 18, 10-11).

Notte pasquale

Percorrendo l’itinerario lucano Paolo da Corinto va ad Atene, poi a Efeso, fino a giungere al termine della terza campagna missionaria a Troade. Ai cristiani di Troade, nella lunga conversazione notturna, Paolo esprime i suoi desideri, le sue preoccupazioni. La sua conversazione è intercalata da preghiere, professione di fede. Giunge la mezzanotte. Fra gli ascoltatori un giovane, preso dal sonno, cade dal piano superiore, entrando nel sonno della morte (cf At 20,7ss). Paolo gli restituisce la vita. E dalla conversazione passa al momento di spezzare il pane. Proprio come Gesù che prima di andare a morire spezza il pane con i suoi!
Il Risorto è, certamente, vivo e presente in mezzo a loro, nel segno del pane e del vino. E’ presente anche nel gesto di Paolo che riconsegna Eutico vivo a sua madre. Un gesto importante per dire che la morte è sconfitta dalla vita, la notte dal giorno. Paolo riprende il suo viaggio fino, quasi, alle porte di Efeso, ma si ferma al porto di Mileto. Da qui fa chiamare gli anziani di Efeso. Perché non è andato a incontrarli direttamente? Dobbiamo supporre che non va ad Efeso perché qualche mese prima avevano tentato di ucciderlo? La risposta è difficile. A noi rimane il discorso-testamento di Paolo agli anziani di Efeso. Paolo leggendo il suo passato, il presente ed il futuro, presenta il modello del pastore, che dà tutto se stesso senza risparmio.
«Quando essi [anziani] giunsero disse loro: “Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei… Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni… » (cf At 20,18-23).

2. Paolo testimone-martire

Paolo si sta recando verso Gerusalemme ed ecco il secondo racconto della vocazione che interpreta la vita di Paolo come testimonianza fedele fino alla morte.
«Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito» (At 22,15 ).
Dio ha reso Paolo vaso di elezione (At 9,6), ma anche testimone-martire. Testimone nella misura che vede il giusto e ascolta una parola dalla sua bocca. Vedere e ascoltare sono i verbi della relazione che si fa comunicazione. Il vedere di Paolo è esperienza, l’ascolto è obbedienza della fede. Questo modo di vedere e di ascoltare rende Paolo capace di comunicare il vangelo non con uno stile dogmatico impositivo, ma come appello che tocca la profondità del cuore, dove avvengono le decisioni (cf 1Ts 2,3). Secondo Luca una linea ideale collega Gerusalemme e Roma. A Gerusalemme nasce la Chiesa; da Roma questa si espande fino ai confini del mondo. Paolo arriva nel cuore dell’impero non in trionfo ma all’interno di un processo ingiusto e doloroso, come è avvenuto per Gesù. Il Signore lo incoraggia:
«La notte seguente gli venne accanto il Signore e gli disse: “Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma”» (At 23,11).
Come Gesù va a Gerusalemme, così Paolo va a Roma a vivere la sua notte pasquale. A Luca sta a cuore indicare Paolo modello del vero discepolo che percorre la strada del Maestro e lo rappresenta. L’ultima parte degli Atti forma un chiaro parallelismo tra la passione di Gesù e quella di Paolo. “Il discepolo non è più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro” (Lc 6,40) sembra il quadro che meglio rappresenta  Paolo descritto da Luca.

Gesù va a Gerusalemme: Lc 9,51
Testimonianza davanti al Sinedrio: Lc 22,66ss.
Gesù lasciato ai giudei: Lc 23,1ss
Gesù resta solo: durante il processo dove sono i dodici?
Paolo va a Gerusalemme: Atti 21,1ss
Testimonianza davanti al sinedrio: Atti 23,1ss.
Paolo lasciato ai giudei: 23,12ss.
Paolo resta solo quando è accusato: dove sono i suoi?
«Secondo gli ordini ricevuti, i soldati presero Paolo e lo condussero di notte ad Antipàtride. Il mattino dopo, lasciato ai cavalieri il compito di proseguire con lui, se ne tornarono alla fortezza. I cavalieri, giunti a Cesarèa, consegnarono la lettera al governatore e gli presentarono Paolo» (At 23,31-33).

3. Paolo ministro-profeta

Nel cammino di identificazione cristocentrica, Paolo lucano comprende gli orizzonti sconfinati della prima Damasco. E’ vaso di elezione,  testimone-martire, ministro e profeta delle cose che ha già viste e di quelle che vedrà ancora. La conversione come passaggio dal buio alla luce, come apertura di orecchie deve continuare fino alla morte. Paolo, mediante il dono del Vangelo, apre gli occhi ai ciechi, fa sì che le tenebre che avvolgono e affliggono l’umanità lascino posto al giorno.
«Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando  ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me» (At 26,16-18).

La grande notte verso il giorno pieno

Nel parallelo lucano tra Paolo e Gesù, la grande notte di Gesù si conclude con la morte e la risurrezione a Gerusalemme, per Paolo nell’esperienza di morte vissuta simbolicamente nel naufragio a Malta. Qui Paolo con i compagni passa la prova delle acque (segno della morte). Egli ne esce vivo e fa uscire vivi gli altri, con lui. Gesù dopo la sua morte riceve la gloria, aprendo a noi le porte della salvezza; Paolo a Roma, cuore del mondo, annuncia la Parola di salvezza.
« Da vari giorni non comparivano più né sole, né stelle e la violenta tempesta continuava a infuriare, per cui ogni speranza di salvarci sembrava ormai perduta… Da molto tempo non si mangiava, quando Paolo, alzatosi in mezzo a loro, disse: “Sarebbe stato bene, o uomini, dar retta a me e non salpare da Creta; avreste evitato questo pericolo e questo danno… Mi è apparso infatti questa notte un angelo del Dio al quale appartengo e che servo, dicendomi: Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare ed ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione. Perciò non perdetevi di coraggio, uomini; ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato annunziato. Ma è inevitabile che andiamo a finire su qualche isola”. Come giunse la quattordicesima notte da quando andavamo alla deriva nell’Adriatico, verso mezzanotte i marinai ebbero l’impressione che una qualche terra si avvicinava» (cf At 27,9ss).
Per la terza volta, come tre sono i racconti della vocazione, Paolo riceve l’incoraggiamento “non temere” nel cuore della notte.
Non temere, Paolo, ma continua a parlare.
Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma.
Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare ed ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione.

Il giorno glorioso di Paolo

«Paolo finalmente giunge a Roma; i fratelli gli vengono incontro ed egli «al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio. Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia».
«Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento» (cf At 28,16ss).
A noi piacerebbe conoscere la conclusione della vita di Paolo. Luca non ha interesse a narrarla.
«Quando Paolo muore a Roma ha appena sessant’anni. Metà della sua vita, dopo l’esperienza di Damasco, l’ha passata da pellegrino del Vangelo, passando da una provincia all’altra dell’impero, dalla Siria alla Galazia, dalla Macedonia all’Acaia e all’Asia. Ha percorso una decina di migliaia di chilometri, via terra e per mare. Egli ha desiderato e atteso il viaggio a Roma come punto di partenza per la missione in occidente. Vi è arrivato come prigioniero per il Vangelo e con la sua decapitazione ha posto il sigillo alla sua testimonianza. Paolo non ha fondato la Chiesa di Roma, ma con il suo “martirio” ne ha segnato per sempre la storia. Il suo primo biografo Luca, anche se ha steso un velo sulla sua condanna a morte nella capitale dell’impero, ha intuito la dimensione storica e simbolica della sua testimonianza. La morte di Paolo a Roma rappresenta il compimento della missione affidata da Gesù risorto ai suoi discepoli, perché da questo centro giungesse in tutto il mondo»8.

Conclusione

All’inizio di questa riflessione ci siamo domandati se la fede, per caso, fosse più che luce, un’angosciosa certezza. Paolo ci ha testimoniato che la fede è un luminoso incontro con Dio che in Gesù dà significato al non senso umano, e al tragico che caratterizza la nostra esistenza. Il cammino nella fede e non nella visione che caratterizza Paolo e ognuno di noi, è il cammino percorso dal Figlio di Dio “il quale essendo di condizione divina” accetta di camminare nell’oscurità, assumendo la condizione di servo fino alla morte di croce. L’autore dello scritto agli Ebrei lo ricorda chiaramente: «Nei giorni della sua vita terrena pianse…» (Eb 5,7-8). Dall’alto della croce Gesù, tentato dai suoi denigratori, accettò la sua ‘notte’. Non scese miracolisticamente in mezzo agli uomini, ma si abbandonò (cadde) nelle mani del Padre. Così la notte più tenebrosa della storia si trasformò nel giorno glorioso, senza fine. Paolo dal canto suo afferma: «Nessuno mi dia fastidi, io porto nel mio corpo le stigmate di Cristo» (Gal 6,17).
Il credente, testimonia Paolo, non si ritiene esonerato dall’angoscia, dalla fatica di entrare nella notte, dallo smarrimento e dalla paura. Chi crede guarda Gesù la cui esistenza è stata una lotta contro la tentazione e la prova, un entrare nella morte per uscire nella vita o entrare nella notte per divenire giorno pieno. Paolo, che ha imparato a vivere le notti della incomprensione, della persecuzione, della fede, afferma con certezza che noi siamo “figli della luce e del giorno” (cf 1Ts 5,4). Mentre ripete: «Fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1) consegna il grande segreto che rese luminose le sue notti : «Mi amò e ha consegnato se stesso per me» (cf Gal 2,20). Ecco la sua certezza straordinaria: «Ti basta la mia grazia», cioè il mio amore forte come la morte. Di qui l’abbandono fiducioso e intraprendente: «Quando sono debole è allora che sono forte» (cf 2Cor 12,7-12).
La fede, perciò, non è un’angosciosa certezza, ma una luminosa speranza, fondata sulle basi sicure dell’amore di Dio. Per me egli ha dato suo Figlio. E se Dio è con noi chi sarà contro di noi? Chi potrà separarci dal suo amore? Niente e nessuna creatura ci potrà mai separare dal suo amore (cf Rm 8,39). La stessa morte, madre di tutte le notti e delle paure a essa connesse, “ è stata ingoiata per la vittoria”. «Siano rese grazie a Dio che ci dà vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (cf 1Cor 15,56), che è il nostro giorno senza fine.

Evangelizzare o testimoniare? Il caso di Paolo negli Atti degli Apostoli

dal sito:

http://it.ismico.org/content/view/4679/62/

Evangelizzare o testimoniare? Il caso di Paolo negli Atti degli Apostoli     

Partendo dalla costatazione che nel libro degli Atti il vocabolario della testimonianza è più esteso di quello dell’evangelizzare, mi chiederò quale è il rapporto tra i due campi semantici, paragonando Pietro e Paolo, per vedere se la testimonianza di Paolo ha lo stesso oggetto, lo stesso status e la stessa funzione per il narratore degli Atti (Nr). Vedendo come egli struttura la testimonianza, cercherò di trarne le conseguenze per noi oggi.

Le componenti della testimonianza

1. Componenti definite da Gesù stesso

Tutti i commentatori ammettono che, negli Atti e in tutte le sue componenti, la testimonianza va definita da Gesù: «Lo Spirito Santo verrà su di voi e riceverete da lui (la) forza per essermi testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, nella la Samaria e fino all’estremità della terra» (At 1,8). La formula mette in risalto il legame tra Gesù e i testimoni. Il pronome greco «di me» è allo stesso tempo un genitivo di origine — gli apostoli sono testimoni perché costituiti e dichiarati tali da Gesù —, un genitivo soggettivo — perché Gesù è più che mai il loro signore —, e un genitivo oggettivo — perché parleranno di lui. Certo, l’enunciato non dispiega chiaramente il contenuto della testimonianza, ma siccome si tratta di un esordio, tutto rimane ancora conciso e sfocato.
Che Gesù abbia anche fissato l’estensione della testimonianza, At 1,8 lo indica palesemente. Gesù dice che la testimonianza deve estendersi fino ai confini della terra, e così determina e definisce ciò che oggi chiamiamo la missione. Inoltre, il suo contenuto è radicalmente cristologico: la testimonianza (riguardante Gesù) costituisce la finalità della missione, e la sua estensione diventa uguale a quella del Vangelo1.
Oltre a fissare l’oggetto e l’estensione della testimonianza, Gesù stabilisce la condizione senza la quale essa non può essere effettuata, cioè il dono dello Spirito: quanto alla testimonianza, la competenza viene dal ricevere lo Spirito Santo. E che la testimonianza dipenda da questo dono, Pietro stesso lo riconosce e lo ribadisce spesso2. Certo, in At 1,8, il lettore non può ancora sapere perché lo Spirito deve dare forza — e non brillanti doti retoriche — per testimoniare: lo sfondo di violenza e di persecuzione giustificherà man mano la scelta del vocabolo. Solo la forza dello Spirito potrà venire in aiuto alla fragilità di quelli devono essere testimoni di fronte a potenze e autorità contrarie, che non esiteranno a perseguitare, persino a mettere a morte i testimoni di Gesù (At 7).

2. Componenti ben note dai discepoli

Senza accontentarsi di notare che Gesù risorto stesso ha elencato le componenti della testimonianza — seppure di maniera incoativa —, il racconto insiste anche sul fatto che i discepoli hanno ben colto il messaggio del loro Signore. La prima cosa che Pietro chiede ai compagni è di procedere alla sostituzione di Giuda (At 1,15-26). Nel discorso che rivolge loro, egli dice: «Bisogna che tra coloro che furono con noi per tutto il tempo in cui il Signore Gesù è stato nostro capo, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto (in cielo), uno divenga, insieme a noi, testimone della sua risurrezione» (v.21-22). Ovviamente, la condizione previa — e per ciò segnalata anteriormente alla testimonianza — è di essere stato con Gesù fin dall’inizio, di aver visto ciò che ha fatto e sentito ciò che ha detto: non basta quindi essere divenuto suo seguace poco prima della sua Passione o averlo visto risorto, per appartenere al gruppo dei Dodici. Ma questa condizione, espressa in uno stile poco scorrevole, sbocca nel punto decisivo, cioè la necessità di avere dei testimoni della risurrezione di Gesù, per annunziarla. Così va enunciata un altra condizione essenziale della testimonianza riguardante Gesù: la sua pluralità o, più esattamente, il suo carattere collegiale. Dall’essere o camminare insieme si passa al testimoniare insieme. L’uomo scelto per sostituire Giuda non lo è per testimoniare da solo, ma per testimoniare con gli altri della risurrezione del Signore. Pero, la testimonianza non deve essere soltanto plurale o molteplice — come se un più grande numero dovesse essere più affidabile — ma anche convergente, perché viene da un gruppo di compagni.
Il giorno della Pentecoste, lo stesso Pietro ripeta ciò che ha anteriormente detto, cioè che loro sono testimoni della risurrezione di Gesù (At 2,32). Qui, per la prima volta, va chiaramente enunciato da un discepolo il rapporto tra risurrezione, invio dello Spirito e testimonianza: essendo risorto e avendo ricevuto lo Spirito, Gesù lo ha effuso sui apostoli, dando loro la possibilità di testimoniare della sua risurrezione.
Come lo si vede, la conoscenza che Pietro ha delle condizioni e componenti (cioè del processo) della testimonianza indica che lo Spirito ha operato come lo doveva, rendendo competenti e capaci i discepoli finora impauriti. Inoltre, per Pietro in At 2, l’effusione dello Spirito non è solamente ciò che permette di testimoniare; i suoi effetti — profezie, parlare in altre lingue, ecc. — descritti dal narratore nel v.4-12 ed elencati da Pietro nei v.16-20, costituiscono una prova maggiore della risurrezione di Gesù; profetizzando per mezzo dello Spirito ricevuto in abbondanza, gli apostoli testimoniano della vittoria e della signoria di colui che era stato crocifisso. La profezia è più che mai testimonianza.
Ma deve essere sottolineato che Pietro e gli altri non si accontentano di testimoniare: dicendo perché lo fanno, dimostrano di sapere perché lo fanno. In altri termini, nella prima parte del libro degli Atti, la testimonianza include una conoscenza delle sue condizioni, delle sue componenti e della sua finalità; così, il dichiararsi testimoni fa parte del testimoniare.
Quanto all’oggetto del loro testimoniare, è quasi esclusivamente la risurrezione di Gesù, almeno fino al cap. 13:
At 1,22 Pietro: «(occorre che l’uno…) sia con noi testimone della sua risurrezione» At 2,32 Pietro: «Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni» At 3,15 Pietro: «Dio l’ha risvegliato dai morti, noi ne siamo testimoni» At 4,33 il narratore: «con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù».
At 5,32 Pietro: «di questi fatti [la risurrezione] noi siamo testimoni e lo Spirito…»
At 10,41s Pietro: «[Gesù risorto visibile] non a tutto il popolo ma a testimoni prescelti da Dio .. e ci ha ordinato di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio» At 13,31 Paolo: «Egli si fecce vedere per molti giorni a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, e questi ora sono i suoi testimoni davanti al popolo.»
Solo in At 10,39 Pietro dichiara che i discepoli sono testimoni «di tutto ciò che Gesù ha fatto nel paese dei Giudei e a Gerusalemme». Ma il contesto spiega bene perché l’apostolo fa questa aggiunta. Infatti, egli si rivolge a un gruppo di pagani; se questi hanno già sentito parlare di Gesù di Nazareth, del suo ministero e della sua morte, non hanno potuto, a differenza delle folle giudaiche che seguivano assiduamente Gesù dappertutto, vedere le sue guarigioni e udire il suo insegnamento. Pietro deve quindi star garante per loro del ministero salvifico di Gesù. La testimonianza suppone quindi un uditorio che non ha avuto contatto diretto con le persone o gli eventi di cui si parla. Se quindi nella prima parte degli Atti la testimonianza si fissa sulla risurrezione di Gesù, è dovuto al fatto che, tramite il loro portavoce Pietro, gli apostoli si rivolgono ai Giudei che avevano incontrato Gesù, lo avevano seguito e conoscevano bene i suoi miracoli: era inutile testimoniare di cose che loro stessi avevano potuto controllare. È quindi normale vedere la testimonianza estendersi al ministero di Gesù per chiunque non lo ha personalmente incontrato. Per forza, con il tempo e lo spazio, la testimonianza apostolica deve anche coprire tutta la vita di Gesù. Vale a dire che tra le righe dei discorsi di Pietro in At 1 e 10, il narratore lucano giustifica la prima parte del suo dittico come traccia scritta della testimonianza apostolica riguardante la vita pubblica di Gesù, traccia necessaria non soltanto per il lettore del suo tempo ma per tutti quelli dei secoli futuri. In breve, se gli apostoli sottolineano il loro essere testimoni della risurrezione, a seconda delle circostanze e dei destinatari ne estendono l’oggetto a tutta la vita di Gesù.
Se, presso i Giudei della Palestina d’allora, gli apostoli testimoniano innanzitutto della risurrezione, il lettore di At 13,16-41 non può non chiedersi perché Paolo non si menziona tra la lista dei testimoni della risurrezione. Dopo aver detto: «egli [Gesù] si fecce vedere per molti giorni a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, e questi ora sono i suoi testimoni davanti al popolo», Paolo non aggiunge: «anche io sono testimone della sua risurrezione, perché mi è apparso; l’ho visto e sentito». È o non è testimone della risurrezione di Gesù, e se lo è, perché tace l’incontro di Damasco?

Quali testimoni e quale testimonianza?

1. Paolo testimone accreditato?
Se, in At 13,31-32, Paolo omette di dire che il Risorto gli è apparso nei dintorni di Damasco è dovuto, come lo dicono alcuni, al fatto che egli sa di non avere lo status di apostolo e quindi di non poter testimoniare con una autorità uguale alla loro? Certo no, perché, poco dopo (At 14,4.14), il narratore chiamerà Barnaba e Paolo apostoli.
Certo si potrebbe obiettare che, a differenza degli altri, loro ricevono quel titolo solo una volta, ma una tale obiezione non è rilevante, perché il titolo è collettivo; il narratore non dice mai: «l’apostolo Pietro» o «l’apostolo Giacomo», ecc., ma utilizza sempre il vocabolo apostoli al plurale. Che Paolo non sia mai chiamato apostolo non significa che il narratore non lo consideri tale, ma che focalizzando sul suo ministero a partire da At 16 (Barnaba e Paolo si sono separati in At 15,39-40), non avrà più l’occasione di applicargli un titolo adoperato al plurale.
Pur essendo uno degli apostoli, Paolo non sarebbe un testimone uguale agli altri? La risposta deve ancora essere negativa. Così come Pietro, Paolo è sicuro di essere un testimone accreditato; il narratore lo afferma, Paolo stesso dice pubblicamente che gli è stato notificato da Dio e dichiara di esser stato tale: At 18,5 il narratore: «Paolo si dedicò alla predicazione, testimoniando davanti ai Giudei che Gesù era il Cristo» At 20,21 Paolo agli Anziani di Efeso dice di aver: «scongiurato Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel nostro Signore Gesù» At 20,24 idem : «il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio» At 22,15 Paolo, citando ciò che gli disse Anania: «gli [= Gesù] sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito» At 22,18 Paolo, ripetendo le parole del Risorto: «affrettati ed esci presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza su di me» At 23,11 il narratore: «il Signore gli [= Paolo] disse: ’Coraggio! Come hai testimoniato di ciò che mi concerne a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma’» At 26,16 Paolo citando le parole del Risorto: «ti sono apparso per costituirti servitore e testimone di quelle cose (cioè la visione) in cui mi hai visto» At 26,22 Paolo: «L’aiuto di Dio mi ha assistito fino a questo giorno e ho reso testimonianza agli umili e ai grandi» At 28,23 il narratore: «rendendo la sua testimonianza, egli [Paolo] esponeva loro il Regno di Dio cercando di convincerli riguardo a Gesù, a partire dalla Legge e dei Profeti» Così come gli altri apostoli, Paolo attesta quindi la realtà della risurrezione e della presenza di Gesù alla sua Chiesa. Allora, perché in At 13,31-32 egli non menziona il suo nome tra quelli che hanno incontrato il Risorto?

2.Quando Paolo parla del suo essere testimone?

Ovviamente, nel discorso pronunciato di fronte agli Ebrei di Antiochia di Pisidia, Paolo utilizza il vocabolario dell’annuncio per descrivere il suo ruolo e quello di Barnaba: «Noi vi annunziamo la buona novella …» (v.32). Senza dubbio si tratta di un annuncio evangelico, come lo conferma ampiamente la seconda parte del discorso (v.26-41), che ha tutte le caratteristiche del kerigma primitivo, sottolineando bene che la testimonianza è resa da coloro che «sono saliti con lui [Gesù] dalla Galilea a Gerusalemme». Ovviamente, Paolo non ha seguito Gesù sulle strade della Palestina e non può essere testimone della vita di Gesù come loro. Ma se in seguito il racconto ci dirà che Paolo è vero testimone, perché egli stesso non lo dice durante questo discorso? Possiamo per quanto riguarda la predicazione di Paolo, rilevare nel racconto lucano una vera progressione: (1) poco tempo dopo l’incontro con il Risorto (At 9,20) : annuncio e predicazione segnalate dal narratore, ma senza che il contenuto ne sia offerto al lettore; (2) missione ufficiale (At 13-20) con due discorsi missionari emblematici dei due mondi ai quali si rivolge Paolo, ma senza che Paolo si dichiari testimone: – primo discorso: agli Ebrei di Antiochia (At 13,16-41), – secondo discorso: ai Greci e pagani di Atene (At 17,22-31) (3) prigioniere, accusato, Paolo presenta la sua difesa di fronte a autorità ebree e romane, in diversi discorsi3; egli parla del suo essere testimone di Gesù Cristo in At 22 e 26.
Appaiono chiaramente le scelte del Nr: solo alla fine, quando deve difendersi, Paolo parla di testimonianza: da accusato diventa veramente testimone di Cristo, perché, in fine dei conti, tramite lui, è il Vangelo cioè Cristo stesso che va rigettato e accusato.
Ma il lettore attento non può non vedere la differenza tra il modo in cui Pietro e Paolo si presentano come testimoni. Il primo insiste fortemente sul «noi ne siamo testimoni», mentre il secondo non dice mai: «Io sono testimone», ma si accontenta di riportare ciò che gli ha dichiarato Gesù, tramite Anania o direttamente in visione: «mi è stato detto: ‘sarai testimone’ o ‘mi renderai testimonianza’». Più che all’affidabilità della sua parola, Paolo rinvia a quella che gli ha dato la sua competenza e quindi il dovere di parlare in conseguenza. In breve, il racconto lucano descrive l’evoluzione della testimonianza in Cristo Risorto: dall’attestare la realtà della risurrezione (Pietro), si passa al racconto di un incontro avendo cambiato una vita al punto di esserne il punto di riferimento per eccellenza, per se e per gli altri (Paolo).

Da una testimonianza all’altra

1. Altre dimensioni della testimonianza apostolica

L’episodio di Cornelio (At 10,1 — 11,18) è importante non soltanto perché determina decisamente e definitivamente il futuro della Chiesa — l’ammissione dei pagani avrà conseguenze inaudite, già all’interno del racconto lucano e per il suo snodarsi — ma perché permette agli apostoli di riflettere sulle vie di Dio, e, correlativamente, di rilevare e valutare l’importanza della loro testimonianza.
Ciò che dovrebbe colpire il lettore in quel brano è la ripetizione dei motivi: il narratore non si accontenta di descrivere le visioni di Cornelio (10,3-6) e Pietro (10,9-16), i personaggi del racconto le menzionano anch’essi4. Senza studiare tutti i particolari dell’episodio, andiamo subito al dunque: a Cornelio la voce celeste non notifica nient’altro che di «far venire un certo Simone detto anche Pietro» (10,5). Il messaggio è chiaro: tocca a Pietro e a lui solo parlare di Cristo; la voce, pur essendo celeste non ha voluto sostituirsi all’apostolo, ed è interessante vedere come questo aspetto è narrativamente sottolineato: Cornelio invia subito tre messaggeri (v.7-8), e quando Pietro arriva a casa sua, vede che il centurione lo aspetta da tempo (v.24b), non da solo ma con tutta la famiglia e con molti amici (v.24b. 27); questi sono segni ovvi che per lui e i suoi, la venuta di Pietro ha una importanza decisiva. Se la divinità non ha dunque direttamente rivelato Gesù Cristo a Cornelio ma ha voluto che Pietro lo facesse, è senz’altro per indicare il carattere insostituibile della testimonianza apostolica.
Così la tensione narrativa è orientata verso ciò che Pietro sta per dire. Ora, il lettore, che ha già sentito i lunghi sviluppi kerigmatici dell’apostolo si rallegrerà forse di leggerne uno molto breve, ma deve ammettere che, per i pagani che non hanno mai sentito parlare del Nazareno, questo kerigma è per lo meno conciso; sarebbe stato più che opportuno parlare a lungo della vita di Gesù, delle sue numerose guarigioni, del suo insegnamento, della sua Passione e morte ingiusta, della sua risurrezione e del tempo passato con i discepoli prima di andarsene lassù! Il contrasto tra l’attesa di Cornelio e la performance di Pietro è palese. Si obietterà forse che Luca no vuole indisporre il suo lettore e che si accontenta di riportare per sommi capi ciò che l’apostolo ha detto, a fine di arrivare più presto all’apice della scena, cioè l’effusione dello Spirito. È in parte vero. Ma allo stesso tempo, si deve cogliere la tecnica utilizzata; più che al contenuto del kerigma, senz’altro conosciuto da lui, il lettore deve stare attento al vocabolario della testimonianza che compare massicciamente; una comparsa così densa è unica nel libro degli Atti: v.39 «noi (siamo) testimoni de tutte le cose che egli ha fatte nella regione dei Giudei e a Gerusalemme» v.41 «(Gesù apparve) non a tutto il popolo ma a testimoni, quelli prescelti da Dio» v.42 «(Gesù) ci ha ordinato di proclamare al popolo e di testimoniare che egli è stato designato da Dio come giudice dei vivi e dei morti» v.43 «a lui (Gesù) tutti i profeti rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome» Tre sono i punti che dovrebbero destare la nostra attenzione: (i) Come già detto sopra, se Pietro dice di essere testimone dell’intero ministero di Gesù (v.39), è perché sta in mezzo a persone che non lo hanno mai visto e che lo conoscono solamente per sentito dire. E ciò significa, l’abbiamo anche indicato, che, secondo Pietro, non possiamo andare al Gesù di Nazareth se non per mezzo del racconto autorevole degli apostoli (condizione necessaria). (ii) La loro testimonianza è anche sufficiente, esclusiva? A dire il vero, Pietro stesso stabilisce una differenza tra la testimonianza riguardante la vita pubblica di Gesù e quella relativa alla sua risurrezione. La prima non è esclusiva; di fatti, se gli apostoli possono (e devono) testimoniare di ciò che hanno visto e udito, non sono stati gli unici a seguire il loro maestro; anche quelli che non appartenevano al loro gruppo possono raccontare gli eventi ai quali hanno partecipato. Ma, per la risurrezione, l’apostolo dichiara esclusiva la loro testimonianza: Gesù apparve «non a tutto il popolo, ma (solo) ai testimoni» accreditati, perché prescelti da Dio stesso (v.41). Per la risurrezione, il riferimento alla testimonianza apostolica è quindi imprescindibile.
Tutt’altra testimonianza che pretenderebbe sostituirla va immediatamente scartata. (iii) A dire il vero, anche riguardo alla risurrezione, la testimonianza apostolica non è esclusiva; Pietro stesso invoca le Scritture profetiche (v.43). Ma il lettore deve rilevare l’ordine nel quale le rispettive testimonianze sono menzionate5: prima gli apostoli, e, solo dopo, le Scritture. Così va stabilita la necessaria complementarità dei due momenti; le Scritture non bastono: senza l’incontro personale con il Risorto, esse rimangono profezie non compiute; ma, senza le profezie, l’annuncio degli Apostoli potrebbe essere ricevuto come quello di uomini stregati, squilibrati o creduli6. Ma c’è di più, l’ordine scelto da Pietro (e dal narratore) veicola una teoria del rapporto tra le due testimonianze: certo, le Scritture sono un testimone da non scartare, ma lo diventano concretamente per mezzo della giusta testimonianza degli Apostoli7. La lettura che loro ne fanno, consente alle Scritture di diventare ciò che devono essere, cioè testimoni del progetto salvifico di Dio per la nostra umanità, progetto annunciato e compiuto in Gesù, suo Figlio. La testimonianza apostolica è quindi essenziale e anteriore (nel senso appena detto8) alle altre forme di testimonianza, perché queste ultime dipendono da essa per essere riconosciute come profezie ordinate a Gesù il Risorto! Altrimenti detto, se l’apostolo non riempie il suo compito gli altri testimoni non potranno fare altrettanto. La posta in gioco è indiscutibile.
Questi punti chiariti, possiamo tornare al rapporto studiato: in At 10,34-48, la testimonianza di Pietro precede il ‘cadere’ (v.44) dello Spirito su Cornelio e i suoi. Ovviamente, la progressione del testo lascia intendere che l’esito dipende da ciò che deve dire Pietro9: lo Spirito ricevuto è quello di Gesù, quello annunciato dai profeti, ecc. Di fatto, il lettore attento non può non averlo notato, è proprio quando l’apostolo parla della remissione dei peccati (nel nome di Gesù) annunciata dai profeti che lo Spirito di profezia cade sugli ascoltatori! Così va evidenziata la funzione soteriologica della testimonianza.
Se tale è il legame tra testimonianza e dono dello Spirito per il racconto lucano, sorprende tanto più il fatto che Luca non menziona lo Spirito quando Paolo rende testimonianza al Signore (ad es. in At 22 e 26).

2. La testimonianza di Paolo

Abbiamo infatti visto che il libro degli Atti include Paolo tra gli apostoli e i veri testimoni della risurrezione di Gesù. Ma allora perché non va detto che la sua testimonianza è provocata e ispirata dallo Spirito? Paolo non avrebbe ricevuto lo Spirito? Ma il racconto indica bene che, a questo riguardo, quel testimone non ha niente da invidiare agli altri apostoli. Egli ha ricevuto lo Spirito Santo e, sin dall’inizio, sa di averlo ricevuto; di più il suo ministero porta frutti spirituali: Ac 9,17 Anania imponendo le mani a Paolo: «mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via, perché … tu sia colmo di Spirito Santo» Ac 13,2 il narratore: «lo Spirito Santo disse (alla comunità riunita): ‘Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati’» Ac 13,4 il narratore: «essi [Paolo e Barnaba] inviati dallo Spirito Santo…» Ac 13,9 il narratore: «allora Saulo, detto ancora Paolo, pieno di Spirito Santo…» Ac 19,6 il narratore: «non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano» Ac 20,22-23 Paolo agli anziani di Efeso: «avvinto dallo Spirito vado a Gerusalemme… Lo Spirito Santo mi lo attesta: catena e tribolazioni mi aspettano» Questi sono testi indiscutibili. Se Paolo ha pienamente ricevuto lo Spirito, se la sua
testimonianza è autentica, e se, d’altra parte, nel libro degli Atti, testimonianza e Spirito sono indissociabili, perché non si dice che lo Spirito accompagna la sua testimonianza?
Come l’ho già rilevato, che lo Spirito Santo non sia menzionato tra At 21,11 e 28,2510, non significa che non aiuti Paolo ormai prigioniero a testimoniare bene del suo Signore. Per interpretare correttamente il fenomeno, bisogna piuttosto tenere presenti le tecniche lucane. Ora, la prima risposta, senz’altro insufficiente e poco convincente, consisterebbe a dire che i discorsi di At 22-26 non sono kerigmatici, cioè non hanno per funzione di presentare la Passione, la morte e la risurrezione di Gesù per suscitare una risposta di fede e una condotta etica corrispondente. Se, dunque, Spirito e kerigma vanno insieme, l’assenza di un elemento spiegherebbe quella dell’altro. Può darsi, ma il discorso di Stefano in At 7 non ha la forma di un kerigma e la sua finalità non è di suscitare la fede degli ascoltatori; eppure il narratore segnala che il diacono si esprime «pieno di Spirito Santo» (7,55), e Paolo stesso, in At 22, conferma che il discorso del diacono è stato una testimonianza vera e definitiva, perché compiuta con la morte: «quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch’io ero presente». La forma non kerigmatica dei discorsi di Paolo in At 22-26 non basta a spiegare perché i vocaboli Vangelo/evangelizzare non vi compaiono.
È invece istruttivo vedere come il racconto prepara il lettore a non vedere più menzionato lo Spirito Santo durante la Passione di Paolo. Infatti, in At 20 e 21, Paolo dice che lo Spirito l’ha avvertito delle sue tribolazioni (20,23); in altre parole, il narratore ci fa capire che, come Gesù11, così Paolo annunzia la sua Passione; ma è chiaro, e la synkrisis lo esige, Paolo la vivrà come il suo Signore, nell’insicurezza, la precarietà e la povertà; lo Spirito di profezia si manifesta proprio prima della Passione, una ultima volta in At 21,11, per indicare che egli non si manifesterà più con la forza per mezzo della quale era finora riconosciuto: l’apostolo sta per essere avvinto, circondato, minacciato, così come il suo Signore. Lo Spirito non si manifesta più con fenomeni straordinari, pur proteggendo efficacemente Paolo attraverso le sue vicende.
Il lettore non si stupirà quindi di sentire l’apostolo, in At 22 e 26 riportare le parole con le quali il Risorto si presenta a lui: «sono Gesù (il Nazareno) che perseguiti»12; quando perseguitava i discepoli, Paolo perseguitava in realtà Gesù stesso, e adesso, perseguitando Paolo, i giudei ai quali si rivolge fanno lo stesso: per la bocca di Paolo è Gesù stesso, perseguitato, che è riconoscibile! Paolo testimonia veramente del suo Signore perché vive la stessa Passione: egli testimonia del Risorto nel patire; anzi, il suo patire è quello del Risorto. La testimonianza raggiunge così il suo apice perché è vissuta, non soltanto enunciata.

3. La testimonianza di Paolo e la nostra

In At 22 e 26, la descrizione che Paolo fa del Risorto è breve, così come le parole stesse di Gesù che d’altronde si accontenta di citare. Non dice niente sulla vita di Gesù, niente su ciò che gli è stato rivelato del mistero del Figlio di Dio. L’apostolo insiste piuttosto sulla trasformazione provocata da questo incontro. Tutta la sua vita ne è stata radicalmente cambiata. Per lui, testimoniare significa quindi raccontare l’itinerario di una conversione, di un amore ricevuto e proclamato. La vita di Paolo è diventata testimonianza, perché raccontandola egli rivela allo stesso tempo il perdono e l’amore del suo Signore: annunciarlo significa allora raccontare ciò che gli è successo, il cammino suo, ecc.
Così il narratore degli Atti fa capire al suo lettore il tipo di testimonianza richiesto da lui, lettore, che, come Paolo, non ha conosciuto Gesù sulle strade di Galilea e Giudea. Certo, la nostra testimonianza non si sostituisce a quella degli apostoli, ma la loro, pur rimanendo un punto di riferimento necessario, può avere la forza dimostrativa e attiva solo se i credenti di tutti i tempi possono testimoniare del loro incontro personale con Cristo e di ciò che quell’incontro ha cambiato nella loro vita.

Conclusione

Il narratore del libro degli Atti espone dunque una originale teoria sulla testimonianza. Spero di aver mostrato, seguendolo e mettendo in rilievo le sue tecniche, che egli ci indica il cammino che porta ogni credente a testimoniare e, allo stesso tempo, il cammino che ogni testimonianza fa fare, quando nell’estrema precarietà e nelle le catene il discepolo sperimenta la gioia della vera libertà.

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1 Uno studio del rapporto tra i campi lessicali del Vangelo e della testimonianza negli Atti è qui escluso. Certo, se tutti e due i campi hanno come oggetto Cristo, insistono nondimeno su aspetti diversi: il Vangelo designa il contenuto dell’annuncio, e la testimonianza connota piuttosto l’impegno degli araldi (la loro convinzione, fino alla morte, ecc.) nonché la loro veracità (e quindi la validità dell’annuncio). D’altronde, se si considera lo snodarsi del racconto, è possibile dire che il testimoniare è più esteso dell’evangelizzare): infatti, il vocabolario del Vangelo scompare dopo At 20,24 (o 21,8), mentre quello della testimonianza va fino alla fine del libro (cf.At 28,23). Questa differenza viene senz’altro dal fatto che, per il racconto, la missione di evangelizzazione effettuata da Paolo finisce (ufficialmente) in At 20. Con il suo arresto nel Tempio inizia, come lo vedremo, un altro modello di testimonianza, determinato dalla situazione di prigioniero e dal tipo di discorsi (difese nei tribunali, ecc.) che essa implica.
2 Vedere ad esempio At 2,32-33; 5,32.
3 At 22,1-21; 24,10-21; 26,2-23
4 Visione di Cornelio descritta dal narratore (10,3-6) visione di Pietro descritta dal narratore (10,9-16); visione di Cornelio riferita dagli inviati di Cornelio (10,22); visione di Cornelio presentata da Cornelio stesso (10,30-32); visione di Pietro narrata da Pietro stesso (11,5-10); visione di Cornelio presentata da Pietro (11,13-14).
5 Questo non è casuale, come lo si può verificare a partire da At 2,32-36 (la testimonianza apostolica precede il ricorso alle Scritture), 13,31-39 (id.).
6 Sul rapporto tra esperienza e coerenza, mi permetto di rinviare al mio saggio, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del vangelo di Luca, Queriniana. Brescia 1991, 151-169.
7 Che questa teoria non sia ancora presente nelle formule kerigmatiche antichissime, brani come 1 Cor 15,3-5 lo confermano.
8 Cioè come testimonianza, perché cronologicamente le Scritture sono ovviamente di molto anteriori agli eventi descritti nel libro degli Atti.
9 Cornelio dice all’apostolo che tutti sono pronti «ad ascoltare tutte le cose ordinate a te dal Signore» (v.33). Ma il Signore non ha dettato niente a Pietro, il quale non deve recitare un discorso ‘premasticato’. L’opinione
(sbagliata) di Cornelio ha per funzione di sottolineare l’importanza della testimonianza di Pietro: non è lui ad
aver deciso di parlare, ma è il Signore stesso che richiede, per la bocca di Cornelio (cioè di chi ne ha bisogno) la sua testimonianza riguardante Gesù.
10 In At 23,8.9 il vocabolo pneuma non designa lo Spirito Santo.
11 Lc 9,22; 9,43-45; 18,31-34.
12 At 22,8 e 6,15 (‘il nazareno’ manca in 26,15).

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