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PAOLO APOSTOLO E TESITORE DI TENDE LA BOTTEGA SOME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

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PAOLO APOSTOLO E TESITORE DI TENDE LA BOTTEGA SOME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

A CURA DELLA REDAZIONE

Novembre 2008

L’articolo è tratto liberamente da una riflessione di Ronald F. Hock in The Social Context of Paul’s Ministry: Tentmaking and Apostleship, Philadelphia, Fortress 1980.

In uno dei suoi trattati politici, Plutarco critica alcuni filosofi perché rifiutavano di conversare con le autorità nel timore di essere considerati ambiziosi o troppo ossequienti. Per evitare il diffondersi di una tale situazione, Plutarco suggerisce che l’unica alternativa per l’uomo dalla mente aperta e desideroso di praticare la filosofia è fare l’artigiano, per esempio, il calzolaio, in modo da avere l’opportunità di conversare nella bottega, come Simone il calzolaio aveva fatto con Socrate. Questo suggerimento di Plutarco, che la bottega fosse un luogo che potesse ospitare discorsi intellettuali, è interessante e fa sorgere l’interrogativo se altre botteghe, specialmente quelle usate ai suoi tempi da Paolo, il tessitore di tende, nei suoi viaggi missionari, siano state utilizzate allo stesso modo nelle città della Grecia orientale. Questa tesi, pur avanzata dagli studiosi, non è mai stata studiata a fondo. Questo articolo è un tentativo di approfondire l’esame dei contesti sociali in cui si sono svolti la predicazione e l’insegnamento dei primi cristiani.
È noto che Paolo era un tessitore di tende. Questo suo lavoro è sempre stato considerato come un’eredità della sua tradizione ebraica. L’attività lavorativa di Paolo è considerata come un residuo della sua vita di fariseo ed è spiegata nei termini di un ideale rabbinico che cerca di associare lo studio della Torah con la pratica di un mestiere. Vorremmo ora portare il dibattito al di là dell’aspetto strettamente ebraico.

LA BOTTEGA DI PAOLO
Per una discussione sull’uso missionario della bottega da parte di Paolo, si deve sottolineare l’evidenza che lo colloca nelle botteghe delle città da lui visitate. Luca indica che Paolo aveva lavorato come tessitore di tende solo in Corinto e Efeso (At 18,3; 20,34); ma le Lettere di Paolo aggiungono Tessalonica (1 Ts 2,9) e – più importante – afferma che in generale la pratica missionaria era di lavorare per potersi mantenere (1 Cor 9,15 – 18). E allora, il riferimento di Paolo al lavoro di Barnaba per sostenere se stesso (1 Cor 9,6) dovrebbe coprire i cosiddetti primi viaggi missionari e la sua permanenza in Antiochia (At 13,1 – 14,25; 14,26-28; 15,30-35), il tempo in cui Luca pone Barnaba come suo compagno di viaggio. Il riferimento di Paolo al suo lavoro a Tessalonica (1 Ts 2,9) e la sua conferma dell’affermazione di Luca riguardante Corinto (1 Cor 4,12) si applicherebbe anche al secondo viaggio missionario (At 16,1 – 18,22). Il riferimento al suo lavoro in Efeso (cfr. 1 Cor 4,11: « fino ad ora »), di nuovo conferma il ritratto di Luca e la sua insistenza nel mantenersi economicamente, durante un futuro viaggio a Corinto (2 Co 12,14), confermerebbe questa pratica anche nel terzo viaggio missionario (At 18,23 – 21,16). In At 28,30 vediamo Paolo presumibilmente lavorare in seguito anche a Roma. In breve, le Lettere e gli Atti mettono in evidenza l’Apostolo nelle botteghe dove predicava e insegnava. Ma che cosa faceva Paolo nella bottega, oltre al suo lavoro di tessitura? Di cosa parlava? Sfruttava l’occasione per una predicazione missionaria?
Una risposta affermativa sembra verosimile, dato il suo impegno nella predicazione del Vangelo. Però né le Lettere, né gli Atti dicono esplicitamente che Paolo utilizzava la bottega per la predicazione. Il silenzio delle Lettere in proposito non è un problema, perché Paolo è di solito silenzioso o vago sulle circostanze della sua predicazione missionaria (cfr. per esempio 1 Cor 2,1-5). Con gli Atti tuttavia la situazione è diversa.
Il silenzio di Luca negli Atti può essere parzialmente spiegato perché l’evangelista era interessato a raccontare le esperienze di Paolo nella sinagoga. Solo in Atene, il centro della cultura greca e della filosofia, questo interesse è lasciato da parte in deferenza alle esperienze di Paolo al mercato (At 17,17) e specificatamente alle sue conversazioni con i filosofi stoici ed epicurei (ver.18) che portarono al discorso dell’Apostolo all’Aeropago (22-31). Qui Luca si avvicina molto nel menzionare le conversazioni della bottega, ma non lo fa, poiché le discussioni con i filosofi sono probabilmente da collocarsi sotto i portici della città, forse la Stoà di Attalos ad Atene.
La possibilità di fare conversazioni in bottega è intuibile da un brano delle Lettere di Paolo: il sommario dettagliato dell’attività missionaria dell’Apostolo nella città di Tessalonica (1 Ts 2,1-12). Al versetto 9, il lavoro e la predicazione sono accennati insieme: « Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il Vangelo di Dio ».

L’ATTIVITÀ MISSIONARIA
Se questi sei passi scelti dagli Atti e dalle Lettere parlano di Paolo che utilizzava le botteghe come contesti sociali per la sua predicazione missionaria, bisogna interpretare questi contesti come entità a sé, oppure confrontarli con la vita intellettuale delle città che egli ha visitato. Se la bottega è stata un contesto sociale dell’attività missionaria, per Luca questa era solo uno dei tanti luoghi in cui l’Apostolo predicava. Più frequentemente egli indica la sinagoga. Paolo predica nelle sinagoghe di Damasco (At 9,20), Gerusalemme (At 9,29), Salamide (At 13,5), Antiochia di Pisidia (At 13, 14, 44), Iconio (At 14,1), Tessalonica (At 17,1), Berea (At 17,10), Atene (At 17,17), Corinto (At 18,4) e Efeso (At 18,19; 19,8). Un altro contesto missionario importante è la casa, specialmente quelle di Lidia a Filippi (At 16,15, 40), di Tizio Giusto a Corinto (18,7) e di un cristiano non identificato a Triade (20,7-11) e di parecchie persone a Efeso (20, 20). Altre case devono essere incluse, anche se Luca non vi fa menzione di attività missionaria: la casa di Giasone a Tessalonica (17, 5-6), di Aquila e Priscilla a Corinto (18, 3), di Filippo a Cesarea (21, 8), di Mnasone di Cipro, presumibilmente a Gerusalemme (21, 16-17) e forse quelle di parecchi altri (cfr. 16,34; 21, 3-5, 7).
Ulteriori segni che indicano la varietà dei contesti sociali nella missione di Paolo sono la residenza del proconsole di Cipro, Sergio Paolo (13, 6-12), la porta della città in Listra (14, 7, 15-18), la scuola di Tiranno a Efeso (19, 9-10) e il pretorio a Cesarea (24, 24-26; 25, 23-27). Insomma, se la bottega era un contesto sociale per l’attività missionaria di Paolo, era solo uno dei tanti.

IL PULPITO, LA PIAZZA E LA BOTTEGA
La pratica dei filosofi sopra descritta può aiutarci a capire anche ciò che avveniva nella bottega di Paolo. Lo possiamo immaginare nelle lunghe ore al tavolo di lavoro mentre taglia e cuce le pelli per fare tende. Egli si rende autonomo economicamente, ma ha anche possibilità di portare avanti il suo impegno missionario (cfr. 1 Ts 2, 9). Seduti nella sua bottega troviamo i suoi compagni di lavoro o qualche visitatore, clienti e forse qualche curioso che aveva sentito parlare di questo « filosofo » tessitore di tende appena arrivato in città. In ogni caso sono tutti là ad ascoltare e a discutere con lui, che porta il discorso sugli dei ed esorta i presenti ad abbandonare gli idoli e a servire il Dio dei viventi (1, 9-10). In questo modo, certamente qualcuno degli ascoltatori, un compagno di lavoro, un cliente, un giovane aristocratico o forse anche un filosofo cinico, sarebbe stato curioso di sapere di più di Paolo, delle sue chiese, del suo Signore e sarebbe tornato per un colloquio privato (2, 11-12). Da queste conversazioni di bottega alcuni avrebbero accolto le sue parole come Parola di Dio (2, 13).
Per Paolo, il missionario, quindi, il pulpito della sinagoga non bastava, ma usciva anche in piazza ed entrava nella sua bottega. « Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16).

A CURA DELLA REDAZIONE

Il contesto storico
Esaminiamo la pratica paolina nel contesto della vita intellettuale della Grecia orientale dei suoi tempi. Ad Atene, nel quinto e quarto secolo a. C., alcuni contesti specifici, inclusa la bottega, erano diventati normali per l’attività intellettuale ed ancora esistevano ai tempi di Paolo. Senofonte descrive Socrate mentre discute di filosofia in varie botteghe, tra cui quelle di un pittore, di uno scultore, di un fabbricante di armature. Platone menziona le bancarelle del mercato come abituale ritrovo di Socrate. Naturalmente la bottega non era il suo solo ritrovo: lo si poteva trovare in altre parti del mercato, come la stoà o altri edifici pubblici, nel ginnasio o nelle case di amici. In un certo senso la pratica di Socrate era tipica dei suoi giorni, data l’abitudine della gente di frequentare i negozi e i banchi del mercato. Ma, in un altro senso, l’abitudine di Socrate era molto atipica, non solo a causa dell’alto contenuto intellettuale delle sue conversazioni, ma anche per l’effetto limitato che questa sua pratica ebbe sui filosofi che lo seguirono. A giudicare da quanto riferisce Diogene Laerzio, i discepoli di Socrate non discutevano di filosofia nella bottega, anche se alcuni di essi da studenti lo avevano accompagnato, per esempio, alla bottega del sellaio.
I seguaci di Socrate, scegliendo il ginnasio o altri edifici, praticavano una filosofia meno pubblica rispetto al loro maestro. Il numero delle persone che partecipava a queste discussioni nelle botteghe non poteva essere grande. Spesso erano solo in due, Socrate con Simone e Crate con Filisco. Gli argomenti trattati erano molti: dalle discussioni che riguardavano i commerci degli artigiani a temi più interessanti: gli dei, la giustizia, la virtù, il coraggio, la legge, l’amore, la musica, ecc.

IL « VANGELO » DI SAN PAOLO – DI BRUNO FORTE (2009)

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IL « VANGELO » DI SAN PAOLO

DI BRUNO FORTE (2009)

Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo…  1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!  2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco…  3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.  4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.  5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?  6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della  fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?  7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?  8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore  e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen.

(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: mons. Bruno Forte

LE LETTERE DI PAOLO, BUSSOLE DI VITA.

http://www.toscanaoggi.it/Edizioni-locali/Arezzo/Le-lettere-di-Paolo-bussole-di-vita/(language)/ita-IT

LE LETTERE DI PAOLO, BUSSOLE DI VITA.

Dagli scritti dell’apostolo delle genti indirizzati alla comunità di Corinto, gli spunti per riflettere sulla vita dei cristiani in una città pagana che può essere il paradigma del quotidiano nel mondo contemporaneo. La lettura e l’ascolto della Scrittura al centro del corso di formazione nel vicariato di Battifolle. Nella prima lettera ai Corinti, San Paolo propone una meditazione cristiana sul corpo che ha al centro una profonda comprensione dell’uomo in termini di «incarnazione».

09/01/2009 di Archivio Notizie, dal sito « Toscana oggi »

Due sono le ragioni per parlare di San Paolo. La prima è legata al frangente storico: il Papa Benedetto XVI ha dedicato questo anno all’Apostolo delle genti. Tutti siamo invitati a conoscere attraverso le sue lettere la sua vita e la sua fede. Vita e fede messe al servizio del Vangelo in un mondo e in un tempo in cui ancora era del tutto sconosciuto. La seconda è di natura liturgica: le domeniche del tempo ordinario, dopo le festività di Natale, propongono la lettura di alcuni brani della prima Lettera ai Corinti di Paolo. Ecco quindi che gli scritti dell’apostolo vanno considerati come una bussola per il cristiano di oggi e come un’occasione di riflessione per analizzare il quotidiano, sempre più complesso come lo era la città di Corinto al tempo di San Paolo.

LA CITTA’ DI CORINTO
La vecchia città di Corinto, distrutta dai romani nel 146 a.C., rimase un ammasso di rovine fino al 46 a. C. quando Giulio Cesare fondò una nuova Corinto a cui diede il nome di Colonia Laus Julii Corinthiensis. Augusto la elevò a capitale della provincia Romana della Acaia e a partire dal 44 fu provincia senatoria. A Corinto perciò risiedeva un proconsole. Durante la permanenza di Paolo era Gallione, fratello di Seneca.
Per la sua posizione geografica era destinata a giocare un ruolo importante nella storia della Grecia e del mondo mediterraneo. Punto di incontro obbligato delle comunicazioni tra il Peloponneso e la Grecia centrale, aveva facile accesso a due mari, l’Egeo a est e il Mediterraneo a ovest. Grande centro industriale e navale era famosa anche per la sua architettura e per il culto delle arti. Ai tempi di Paolo Corinto era una città cosmopolita con una popolazione di circa 600mila abitanti, per lo più immigrati: ufficiali romani, militari, uomini d’affari, mercanti e marinai che venivano dalla Grecia, dall’Italia, dalla Siria, dall’Egitto e da altre parti dell’impero.
Di fronte a una minoranza di gente ricchissima, c’era una massa enorme di schiavi (circa due terzi della popolazione). La città era anche un famoso centro sportivo. Era la patria dei giochi istmici che ricorrevano ogni due anni, a primavera. Atleti di tutta la Grecia e di tutto l’impero affluivano a Corinto per competere in diverse gare. Purtroppo Corinto aveva una sua reputazione particolare quanto a libertà sfrenata e corruzione di costumi. L’espressione «Vivere alla maniera dei corinti» significava «condurre una vita dissoluta» e «Fanciulla corinzia» era sinonimo di prostituta. In effetti la divinità patrona della città, il cui culto era molto diffuso tra i marinai, era Afrodite Pandemos. Il suo tempio dominava l’Acrocorinto, la grande roccia che si elevava a picco dietro la città ad una altezza di 535 metri; si dice che vi prestassero servizio circa mille sacerdotesse, che erano in effetti mille sacre prostitute.

LA COMUNITA’ DI CORINTO
San Paolo fondò la Chiesa di Corinto nel suo secondo viaggio apostolico. Così racconta Luca nel libro degli Atti (cap.18,1-17): «Dopo questo fatto Paolo partì da Atene e andò a Corinto». È una sconfitta, un insuccesso, il fatto a cui fa riferimento Luca. Annunciare la resurrezione dei morti ad Atene non è stata una mossa vincente, anzi. E così Corinto diviene una nuova sfida per parlare della novità di vita che personalmente Paolo ha già sperimentato incontrando Gesù risorto.
A Corinto Paolo rimase almeno diciotto mesi. Durante questo periodo ebbe abitualmente al suo fianco Sila e Timoteo. Dapprima si dedicò ai Giudei e ai proseliti; ma quando si manifestò l’ostilità dei Giudei verso il cristianesimo, allora si occupò dei pagani, guadagnandone molti alla fede.
In generale i convertiti erano di umile condizione e di diversa provenienza. «Considerate, fratelli, la vostra vocazione. Non ci sono tra voi molti sapienti, dal punto di vista umano, non molti potenti né molti di nobile stirpe. Eppure Dio ha scelto quelli che per il mondo sono stolti per coprire di vergogna i sapienti; e quelli che per il mondo sono deboli Dio ha scelto per coprire di vergogna i forti quelli che per il mondo sono plebei, sono disprezzati e sono ritenuti un nullità Dio ha scelto per annientare quelli che sono qualcosa» (1 Cor 1,26-28). Quando Paolo lasciò la città, dopo numerose difficoltà e sofferenze, c’era a Corinto una fiorente comunità di giudei e pagani convertiti.

LE LETTERE AI CORINZI
Paolo anche da lontano non mancò di interessarsi del buon andamento della sua Chiesa. Secondo l’opinione di molti ad essa scrisse quattro lettere, delle quali due soltanto sono giunte a noi.
La nostra lettera (prima ai Corinti) fu scritta durante il soggiorno ad Efeso (54-57 d. C.). Essa ci offre un quadro vivace e dettagliato della vita cristiana in una città pagana del primo secolo. Per la sua antichità, la sua immediatezza nel descrivere una cristianità primitiva con le sue difficoltà, è un documento storico incomparabile, unico per conoscere la vita della Chiesa nel secondo decennio dopo l’ascensione di Gesù. Il parallelo tra questa Corinto e le grandi città del mondo moderno conferisce alle lettere di Paolo una rilevanza eccezionale per i cristiani di oggi. Da qui l’attualità degli scritti paolini per l’uomo contemporaneo.

NELLA LITURGIA DELLA DOMENICA
Domenica 18 gennaio la seconda lettura è tratta dalla prima lettera di San Paolo ai Corinti (6,13-20).
«Fratelli, il corpo non è per l’immoralità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo… non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?… non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?… glorificate Dio con il vostro corpo.
Non sapete che…»
Paolo è il primo che porta a loro il pensiero cristiano sul corpo. A Corinto c’erano uomini che ritenevano di essere perfettamente liberi di fronte alle cose di questo mondo praticando una sessualità indiscriminata. Erano convinti infatti che la profonda conoscenza del mistero divino e umano li rendesse immuni da qualsiasi contaminazione dalla cose di questo mondo. Il piacere sessuale, affermavano, in realtà è semplicemente la soddisfazione di un appetito naturale, lecito quanto il mangiare e il bere. Il rapporto sessuale non è qualitati-vamente diverso dalla consumazione di un alimento.
Paolo rifiuta questa mentalità e, facendo riferimento al Signore risorto che ha indicato il destino glorioso del corpo del cristiano, ragiona in modo diverso.
Il mangiare e il bere fanno parte della vita mortale in questo mondo e non sussisteranno nella vita della gloria. Il corpo invece è destinato alla glorificazione e a divenire spirituale. Nel rapporto sessuale l’uomo si trova impegnato nel suo essere personale. Non è come consumare un alimento. Il sesso, per sua natura, è incontro, relazione, appartenenza reciproca.
La differenza tra i corinti e Paolo è dunque nella concezione dell’uomo. Per i corinti, l’uomo cosciente di sé e della realtà mondana non può essere intaccato dall’esterno, né compromettersi a contatto con il mondo; resta separato, sciolto da ogni legame, insomma intoccabile.
Per Paolo, invece, l’uomo vive e agisce su questa terra e sente i contraccolpi del suo rapporto mondano, qualificandosi in un senso o nell’altro. Le realtà esterne incidono in lui profondamente. Per i corinti, l’uomo è essenzialmente interiore e spirituale; perciò il rapporto con il mondo si rivela neutrale e indifferente. Paolo invece vede l’uomo come persona incarnata, per cui si rivela determinate lo spessore terreno e materiale della sua esistenza. In una parola, a uno spiritualismo avulso dal mondo si oppone una comprensione dell’uomo in termini di corporeità e di «incarnazione». Da qui l’invito: «Glorificate Dio con il vostro corpo».

I CATECHISTI ALLA SCUOLA DELLA PAROLA DI DIO
Si è svolto a ottobre e novembre nei locali della parrocchia di Poggiola, alla periferia di Arezzo, un corso di formazione per catechisti del vicariato di Battifolle. In quattro incontri sono stati trattati vari temi: dall’identità del catechista al progetto catechistico italiano, dal catechista che incontra la Parola di Dio ai metodi e tecniche per la catechesi dei fanciulli e dei ragazzi.
Al corso hanno partecipato numerosi catechisti che, al termine, hanno voluto lasciare una loro testimonianza sull’esperienza vissuta. Ne riportiamo un breve sunto, perché l’esperienza fatta da alcuni sia condivisa con tutti coloro che nelle parrocchie della nostra diocesi svolgono il servizio pastorale per l’iniziazione cristiana.
«Da molti anni – spiega un partecipante – faccio servizio per la catechesi nella mia parrocchia e sono rimasta molto contenta per questa iniziativa presa dal nostro vicariato. Gli incontri mi hanno aiutato a ripensare al mio percorso nella fede, dalla educazione ricevuta dai miei genitori fino alle guide che nelle varie età mi hanno fatto conoscere l’amore di Dio e mi hanno educato alla fede. Da quello che ho vissuto personalmente, nasce la mia testimonianza. E dalla sollecitudine che la Chiesa ha avuto per me, nasce il mio servizio. Ho riscoperto il Documento Base e tutta la sua odierna attualità e nello stesso tempo la spinta a rinnovarsi continuamente per « annunciare il Vangelo in un mondo che cambia »». Continua poi: «Durante il corso insieme agli altri catechisti, soprattutto nei gruppi di lavoro, mi sono sentita sollecitata e motivata all’attenzione verso le famiglie dei ragazzi che seguo a catechismo. In definitiva mi sono messa in discussione, nel senso positivo del termine, sia come catechista sia, a livello più strettamente personale, come donna, madre e moglie. La riconferma, vissuta nell’esperienza condivisa con gli altri, di essere da una parte seminatore della Parola, ma anche terreno dove il seme cade in un disegno portato avanti sempre dalla provvidenza di Dio, mi ha dato la motivazione forte per continuare il mio servizio».
Altrettanto significativa un’altra testimonianza di chi ha preso parte al corso: «Il corso è stato un’esperienza molto positiva che rifarei volentieri, perché mi ha fatto capire che un catechista è una persona che svolge un compito molto importante e che non può svolgerlo da solo».
Qualcuno pone l’accento sulla riscoperta della Scrittura: «Per me gli incontri sono stati molto importanti soprattutto perché ho capito l’importanza di saper « leggere ed ascoltare » la Parola di Dio». Sulla stessa lunghezza d’onda la riflessione di un’altra catechista: «Il nostro gruppo ha partecipato agli incontri con molto entusiasmo e voglia di sapere. L’incontro che ci ha colpito di più è stato quello sulla Parola di Dio perché siamo stati molto coinvolti e siamo riusciti ad esternare e mettere in comune con gli altri riflessioni cariche di significato e di spiritualità».
Infine, la riflessione di chi ha organizzato l’iniziativa. «Anche per noi dell’Ufficio catechistico diocesano, questi incontri, come gli altri incontri tenuti finora nelle parrocchie e nei vicariati, sono stati particolarmente importanti. Ne è uscita rafforzata la convinzione della necessità, che i catechisti avvertono sempre più, dell’importanza della formazione e di andare avanti in questo servizio».

«LA SPERANZA SI FACCIA PROFEZIA NEL QUOTIDIANO»
Questa uscita di «Prendi il largo» vi giunge in ritardo rispetto agli anni passati: per vari motivi, infatti, non è stato possibile preparare il numero in Avvento e farvi giungere così i nostri auguri di Natale.
Non è davvero tardi, però, per augurarvi di cuore buon anno 2009. Un anno illuminato dallo stupore verso Dio che, ancora una volta, si è fatto nostro compagno di viaggio, si è «annunciato» a noi in quella povera mangiatoia, per aiutarci a recuperare la nostra umanità. E così ci ha «abilitati» ad annunciare agli uomini del nostro tempo che Egli ha conservato quella mangiatoia «sempre vuota, sempre libera, perché per ogni uomo deve esserci sempre un posto per essere deposti e avvolti nelle calde fasce della sua carità», come sottolinea Claudel.
Questa gioiosa certezza apre un vasto orizzonte di speranza all’inizio del nuovo anno: una speranza con un solido fondamento, una speranza oltre qualsiasi crisi (non solo economica) o tentazione di ripiegarsi su se stessi smorzando lo slancio dell’annuncio. Una speranza, dunque, che si fa profezia nella trama delle vicende quotidiane. È in questo orizzonte che desideriamo formularvi i nostri più cari auguri prendendo a prestito le parole del vescovo Tonino Bello: «Bisogna abituarsi a sognare, a sognare a occhi aperti. I sogni diurni si realizzano sempre. Siamo troppo chiusi nelle nostre prudenze della carne, non dello Spirito, per cui sembra che siamo i notai dello status quo e non i profeti del futuro nuovo, dei cieli nuovi, delle terre nuove. Dio ci invita ad essere profeti, a esserlo tutti. Il che significa leggere l’oggi e guardare un po’ oltre, con l’uomo sempre al centro, come Lui ci ha indicato».

EVANGELIZZARE O TESTIMONIARE? IL CASO DI PAOLO NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

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EVANGELIZZARE O TESTIMONIARE? IL CASO DI PAOLO NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

Partendo dalla costatazione che nel libro degli Atti il vocabolario della testimonianza è più esteso di quello dell’evangelizzare, mi chiederò quale è il rapporto tra i due campi semantici, paragonando Pietro e Paolo, per vedere se la testimonianza di Paolo ha lo stesso oggetto, lo stesso status e la stessa funzione per il narratore degli Atti (Nr). Vedendo come egli struttura la testimonianza, cercherò di trarne le conseguenze per noi oggi.

Le componenti della testimonianza

1. Componenti definite da Gesù stesso
Tutti i commentatori ammettono che, negli Atti e in tutte le sue componenti, la testimonianza va definita da Gesù: «Lo Spirito Santo verrà su di voi e riceverete da lui (la) forza per essermi testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, nella la Samaria e fino all’estremità della terra» (At 1,8). La formula mette in risalto il legame tra Gesù e i testimoni. Il pronome greco «di me» è allo stesso tempo un genitivo di origine — gli apostoli sono testimoni perché costituiti e dichiarati tali da Gesù —, un genitivo soggettivo — perché Gesù è più che mai il loro signore —, e un genitivo oggettivo — perché parleranno di lui. Certo, l’enunciato non dispiega chiaramente il contenuto della testimonianza, ma siccome si tratta di un esordio, tutto rimane ancora conciso e sfocato.
Che Gesù abbia anche fissato l’estensione della testimonianza, At 1,8 lo indica palesemente. Gesù dice che la testimonianza deve estendersi fino ai confini della terra, e così determina e definisce ciò che oggi chiamiamo la missione. Inoltre, il suo contenuto è radicalmente cristologico: la testimonianza (riguardante Gesù) costituisce la finalità della missione, e la sua estensione diventa uguale a quella del Vangelo1.
Oltre a fissare l’oggetto e l’estensione della testimonianza, Gesù stabilisce la condizione senza la quale essa non può essere effettuata, cioè il dono dello Spirito: quanto alla testimonianza, la competenza viene dal ricevere lo Spirito Santo. E che la testimonianza dipenda da questo dono, Pietro stesso lo riconosce e lo ribadisce spesso2. Certo, in At 1,8, il lettore non può ancora sapere perché lo Spirito deve dare forza — e non brillanti doti retoriche — per testimoniare: lo sfondo di violenza e di persecuzione giustificherà man mano la scelta del vocabolo. Solo la forza dello Spirito potrà venire in aiuto alla fragilità di quelli devono essere testimoni di fronte a potenze e autorità contrarie, che non esiteranno a perseguitare, persino a mettere a morte i testimoni di Gesù (At 7).

2. Componenti ben note dai discepoli
Senza accontentarsi di notare che Gesù risorto stesso ha elencato le componenti della testimonianza — seppure di maniera incoativa —, il racconto insiste anche sul fatto che i discepoli hanno ben colto il messaggio del loro Signore. La prima cosa che Pietro chiede ai compagni è di procedere alla sostituzione di Giuda (At 1,15-26). Nel discorso che rivolge loro, egli dice: «Bisogna che tra coloro che furono con noi per tutto il tempo in cui il Signore Gesù è stato nostro capo, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto (in cielo), uno divenga, insieme a noi, testimone della sua risurrezione» (v.21-22). Ovviamente, la condizione previa — e per ciò segnalata anteriormente alla testimonianza — è di essere stato con Gesù fin dall’inizio, di aver visto ciò che ha fatto e sentito ciò che ha detto: non basta quindi essere divenuto suo seguace poco prima della sua Passione o averlo visto risorto, per appartenere al gruppo dei Dodici. Ma questa condizione, espressa in uno stile poco scorrevole, sbocca nel punto decisivo, cioè la necessità di avere dei testimoni della risurrezione di Gesù, per annunziarla. Così va enunciata un altra condizione essenziale della testimonianza riguardante Gesù: la sua pluralità o, più esattamente, il suo carattere collegiale. Dall’essere o camminare insieme si passa al testimoniare insieme. L’uomo scelto per sostituire Giuda non lo è per testimoniare da solo, ma per testimoniare con gli altri della risurrezione del Signore. Pero, la testimonianza non deve essere soltanto plurale o molteplice — come se un più grande numero dovesse essere più affidabile — ma anche convergente, perché viene da un gruppo di compagni.
Il giorno della Pentecoste, lo stesso Pietro ripeta ciò che ha anteriormente detto, cioè che loro sono testimoni della risurrezione di Gesù (At 2,32). Qui, per la prima volta, va chiaramente enunciato da un discepolo il rapporto tra risurrezione, invio dello Spirito e testimonianza: essendo risorto e avendo ricevuto lo Spirito, Gesù lo ha effuso sui apostoli, dando loro la possibilità di testimoniare della sua risurrezione.
Come lo si vede, la conoscenza che Pietro ha delle condizioni e componenti (cioè del processo) della testimonianza indica che lo Spirito ha operato come lo doveva, rendendo competenti e capaci i discepoli finora impauriti. Inoltre, per Pietro in At 2, l’effusione dello Spirito non è solamente ciò che permette di testimoniare; i suoi effetti — profezie, parlare in altre lingue, ecc. — descritti dal narratore nel v.4-12 ed elencati da Pietro nei v.16-20, costituiscono una prova maggiore della risurrezione di Gesù; profetizzando per mezzo dello Spirito ricevuto in abbondanza, gli apostoli testimoniano della vittoria e della signoria di colui che era stato crocifisso. La profezia è più che mai testimonianza.
Ma deve essere sottolineato che Pietro e gli altri non si accontentano di testimoniare: dicendo perché lo fanno, dimostrano di sapere perché lo fanno. In altri termini, nella prima parte del libro degli Atti, la testimonianza include una conoscenza delle sue condizioni, delle sue componenti e della sua finalità; così, il dichiararsi testimoni fa parte del testimoniare.
Quanto all’oggetto del loro testimoniare, è quasi esclusivamente la risurrezione di Gesù, almeno fino al cap. 13:
At 1,22 Pietro: «(occorre che l’uno…) sia con noi testimone della sua risurrezione» At 2,32 Pietro: «Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni» At 3,15 Pietro: «Dio l’ha risvegliato dai morti, noi ne siamo testimoni» At 4,33 il narratore: «con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù».
At 5,32 Pietro: «di questi fatti [la risurrezione] noi siamo testimoni e lo Spirito…»
At 10,41s Pietro: «[Gesù risorto visibile] non a tutto il popolo ma a testimoni prescelti da Dio .. e ci ha ordinato di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio» At 13,31 Paolo: «Egli si fecce vedere per molti giorni a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, e questi ora sono i suoi testimoni davanti al popolo.»
Solo in At 10,39 Pietro dichiara che i discepoli sono testimoni «di tutto ciò che Gesù ha fatto nel paese dei Giudei e a Gerusalemme». Ma il contesto spiega bene perché l’apostolo fa questa aggiunta. Infatti, egli si rivolge a un gruppo di pagani; se questi hanno già sentito parlare di Gesù di Nazareth, del suo ministero e della sua morte, non hanno potuto, a differenza delle folle giudaiche che seguivano assiduamente Gesù dappertutto, vedere le sue guarigioni e udire il suo insegnamento. Pietro deve quindi star garante per loro del ministero salvifico di Gesù. La testimonianza suppone quindi un uditorio che non ha avuto contatto diretto con le persone o gli eventi di cui si parla. Se quindi nella prima parte degli Atti la testimonianza si fissa sulla risurrezione di Gesù, è dovuto al fatto che, tramite il loro portavoce Pietro, gli apostoli si rivolgono ai Giudei che avevano incontrato Gesù, lo avevano seguito e conoscevano bene i suoi miracoli: era inutile testimoniare di cose che loro stessi avevano potuto controllare. È quindi normale vedere la testimonianza estendersi al ministero di Gesù per chiunque non lo ha personalmente incontrato. Per forza, con il tempo e lo spazio, la testimonianza apostolica deve anche coprire tutta la vita di Gesù. Vale a dire che tra le righe dei discorsi di Pietro in At 1 e 10, il narratore lucano giustifica la prima parte del suo dittico come traccia scritta della testimonianza apostolica riguardante la vita pubblica di Gesù, traccia necessaria non soltanto per il lettore del suo tempo ma per tutti quelli dei secoli futuri. In breve, se gli apostoli sottolineano il loro essere testimoni della risurrezione, a seconda delle circostanze e dei destinatari ne estendono l’oggetto a tutta la vita di Gesù.
Se, presso i Giudei della Palestina d’allora, gli apostoli testimoniano innanzitutto della risurrezione, il lettore di At 13,16-41 non può non chiedersi perché Paolo non si menziona tra la lista dei testimoni della risurrezione. Dopo aver detto: «egli [Gesù] si fecce vedere per molti giorni a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, e questi ora sono i suoi testimoni davanti al popolo», Paolo non aggiunge: «anche io sono testimone della sua risurrezione, perché mi è apparso; l’ho visto e sentito». È o non è testimone della risurrezione di Gesù, e se lo è, perché tace l’incontro di Damasco?

Quali testimoni e quale testimonianza?

1. Paolo testimone accreditato?
Se, in At 13,31-32, Paolo omette di dire che il Risorto gli è apparso nei dintorni di Damasco è dovuto, come lo dicono alcuni, al fatto che egli sa di non avere lo status di apostolo e quindi di non poter testimoniare con una autorità uguale alla loro? Certo no, perché, poco dopo (At 14,4.14), il narratore chiamerà Barnaba e Paolo apostoli.
Certo si potrebbe obiettare che, a differenza degli altri, loro ricevono quel titolo solo una volta, ma una tale obiezione non è rilevante, perché il titolo è collettivo; il narratore non dice mai: «l’apostolo Pietro» o «l’apostolo Giacomo», ecc., ma utilizza sempre il vocabolo apostoli al plurale. Che Paolo non sia mai chiamato apostolo non significa che il narratore non lo consideri tale, ma che focalizzando sul suo ministero a partire da At 16 (Barnaba e Paolo si sono separati in At 15,39-40), non avrà più l’occasione di applicargli un titolo adoperato al plurale.
Pur essendo uno degli apostoli, Paolo non sarebbe un testimone uguale agli altri? La risposta deve ancora essere negativa. Così come Pietro, Paolo è sicuro di essere un testimone accreditato; il narratore lo afferma, Paolo stesso dice pubblicamente che gli è stato notificato da Dio e dichiara di esser stato tale: At 18,5 il narratore: «Paolo si dedicò alla predicazione, testimoniando davanti ai Giudei che Gesù era il Cristo» At 20,21 Paolo agli Anziani di Efeso dice di aver: «scongiurato Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel nostro Signore Gesù» At 20,24 idem : «il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio» At 22,15 Paolo, citando ciò che gli disse Anania: «gli [= Gesù] sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito» At 22,18 Paolo, ripetendo le parole del Risorto: «affrettati ed esci presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza su di me» At 23,11 il narratore: «il Signore gli [= Paolo] disse: ’Coraggio! Come hai testimoniato di ciò che mi concerne a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma’» At 26,16 Paolo citando le parole del Risorto: «ti sono apparso per costituirti servitore e testimone di quelle cose (cioè la visione) in cui mi hai visto» At 26,22 Paolo: «L’aiuto di Dio mi ha assistito fino a questo giorno e ho reso testimonianza agli umili e ai grandi» At 28,23 il narratore: «rendendo la sua testimonianza, egli [Paolo] esponeva loro il Regno di Dio cercando di convincerli riguardo a Gesù, a partire dalla Legge e dei Profeti» Così come gli altri apostoli, Paolo attesta quindi la realtà della risurrezione e della presenza di Gesù alla sua Chiesa. Allora, perché in At 13,31-32 egli non menziona il suo nome tra quelli che hanno incontrato il Risorto?

2.Quando Paolo parla del suo essere testimone?
Ovviamente, nel discorso pronunciato di fronte agli Ebrei di Antiochia di Pisidia, Paolo utilizza il vocabolario dell’annuncio per descrivere il suo ruolo e quello di Barnaba: «Noi vi annunziamo la buona novella …» (v.32). Senza dubbio si tratta di un annuncio evangelico, come lo conferma ampiamente la seconda parte del discorso (v.26-41), che ha tutte le caratteristiche del kerigma primitivo, sottolineando bene che la testimonianza è resa da coloro che «sono saliti con lui [Gesù] dalla Galilea a Gerusalemme». Ovviamente, Paolo non ha seguito Gesù sulle strade della Palestina e non può essere testimone della vita di Gesù come loro. Ma se in seguito il racconto ci dirà che Paolo è vero testimone, perché egli stesso non lo dice durante questo discorso? Possiamo per quanto riguarda la predicazione di Paolo, rilevare nel racconto lucano una vera progressione: (1) poco tempo dopo l’incontro con il Risorto (At 9,20) : annuncio e predicazione segnalate dal narratore, ma senza che il contenuto ne sia offerto al lettore; (2) missione ufficiale (At 13-20) con due discorsi missionari emblematici dei due mondi ai quali si rivolge Paolo, ma senza che Paolo si dichiari testimone: – primo discorso: agli Ebrei di Antiochia (At 13,16-41), – secondo discorso: ai Greci e pagani di Atene (At 17,22-31) (3) prigioniere, accusato, Paolo presenta la sua difesa di fronte a autorità ebree e romane, in diversi discorsi3; egli parla del suo essere testimone di Gesù Cristo in At 22 e 26.
Appaiono chiaramente le scelte del Nr: solo alla fine, quando deve difendersi, Paolo parla di testimonianza: da accusato diventa veramente testimone di Cristo, perché, in fine dei conti, tramite lui, è il Vangelo cioè Cristo stesso che va rigettato e accusato.
Ma il lettore attento non può non vedere la differenza tra il modo in cui Pietro e Paolo si presentano come testimoni. Il primo insiste fortemente sul «noi ne siamo testimoni», mentre il secondo non dice mai: «Io sono testimone», ma si accontenta di riportare ciò che gli ha dichiarato Gesù, tramite Anania o direttamente in visione: «mi è stato detto: ‘sarai testimone’ o ‘mi renderai testimonianza’». Più che all’affidabilità della sua parola, Paolo rinvia a quella che gli ha dato la sua competenza e quindi il dovere di parlare in conseguenza. In breve, il racconto lucano descrive l’evoluzione della testimonianza in Cristo Risorto: dall’attestare la realtà della risurrezione (Pietro), si passa al racconto di un incontro avendo cambiato una vita al punto di esserne il punto di riferimento per eccellenza, per se e per gli altri (Paolo).

Da una testimonianza all’altra

1. Altre dimensioni della testimonianza apostolica
L’episodio di Cornelio (At 10,1 — 11,18) è importante non soltanto perché determina decisamente e definitivamente il futuro della Chiesa — l’ammissione dei pagani avrà conseguenze inaudite, già all’interno del racconto lucano e per il suo snodarsi — ma perché permette agli apostoli di riflettere sulle vie di Dio, e, correlativamente, di rilevare e valutare l’importanza della loro testimonianza.
Ciò che dovrebbe colpire il lettore in quel brano è la ripetizione dei motivi: il narratore non si accontenta di descrivere le visioni di Cornelio (10,3-6) e Pietro (10,9-16), i personaggi del racconto le menzionano anch’essi4. Senza studiare tutti i particolari dell’episodio, andiamo subito al dunque: a Cornelio la voce celeste non notifica nient’altro che di «far venire un certo Simone detto anche Pietro» (10,5). Il messaggio è chiaro: tocca a Pietro e a lui solo parlare di Cristo; la voce, pur essendo celeste non ha voluto sostituirsi all’apostolo, ed è interessante vedere come questo aspetto è narrativamente sottolineato: Cornelio invia subito tre messaggeri (v.7-8), e quando Pietro arriva a casa sua, vede che il centurione lo aspetta da tempo (v.24b), non da solo ma con tutta la famiglia e con molti amici (v.24b. 27); questi sono segni ovvi che per lui e i suoi, la venuta di Pietro ha una importanza decisiva. Se la divinità non ha dunque direttamente rivelato Gesù Cristo a Cornelio ma ha voluto che Pietro lo facesse, è senz’altro per indicare il carattere insostituibile della testimonianza apostolica.
Così la tensione narrativa è orientata verso ciò che Pietro sta per dire. Ora, il lettore, che ha già sentito i lunghi sviluppi kerigmatici dell’apostolo si rallegrerà forse di leggerne uno molto breve, ma deve ammettere che, per i pagani che non hanno mai sentito parlare del Nazareno, questo kerigma è per lo meno conciso; sarebbe stato più che opportuno parlare a lungo della vita di Gesù, delle sue numerose guarigioni, del suo insegnamento, della sua Passione e morte ingiusta, della sua risurrezione e del tempo passato con i discepoli prima di andarsene lassù! Il contrasto tra l’attesa di Cornelio e la performance di Pietro è palese. Si obietterà forse che Luca no vuole indisporre il suo lettore e che si accontenta di riportare per sommi capi ciò che l’apostolo ha detto, a fine di arrivare più presto all’apice della scena, cioè l’effusione dello Spirito. È in parte vero. Ma allo stesso tempo, si deve cogliere la tecnica utilizzata; più che al contenuto del kerigma, senz’altro conosciuto da lui, il lettore deve stare attento al vocabolario della testimonianza che compare massicciamente; una comparsa così densa è unica nel libro degli Atti: v.39 «noi (siamo) testimoni de tutte le cose che egli ha fatte nella regione dei Giudei e a Gerusalemme» v.41 «(Gesù apparve) non a tutto il popolo ma a testimoni, quelli prescelti da Dio» v.42 «(Gesù) ci ha ordinato di proclamare al popolo e di testimoniare che egli è stato designato da Dio come giudice dei vivi e dei morti» v.43 «a lui (Gesù) tutti i profeti rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome» Tre sono i punti che dovrebbero destare la nostra attenzione: (i) Come già detto sopra, se Pietro dice di essere testimone dell’intero ministero di Gesù (v.39), è perché sta in mezzo a persone che non lo hanno mai visto e che lo conoscono solamente per sentito dire. E ciò significa, l’abbiamo anche indicato, che, secondo Pietro, non possiamo andare al Gesù di Nazareth se non per mezzo del racconto autorevole degli apostoli (condizione necessaria). (ii) La loro testimonianza è anche sufficiente, esclusiva? A dire il vero, Pietro stesso stabilisce una differenza tra la testimonianza riguardante la vita pubblica di Gesù e quella relativa alla sua risurrezione. La prima non è esclusiva; di fatti, se gli apostoli possono (e devono) testimoniare di ciò che hanno visto e udito, non sono stati gli unici a seguire il loro maestro; anche quelli che non appartenevano al loro gruppo possono raccontare gli eventi ai quali hanno partecipato. Ma, per la risurrezione, l’apostolo dichiara esclusiva la loro testimonianza: Gesù apparve «non a tutto il popolo, ma (solo) ai testimoni» accreditati, perché prescelti da Dio stesso (v.41). Per la risurrezione, il riferimento alla testimonianza apostolica è quindi imprescindibile.
Tutt’altra testimonianza che pretenderebbe sostituirla va immediatamente scartata. (iii) A dire il vero, anche riguardo alla risurrezione, la testimonianza apostolica non è esclusiva; Pietro stesso invoca le Scritture profetiche (v.43). Ma il lettore deve rilevare l’ordine nel quale le rispettive testimonianze sono menzionate5: prima gli apostoli, e, solo dopo, le Scritture. Così va stabilita la necessaria complementarità dei due momenti; le Scritture non bastono: senza l’incontro personale con il Risorto, esse rimangono profezie non compiute; ma, senza le profezie, l’annuncio degli Apostoli potrebbe essere ricevuto come quello di uomini stregati, squilibrati o creduli6. Ma c’è di più, l’ordine scelto da Pietro (e dal narratore) veicola una teoria del rapporto tra le due testimonianze: certo, le Scritture sono un testimone da non scartare, ma lo diventano concretamente per mezzo della giusta testimonianza degli Apostoli7. La lettura che loro ne fanno, consente alle Scritture di diventare ciò che devono essere, cioè testimoni del progetto salvifico di Dio per la nostra umanità, progetto annunciato e compiuto in Gesù, suo Figlio. La testimonianza apostolica è quindi essenziale e anteriore (nel senso appena detto8) alle altre forme di testimonianza, perché queste ultime dipendono da essa per essere riconosciute come profezie ordinate a Gesù il Risorto! Altrimenti detto, se l’apostolo non riempie il suo compito, gli altri testimoni non potranno fare altrettanto. La posta in gioco è indiscutibile.
Questi punti chiariti, possiamo tornare al rapporto studiato: in At 10,34-48, la testimonianza di Pietro precede il ‘cadere’ (v.44) dello Spirito su Cornelio e i suoi. Ovviamente, la progressione del testo lascia intendere che l’esito dipende da ciò che deve dire Pietro9: lo Spirito ricevuto è quello di Gesù, quello annunciato dai profeti, ecc. Di fatto, il lettore attento non può non averlo notato, è proprio quando l’apostolo parla della remissione dei peccati (nel nome di Gesù) annunciata dai profeti che lo Spirito di profezia cade sugli ascoltatori! Così va evidenziata la funzione soteriologica della testimonianza.
Se tale è il legame tra testimonianza e dono dello Spirito per il racconto lucano, sorprende tanto più il fatto che Luca non menziona lo Spirito quando Paolo rende testimonianza al Signore (ad es. in At 22 e 26).

2. La testimonianza di Paolo
Abbiamo infatti visto che il libro degli Atti include Paolo tra gli apostoli e i veri testimoni della risurrezione di Gesù. Ma allora perché non va detto che la sua testimonianza è provocata e ispirata dallo Spirito? Paolo non avrebbe ricevuto lo Spirito? Ma il racconto indica bene che, a questo riguardo, quel testimone non ha niente da invidiare agli altri apostoli. Egli ha ricevuto lo Spirito Santo e, sin dall’inizio, sa di averlo ricevuto; di più il suo ministero porta frutti spirituali: Ac 9,17 Anania imponendo le mani a Paolo: «mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via, perché … tu sia colmo di Spirito Santo» Ac 13,2 il narratore: «lo Spirito Santo disse (alla comunità riunita): ‘Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati’» Ac 13,4 il narratore: «essi [Paolo e Barnaba] inviati dallo Spirito Santo…» Ac 13,9 il narratore: «allora Saulo, detto ancora Paolo, pieno di Spirito Santo…» Ac 19,6 il narratore: «non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano» Ac 20,22-23 Paolo agli anziani di Efeso: «avvinto dallo Spirito vado a Gerusalemme… Lo Spirito Santo mi lo attesta: catena e tribolazioni mi aspettano» Questi sono testi indiscutibili. Se Paolo ha pienamente ricevuto lo Spirito, se la sua
testimonianza è autentica, e se, d’altra parte, nel libro degli Atti, testimonianza e Spirito sono indissociabili, perché non si dice che lo Spirito accompagna la sua testimonianza?
Come l’ho già rilevato, che lo Spirito Santo non sia menzionato tra At 21,11 e 28,2510, non significa che non aiuti Paolo ormai prigioniero a testimoniare bene del suo Signore. Per interpretare correttamente il fenomeno, bisogna piuttosto tenere presenti le tecniche lucane. Ora, la prima risposta, senz’altro insufficiente e poco convincente, consisterebbe a dire che i discorsi di At 22-26 non sono kerigmatici, cioè non hanno per funzione di presentare la Passione, la morte e la risurrezione di Gesù per suscitare una risposta di fede e una condotta etica corrispondente. Se, dunque, Spirito e kerigma vanno insieme, l’assenza di un elemento spiegherebbe quella dell’altro. Può darsi, ma il discorso di Stefano in At 7 non ha la forma di un kerigma e la sua finalità non è di suscitare la fede degli ascoltatori; eppure il narratore segnala che il diacono si esprime «pieno di Spirito Santo» (7,55), e Paolo stesso, in At 22, conferma che il discorso del diacono è stato una testimonianza vera e definitiva, perché compiuta con la morte: «quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch’io ero presente». La forma non kerigmatica dei discorsi di Paolo in At 22-26 non basta a spiegare perché i vocaboli Vangelo/evangelizzare non vi compaiono.
È invece istruttivo vedere come il racconto prepara il lettore a non vedere più menzionato lo Spirito Santo durante la Passione di Paolo. Infatti, in At 20 e 21, Paolo dice che lo Spirito l’ha avvertito delle sue tribolazioni (20,23); in altre parole, il narratore ci fa capire che, come Gesù11, così Paolo annunzia la sua Passione; ma è chiaro, e la synkrisis lo esige, Paolo la vivrà come il suo Signore, nell’insicurezza, la precarietà e la povertà; lo Spirito di profezia si manifesta proprio prima della Passione, una ultima volta in At 21,11, per indicare che egli non si manifesterà più con la forza per mezzo della quale era finora riconosciuto: l’apostolo sta per essere avvinto, circondato, minacciato, così come il suo Signore. Lo Spirito non si manifesta più con fenomeni straordinari, pur proteggendo efficacemente Paolo attraverso le sue vicende.
Il lettore non si stupirà quindi di sentire l’apostolo, in At 22 e 26 riportare le parole con le quali il Risorto si presenta a lui: «sono Gesù (il Nazareno) che perseguiti»12; quando perseguitava i discepoli, Paolo perseguitava in realtà Gesù stesso, e adesso, perseguitando Paolo, i giudei ai quali si rivolge fanno lo stesso: per la bocca di Paolo è Gesù stesso, perseguitato, che è riconoscibile! Paolo testimonia veramente del suo Signore perché vive la stessa Passione: egli testimonia del Risorto nel patire; anzi, il suo patire è quello del Risorto. La testimonianza raggiunge così il suo apice perché è vissuta, non soltanto enunciata.

3. La testimonianza di Paolo e la nostra
In At 22 e 26, la descrizione che Paolo fa del Risorto è breve, così come le parole stesse di Gesù che d’altronde si accontenta di citare. Non dice niente sulla vita di Gesù, niente su ciò che gli è stato rivelato del mistero del Figlio di Dio. L’apostolo insiste piuttosto sulla trasformazione provocata da questo incontro. Tutta la sua vita ne è stata radicalmente cambiata. Per lui, testimoniare significa quindi raccontare l’itinerario di una conversione, di un amore ricevuto e proclamato. La vita di Paolo è diventata testimonianza, perché raccontandola egli rivela allo stesso tempo il perdono e l’amore del suo Signore: annunciarlo significa allora raccontare ciò che gli è successo, il cammino suo, ecc.
Così il narratore degli Atti fa capire al suo lettore il tipo di testimonianza richiesto da lui, lettore, che, come Paolo, non ha conosciuto Gesù sulle strade di Galilea e Giudea. Certo, la nostra testimonianza non si sostituisce a quella degli apostoli, ma la loro, pur rimanendo un punto di riferimento necessario, può avere la forza dimostrativa e attiva solo se i credenti di tutti i tempi possono testimoniare del loro incontro personale con Cristo e di ciò che quell’incontro ha cambiato nella loro vita.

Conclusione
Il narratore del libro degli Atti espone dunque una originale teoria sulla testimonianza. Spero di aver mostrato, seguendolo e mettendo in rilievo le sue tecniche, che egli ci indica il cammino che porta ogni credente a testimoniare e, allo stesso tempo, il cammino che ogni testimonianza fa fare, quando nell’estrema precarietà e nelle le catene il discepolo sperimenta la gioia della vera libertà.
1 Uno studio del rapporto tra i campi lessicali del Vangelo e della testimonianza negli Atti è qui escluso. Certo, se tutti e due i campi hanno come oggetto Cristo, insistono nondimeno su aspetti diversi: il Vangelo designa il contenuto dell’annuncio, e la testimonianza connota piuttosto l’impegno degli araldi (la loro convinzione, fino alla morte, ecc.) nonché la loro veracità (e quindi la validità dell’annuncio). D’altronde, se si considera lo snodarsi del racconto, è possibile dire che il testimoniare è più esteso dell’evangelizzare): infatti, il vocabolario del Vangelo scompare dopo At 20,24 (o 21,8), mentre quello della testimonianza va fino alla fine del libro (cf.At 28,23). Questa differenza viene senz’altro dal fatto che, per il racconto, la missione di evangelizzazione effettuata da Paolo finisce (ufficialmente) in At 20. Con il suo arresto nel Tempio inizia, come lo vedremo, un altro modello di testimonianza, determinato dalla situazione di prigioniero e dal tipo di discorsi (difese nei tribunali, ecc.) che essa implica.

2 Vedere ad esempio At 2,32-33; 5,32.

3 At 22,1-21; 24,10-21; 26,2-23
4 Visione di Cornelio descritta dal narratore (10,3-6) visione di Pietro descritta dal narratore (10,9-16); visione di Cornelio riferita dagli inviati di Cornelio (10,22); visione di Cornelio presentata da Cornelio stesso (10,30-32); visione di Pietro narrata da Pietro stesso (11,5-10); visione di Cornelio presentata da Pietro (11,13-14).
5 Questo non è casuale, come lo si può verificare a partire da At 2,32-36 (la testimonianza apostolica precede il ricorso alle Scritture), 13,31-39 (id.).
6 Sul rapporto tra esperienza e coerenza, mi permetto di rinviare al mio saggio, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del vangelo di Luca, Queriniana. Brescia 1991, 151-169.
7 Che questa teoria non sia ancora presente nelle formule kerigmatiche antichissime, brani come 1 Cor 15,3-5 lo confermano.
8 Cioè come testimonianza, perché cronologicamente le Scritture sono ovviamente di molto anteriori agli eventi descritti nel libro degli Atti.
9 Cornelio dice all’apostolo che tutti sono pronti «ad ascoltare tutte le cose ordinate a te dal Signore» (v.33). Ma il Signore non ha dettato niente a Pietro, il quale non deve recitare un discorso ‘premasticato’. L’opinione
(sbagliata) di Cornelio ha per funzione di sottolineare l’importanza della testimonianza di Pietro: non è lui ad
aver deciso di parlare, ma è il Signore stesso che richiede, per la bocca di Cornelio (cioè di chi ne ha bisogno) la sua testimonianza riguardante Gesù.

10 In At 23,8.9 il vocabolo pneuma non designa lo Spirito Santo.
11 Lc 9,22; 9,43-45; 18,31-34.
12 At 22,8 e 6,15 (‘il nazareno’ manca in 26,15).

IL « VANGELO » DI SAN PAOLO – DI BRUNO FORTE

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IL « VANGELO » DI SAN PAOLO

DI BRUNO FORTE

Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo…

 1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!
2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco…
3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.
4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.
5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?
6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della  fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?
7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?
8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore  e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen.

(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: mons. Bruno Forte

Paolo e i Gentili

http://www.saverianibrescia.com/missione_oggi.php?centro_missionario=archivio_rivista&rivista=2009-09&id_r=67&sezione=parola_e_missione&articolo=paolo_e_i_gentili&id_a=2281

Novembre 2009 

Paolo e i Gentili

di: p. Fabrizio Tosolini

Fabrizio Tosolini, missionario saveriano, di Tricesimo (UD), licenziato in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico di Roma, dottore in Teologia Biblica presso la Facoltà di Teologia della Fu Jen Catholic University di Taipei (Taiwan) con una tesi sulla Lettera ai Romani, insegnante di Sacra Scrittura a Taipei

È facile fare delle letture romantiche sulla visione universalistica che Paolo ha nutrito in se stesso e diffuso nella Chiesa degli inizi.

CRISTO: SALVEZZA PER TUTTI GLI UOMINI                        
 In questo contesto di latente violenza Paolo scopre che in Cristo, rigettato dai suoi, crocifisso fuori della sua città, sospeso tra cielo e terra, una salvezza nuova e divina viene offerta. E questa salvezza è per tutti gli uomini perché proposta al cuore di ognuno, nella scoperta di essere amato da Cristo, e nella scelta di affidarsi totalmente alla sua fedeltà.
Da qui Paolo trae una serie di conseguenze, di cui la prima è il superamento di una certa visione umana di Israele come mediatore imprescindibile della salvezza divina (il superamento di una visione assoluta della propria appartenenza culturale); la seconda è l’impegno missionario verso tutti i popoli; la terza è la visione della comunità cristiana come luogo della comunione tra tutti i credenti, nel superamento di ogni appartenenza previa e nella creazione di una nuova tradizione, frutto dell’apporto di tutti, sotto la guida dello Spirito; tradizione unitaria non solo nello spazio, ma anche nel tempo.
L’impegno missionario verso tutti i popoli è il tratto più evidente della missione di Paolo, testimoniata dal libro degli Atti e dalle Lettere.
Occorre dire che tale azione deve essere ritenuta più estesa di quanto il Nuovo Testamento riporta. I tre anni in Arabia tra i Nabatei e la predicazione nell’Illirico, di cui parlano rispettivamente Galati e Romani, sono probabilmente solo la punta di un iceberg, del quale non ci è nota la parte sommersa. Paolo deve aver avuto un’irresistibile passione di comunicare il Vangelo ovunque passasse, a chiunque incontrasse, indifferente alle differenze culturali, favorito in questo dalla patina di uniformità stesa in tutto il bacino del Mediterraneo dalla cultura imperiale ellenistico-romana e dall’uso della koine. [Occorre anche ricordare che la spinta missionaria della Chiesa nascente non conosceva limiti geografici, e si irradiava già fino all'Etiopia e all'India. Paolo è solo il caso da noi meglio conosciuto].
Questo suo impegno missionario deve essere stato anche la causa della persecuzione giudaica che lo ha accompagnato praticamente sempre nel suo ministero (cf. 1 Tess 2,15-16), costituendo per lui la minaccia più pericolosa e reale, date le attinenze giudaiche con il potere romano.

UNA CHIESA MULTIETNICA E MULTICULTURALE
Per quanto riguarda il progetto ecclesiale universalistico perseguito da Paolo, sulla base delle sue lettere possiamo immaginarne i tratti salienti.
Possiamo ritenere che egli sperava di veder nascere, come frutto della predicazione evangelica, delle comunità multietniche e multiculturali, nelle quali i differenti punti di partenza sarebbero confluiti nell’unica voce di lode a Dio (cf. Rm 15,6). Tale rendimento di grazie, all’interno di ogni singola comunità sarebbe frutto dell’esercizio di quella carità scambievole che cerca non l’utile proprio ma quello dell’altro, facendosi una cosa sola con i più deboli nella fede, perché tutti giungano alla salvezza (1 Cor 10,33).
Invece tra le comunità, sparse in Giudea, in Asia e in Grecia, tale ringraziamento (cf. 2 Cor 9,12-15) sarebbe frutto di una comunione di beni, sia materiali che spirituali, segno dell’unità creata da Cristo tra tutti i suoi fedeli e della sua signoria universale.
Si tratta di un progetto nuovo, sorprendente, di cui ancora oggi stentiamo a cogliere la portata. Dare forma a tale progetto implica trovare e proporre alcuni parametri essenziali, che tutti debbano seguire, e che siano possibili e accettabili a tutti.
Attorno a questi parametri si può immaginare che si siano creati dei contrasti all’interno della prima Chiesa: da una parte causa di conflitti e contro-missioni volte a propagandare diverse posizioni dottrinali; dall’altra occasione preziosa per approfondire la verità del Vangelo.
La risposta dei giudeo-cristiani al problema della convivenza con i credenti provenienti da altri popoli e culture era duplice: o ci si atteneva alle prescrizioni ritualistiche della tradizione giudaica, o si separavano le comunità, cosa che deve essere successa ad Antiochia (cf. Gal 2,11-14), determinando la partenza definitiva di Paolo da quella città. I greci avrebbero potuto osservare i punti contenuti nel decreto del Concilio di Gerusalemme (cf. At 15,5-29), i giudei avrebbero continuato a vivere secondo le loro tradizioni.

FEDE, SPERANZA E CARITÀ: I CARDINI DELLA CONVIVENZA ECCLESIALE
Paolo ha un’altra visione e proposta, che parte da molto più lontano. Per lui cardini della convivenza ecclesiale sarebbero le tre virtù: fede, speranza e carità, virtù che appaiono insieme fin dal primo capitolo della prima opera del Nuovo Testamento (1 Tess 1,3).
L’elaborazione della triade delle virtù teologali sembra debba essere attribuita al genio ispirato di Paolo (prima di lui non è attestata); con esse egli descrive da una parte il percorso che porta il credente e la comunità alla salvezza (si veda per questo tutta la Lettera ai Romani, che in 1,16-4,25 sviluppa il tema della fede; in 5,1-8,39 quello della speranza, e in 12,1-15,13 quello della carità); dall’altra offre il parametro relazionale fondamentale che regge la vita della comunità nelle sue dimensioni storiche e culturali.
In questo senso Rm 14 è di grande importanza: Paolo esorta i cristiani a non giudicare chi ha usanze diverse, a non disprezzare chi è debole, a non porre ostacoli o inciampi al fratello, a impegnarsi nelle opere della pace e della edificazione vicendevole: la gara non è a chi sa usare meglio per un proprio supposto vantaggio (altri progetti privati) i doni di Cristo, ma a chi sa offrire di più di se stesso in vista della costruzione della Chiesa (il progetto di Cristo). Tutto questo perché il regno di Dio « non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini » (Rm 14,17-18).
È possibile che questa proposta paolina sia sembrata troppo aleatoria, incapace di dare vita a una comunità chiaramente riconoscibile e distinguibile da altre. Paolo stesso, messo a confronto con il problema delle carni offerte agli idoli (1 Cor 8,1-11,1), offre solo dei parametri per un discernimento da effettuarsi caso per caso; d’altra parte la legge della nuova alleanza è la grazia dello Spirito Santo, che viene data attimo per attimo. Ma pur con la sua apparente debolezza la visione di Paolo è quella che apre alla storia.
Nello stesso tempo occorre anche ricordare, e tutta 1 Cor lo mostra continuamente, quanto sia grande l’importanza che Paolo attribuisce alle tradizioni già esistenti nella Chiesa, e con quanta forza chieda ai corinzi di accoglierle. Il frutto comunitario che continuamente matura sotto il sole dello Spirito Santo, la tradizione che si forma nelle comunità e nella Chiesa, crescendo su se stessa con l’apporto della donazione di credenti di tutti gli spazi e di tutti i tempi è per lui la visibilità del Risorto.

FABRIZIO TOSOLINI

SAN PAOLO: UN MISSIONARIO PIU’ ATTUALE CHE MAI

http://www.novaramissio.it/EditorialiMario/SanPaolo.htm

SAN PAOLO: UN MISSIONARIO PIU’ ATTUALE CHE MAI

(ancora una introduzione all’anno paolino, c’è sempre qualcosa di nuovo!)

Per ogni missionario è difficile sottrarsi al fascino e alla personalità di San Paolo, per chi ha l’orizzonte dell’uomo e i confini del mondo piantati nel cuore, difficilmente riesce a non misurarsi con la figura di Paolo. Nell’immaginario collettivo della grande famiglia missionaria, Paolo è il primo vero autentico missionario, colui che sfruttando le maestose strade imperiali dell’antica Roma seppe portare il Vangelo da una delle province più periferiche nel cuore stesso dell’Urbe, allora « Caput Mundi »; i chilometri fatti a piedi, a cavallo e le miglia marittime percorse sulle trireme del tempo sorpassano ogni nostra immaginazione. Paolo, toccato nell’intimo della sua coscienza dall’incontro con Cristo sulla via di Damasco, dedicò tutta la sua vita a portare il Vangelo nel tessuto sociale delle città pulsanti dell’Impero dove si elaborava e si costruiva la vita ed il pensiero di popoli assai diversi tra di loro. Ma se colpisce l’ansia missionaria che portò Paolo a compiere diversi viaggi e ad inoltrarsi in lande sconosciute, sorprende ancora di più il coraggio con cui egli seppe guardare a viso aperto uomini e problemi del suo tempo e confrontarsi alla luce dell’insegnamento di Cristo sul destino dell’uomo.
Paolo, compiacente spettatore della lapidazione di Stefano e accanito persecutore dei primi cristiani, dopo l’incontro con Gesú di Nazareth (un incontro che possiamo definire un autentico mistero di fede) diventa egli stesso un Apostolo capace di suscitare nel cuore di molte persone il desiderio sincero di conoscere e seguire il Cristo.
Il Nuovo Testamento nel suo insieme ci presenta molto di più della vita di Paolo che non di quella di Gesù, le sue lettere che proclamiamo ed ascoltiamo nelle nostre Eucaristie domenicali, dimostrano quanta passione e quanto fuoco gli ardeva in cuore, le comunità da lui fondate e alle quali si rivolgeva sperimentano sulla loro pelle, allo stesso tempo rimproveri e tenerezza, correzione fraterna ed affettuosità. Paolo è un uomo eccezionale, pieno di passione e di vigore, di luce e di fuoco, in lui orgoglio ed umiltà, fascino e fortezza sono un’unica cosa. Ebreo osservante, esecutore zelante della legge di Mosè, diventa l’intrepido annunciatore del Vangelo che libera dalla legge facendo scoprire ad ogni uomo che egli è salvo, reso giusto non in virtù di vuoti ritualismi e precetti osservati scrupolosamente, ma per la gratuità sconfinata della Croce di Cristo; la fede nel Maestro rende giusto il peccatore e lo fa partecipe di quel mistero di Grazia in cui ciascuno si sente amato da Dio. Se il messaggio di Gesù imperniato sull’amore a Dio e al prossimo, che aveva come cardine il perdono da offrire anche al malvagio, era rivolto a tutti, nessuno escluso, anzi proprio coloro che erano i reietti, i peccatori, gli emarginati per eccellenza in una parola i « piccoli », si trovano ad essere i depositari privilegiati di quest’annuncio, che dà loro una dignità ed una coscienza di se stessi che nessun filosofo aveva mai osato affermare, questa tenerezza che fa del’ultimo degli schiavi un figlio prediletto di Dio e lo pone sullo stesso piano del più nobile tra gli aristocratici del tempo e dello stesso Imperatore, sarà vista come un messaggio pericolosissimo da bloccare con qualunque mezzo al fine di non scardinare un sistema di potere basato sulla schiavitù, sul dominio e sull’oppressione. Paolo porterà questo messaggio là dove era necessario che esso fosse conosciuto, inquietando in tal modo i governatori e gli imperatori di turno, ma egli non defletterà neanche di una virgola da questo compito che gli era stato affidato. Pur essendo l’ultimo arrivato tra gli Apostoli sarà quello che si opporrà anche a Pietro a viso aperto, ritenendo la sua apertura alle genti, autenticamente vicina al messaggio del Maestro.
Un personaggio così, che cosa può dire al cristiano d’oggi ed in modo particolare a chi ne ricalca le orme sui sentieri della missione? La risposta sta nello stile e nel modo di presentare il Vangelo tipico di Paolo: avere il coraggio di andare oltre, sempre! Senza fermarsi al dato acquisito o alla comunità calda, accogliente e gratificante che suadente ti invita a … restare! In secondo luogo guardare negli occhi – come Paolo – uomini e problemi che ti stanno davanti, le Agorà di oggi non sono meno problematiche ed inquietanti di quelle di allora, la grande tentazione per i cristiani di ogni tempo è di rinchiudersi in ovili protetti scantonando quelle che sono le sfide più crude che il mondo continuamente ti getta in faccia. Inoltre, la franchezza del linguaggio paolino, resta un valore oggi come ieri, anche se il modo di parlare paludato e « curiale » di certi ambienti ecclesiastici stride in maniera costante con il modo di fare di Paolo. Non ultimo la tenerezza che Paolo avvertì dentro di se dopo l’incontro con Gesù e che riversò abbondantemente sulle persone che incontrò e le comunità con le quali ebbe a che fare, ci ricordano come la buona notizia di Gesù di Nazareth è innanzi tutto amore sconfinato verso chi il mondo ignora, emargina o disprezza. Nell’anno Paolino voluto da Papa Ratzinger, riscoprire questi aspetti squisitamente missionari, ci aiuterebbe a recuperare quell’afflato paolino che certamente alberga in ciascuno di noi, un compito al quale non possiamo sottrarci.

CAMMINANDO OGGI SULLE ORME DI SAN PAOLO
Per un cristiano e ancor di più per un missionario, misurarsi con la figura e l’opera di San Paolo è quasi impossibile, ci si sente piccoli, insignificanti, di fronte a colui che viene unanimemente riconosciuto non solo come l’Apostolo delle genti, ma come chi attraverso i suoi viaggi portò il Vangelo di Gesù di Nazareth dalla Palestina, una delle province più periferiche e sperdute, al cuore delle città dell’Asia Minore e della Grecia, per arrivare infine a Roma capitale dell’Impero. Dai testi del Nuovo Testamento, sappiamo molto più della vita di Paolo che non di quella di Gesù, proprio per questo – in vista anche dell’imminente Anno Paolino – cercare di accostarci con rispetto e attenzione a questo discepolo di Cristo, per carpirne metodi e strategie missionarie adattabili all’uomo d’oggi, ci sembra per lo meno un tentativo necessario proprio per non disperdere l’immenso patrimonio che ci ha lasciato. E, attraverso i suoi scritti porci delle domande che aiutino la nostra vita a misurarsi più in profondità con il Vangelo.
La prima cosa che colpisce in Paolo è la determinazione delle sue scelte. Determinato come giudeo osservante nel perseguire con la spada la nascente comunità cristiana, ancor più determinato nell’annunciare la Buona Novella di Cristo dopo la « conversione » sulla via di Damasco. Proviamo a chiederci: quanto di questa sua determinazione alberga dentro i nostri cuori oggi? Un altro aspetto della personalità di San Paolo che balza subito agli occhi, è il suo carattere. Di solito si dice che una persona che ha carattere, ce l’ha pessimo, quello di Paolo doveva essere orribile! Lo scontro con Pietro e i diverbi con questo o quell’altro discepolo, puntualmente segnalati dagli Atti degli Apostoli, ci mostrano un San Paolo che nella franchezza del linguaggio e nel coraggio nell’esporre le proprie idee era un testimone straordinario del fascino che Cristo aveva esercitato su di lui. Quanti di noi possono dire lo stesso? Nonostante il caratteraccio e la parresia di linguaggio, San Paolo seppe trasformare i suoi conflitti in una fonte di spiritualità, lo possiamo vedere in diversi passaggi delle sue lettere, dove dopo alcune sottolineature un po’ « pepate » sa arrivare ai suoi interlocutori utilizzando un linguaggio carico di attenzione e tenerezza. Quanti di noi riescono a fare altrettanto?
Abituati come siamo ad utilizzare mezzi di trasporto superveloci, non riusciamo più a percepire la straordinaria vitalità di quest’uomo che, a piedi, a cavallo, o su imbarcazioni alquanto malsicure, seppe percorrere nei suoi molteplici viaggi, le vie consolari dell’Impero e muoversi nel mar Mediterraneo come se fosse un lago. Gli itinerari di San Paolo portano dritti nelle grandi città del tempo ed è proprio in queste città: Antiochia, Corinto, Efeso, Atene, ecc. che Paolo si misura con la cultura del suo tempo e a viso aperto propone l’annuncio del Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani! Questo suo atteggiamento è ancora patrimonio comune per i cristiani, oppure siamo lentamente scivolati verso un’edulcorazione del messaggio di Gesù che abbiamo talmente incrostato di orpelli inutili e superflui da offuscarne lo splendore originario? Un altro aspetto caratteristico di San Paolo rivendicato con forza da lui stesso, è quello in cui Paolo sottolinea il fatto di essere un lavoratore che annuncia il Vangelo, Paolo non era un predicatore itinerante, un estroso naif che si spostava di città in città contando belle storielle, era un uomo chiamato da Cristo a portare il Vangelo nel cuore stesso dei popoli estranei a Israele, e per fare questo egli si guadagnava da vivere svolgendo un lavoro manuale che gli consentiva di non pesare su alcuno. Questa sua indipendenza lo metteva nella condizione di essere libero interiormente ed esternamente di fronte a qualsiasi interlocutore. Quanti di noi oggi possono dire altrettanto?
« Vivo ma ormai non sono più io che vivo; è Cristo che vive in me »; « Completo nella mia carne quello che manca alla passione di Cristo »; « Quando mi sento debole allora sono veramente forte »; « Fede, speranza, amore, il più grande dei tre è l’amore »; basterebbero queste poche citazioni tratte dall’immenso epistolario paolino, per capire quanto ancora oggi ognuno di noi deve misurarsi su questi nodi cruciali che interpellano la nostra vita e pongono delle domande ineludibili nel conteso della realtà nella quale siamo inseriti. Anche oggi ci sono delle Agorà, delle piazze, nelle quali scendere e dentro le quali misurarsi con la cultura dominante, anche oggi ci sono città sterminate, megalopoli dove la « Plantatio Ecclesiae » ovvero il germe di una piccola, magari insignificante comunità di gente che vive nel nome di Cristo è seme di un germoglio che darà i suoi frutti proprio come avvenne al tempo di Paolo; occorre crederci, e ancor di più occorre gettare questo seme sui vasti terreni che lo Spirito Santo ci indica continuamente.
Lungo gli anni della sua vita, Paolo affrontò dei passaggi che richiesero una transizione complessa e conflittuale a livello personale sia sul piano psicologico che sul piano della fede, difatti passò dal mondo ebraico al mondo greco, dal contesto rurale ad un contesto urbano, dalle sicurezze del giudaismo, al mondo pluralista e conflittuale delle grandi città dell’Impero, da una Chiesa di soli ebrei convertiti a una Chiesa che spalancava le porte per accogliere quanti erano disposti a vivere il Vangelo, da una religione legata a un popolo a una nuova religione aperta a tutta l’umanità. Si può dire che Paolo compì dentro di sé un esodo straordinario – ancor più affascinante dei suoi viaggi – i suoi ripetuti passaggi dal vecchio al nuovo ebbero certamente i dolori del parto, ma ciò che di nuovo nacque attraverso di lui con la Grazia di Cristo è divenuto patrimonio comune per tutte le generazioni seguenti. Fare in modo che questa novità di vita inaugurata da San Paolo non invecchi mai nei nostri cuori, ma ci rigeneri continuamente nella luce di Cristo, sarebbe il modo migliore per acquisire il messaggio di San Paolo e crediamo anche un modo originale per celebrare l’anno a lui dedicato.

MISSIONARI COME PAOLO O COME CRISTO?
Nel contesto dell’Anno paolino si è molto parlato di questo Santo, passato giustamente alla Storia, grazie alla sua instancabile attività missionaria come l’Apostolo delle genti. Qualcuno ha calcolato che San Paolo percorse circa ventimila chilometri per terra e per mare per annunciare il Vangelo nelle città più importanti e rappresentative dell’epoca e, considerando che a quei tempi i mezzi di comunicazione erano abbastanza scarsi e precari, c’è veramente da dire che si è trattato di un’impresa notevole. Tutto ciò fa di Paolo un instancabile araldo evangelico e sotto questo profilo, numerosi sono stati gli articoli e le pubblicazioni che periodici e riviste specializzate hanno dedicato a questa straordinaria figura della Chiesa. Se San Paolo è quindi l’antesignano per eccellenza della “Missio ad Gentes” varrà la pena ricordare che lui stesso continuamente indicava come perno della sua predicazione la figura di Gesù di Nazareth, morto in croce e risorto per la nostra salvezza. Sorge pertanto una domanda: dai Vangeli non risulta che Gesù sia mai uscito dalla Palestina; è vero che c’è la fuga in Egitto di quando era bambino, ma non possiamo certamente indicare questo viaggio come un viaggio missionario, nè tanto meno i brevi sconfinamenti fatti nella Decapoli possono essere visti come viaggi “Ad Gentes”. In che cosa consisteva allora la “missionarietà” di Gesù tanto da essere continuamente sottolineata da Paolo? Qual’era la caratteristica di questo “nuovo messaggio” che colpiva così tanto gli ascoltatori di Paolo tanto da portarli o a rapide conversione o ad un’opposizione radicale, che a volte sfociava in tumulti popolari? Si può dire che la missionarietà di Gesù, pur non essendo “strettamente chilometrica” era per certi versi di una radicalità che suscitava inquietanti interrogativi ed entusiastiche adesioni. Gesù in fondo, pur non allontanandosi mai dalla sua terra natale, offriva come stile di vita un’approccio alle persone certamente molto più intenso e stupefacente di un viaggio missionario. Egli infatti andava incontro a coloro verso i quali nessuno andava! Sedere a tavola con i peccatori, entrare nelle case delle persone più odiate del tempo, come i pubblicani (autentici strozzini e sanguisughe della povera gente) avvicinare i lebbrosi, frequentare persone dalla dubbia moralità, circondarsi di amicizie manesche e poco raccomandabili, tutto ciò rompeva gli schemi abituali di vita consolidati dalla consuetudine, così cari alla tradizione del popolo ebraico. L’ansia apostolica di Paolo trova pertanto la sua più completa aderenza alla missionarietà di Gesù: mentre questi andava incontro ai peccatori ed agli emarginati della sua gente, Paolo portava questo stile di “prossimità” ai popoli del bacino del Mediterraneo, arrivando nel cuore stesso di questo mondo, ovvero la Roma imperiale “Caput Mundi”. Proclamando da questa “straordinaria tribuna” quanto grande fosse l’amore di Dio verso tutti gli uomini, e ancor più stupefacente rivelando quanto questo Amore fosse riservato in maniera privilegiata a coloro che in quella società non contavano nulla: i poveri, gli afflitti, gli schiavi, gli emarginati. In questo modo tutti coloro che vivevano ai bordi dell’Impero venivano collocati al centro del messaggio evangelico: notizia più sconvolgente e più straordinaria di questa non si poteva immaginare. A duemila anni di distanza lo stile missionario sia di Gesù come di Paolo deve incidere in maniera preponderante ancora oggi nel nostro modo di fare pastorale: la prossimità del Vangelo all’uomo di ogni tempo deve trovare forme concrete di vicinanza e di amicizia che faccia sentire i sofferenti, gli ammalati, i poveri, gli esclusi, gli stranieri (regolari e clandestini) a loro agio nella comunità cristiana, accolti come fratelli e valorizzati come persone; solo così le nostre comunità saranno missionarie e solo così la missionarietà non si misurerà più in chilometri ma in intensità di rapporto con ogni persona che soffre, vicina o lontana che sia.

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