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IL MAESTRO IN SAN PAOLO – PARTE SECONDA di Giovanni Helewa ocd

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IL MAESTRO IN SAN PAOLO

PARTE SECONDA

Atti del Seminario internazionale
su « Gesù, il Maestro »
(Ariccia, 14-24 ottobre 1996)

di Giovanni Helewa ocd

II. Paolo apostolo
alla scuola del Cristo crocifisso
Avvicinare l’Apostolo Paolo a Gesù il Maestro è seducente ma problematico. A parte il fatto, di certo non casuale, che Paolo non chiama Gesù con questo titolo, un ampio silenzio sul Gesù storico caratterizza le lettere paoline. I fatti e le situazioni, i miracoli, le parabole, l’annuncio del vangelo del regno e la sua spiegazione, l’intimità con i Dodici, i contrasti con il giudaesimo ufficiale, gli spostamenti locali, la salita verso Gerusalemme, l’articolata vicenda della passione – elementi tutti che formano la trama narrativa di un ricordo e di una proposta e che sono il quadro in cui Gesù appare « maestro » – sembrano estranei alla prospettiva dell’Apostolo. Una cosa è certa: Paolo non è un « discepolo » di Gesù nel senso e nel modo in cui lo sono un Pietro o un Giovanni. La sua è una diversità che lo esclude dall’ambito storico di una parola come questa: <<Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono>> (Lc 10,23-24).
<<Ho veduto Gesù, Signore nostro>> (1Co 9,1). <<Apparve anche a me>> (15,8). Il suo incontro con Gesù, tuttavia, avvenne a cose fatte. Non essendo stato di quelli che furono <<con Gesù sin dal principio>> (cf Gv 15,27; At 1,21-22; Lc 1,2; Mc 3,13-14), non poteva fare propria la dichiarazione tipica dei testimoni diretti: <<Ciò che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo a voi>> (1Gv 1,3; cf At 10,39; 13,30-31). Valga globalmente questa differenza: anche se esortava i credenti a farsi imitatori di Cristo nell’amore (Ef 5,2), non poteva avvalersi dell’esemplarità magisteriale di un ricordo come quello della lavanda dei piedi (Gv 13,12-15). <<Rabbunì!>>, esclama Maria di Magdala al riconoscere Gesù (Gv 20,16). Tale privilegio non fu di Paolo.
È lecito allora parlare di Gesù il Maestro a proposito di Paolo? La risposta è affermativa, a condizione che si tenga presente la specificità del caso. (torna al sommario)

1. Dal Cristo Signore a Gesù di Nazaret
Confidava ai Corinzi: <<Siamo i vostri servitori per amore di Gesù>> (2Co 4,5; cf 5,14). Almeno questo dobbiamo riconoscere in partenza: non ha imparato alla scuola del Maestro come gli altri, ma l’amore che lo legava a Gesù non poteva non avere suscitato in lui il desiderio di conoscerlo il più possibile.
Del resto, quello che predicava ed insegnava era un vangelo che doveva orientare la sua mente e il suo cuore verso quel Gesù che non ebbe la fortuna d’incontrare personalmente. Diceva al mondo la « parola della fede » (Rm 10,8), la « parola di Cristo » (v. 17); e con ciò annunziava quale vangelo di Dio, insieme ed inseparabilmente, « Cristo Gesù Signore » (2Co 4,5) e « Gesù Cristo crocifisso » (1Co 2,2; cf 1,22). Non era un’astrazione la « parola della croce » che proclamava (1,18). Come poteva disinteressarsi della vicenda storica di Gesù o non informarsi per lo meno del modo in cui venne crocifisso il suo Signore e dell’itinerario che l’ha portato al Calvario? Ai Galati ricorda che <<ai loro occhi fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso>> (3,1). Paolo allude certamente alla sua catechesi orale mentre insegnava la morte di Gesù: non solo l’evento nella sua essenziale verità, ma un racconto più o meno circostanziato, comunque caldo e coinvolgente, della Passione così come l’aveva potuto sapere da fonti appropriate. Una storia concreta, un ritratto vivo; e con ciò stesso, un magistero insostituibile.
Certo, quel che conta decisivamente ormai è la fede nel vangelo di Dio, l’incontro personale con l’attuale Cristo della fede. Non già quindi il Cristo per sé accessibile all’occhio carnale e all’orecchio fisico (cf 2Co 5,16), ma il Cristo nel quale Dio opera e dice <<quelle cose che occhio non vide mai, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo>> (1Co 2,9), quelle cose che soltanto lo Spirito di Dio conosce e comunica alle persone (vv. 10ss). In tale prospettiva, la quale è tipicamente paolina, è la fede a dirigere lo sguardo verso il Gesù della storia, suscitando il desiderio di ascoltare la sua parola e di sostare ai piedi della sua croce; e questo cercare Gesù presuppone che si contempli nel suo volto l’attuale « Signore della gloria » (v. 8), il Cristo cioè che attualmente è il vangelo di Dio, attualmente vive nelle persone (Ga 2,20; Col 3,4) quale « sapienza e giustizia e santificazione e redenzione » (1Co 1,30), attualmente sta alla destra di Dio ed intercede per i credenti (Rm 8,34).
Detto ciò, ricordiamo l’originalità dell’approccio paolino: non ci sarebbe l’attuale Cristo della fede se non ci fosse il Gesù della storia; e non è possibile separare il « Signore della gloria » dall’individuo che portava il nome di Gesù di Nazaret, dal Maestro che diceva le cose di Dio ed è morto sulla croce a Gerusalemme. Dobbiamo insistere: tutto predisponeva Paolo ad avvicinarsi a quel Gesù che gli altri, più fortunati di lui, avevano personalmente conosciuto come il Maestro. Infatti, il vangelo a lui rivelato riguarda il Figlio di Dio (Ga 1,16; Rm 1,3; 1,9); ma questo Figlio, la cui identità divina è eterna, ha fatto irruzione nella sua coscienza rivestito di una identità umana e storica precisa: è « Gesù Cristo nostro Signore » (Rm 1,3-4). È il Figlio che, nella veste individuale di un Gesù, visse nel mondo degli uomini <<nato da donna, nato sotto la legge>> (Ga 4,4), <<fatto della stirpe di Davide secondo la carne>> (Rm 1,3; cf Ga 3,16), in tutto simile agli uomini (cf Rm 8,3; 1Tm 2,4-6) sino ad avere voluto per sé la condizione di un « servo » (Fl 2,7), di un « povero » (2Co 8,9), di un « debole » (1Co 1,25; 2Co 13,4) – una kenosis che di umiltà in umiltà lo portò, obbediente a Dio, ad una morte come quella della croce (Fl 2,8). E se questo Figlio è contemplato adesso nella sua gloria celeste, Signore di tutti e sede viva di tutta la potenza dello Spirito (Rm 1,4; 1Co 15,45ss), tale sua esaltazione egli l’ha guadagnata per il modo in cui volle vivere e terminare la sua esistenza terrena (Fl 2,9). Non è questa la visione di un credente tanto affascinato dalla gloria del Signore da non avere il desiderio di fissare lo sguardo sul « servo » che fu Gesù.
Ad avere trasformato Paolo nel credente-apostolo che ammiriamo fu certamente la <<sublime conoscenza di Cristo Gesù, suo Signore>> (Fl 3,8), la quale gli fu donata per « rivelazione » (Ga 1,16) e pura grazia (1Co 15,10). Ma questa stessa « conoscenza », apocalisse del vangelo nel suo intimo, era tale che doveva per forza orientarlo anche verso il passato ed aprire la sua mente ad un magistero che sapeva insito alla vicenda storica che si era compiuta sul Calvario. E Paolo non viveva in una sfera astratta: aveva ampia possibilità di documentarsi, d’informarsi, sia alla fonte diretta dei testimoni storici (cf Ga 1,18-19; 2,1ss; 1Co 15,3ss; 11,23-25), sia a quella indiretta di una tradizione che già si formava nelle chiese. Perché pensare Paolo meno interessato di Luca a conoscere la storia di Gesù, anche nei particolari (cf Lc 1,1-4)? Proprio perché Gesù gli è ormai rivelato come il Figlio di Dio, dobbiamo pensarlo più che attento alla storia di Gesù, alle cose che gli vengono notificate come vissute e dette dal Maestro. Questo stesso titolo, anche se non appare nelle Lettere, Paolo non può averlo ignorato, dato che circolava già nella chiesa nascente; e Paolo era più che disposto ad imparare alla sua scuola e farsi discepolo di un tale Maestro.
Non è forse ciò che lui stesso suggerisce quando esorta: <<Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo>> (1Co 11,1)? Si imita un esempio di vita degno di essere preso a modello (2Ts 3,9; Tt 2,7; 1Pt 5,3), a scuola di comportamento (Gv 13,15), proprio nella linea tracciata in Fl 4,9: <<Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, questo dovete fare>>. In pratica, Paolo si augura che i fedeli vivano come discepoli suoi – appunto come egli sta vivendo, come un discepolo di Cristo! Nei due casi l’esempio è concreto e il modello è avvertibile; soltanto che nel secondo caso, l’esemplarità che ha « imparato e ricevuto » da Cristo, Paolo l’ha ascoltata e veduta indirettamente. Non è stato un discepolo del Maestro come un Pietro, un Giovanni, un Giacomo o un Andrea; ma lo divenne certamente quanto loro. (torna al sommario)

2. Presso la Croce con la mente e il cuore
A questo punto può sembrare strano il grande silenzio di Paolo sul Gesù storico, quel Gesù di cui deve avere acquisito ampie e dettagliate informazioni. A tale riguardo possiamo fare due precisazioni.
La prima è che le Lettere, anche se ricche di dati autobiografici e documentano a sufficienza una dottrina articolata e coerente, non dicono tutto di Paolo e della sua catechesi. In particolare, lasciano nell’ombra un settore che vorremmo conoscere meglio: la parola viva di Paolo quando predicava il vangelo ai non-credenti e, soprattutto, mentre, spiegando ai credenti il vangelo, comunicava loro la verità di Gesù Cristo <<per il progresso e la gioia della loro fede>> (Fl 1,25; cf 1Ts 3,10; 2Co 1,24). Non costretto allora dai limiti del mezzo epistolare, poteva dare libero corso ad una catechesi prolungata, didattica ed esortativa, dove i grandi temi del vangelo – quegli stessi che emergono nelle Lettere – venivano associati ad una evocazione amorosa delle cose che si sapevano di Gesù, del Gesù che Paolo stesso cercava già di imitare e di cui non poteva non desiderare che anche i credenti si facessero imitatori. Pure nella loro stringatezza, testi come Col 2,6-7 e Ef 4,20-21 aprono uno spiraglio di luce su un tipo di discorso, insieme dottrinale e pratico, dove il richiamo alla coerenza di un vivere nuovo in Cristo e secondo Cristo veniva rafforzato con il ricordo della figura supremamente esemplare di Gesù.
La seconda precisazione è attinente al carisma paolino. Anche se l’avesse voluto, Paolo non avrebbe potuto tessere una narrazione della vicenda storica di Gesù con l’autorevolezza del testimone. E sapeva che tale non era il carisma concessogli. <<Il vangelo da me annunziato… io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo>> (Ga 1,11). <<Ha rivelato in me il Figlio suo perché lo annunziassi in mezzo alle genti…>> (1,16). La sua vita nella fede e il suo apostolato rimangono condizionati da questo incontro genetico con Cristo – il Cristo vivo rivelatogli come il vangelo vivo che deve annunziare. È di questo Cristo, il Figlio e il Signore, che Paolo ha conoscenza diremmo immediata; ed è questa medesima conoscenza ad abilitarlo, ai propri occhi, ad essere anch’egli, benché sia l’ultimo e come un aborto, un autentico apostolo di Cristo (1Co 9,1; 15,8). <<Subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia…>> (Ga 1,16.17). Gli è bastata l’apocalisse avvenuta nel suo intimo, la « sublime conoscenza di Cristo Gesù, suo Signore » (Fl 3,8), per sapersi apostolo e darsi alla predicazione del vangelo « in mezzo alle genti » (Ga 1,16). Maturerà la convinzione di dovere conoscere Gesù di Nazaret e avrà il tempo e la possibilità d’informarsi; ma il suo itinerario è tracciato: trasmettere il vangelo rivelatogli, irradiare la luce fatta splendere nel suo cuore (2Co 4,6), diffondere nel mondo il « profumo » del Cristo che vive in lui (2Co 2,14-16).
Comprendiamo pertanto la diversità di Paolo rispetto a coloro che erano apostoli prima di lui (Ga 1,17), ai testimoni cioè storici di Gesù: il suo non poteva essere il linguaggio narrativo del ricordo; e se il vangelo stesso lo orientava verso la vicenda storica di Gesù, di questa vicenda era portato a privilegiare, soprattutto nello spazio compresso delle Lettere, quegli elementi che più direttamente e strutturalmente appartenevano alla novità cristiana: chi era Gesù (la sua identità divina-eterna e umana-storica) e come egli divenne l’attuale Cristo-Signore, per sempre e per tutti il vangelo vivo di Dio (anzitutto il supremo e ricchissimo evento pasquale).
Bisogna infatti riconoscere che nelle Lettere la figura di Gesù di Nazaret è fatta presente con spiccata essenzialità. Spesso viene ricordata, perché ciò rientra nella verità del vangelo; ma l’approccio rimane molto selettivo. Paolo contemplava Gesù con l’ardore di un amore gratissimo, la penetrazione di un’intelligenza unica e la prontezza di un discepolo desideroso di seguirne le orme; ma è facile costatare, leggendolo, che per lui Gesù era soprattutto il crocifisso, il Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui (Ga 2,20), il servo che si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce (Fl 2,8).
Per la sua sublimità, la conoscenza di Cristo suo Signore ha fatto comprendere a Paolo, con l’impatto di una folgorazione, la vanità di tutto ciò che un tempo costituiva il suo vanto personale. È Cristo ormai il suo vanto e l’intera sua aspirazione. Tutto il resto è spazzatura (Fl 3,4-6.7-8). È « conquistato » come da un tesoro che ha calamitato il suo cuore staccandolo da tutto il resto (Fl 3,12; cf Lc 12,34). Questo suo tesoro ed unico vanto, però, lo interpellava di continuo ed egli se ne lasciava conquistare più e più ancora. Come? Mettendosi con la mente ai piedi della croce e fissando lo sguardo del cuore sul Signore mentre moriva per lui e per tutti. Come comprendere se non in tale senso Ga 6,14: <<Quanto a me… non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è crocifisso, come io per il mondo>>? È ricca la possibile esegesi di questa parola; ma la sua ispirazione profonda è lineare: un senso d’identità e di dignità, una libertà e un’appartenenza, un distacco totale e la sicurezza di un vanto ricchissimo; e tale visione di sé, riflesso di una religiosità meditata, Paolo la trae consapevolmente dal pensiero della croce, imparando alla scuola del Crocifisso la propria verità in Cristo e nello sguardo di Dio. Tutto permette di ritenere che Paolo, come gli altri apostoli anche se diversamente da loro, accoglieva in Gesù il suo Maestro (vedi sopra); ma tutto porta a precisare che il magistero che attingeva a tanta fonte era primariamente quella « parola della croce » che pure trasmetteva e spiegava come la verità del Cristo-vangelo (cf 1Co 1,18; 2,2). (torna al sommario)

3. Alla scuola del Crocifisso
Che cosa imparava Paolo da Gesù crocifisso? Basta ricordare che il vangelo stesso è da lui definito come la « parola della croce » per capire che la risposta potrebbe coinvolgere, direttamente o indirettamente, l’intera sua esperienza e l’intero suo messaggio. Ci atteniamo quindi ad una triplice linea, dove potremo cogliere con particolare chiarezza alcune delle sue certezze più personali ed apostolicamente più feconde: l’iniziativa del grande amore; il primato della grazia e della fede; la trascendenza di una sapienza e di una potenza degne di Dio. (torna al sommario)
a) L’iniziativa e la dimostrazione del grande amore
Del « Servo del Signore » è stato detto: <<Ha consegnato se stesso alla morte>> (Is 53,12); e del Cristo della passione Paolo ama dire: <<Ha dato se stesso>> (Ga 1,4; 2,20; Ef 5,2; 5,25; 1Tm 2,6; Tt 2,14). La formula esprime la volontarietà piena di un atto compiuto come un’offerta di sé (Ef 5,2). Si precisa che Gesù <<ha dato se stesso… secondo la volontà di Dio e Padre nostro>> (Ga 1,4): ciò che Dio ha voluto, Cristo ha compiuto nel momento in cui dava se stesso; l’offerta di sé, egli l’ha fatta nella consapevolezza e con il desiderio di aderire fino in fondo alla volontà divina come ad una norma che lo riguardava. Si allude così a quella « obbedienza » che ha portato il servo Gesù alla morte di croce (Fl 2,8), un « obbedire » che ha sovrabbondantemente compensato la colpa di Adamo ed ha aperto a tutti i tesori della grazia divina (Rm 5,18-19).
Infatti, era « per i nostri peccati » che Gesù dava se stesso (Ga 1,4), ossia « in riscatto per tutti » (1Tm 2,6), « per riscattarci da ogni iniquità » (Tt 2,14). Era questa oggettivamente la volontà di Dio; ed era questo il volere di Gesù stesso quando, fattosi servo obbediente ed offrendo se stesso, si è lasciato mettere a morte « per i nostri peccati » (Rm 4,25).
Proprio questa finalità redentiva, volontà di Dio a cui Gesù aderiva pienamente, attirava Paolo presso la croce per ascoltare la parola del grande amore. Anzitutto quella dell’amore di Gesù stesso: <<Mi ha amato e ha dato se stesso per me>> (Ga 2,20); <<vi ha amato e ha dato se stesso per noi>> (Ef 5,2); <<ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei>> (5,25). Ha amato noi dando se stesso; ha dato se stesso amando noi. Questo amore occupava totalmente Paolo e ne condizionava la via e l’apostolato (2Co 5,14); ed è un amore che non si finisce mai di scrutare e di comprendere, tanto vasto e profondo da « sorpassare ogni conoscenza » (Ef 3,17-19).
Alla scuola della croce Paolo imparava anche il mistero vivo dell’amore di Dio, di quella agápe toû Theoû che è l’anima eterna del vangelo (Ef 2,4; Tt 3,4-5) e la ricchezza stessa della grazia di Cristo riversata nei credenti (2Co 13,13; Rm 5,5). Infatti, la comunione di volontà tra Cristo Gesù e Dio Padre era insieme la comunione in una medesima agápe, la quale si è manifestata come una philantropia tutta misericordia e grazia e perfettamente degna di Dio (Tt 3,4-7). Alla croce vista come il documento storico del grande amore pensa Paolo quando dice che Cristo <<ha dato se stesso per noi>> (Ef 5,2; Ga 2,20; Ef 5,25); la stessa visione ispira quest’altra sua parola: Dio <<non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi>> (Rm 8,32). Nel momento in cui Gesù <<dava se stesso per noi>>, Dio era coinvolto come colui che <<dava il proprio Figlio per tutti noi>>: una medesima agápe, un medesimo « amore di donazione »! L’agápe manifestata sul Calvario è il dinamismo di un amore che è di Cristo e di Dio, insieme e inscindibilmente (Rm 8,35.36.39).
Per sé, una speculazione teorica, adoperando categorie atemporali, può cogliere il concetto di un Dio che ama e quello di un amore che è divino. Ma non è questa la prospettiva del credente Paolo e del predicatore del vangelo. L’agápe toû Theoû in cui crede e che proclama non è astratta, ma la sostanza di una iniziativa divina storicamente compiuta. Colui che chiama il « Dio dell’amore » (2Co 13,11), Paolo lo conosce come il « Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (2Co 1,3; Ef 1,3; Rm 15,6; cf 1Pt 1,3); è il Dio che ama « in Cristo Gesù » (Rm 8,39), colui cioè che si è rivelato per sempre come il « Dio dell’amore » allorquando, non risparmiando il proprio Figlio, lo ha dato per tutti noi (v. 32), dando se stesso a tutti noi. Questa agápe, tutta donazione, è volontà e potenza di salvezza nell’attuale vangelo che è il Cristo Signore; riferirla però alla croce e morte di Gesù è un’esigenza di fede irrinunciabile. È l’eterna e presente agápe di Dio, ed insieme è <<il grande amore con il quale Dio ci ha amati>> (Ef 2,4). L’aoristo porta il pensiero ad un momento del passato, ad un evento della storia, a quel momento e a quell’evento in cui Dio <<non ha risparmiato il proprio Figlio>> ed ha compiuto per tutti noi la grande donazione (Rm 8,32). Quando il soggetto del verbo agapân è Dio o Cristo, Paolo adopera diremmo istintivamente l’aoristo, perché pensa direttamente al momento in cui Cristo ha dato se stesso e Dio ha dato il proprio Figlio. Questo momento può essere esteso all’intera missione del Figlio, <<nato da donna, nato sotto la legge>> (Ga 4,4); ma il linguaggio di Paolo fa capire che si tratta piuttosto della croce-morte di Gesù.
Presso la croce Paolo si lasciava compenetrare da quest’altra verità: la grandezza propriamente divina di quell’agápe. Si deve leggere insieme Ga 2,20 e 6,14. Il Paolo che si compiace di non avere <<altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo>> (6,14), è il credente che si accosta di continuo al <<Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui>> (2,20). Sapersi tanto amato da tanta vittima! Paolo vi attinge una sicurezza sempre più solida, liberandosi da ogni vanto che possa trovarsi altrove. A tale sicurezza l’Apostolo invita anche gli altri, parlando loro del <<grande amore con il quale Dio li ha amati>> (Ef 2,4). <<Ci vantiamo in Dio>> (Rm 5,11): non è sufficiente dire che il « vanto » dei credenti è il « Dio dell’amore »; per aderire al pensiero di Paolo bisogna aggiungere che è il Dio di quell’amore, grande oltre ogni misura, che splende nella luce rivelatrice della croce.
Per questo egli parla del Dio che <<dimostra il suo amore verso di noi>> (v. 8). Quella del Dio in cui ci vantiamo è un’agápe che si lascia « dimostrare » al credente che la voglia contemplare. Dove? La risposta, essendo paolina, è scontata: <<Mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi… quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo>> (vv. 8 e 10). La dignità della vittima e l’indegnità dei beneficati! È questo il documento storico, sempre aperto alla fede, del grande amore; ed è questa l’epifania di un’agápe come soltanto Dio può avere e che dice ai credenti, con una propria sua evidenza, quanto sia giustificato il loro vanto e fondata la loro speranza.
Infatti, un amore tanto grande, dimostrato in una morte come quella del Figlio stesso Dio, non può non essere solido e vincente: in esso il Dio del vangelo ha impegnato, una volta per sempre, la propria potenza e fedeltà a salvezza dei chiamati. Paolo l’insegna in Rm 8,31-39 dove, essendosi riferito alla croce nel v. 32, proclama che in mezzo a qualsiasi tribolazione e di fronte a qualsiasi ostilità abbiamo la fiducia di essere <<più che vincitori a motivo di colui che ci ha amati>> (v. 37) e che non esiste nel creato una potenza che ci possa <<separare dall’amore>> di Cristo e di Dio (vv. 35 e 38-39). Il tono sa di trionfo, tanto è certa la fede e sicura la speranza di chi si apre al magistero sempre attuale della croce.

MAESTRO NELLA TRADIZIONE CRISTIANA: GESÙ, PAOLO E ALCUNI PADRI DELLA CHIESA

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MAESTRO NELLA TRADIZIONE CRISTIANA: GESÙ, PAOLO E ALCUNI PADRI DELLA CHIESA

Il tema “Maestro nella tradizione cristiana” è ampio e può essere spiegato da diverse angolature (storica, sociologica, filosofica, dottrinale, ecc). Non potendo affrontarlo in modo esauriente in questa sede, si è voluto dare almeno alcune linee generali di riflessione a proposito. A tale scopo sono stati scelti alcuni testi che potrebbero essere considerati “classici” o “rappresentativi”. Questa operazione “retorica” potrebbe essere paragonata ad una esposizione di quadri – con la viva speranza d’aver scelto testi adatti a rendere l’idea del tema “Maestro nella tradizione cristiana”. Il presente saggio prende pertanto la forma di un commento che si accompagna ad una antologia.
Gesù Gesù si presenta, agisce ed è capito come Maestro (Rabbi – Rabbuni): discute con altri dotti, possiede i suoi discepoli, fa dei segni (miracoli), agisce e insegna con l’autorità. Non scrive. La sua attività come Maestro è relativamente breve (al massimo 3 anni). Ai suoi seguaci Gesù richiede una rinuncia e una dedizione assai estreme, per la via scelta. Uno per essere suo discepolo deve essere svincolato: “Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me” (Mt 10, 37). Per essere suo discepolo non bastava ascoltare le sue parole, ma incarnarle nella vita. Non a tutti però era permesso di seguirlo – Gesù sottolinea che non sono i discepoli a sceglierselo, ma è lui che sceglie i suoi discepoli; e ad uno da lui guarito esplicitamente impedisce di seguirlo (cf. Mc 5,1-20).
Di fronte ai maestri esistenti del suo tempo e nel suo contesto si esprime e si comporta in modo critico, esplicitamente accusandoli di falsità, d’ipocrisia e di vuoto interiore:
Sulla cattedra di Mosé si sono assisi gli scribi e i farisei. Fate e osservate ciò che vi dicono, ma non quello che fanno. Poiché dicono, ma non fanno. Legano infatti pesi opprimenti, difficili a portarsi, e li impongono sulle spalle degli uomini; ma essi non li vogliono rimuovere neppure con un dito. Fanno tutto per essere visti dagli uomini. Infatti fanno sempre più larghe le loro filatterie e più lunghe le frange; amano i primi posti nei conviti e le prime file nelle sinagoghe; amano essere salutati nelle piazze ed essere chiamati dalla gente rabbi. Ma voi non vi fate chiamare rabbi, poiché uno solo è fra voi il Maestro (ho didàskalos) e tutti voi siete fratelli. Nessuno chiamerete sulla terra vostro padre, poiché uno solo è il vostro Padre, quello celeste. Non vi farete chiamare precettori (ho kathegemòn – duce, capo, guida), poiché uno solo è il vostro precettore, il Cristo. Chi è il maggiore fra voi sarà vostro servitore. Chi si esalterà sarà umiliato, e chi si umilierà sarà esaltato” (Mt 23,2-12). In altri momenti ammoniva i suoi discepoli di essere attenti di fronte ai possibili falsi profeti o insegnanti (Mt 6,15-20).
Accanto a questi tratti di Gesù come maestro, che sono comuni per tanti altri maestri, si possono anche notare alcune sue caratteristiche particolari. In quanto Gesù insegna e si presenta come un esempio da seguire, alla fine sembra che non tanto importi né il suo insegnamento né il suo esempio, quanto piuttosto la sua presenza. Per certi versi, nella visuale di Gesù non tanto importa mettersi in contatto con la sua meastrà, ma scoprire e toccare la sua presenza che in qualche modo va oltre l’uso hic et nunc. Gesù, quasi volesse che i discepoli scoprano qualcosa di più grande che si trova oltre di lui e d’altra parte riescano a trovarlo in tutto, dice per esempio: “Chi accoglie voi accoglie me e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta in quanto profeta, riceverà la ricompensa di un profeta. Chi accoglie un giusto in quanto giusto, riceverà la ricompensa di un giusto. Chi avrà dissetato anche con un solo bicchiere d’acqua fresca uno di questi piccoli, in quanto discepolo, in verità vi dico: non perderà la sua ricompensa” (Mt 10,40-42). In modo tanto bello quanto paradossale Gesù allarga la sua presenza sia ai bambini (cf. Mt 18, 5), sia ai poveri (cf. Mt 25, 31-46). Con questo Gesù si presenta come un maestro originale: è tanto necessario quanto sostituibile da un bambino o da un poveraccio, scompare per rimanere e rimanendo richiede ai discepoli di andare oltre lui stesso.
Con la sua vita e con il suo insegnamento Gesù schiude, tra l’altro, un aspetto sulla realtà del maestro nel cristianesimo veramente paradossale e cioè il fatto che nonostante l’impedimento di Gesù di non avere altri maestri, il cristianesimo ne era ed è pieno; perché? Questo fenomeno da una parte può essere visto “negativamente”: in assenza di Gesù, altri continuano la sua via e proponendoLo, di fatti propongono loro stessi (Gesù ha detto ma io vi dico…). D’altra parte se ne può scoprire un senso “positivo” attraverso una teologia “presenzionista” e “spirituale” (o spiritualizzata): i cristiani credono non solo che lo Spirito di Dio era in Gesù, ma anche che nello stesso Spirito presente nel mondo in qualche modo sempre dimora ed è presente Gesù Cristo. Questa realtà può essere osservata in modo chiaro e clamoroso nella persona e nell’insegnamento di Paolo di Tarso, chiamato anche l’Apostolo della nazioni.

Paolo di Tarso
L’epistolario di Paolo di Tarso ha avuto un ruolo importantissimo in tantissime dimensioni del cristianesimo, anche in questo legato con il tema di maestro. Paolo non solo agisce da maestro, ma è anche uno di quelli che sviluppano un’intera dottrina a proposito (cioè che cosa vuol dire e come si è “maestro” – pur paradossalmente rimanendo discepolo di Cristo – in cristianesimo). Per vedere almeno alcuni aspetti del suo insegnamento a proposito sono stati scelti i due frammenti dalle sue lettere ai Corinzi.
(a) Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Mi ero proposto di non sapere altro in mezzo a voi che Gesù Cristo, e lui crocifisso. E fui in mezzo a voi nella debolezza e con molto timore e tremore; e la mia parola e il mio messaggio non ebbero discorsi persuasivi di sapienza, ma conferma di Spirito e di potenza, affinché la vostra fede non si basi su una sapienza umana, ma sulla potenza di Dio. Annunziamo, sé, una sapienza a quelli che sono perfetti, ma una sapienza non di questo mondo, né dei principi di questo mondo che vengono annientati; annunziamo una sapienza divina, avvolta nel mistero, che fu a lungo nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei tempi per la nostra gloria. Nessuno dei principi di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Sta scritto infatti: Cosa che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore di uomo, ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano. Ma a noi l’ha rivelato mediante lo Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi mai conobbe i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così pure i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. E noi abbiamo ricevuto non lo spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, per conoscere i doni che egli ci ha elargito. E questi noi li annunziamo, non con insegnamenti di sapienza umana, ma con insegnamenti dello Spirito, esponendo cose spirituali a persone spirituali. L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne giudica solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. Chi, infatti, conobbe la mente del Signore da poterlo dirigere? Ora noi abbiamo la mente di Cristo (1 Cor 2,1-16).
Paolo si presenta soprattutto come uno che parla e presenta Gesù Cristo, perché è convinto di conoscerLo. Il suo è un tipico tratto dei maestri cristiani di tutti i tempi: sempre convinti di insegnare agli altri su Gesù Cristo, con il desiderio di portarli alla conoscenza (spesso chiamata anche fede) in Lui. Questo tratto che potrebbe essere chiamato “cristocentrico”, non è però libero da un certo paradosso chiaramente riconoscibile già nella persona di Paolo. Il paradosso sta nel fatto che Paolo non ha mai conosciuto Gesù (così detto storico). Per giustificare o spiegare (e spiegarsi) questo paradosso Paolo – e poi tutti gli altri – elabora una dottrina sullo Spirito Santo che potrebbe essere spiegata così: durante la vita di Gesù lo Spirito di Dio era presente ed operava in Lui, ma dopo la sua risurrezione questo Spirito è stato dato ad altri e ora questo Gesù opera invisibilmente dal di dentro di questo Spirito. Perciò Paolo si è abituato a parlare di/in una cristologia pneumatologica (lo Spirito presente in Gesù durante la sua vita) e di/in una pneumatologia cristologica (Gesù Cristo è presente in ogni azione dello Spirito). Questo inter-agire tra Gesù e lo Spirito, sperimentato dai credenti, perché strano e non visibile spesso è chiamato “mistero”. Paolo agisce come maestro e costruisce la sua dottrina sul maestro proprio dall’interno di questo mistero, per questa ragione può anche essere chiamato “l’uomo spirituale”.
L’insegnamento sullo Spirito di Dio in Paolo, se si pensa bene, è sorprendente: di fatti lui dice che lo stesso Spirito, che è presente e costituisce la parte più profonda di Dio in qualche modo è presente e costituisce anche la parte più profonda dell’uomo. La scoperta di questa presenza e il lasciarsi guidare da essa, dà a Paolo la forza vitale e il coraggio nell’insegnamento. Appoggiandosi su questa forza interiore Paolo parla – questo è ancora un tratto caratteristico del maestro cristiano: il parlare. Cosciente della “povertà della parola” è nello stesso tempo convinto della sua incredibile forza. Anche in questo caso si ha a che fare con una dottrina spirituale: le parole nascono dallo Spirito di Dio che abita nell’uomo, diventano un veicolo con il quale lo Spirito si comunica, per far nascere (o scoprire) nelle persone, che ascoltano le parole dell’insegnante, la presenza di questo Spirito intessuto dalla presenza di Cristo.
Paolo poi, pur negando la sua retorica (un altro paradosso), si serve ampiamente dell’arte di parlare (e scrivere) di cui è assai dotato: mezzi “mondani”, ma l’Apostolo è convinto che il suo insegnamento sia ben diverso da tutte le altre dottrine di questo mondo. Egli considerava tutte le altre forme di sapienza vane rispetto al suo predicare di Gesù crocifisso.
(b) Mi sembra in realtà che Dio abbia messo noi, apostoli, all’ultimo posto, come dei condannati a morte, poiché siamo stati resi spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a motivo di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; noi disprezzati, voi onorati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo erranti e fatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; fino al presente siamo divenuti come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti! Non per farvi arrossire vi scrivo questo, ma per ammonirvi, come miei figli carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi (paidagogoùs) in Cristo, ma non certo molti padri (patéras); io invece vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo. Vi esorto, dunque, fatevi miei imitatori (mimetaì mou gìnesthe)! (1 Cor 4,9-16)
L’insegnante dà credibilità alle sue parole con la propria vita e Paolo ne è un esempio. Per poter insegnare e proprio per quello che insegnava, Paolo ha sofferto incomprensioni, persecuzioni e alla fine la morte. Egli lega conoscenza e verità con la testimonianza: il testimoniare la verità con la propria vita rende la verità leggibile agli altri ma anche consente al maestro che la trasmette, di approfondirne il contenuto. Perciò in Paolo si trovano anche alcune tracce per una dottrina sul progresso spirituale, cioè i passi di una vita cristiana che possiede un suo inizio, un suo periodo di crescita, una sua maturazione. Una persona iniziando il cammino non sa dove arriverà: Paolo che cadeva nei pressi di Damasco di fronte ad una luce e alla voce di Cristo non sapeva che l’evento lo avrebbe condotto un giorno alla decapitazione a Roma.
Nel frammento sopra presentato si colgono anche i semi della futura dottrina sulla paternità spirituale così ampiamente diffusa nel cristianesimo. L’adesione a Cristo verso una piena fede in Lui è come una nascita e chi la promuove può giustamente essere chiamato padre. Va notato che Paolo non si paragona ad un pedagogo che significa accompagnatore (originariamente e letteralmente uno che porta i bambini lungo la strada a scuola) di un processo di crescita, ma al padre che sta alle origini di una vita stessa – e questo padre deve e può essere solo uno. A questo punto si può fare una domanda: in quale misura una tale mediazione umana è indispensabile, in quale misura l’uomo può pretendere si essere un padre spirituale e come questo si lega con il divieto fatto da Gesù stesso di non chiamare in questa terra nessuno con nome di padre, perché esiste soltanto uno, unico, Padre, cioè colui che sta nei cieli.
Un terzo elemento da sottolineare ai margini di questo testo è la dottrina sull’imitazione (mimesis) – un tema tanto presente nel cristianesimo e profondamente legato con il tema di maestro. Uno dei libri più letti nella tradizione cristiana occidentale è la Imitazione di Cristo di Tomaso à Kempis, anche se Gesù stesso raccomandava di seguirlo piuttosto che di imitarlo. Imitazione è fortemente legata con visibilità: si imita uno che si vede. D’altra parte nel caso di un maestro cristiano dovrebbe essere visto in lui qualcosa di Cristo – come se lo Spirito che abita in lui scavasse qualcosa nel suo corpo e nel suo volto che agli occhi dei discepoli potrebbe essere chiaramente riconosciuto come “cristico”. Si ricorda che l’imitazione è molto diffusa nel cristianesimo: alle origini del francescanesimo alcuni frati tentavano persino di imitare Francesco nel modo in cui camminava; da qui poi proviene la voglia di imitarne il vestito, la capellatura e altri comportamenti del maestro. Ed fu Paolo di Tarso il primo a presentarsi come maestro da imitare.

Antonio il Grande
Antonio il Grande (251-356), chiamato anche l’Abate o dell’Egitto, è una delle figure più eminenti del mondo cristiano. Con lui si è aperta una nuova via dell’ideale cristiano – quelle ascetica e monastica. Antonio di fatti non era né un predicatore (come san Paolo), né un martire o un confessore per la fede, ma un asceta e come tale si presenta come uno dei primi (se non proprio il primo) maestri di stampo ascetico che ha dominato il mondo cristiano fino ai tempi recenti.
Come Gesù si conosce principalmente attraverso i vangeli, così Antonio è conosciuto principalmente attraverso la sua biografia scritta dal vescovo Atanasio d’Alessandria (295-373). Atanasio ha conosciuto direttamente Antonio ed ha scritto la sua vita subito dopo la morte del monaco. Questo testo diventò un “classico” e la figura di Antonio, almeno come è stata descritta da Atanasio, si affermò nel mondo cristiano di tutti i tempi e di tutte le culture. Sulla base della Vita di Antonio si possono osservare alcuni punti salienti che caratterizzano un maestro come: l’origine della chiamata, le tappe della vita e l’irraggiamento.
La prima cosa che veramente colpisce nel caso di Antonio è la sua lunga e lenta crescita. Orfano all’ età di circa 20 anni, ben presto intraprese la via dell’ascesi (rinuncia dei beni, digiuno, veglia, preghiera, opere di misericordia, solitudine, ecc.) che praticò per circa 35 anni. Soltanto dopo questo periodo si può parlare dell’irraggiamento di Antonio come maestro (insegnamento, miracoli, formazione dei discepoli, interventi nella vita pubblica). Antonio morì, riconosciuto come “padre d’Egitto” all’ età di 104 anni. Già da questo breve percorso cronologico si possono trarre almeno tre importanti conclusioni riguardo a lui come maestro: (1) Antonio intraprende la vita dell’ascesi non per diventare maestro ma per consolarsi e per salvarsi e il suo essere maestro deriva da questa ricerca più fondamentale; (2) Antonio inizia a svolgere il suo ruolo di maestro dopo numerosi (almeno 35) anni di vita nascosta e ascetica; (3) in qualità di maestro Antonio ormai anziano apre una catena di “anziani” – per questo molto spesso nel mondo cristiano (ma non soltanto) l’essere maestro sarà legato con l’ età avanzata, anche se questo concetto sarà criticato molto presto da tanti: per esempio Giovanni Cassiano (+430 ca.) cercherà di mostrare che non sempre i capelli grigi significano “sapienza” o un Palladio (IV/V secolo) creerà un termine paidariogeronta (giovane–vecchio) per dire che un maestro può essere giovane ma pieno di sapienza come un anziano o se anziano possederà anche uno spirito giovanile (Storia Lausiaca 17,2).
Oltre questi tratti assai interessanti di modello di maestro cristiano la Vita di Antonio ne propone altri. Uno di questi riguarda gli inizi della vita di questo monaco. Nel testo di Atanasio si legge:
Allora, infatti, non c’erano ancora in Egitto tanti monasteri e i monaci non conoscevano ancora il grande deserto; chi voleva vigilare sulla propria vita si dedicava all’ascesi in solitudine non lontano dal proprio villaggio. Vi era allora nel villaggio vicino un vecchio che dalla giovinezza si era esercitato nella vita in solitudine. Antonio lo vide e gareggiò con lui nel bene. In primo tempo cominciò anch’egli ad abitare nei dintorni del villaggio e, quando sentiva parlare di qualcuno che era pieno di fervore, andava a cercarlo come una saggia ape e non faceva ritorno a casa sua prima di averlo visto e di aver ricevuto una sorta di viatico per perseverare nella via della virtù. (San Atanasio, Vita di Antonio, 3). Da questo frammento risulta che Antonio, pur seguendo alcuni altri che lo hanno preceduto sulla via d’ascesi, non ha posseduto di fatti nessun “vero maestro”. Si potrebbe dire che pur imparando da altri ”qualcosa”, ha imparato “tutto” da solo. Da questo risulta che per certi versi uno diventa maestro “da solo” scavando o percorrendo alcune dimensioni dell’esistenza per primo e a proprie spese. Certo, fondamentale rimarrà, anche nel caso di Antonio, un forte riferimento all’insegnamento di Gesù e della Scrittura (la Vita di Antonio e incluso in essa l’insegnamento di questo monaco sono intessute di tantissimi riferimenti e interpretazioni della Bibbia).
Atanasio, scrivendo di Antonio, coglie il momento di svolta, in cui il monaco uscendo da una lungo isolamento e apparendo inizia il periodo del suo irradiamento:
Passò così circa vent’anni, da solo, nella vita ascetica, senza uscire e senza mai farsi vedere. Poi, siccome molti desideravano ardentemente imitare la sua vita d’ascesi, e poiché sono venuti altri suoi amici e avevano forzato e abbattuto la porta, Antonio uscì come un iniziato ai misteri da un santuario e come ispirato dal soffio divino. Allora per la prima volta, apparve fuori del fortino a quelli che erano venuti a trovarlo. Ed essi, quando lo videro, rimasero meravigliati osservando che il suo corpo aveva l’aspetto abituale e non era né ingrassato per mancanza di esercizio fisico, né dimagrito a causa dei digiuni e della lotta contro i demoni. Era tale e quale l’avevano conosciuto prima che si ritirasse in solitudine. E anche il suo spirito era puro, non appariva triste, né svigorito dal piacere, né dominato dal riso o dall’afflizione. Non provò turbamento al vedere la folla, non gioiva perché salutato da tanta gente, ma era in perfetto equilibrio, governato dalla ragione, nella sua condizione naturale. (San Atanasio, Vita di Antonio, 14).
Da notare, aspetto importantissimo, che la gente è colpita non tanto da insegnamenti o miracoli, ma dall’apparenza psicofisica di Antonio – il suo corpo parla o forse lui parla attraverso il suo corpo. Né sfibrato, né invecchiato, manifesta un perfetto equilibrio emotivo, una armonia. Atanasio caratterizza questo stato come “purezza dello spirito” o essere “governato dalla ragione, nella sua condizione naturale”. Da questo risulta che gli anni dell’ascesi dovevano essere un cammino di purificazione per raggiungere la purezza (prima non posseduta a causa di qualche impurità) o anche il raggiungimento di qualche condizione naturale (persa o dimenticata che faceva si che l’uomo vivesse non nella sua natura ma in qualche modo fuori di sé). Antonio, una volta raggiunto questo stato interiore, incomincia testimoniare la possibilità di vivere e di sperimentare un tale stato, e con ciò inizia il suo influsso sugli altri:
Il Signore, per opera sua (cioè di Antonio), guarì molti dei presenti che pativano nel loro corpo e liberò altri dai demoni. Il Signore concedeva ad Antonio il dono della parola e così consolava molti che erano in lite e a tutti ripeteva che nulla di quanto è nel mondo deve essere anteposto all’amore per Cristo. Parlando e ricordando i beni futuri e l’amore che ha mostrato per noi uomini il Dio che non risparmiò il proprio figlio, ma lo offrì per tutti noi, convinse molti ad abbracciare la vita solitaria. E così apparvero dei monasteri sui monti e il deserto divenne una città abitata da monaci che avevano abbandonato i loro beni e avevano scritto il loro nome nella cittadinanza del cielo. (San Atanasio, Vita di Antonio, 14). Dio aveva data (Antonio) all’Egitto come medico. Chi andò a lui nel dolore e non tornò nella gioia? Chi andò da lui piangendo i suoi morti e non depose subito il suo lutto? Chi andò da lui nella collera e non si convertì a sentimenti di amore? Chi, afflitto per la sua povertà, venne a trovare Antonio e nell’udire le sue parole e al vederlo non disprezzò la ricchezza e non trovò conforto nella sua povertà? Quale monaco scoraggiato andò da lui e non divenne più saldo? Quale giovane salì alla montagna e, vedendo Antonio, non rinunciò subito ai piaceri e non amò subito la temperanza? Quando mai andò da lui qualcuno tormentato dal demonio e non ne fu liberato? E chi andò da lui tormentato dai pensieri e non trovò la pace della mente? Vi era questo grande nell’ascesi di Antonio, che, come ho detto in precedenza, grazie al dono del discernimento degli spiriti, ne sapeva riconoscere i movimenti e non ignorava le inclinazioni e le preferenze di ciascuno. (San Atanasio, Vita di Antonio, 87-88).
Gli elementi che caratterizzano il suo irraggiamento, cioè il modo di Antonio di essere maestro sono i seguenti: l’insegnamento attraverso la parola in cui Gesù Cristo è punto centrale, salvezza (guarigione), insegnamento, guarigioni da diversi disturbi interiori con cui la gente veniva ad Antonio, consolazione, incoraggiamento grazie al posseduto dono del discernimento degli spiriti, l’avere discepoli, seguaci o imitatori.

Gregorio Magno (+607)
Si può parlare nel cristianesimo di una teologia del maestro. In questo caso teologia (una parola di significato assai molteplice) vuol dire sistema, una visione di insieme della realtà in cui il concetto di maestro appare come elemento essenziale del sistema stesso. Si potrebbe parlare anche di una metafora dell’intera realtà con la figura di maestro al centro. Tali sistemi teologici possono essere diversi. Qui ci soffermiamo soltanto su uno di loro, descritto alla fine del sesto secolo dal vescovo di Roma, papa Gregorio Magno nel quarto libro dei suoi Dialoghi (un bestseller del mondo occidentale latino dell’epoca tardo antica e medievale). Gregorio scrive:
Perciò tutti gli uomini carnali non essendo in grado di conoscere per esperienza quelle realtà invisibili, mettono in dubbio la loro esistenza, proprio perché non le vedono con gli occhi del corpo. Questo, però, è un dubbio che non poté avere il progenitore degli uomini, perché, pur essendo escluso dalle gioie del paradiso, conservava nella memoria il ricordo di ciò che aveva perduto, per averlo visto. Invece coloro che vivono nella carne non possono né percepire né custodire nella memoria quello di cui hanno sentito parlare, poiché, a differenza di lui, non hanno alcuna esperienza, neppure relativa al passato.
È come se una donna incinta fosse messa in carcere e là partorisse un bambino, e questo venisse nutrito e crescesse nella prigione. Anche se sua madre gli parlasse del sole, della luna, delle stelle, dei monti e delle pianure, degli uccelli che volano e dei cavalli che corrono, il bimbo, nato e cresciuto in carcere, nulla altro conoscerebbe che le tenebre di quel luogo. Perciò, pur sentendo parlare di tali cose, non avendole conosciute per diretta esperienza, dubiterebbe che esistono realmente. Allo stesso modo gli uomini, nati in questa cecità del loro esilio, sentendo dire che ci sono beni sommi ed invisibili, ne mettono in dubbio la reale esistenza, perché hanno conosciuto soltanto quelle povere ed effimere realtà visibili in mezzo alle quali sono nati.
Ecco perché il Creatore delle cose invisibili e di quelle visibili, il Figlio Unigenito del Padre, è venuto a redimere l’umanità ed ha effuso nei nostri cuori lo Spirito santo: perché, da lui vivificati, credessimo a quelle realtà che ora non possiamo sperimentalmente conoscere. Quanti, dunque, abbiamo ricevuto lo Spirito caparra della nostra eredità, abbiamo la certezza della esistenza degli esseri invisibili.
Chiunque però non è ancora saldo in questa convinzione, è moralmente obbligato a prestar fede alle parole degli antichi (lat. maiores) e a credere loro, perché essi, per dono dello Spirito santo, hanno già una qualche esperienza dell’invisibile. Sarebbe infatti stolto il bambino, se pensasse che sua madre mente quando parla della luce, solo perché egli personalmente non conosce altro che tenebre del carcere. (Gregorio Magno, Dialoghi IV,I,2-5)
Nel sottofondo di questo testo giace un sottile riferimento alla caverna di Platone che schiude un dramma dell’esistenza umana: si vive senza vedere e conoscere quel che bisogna conoscere. Gregorio la chiama situazione di esilio e cecità. Un ruolo importante nella sua spiegazione gioca la categoria del vedere – non si vede il paradiso da cui si è allontanati, non si vede quello che si trova oltre le mura della prigione. Tutte queste sono analogie perché in realtà si tratta di non conoscere e non vedere l’invisibile, lo spirituale, che sta oltre quel visibile materiale a cui dà un senso. Normalmente l’invisibile dovrebbe essere un dominante della vita umana, qualcosa che si sperimenta e che si ricorda. Ma il dramma sta nel fatto che per qualche ragione (non spiegata nel testo) questo sperimentare e ricordare sono venute meno per cui la dimensione spirituale, invisibile ha cessato di essere dominante. In tale contesto entra la persona di Gesù Cristo la cui missione era di redimere l’ umanità (cioè riprenderla dalla prigione e dalla lontananza dal paradiso perduto) e dare ad essa lo Spirito perché creda nelle realtà spirituali e abbia certezza della loro esistenza. Sembra però che questa opera redentrice, se non fallita, rimanga almeno per certi versi non compiuta perché ancora ci sono persone che non possiedono una ferma convinzione dell’esistenza delle realtà invisibili. A questo punto entrano sulla scena “i maestri” chiamati da Gregorio “maiores” che possiedono l’esperienza delle realtà invisibili e perciò anche una autorità e credibilità nei confronti degli altri e possono svolgere il ruolo di guida o essere punti di riferimento. I maestri – in questo quadro gregoriano – appaiono nell’orizzonte tenebroso in cui giace tutta l’ umanità, come luci del ricordo e della presenza delle realtà invisibili. Servono da mediatori, tra l’ umanità e le realtà invisibili, sono mandati da Dio.
Questo tipo di pensiero riguardo alla figura del maestro – che include una visione di non-maestri a confronto – è stato molto diffuso nel mondo cristiano. E pur essendo assai chiaro e affascinante presenta alcune esitazioni o almeno fa emergere alcune domande. Perché le realtà invisibili, pur essendo così essenziali, non si presentano e non si impongono con una forza convincente nei cuori degli uomini? Perché, nonostante l’opera redentrice del Salvatore Gesù Cristo, ci sono ancora uomini che non conoscono, attraverso una esperienza diretta, le realtà invisibili? Perché lo Spirito dato dal Redentore, mandato dal Padre e creatore, non è per tutti motivo di certezza delle realtà invisibili? Perché tra gli uomini c’è chi ha esperienza dell’invisibile e chi no? Questi “maiores” possono “dare” agli altri l’esperienza dell’invisibile, cioè offrono qualcosa a coloro a cui è mancato o semplicemente risvegliano nei cuori altrui qualcosa di già presente ma dimenticato? Insomma, la figura del maestro in questa prospettiva, appare segnata da qualcosa di grandioso e importante, ma in un dramma, circondato da numerose domande di non poco peso.

Simeone il Nuovo Teologo (+1022)
Simeone il Nuovo Teologo è spesso considerato e visto come uno dei maggiori mistici del cristianesimo. Visse nel contesto della cultura bizantina e fu della corrente orientale del cristianesimo; monaco, riformatore, autore di numerosi testi teologici di notevole importanza, persino poeta. Frequentando i suoi testi si viene colpiti sia dallo spessore mistico della immediata e profonda esperienza di Dio (dimensione ovvia per un mistico), sia dalla necessità che rivela di avere una guida, un maestro, una mediazione o un mediatore in questo cammino. In Simeone (come in tanti altri) si legge una tensione tra il desiderio dell’immediata l’esperienza di Dio e la necessaria mediazione di un maestro. In molti dei suoi testi sono descritte le caratteristiche del maestro e le regole di comportamento di un discepolo. La figura del maestro è molto elevata: il maestro è quasi un’ incarnazione o un rappresentante di Cristo, è un’autorità assoluta e indispensabile, il rapporto con lui è esclusivo e richiede un’ obbedienza “cieca”. Solo come esempio si possono leggere testi come:
Chi ha acquistato una limpida fede nel suo padre secondo Dio, vedendolo pensa di vedere Cristo stesso e, stando con lui e seguendolo, crede fermamente di stare insieme con Cristo e di seguirlo. Una tale uomo non desidera di conversare con altro, non preferirà alcuna delle cose del mondo al ricordo e insieme all’amore di lui. Che cosa è di più grande nella vita presente e nella futura che essere con Cristo? Quale cosa più bella o più dolce della sua vita? E se si è anche fatti degni della sua conversazione, da essa si attinge certamente la vita eterna. (Simeone il Nuovo Teologo, Capitoli pratici e teologici, 19, in Filocalia 3, 352).
Dal momento in cui ti sei rimesso interamente al tuo padre spirituale, sii estraneo a tutto ciò verso cui sei portato, all’esterno: agli uomini, intendo, agli affari e alle ricchezze. Senza di lui non voler fare assolutamente nulla, riguardo a ciò, non chiedergli nulla, di piccolo o di grande, se lui non ti ordinerà di prendere di sua propria iniziativa, o sia lui stesso a dirtelo di sua mano. (Simeone il Nuovo Teologo, Capitoli pratici e teologici, 15, in Filocalia 3, 352).
Simeone il Nuovo Teologo nella sua giovinezza ebbe un maestro di nome Simeone (poi denominato “il Pio”). Simeone il Nuovo Teologo fu molto legato e dipendente da lui e il fatto fu notato nell’ambiente monastico in cui viveva (il monastero di Studio a Costantinopoli). Alla morte del maestro, Simeone il Nuovo Teologo cercò di promuoverne una certa forma di culto suscitando reazioni contrarie nella capitale. In seguito Simeone stesso divenne capo di un altro monastero nella capitale dell’Impero, e il modo di governare o presiedere sembra abbia riscosso un certo successo. Da tutto questo però si possono trarre alcune conclusioni che riguardano la questione del maestro: 1. sicuramente nel caso di Simeone, giovane, vi è la ricerca di una figura paterna (campo assai interessante per un psicologo); 2. certamente un numero notevole dei suoi testi che riguardano la questione del maestro provengono da questo periodo giovanile e non dovrebbero essere presi come indicazioni assolute per tutti e per sempre (cosa che purtroppo è successa).
Esiste poi un’altra dimensione che bisogna prendere in considerazione parlando della figura del maestro in Simeone il Nuovo Teologo – è una dimensione con risvolto sia storico che sociologico. Storicamente Simeone appartiene ad un periodo di transizione in cui il modello teocratico dell’Impero bizantino vive le suo difficoltà. Nella massiccia struttura piramidale di questo Impero, l’Imperatore è un rappresentante di Dio o persino un “Dio sulla terra” da cui tutto proviene e tutto dipende – anche la vita della chiesa e la salvezza dei suoi cittadini. Ma nell’epoca di Simeone tutto questo non funziona più: l’Imperatore con la sua burocrazia e l’esercito non riescono più a garantire l’unità e la prosperità dell’Impero. E d’altra parte nelle menti delle persone l’ideale teocratico scade– forse sarebbe troppo dire che nessuno crede più, ma sicuramente la gente ha dubbi riguardo all’intero sistema di governo e di modello sociale. Così appaiono le famiglie nobili che desiderano introdurre un sistema oligarchico per sanare la situazione. E’ un movimento decentralizzante – si desidera passare da un Imperatore ad un gruppo
Simeone appartiene ad una di tali famiglie ed è fortemente coinvolto nei suoi affari politici (purtroppo non tutti gli studiosi della sua mistica ne sono consci). Alle questioni socio-politiche aggiunge anche le sue inclinazioni che si potrebbe definire teologiche e mistiche. Simeone, conscio che il sistema teocratico dell’Impero non funziona più e assai critico anche riguardo alla gerarchia ecclesiale (spesso compromettente, dipendente dall’Imperatore e corrotta), più o meno coscientemente propone la sua idea di maestro o guida. Nella sua visuale proprio i maestri o i padri spirituali, avendo una diretta esperienza di Dio, dovevano prendere in mano il governo dell’Impero! Devono essere loro a guidare e dirigere le persone più nobili che a loro volta governano in modo giusto, retto e spirituale l’intera società.
Simeone appartiene ad una determinata cultura e epoca. Ma un movimento storico analogo che include la figura del maestro nei suoi aspetti teorici e pratici, si osserva anche in altri momenti e luoghi, comunque segnato da una tensione tra un potere centralizzato e uno decentralizzato. Quando, per esempio, in epoca medievale sia il potere ecclesiale (il papato) che civile (i re) sono corrotti, appaiono figure di santi che diventano di riferimento (si pensi per esempio nel mondo occidentale a Francesco d’Assisi o Catarina dai Siena). Mutatis mutandis, nella stessa categoria cadono, nell’epoca degli assolutismi imperiali (si pensa di questo francese o quello spagnolo) dal Seicento in poi, le teorie e la prassi dei “confessori” o dei “padri spirituali” promossi con perspicacia da gesuiti o carmelitani, che “attraverso il confessionale” pretendono, non di rado con un certo successo, di influire sull’andamento della storia degli imperi.
Tali movimenti “spirituali” spesso mettono sotto questione non solo l’origine delle cose del mondo e della società, ma anche guardano con un certo sospetto la gerarchia della chiesa e l’intero ordine sacro costituito da una “necessaria” mediazione di una gerarchia centralizzata, di un culto sacro, di una dottrina ben custodita e sicura. Da qui nasce anche la conflittualità tra un centro governativo (politico o religioso) e una tale maestro illuminato. L’esempio più clamoroso a proposito ci viene da Martin Lutero il protagonista della Riforma, che per certi versi, mette sotto questione qualsiasi mediazione sacra circa la conoscenza di Dio e la salvezza. Per lui ogni persona può (e deve!) avere un diretto contatto con Dio – le guide umane (anche se spirituali) servono poco; bastano la fede e la Scrittura attraverso cui ogni persona trova accesso all’unico Dio. È proprio Lutero e la Riforma che aprono la strada ad un processo di demitizzazione e desacralisazzione del ruolo del maestro nel mondo cristiano.
Maestro interiore Esiste ancora un altro paradosso legato al tema del maestro nel mondo cristiano. Come è possibile scrivere una storia dei maestri ritrovandoli in una catena “quasi” ininterrotta da Gesù fino ai nostri tempi (nonostante forzature interpretative della storia del cristianesimo e della sua spiritualità), così si può sentire parallelamente un grido che cerca maestri e ne testimonia la mancanza. Nella letteratura cristiana, c’è quasi un eco di lamenti del tipo: Non ci sono veri maestri; Dove trovare un maestro? Cercate un maestro, pregate perché appaia. Di fronte a questa situazione si è cercato di rimediare pensando all’idea di un maestro interiore. Le teorie intorno all’argomento sono numerose e svariate. Alcune si sviluppano nella prospettiva di una delusione: se mancano i maestri “esteriori” bisogna accontentarsi di un maestro “interiore”. Altre procedono in una direzione piuttosto “educativa”: avendo o non avendo un maestro, prima o poi bisogna ritrovare o risvegliare un proprio maestro interiore e seguirlo perché così prende valore. Le teorie sul maestro interiore si appoggiano su alcuni testi della Scrittura in cui si parla dello Spirito Santo che abita nei cuori dei credenti e nell’uomo interiore. In questo saggio, a titolo di esempio, si riportano due testimonianze a proposito del maestro interiore: una del mondo del cristianesimo antico e latino di Agostino d’Ippona e l’altra del mondo medievale bizantino e cioè greco di Niceforo l’Esicasta.
Il trattato di Agostino intitolato Il maestro (De magistro) è stato scritto nel 389. La questione fondamentale dello scritto è questa: a che servono gli studi se non perché una persona diventa un uomo vero, cosciente di sé e della verità? Agostino desidera affermare che educarsi, vuol dire riscoprire in sé, con l’aiuto dei valori e dei mezzi educativi, una dimensione interiore e spirituale e rendersi conto che il nostro essere spirituale partecipa di una Sapienza e di una Verità più grande (cioè quella divina). In altre parole, si potrebbe dire che senza nulla togliere all’autorevolezza dell’insegnante che trasmette verbalmente dei contenuti, ci deve essere una riscoperta della dimensione interiore per arrivare allo scopo. Ecco alcuni un brano di questo trattato in qui è mostrata la necessità di una qualità interiore per comprendere la verità:
Sul mondo intelligibile poi non ci poniamo in colloquio con l’individuo che parla all’esterno, ma con la verità che nell’interiorità regge la mente stessa, stimolati al colloquio forse dalle parole. E insegna colui con cui si dialoga, Cristo, di cui è stato detto che abita nell’uomo interiore, cioè l’interamente immutabile potere e sapienza di Dio (cf. Ef 3,16-17 e 1 Cor 1,24). Si pone in colloquio con lui ogni anima ragionevole, ma essa si rivela a ciascuno nei limiti con cui può avene conoscenza secondo la buona o cattiva volontà. E il fatto che può sfuggire non avviene per il difetto della verità con cui si è riportata, come non è difetto della luce sensibile che visita spesso s’inganna. Ma noi dobbiamo ammettere che ci si rapporta alla luce per le cose visibili perché ce le mostri secondo il limite della nostra facoltà (Agostino, Il maestro 38).
In un altro frammento Agostino mostra l’insufficienza di un maestro o insegnante “esteriore” se non è posta di fronte la nozione di maestro interiore:
E chi è così scioccamente amante del sapere da mandare a scuola il proprio figlio perché apprenda ciò che pensa il maestro? Piuttosto, quando hanno esposto con parole tutte le discipline che dichiarano d’insegnare, comprese quelle della morale e della filosofia, allora i così detti discepoli considerano nella loro interiorità se le nozioni sono vere, sforzandosi, cioè d’intuire la verità ideale. Soltanto allora apprendono e quando scopriranno nell’interiorità che le nozioni sono vere, lodano, senza pensare che non lodano i docenti ma i dotti se, tuttavia, anche costoro sanno quel che dicono. S’ingannano dunque gli uomini nel chiamare maestri quelli che non lo sono perché il più delle volte fra il momento del discorso e quello della conoscenza non v’è discontinuità; e poiché dopo l’esposizione dell’insegnante immediatamente apprendono nell’interiorità, suppongono di avere appreso da colui che ha parlato dall’esterno” (Agostino, Il maestro, 45).
In conclusione per Agostino l’uno e l’unico maestro dell’uomo è Dio stesso che abita nei cieli, ma poiché, lui dice, questi cieli “più lontani” si trovano nel “più intimo” dell’uomo, l’interiorità stessa della persona umana è considerata “maestro”. Si percepisce allora lo scatto dialettico, che nei secoli seguenti diventa fondamentale: dal maestro terrestre a Dio stesso come maestro, dal cielo abitato da Dio al cuore umano dove Lui è presente, per arrivare così alla dimensione di una divino maestro interiore. Sulla base di tale ragionamento agiranno poi numerosi i mistici che pretenderanno di essere guidati direttamente da Dio che abita in loro e in seguito parecchi di loro pretenderanno di essere guide per gli altri proprio perché loro stessi sono stati ammaestrati e guidati dal maestro interiore quasi immedesimandosi con lui:
“Non dobbiamo infatti soltanto avere la fede, ma cominciare anche ad avere intelligenza della verità di ciò che per divino magistero è stato scritto, che cioè non dobbiamo considerare nessuno come nostro maestro sulla terra poiché l’unico maestro di tutti è in cielo (cf. Mt 23,8-10). Che cosa significhi poi in cielo ce lo insegnerà quegli, dal quale, per mezzo degli uomini con segni dall’esterno, siamo avvertiti a farci ammaestrare rientrando verso di lui nell’interiorità. Amarlo e conoscerlo è felicità. Tutti gridano di cercarla, pochi si allietano di averla veramente trovata. (…) Se poi non sai che la tesi è vera, non ti ho insegnato né io né lui: io perché non sono capace d’insegnare, lui perché tu non sei ancora capace d’apprendere” (Agostino, Il maestro, 46).
Con il frammento scritto da Niceforo si cambia sia l’epoca sia il contesto in cui il tema del maestro interiore è preso in considerazione. Niceforo visse nel tredicesimo secolo, principalmente sul Monte Athos. Essendo un monaco si dedicò alla vita spirituale con particolare attenzione alla pace o quiete (esichia). Perciò a posteriori è stato chiamato “l’Esicasta”. I tempi in cui visse Niceforo non erano tranquilli e sembra che i contesti che lui frequentava non abbondavano di insegnanti profondi e buoni. Perciò per cercare le vie della saggezza lui si immerse nelle letture dei testi antichi (da Antonio e Simeone il Nuovo Teologo) e scoprì che uno dei temi principali, intorno a cui bisogna costruire la prassi e la teoria della vita è quello dell’attenzione (prosoché). Questa dimensione è tema antico presente negli stoici, in Filone d’Alessandria e poi lungo tutta la tradizione cristiana greca. È un insieme di comportamenti e coscienze: praticando l’attenzione uno deve essere attento a come agisce e come pensa, quali sono i motivi più intimi dei suoi pensieri e sentimenti, deve essere presente a se stesso, alla realtà e persino a Dio. È un concetto assai vicino alla consapevolezza presente nelle tradizioni dell’estremo oriente. Niceforo era convinto che l’attenzione è fondamentale e come tale ha bisogno anche di un maestro, cioè una persona che avvia verso gli spazi della vita interiore; sulle scie dell’attenzione ha bisogno di una guida o di un maestro (hodegòs). Ma sembra che questi non fossero facili da trovare e Niceforo stesso ne era conscio. Questa situazione è stata descritta da lui nel modo seguente:
« Questa condizione sublime (cioè l’attenzione/prosoché) viene raggiunta dai più, se non da tutti, per mezzo dell’insegnamento di un maestro (hodegòs). Pochi, infatti, l’hanno ricevuta da Dio, senza maestro, e grazie alla violenza della loro opera e al fervore della loro fede. Ma l’eccezione non fa la regola. Perciò si deve cercare un maestro infallibile, in modo che apprendiamo dal suo insegnamento le nostre cadute a destra e a sinistra nell’attenzione, i nostri difetti e i nostri eccessi suggeritici dal Maligno. La sua esperienza al riguardo ci illuminerà e ci mostrerà senza alcun dubbio il cammino spirituale e così potremo avanzare senza difficoltà. Se no c’è un maestro, devi cercarlo affannosamente. Se non lo troverai, invoca Dio nella contrizione di spirito e nelle lacrime e, supplicandolo nella povertà, fa’ quello che ti dico” (Niceforo il Solitario, Discorso sulla sobrietà e sulla custodia del cuore, in Filocalia III, 525).
Niceforo considera la mancanza di un maestro come una povertà. Importante però è ciò che propone in cambio. E alla fine propone se stesso come maestro per chi legge i suoi scritti (“fa quello che ti dico”). Questa è la prima constatazione: come per lui la scoperta del tema dell’attenzione avviene attraverso lo studio dei testi antichi, così lui stesso propone – nel caso di mancanza di maestro – il suo testo come una guida, come “maestro”. Sembra questo un tema proficuo, da sviluppare: la storia della lettura concepita come esercizio spirituale nel mondo cristiano – forse ne risulterebbe come conclusione che molto spesso erano proprio i testi (quelli della Scrittura o quelli di altri autori) che giocavano il ruolo di maestri.
Ma poi bisogna passare alla domanda: che cosa Niceforo dice di fare per ottenere lo stato di attenzione? E qui la sorpresa è ancora maggiore. Nel caso di mancanza di un maestro, egli propone di praticare una meditazione in cui sono congiunte: una posizione seduta del corpo, un respiro regolato e rallentato, la ripetizione della frase “Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me”. Più tardi questo tipo della meditazione sarà conosciuto sotto il nome di “Preghiera di Gesù” o “Preghiera del cuore”.
A Niceforo però importa il fatto che questo tipo di meditazione può sia sostituire un maestro, sia risvegliare e sviluppare l’atteggiamento dell’attenzione, in tal caso per certi versi funziona come maestro interiore. Importante è da notare che in questo momento – il testo di Niceforo è il più antico in assoluto nel mondo cristiano – un possibile (o proprio impossibile) maestro (hodegòs) è sostituito da “un metodo” (meth-hodos) descritto in un manuale. Questo è ancora un altro dei paradossi che segnano il tema del maestro.

Sacra Scrittura come maestro
Il cristianesimo sostiene che l’incarnazione ossia la presenza di Gesù Cristo (che è considerato come la Parola di Dio incarnata) in qualche modo continua ad essere presente in questo mondo sotto la forma della Santa Scrittura (anche questa chiamata Parola di Dio). Gesù stesso non solo spiegava le Scritture degli Ebrei e le interpretava in un modo nuovo ed originale, ma si comprendeva e così anche è stato visto dagli altri come Uno che incarna in sé le parole della Scrittura. Perciò Lui è stato considerato come una sintesi della Scrittura e come l’interpretazione incarnata, sublime e unica di essa. Da ciò è derivata una convinzione, apparsa molto presto nel cristianesimo, che la giusta conoscenza delle Scritture equivale alla conoscenza di Gesù Cristo. Il legame tra queste due realtà (cioè tra Gesù e le Scritture, tra un Uomo e il Testo) è stato fatto sulle ali dello Spirito: si è capito presto che lo Spirito che ha ispirato le Scritture è lo stesso Spirito che era presente in Gesù. Un passo successivo è stato fatto quando si è sostenuto che anche lo stesso Spirito abita in chi crede in Gesù. Perciò bastava essere nello Spirito o possederlo, per capire in modo giusto le Scritture e scoprire in esse la presenza (misteriosa o nascosta) di Gesù stesso. Però per possedere questo Spirito bisognava praticare la via dei comandamenti, praticare l’ascesi e purificare il cuore di cui ovviamente la stessa Scrittura parla. Prendere famigliarità con le Scritture, vivere secondo esse per conoscere e per unirsi con Gesù divenne una delle strade della spiritualità e della prassi cristiana. Uno degli autori – ce ne sono tanti altri – già citato in questo saggio, Gregorio Magno, così scrive a proposito:
« La Sacra Scrittura si presenta agli occhi della nostra anima come uno specchio, in cui possiamo contemplare il nostro volto interiore. In questo specchio noi possiamo conoscere ciò che in noi c’è di bello e di brutto; possiamo verificare il nostro progresso e quanto siamo lontani dalla metà. La Sacra Scrittura racconta le imprese dei santi e stimola i cuori fiacchi e deboli ad imitarli. E mentre richiama alla memoria le loro azioni virtuose rafforza le nostre deboli membra per affrontare la lotta contro il male. Le sue parole rendono meno trepidante nel combattimento il nostro spirito, che si vede posti di fronte i trionfi di tanti valorosi. Qualche volta poi, non solo ci descrive le loro vittorie, ma ci rende note anche le loro sconfitte, affinché possiamo ricavare dalla vittoria dei forti l’esempio da imitare e vedere nella sconfitta ciò che dobbiamo temere” (Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, II,I,1).
Da tutto questo proviene una complessa e assai interessante relazione che esiste tra un maestro e la Santa Scrittura nel mondo cristiano. Soprattutto un maestro – sulle orme di Gesù – interpreta le Scritture sia con la propria vita sia con il proprio insegnamento. In altre parole non esiste maestro senza riferimento alle Scritture: egli cerca di capirle e di incarnarle nella propria vita; in seguito diventa per gli altri come uno che rispecchia in sé le Scritture (si riconosce maestro in rapporto alle Scritture), diventa per loro una interpretazione o una esegesi viva; per questo anche un maestro commenta le Scritture per gli altri inviandoli sulla via delle Scritture. Bisogna pure affermare che ciò non significa che un maestro sia solo un erudita riempito di informazioni – ma sicuramente è capace di vivere e di conoscere un contenuto delle Scritture che per gli altri spesso non sono ovvie. Il mistero di Dio giace nascosto nelle Scritture, come anche giace nascosto nei cuori. Un maestro è capace di svelare questa presenza.

Il maestro e/o il magistero
Nel mondo cristiano, e in modo particolare nella sua forma cattolica, esiste una dimensione che deve essere presa in considerazione quando si discute il tema del maestro. Questa è, per modo di dire, una dimensione istituzionale e istituzionalizzata del maestro spesso denominata come “il magistero” (dal latino magister, cioè maestro, insegnante). La questione e la stessa istituzione possiedono la propria storia, evoluzione e teologia che fanno parte di un sistema, oggi assai articolato, chiamato ecclesiologia. Per l’uso di questo saggio e semplificando un po’ le cose, ci serviamo di un testo “classico” proveniente dal Catechismo della Chiesa Cattolica pubblicato nel 1992 che nel suo insegnamento a proposito principalmente riprende alcune frasi del Concilio Vaticano Secondo:
« L’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo” (DV 10), cioè ai vescovi in comunione con il successore di Pietro, il vescovo di Roma. Questo “Magistero però non è al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, insegnando ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente la scolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio” (DV 10). I fedeli, memori della Parola di Cristo ai sui Apostoli: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10,16), accolgono con docilità gli insegnamenti e le direttive che vengono loro dati, sotto varie forme, dai Pastori (Catechismo della Chiesa Cattolica 1992, 85-87).
Come risulta da questo testo, il magistero, è composto dai vescovi (considerati come i successori degli apostoli) presi insieme con il vescovo di Roma (successore dell’apostolo Pietro). L’interpretazione della Scrittura proposta da tale organo istituzionale è considerata come “magisteriale”, perciò rivestita di verità e di autorità. Nel fondo questo magistero è una istanza “oggettivizzante”, che è anche una cosa propria del sistema ecclesiologico cattolico. Per esempio esiste in questo sistema una dottrina riguardo ai sacramenti che dice che ogni sacramento, se compiuto secondo le prescrizioni del rito, è valido e provoca l’effetto desiderato, aldilà della disposizione “morale” della persona che lo compie (il battesimo può essere eseguito sotto alcune condizioni anche da un non credente). Così il magistero sarebbe una istanza che aldilà dell’esistenza o della mancanza di maestri o interpreti della Parola di Dio offre un insegnamento oggettivo e libero dall’errore.
Il magistero possiede alcune caratteristiche analoghe di maestro. Soprattutto è legato con la Parola, in una particolare spirale dialettica: da una parte offre una interpretazione della Parola di Dio (si capisce che le interpretazioni possono essere tante che il magistero offre questa una, unica giusta) e d’altra parte dipende da questa parola; cioè sta sopra e sotto alla Parola. Va poi notato che il magistero si riferisce ai fedeli della chiesa (intesi come non appartenenti alla gerarchia episcopale presa insieme con il vescovo di Roma) come un maestro ai suoi discepoli. Infine, come nel caso di un maestro, l’autorità di questa istituzione proviene dalla presenza in essa dello Spirito Santo.
Ovviamente tutto questo potrebbe essere (e non di rado è stato) criticato. Ci si potrebbe domandare con quale autorità un magistero si riveste della sua autorità. Si potrebbe esitare se la presenza personale di un maestro potrebbe essere sostituita da un gruppo che per giunta cambia in continuo. Si potrebbero cercare nel passato esempi (non pochi) in cui il magistero si è pronunciato a proposito di qualcosa in modo sbagliato. Si potrebbero elencare proposte teologiche (anche queste assai numerose) che mettono in discussione sia il modo di esercitare questo ufficio, sia che cercano le ermeneutiche che potrebbero interpretare quanto il magistero ha già interpretato. Tutto questo però non cambierebbe il fatto che la realtà e una certa utilità di un magistero all’intero del cattolicesimo rimangono. Per giunta ogni altro sistema ecclesiale (ortodosso o protestante), come anche le religioni non cristiane, possiedono – accanto ai loro maestri – le istituzioni “oggetivizzanti” rivestite di una certa autorità e importanza. Ma alla fine uno si pone pure una domande – nella cui luce anche con una maggiore drammaticità si vede la questione del maestro in genere – perché non tutti sono capaci di essere maestri (così i maestri potrebbero sparire) e perché poi i maestri sono tanto rari e tanto deboli al punto che talvolta occorre una istituzione per sostituirli.

Esteriorità di una interiorità ossia la presenza di un maestro
Proprio sul versante opposto di una dimensione istituzionale e istituzionalizzata del maestro si colloca la dimensione della presenza proprio corporea di un maestro. È una cosa una e unica, non sostituibile e non riducibile. Un maestro non solo parla, scrive, insegna con le parole, non solo compie le gesta più o meno miracolose o indicative, ma anche irraggia un’aria: colpisce per come è, come si muove, come guarda. Per questo non solo si cerca il suo insegnamento, ma anche la sua presenza, il calore spirituale che scalda gli altri che imparano qualcosa attraverso questo contatto, chiamiamolo pure, “corporeo”. Ecco, come la cosa è descritta da uno dei detti legato con la figura di Antonio d’Egitto:
Tre padri avevano l’abitudine di recarsi ogni anno dal beato Antonio. Due di loro lo interrogavano sui pensieri e sulla salvezza dell’anima; uno, invece, taceva sempre e non chiedeva nulla. Dopo molto tempo abba Antonio gli disse: “Da tanto tempo vieni qui e non mi chiedi niente!” E quello gli rispose: “Mi basta soltanto vederti, padre” (Apophtegmata patrum, Antonio 27).
Un altro esempio è la descrizione o piuttosto la testimonianza di uno che ha visto ed è stato colpito da “qualcosa” che ha notato nel contatto con un monaco proveniente dall’Ucraina, ma poi vissuto in Romania del diciottesimo secolo di nome Paisij Velickovskij:
« Con i miei occhi vidi la stessa virtù materializzata, un uomo libero dalle passioni e assolutamente trasparente. La sua figura mi appariva dolcissima, e il suo viso bianchissimo, come esangue. La sua barba era tutta bianca e luccicante, pulitissima. Era molto dolce nel conversare, senza alcuna finzione. Lo si sarebbe detto un uomo senza corpo” (Costantino Karaghias).
Questo frammento coglie bene il mistero e le dinamiche paradossali della presenza di un maestro. Da una parte si nota e si dice che in lui c’è qualcosa di incorporeo (“un uomo senza corpo”), ma d’altra parte tutta la descrizione è dedicata al suo aspetto esterno: viso bianchissimo, barba lucente, atteggiamento dolce, libero e spassionato nella gestualità e nelle espressioni. La dimensione corporea non sparisce (non può), ma diventa un veicolo della comunicazione di qualcosa che sembra essere oltre corporeo. È una bellezza, una trasfigurazione, una divinizzazione. Le teorie (o le teologie) che cercavano di spiegare questo fenomeno sono svariate. Ne prendiamo una, solo a titolo di esempio, che proviene da un autore del sesto/settimo secolo molto letto e apprezzato lungo i secoli, Giovanni Climaco:
L’esicasta è colui che gareggia per circoscrivere – cosa mirabile – l’incorporeo in una dimora corporea (Giovanni Climaco, citato da Niceforo l’Esicasta, Filocalia III, 521).
L’esicasta in questo caso è un maestro, uno santo o saggio. E tutto il processo della vita di un tale uomo sta nell’ includere, circoscrivere nel suo corpo, l’incorporeo, che in questo caso significa qualcosa di divino. Certi poi diranno che questa dimensione deve essere conquistata attraverso la via dell’ascesi e del dono gratuito di Dio stesso (la grazia), altri punteranno sul fatto che questa dimensione dimora da sempre nell’uomo e lo scopo della vita e di tutte le prassi ascetiche sta nel fatto di liberarla, renderla attiva. Insomma quando questo succede in una persona avviene un cambiamento interiore ed esteriore che si nota, si esteriorizza e si dilata – così poi tutto ciò che fa è radicato in segnato da questa dimensione “spirituale” da cui poi parte il suo insegnamento e il suo irraggiamento come maestro.

Presenze discrete
I tempi recenti sono difficili da leggere. A proposito del tema di maestro anche il mondo cristiano vive le sue difficoltà e i suoi paradossi. Da una parte si nota, come sempre, una forte mancanza di maestri. Sergio Quinzio già 25 anni fa ha scritto a proposito: “Non esistono più maestri, chi è nella condizione di dire qualcosa non può dire ormai che parole chiuse nell’orrore, non più parole d’insegnamento” (Sergio Quinzio, Dalla gola del leone, Adelphi, Milano 1980, 72). E questa è una voce assai veritiera che dice che non di rado i cristiani stessi cercano le loro guide oltre i recinti delle istituzioni ecclesiali. Perché l’altra faccia della medaglia di tutta questa carenza è che più mancano maestri, tanto più sono richiesti. Rimane aperta la domanda, se questa situazione sia del tutto particolare per i nostri tempi o forse, non sapendolo, ci inseriamo dentro un lamento perenne che ripete: i maestri non ci sono e va di peggio in peggio.
Ovviamente non mancano le soluzioni “kitch” – le figure mediocri lanciate dai mezzi di comunicazioni o quelle che si auto-propongono. Ma di solito durano poco, uno sostituisce l’altro e nell’insieme sono di tendenza idolatra. Spesso illudono e si pensa possano essere fari che conducono alla luce della saggezza, ma alla fine si scopre che dopo di loro rimane solo un vuoto logorante ancor più grande di prima.
È però un dato di fatto che oggi sono pochi, tra quelli che si rendono veramente conto del peso della responsabilità, quelli che riuscirebbero o vorrebbero essere chiamati maestri. Forse la frammentazione del mondo, forse la complessità dei processi storici e culturali di cui oggi ci si rende conto sempre di più, forse le scoperte delle scienze umanistiche – forse tutto questo messo insieme, crea una difficoltà di “farsi” o di “lasciarsi fare” maestro. Nel mondo cristiano, in modo particolare questo occidentale, il problema si riflette anche nel fatto che si cessa di parlare di direzione o di guida spirituale (le espressioni ormai classiche della tradizione) e si inizia a parlare di accompagnamento (cf. i libri di A. Louf). Il “maestro” allora non tanto guida e rivela, ma accompagna e cerca insieme con il “discepolo”. Dietro questo atteggiamento sta il “principio dialogico” che crede nella verità che si trova in mezzo alle persone piuttosto a quella che potrebbe scendere dal cielo. Spesso allora “un maestro” non vuole essere maestro, anche se in fin dei conti lo è, e non dice: “lo so” o “fai così e così”, ma si esprime con “forse”, “se vuoi”, “proviamo”, ecc. Sono i cambiamenti sottili del linguaggio, ma rivelano sicuramente uno spostamento di fondo che non dovrebbe essere scontato.
Seguendo questa traccia si potrebbe indicare ancora una dimensione, una riflessione, a proposito del maestro nell’epoca contemporanea (che forse è anche una dimensione perenne); si potrebbe chiamarla “maestro nascosto” o “inconsapevole”. Per certi versi questo concetto è stato indicato nel poema di Milosz:
Canzone sulla fine del mondo (Ocalenie (1945) in Cz. Milosz, Poesie, a cura di P. Marchesani, Biblioteca Adelphi 127, Milano 20003, 35).

Il giorno della fine del mondo
L’ape gira sul fiore del nasturzio,
Il pescatore ripara la rete luccicante.
Nel mare saltano allegri delfini,
Giovani passeri si appoggiano alle grondaie
E il serpente ha pelle dorata che ci si aspetta.

Il giorno della fine del mondo
Le donne vanno per i campi sotto l’ombrello,
L’ubriaco si addormenta sul ciglio dell’aiuola,
I fruttivendoli gridano in strada
E la barca della vela gialla si accosta all’isola,
Il suono del violino si prolunga nell’aria

E disserra la notte stellata.
E chi si aspettava folgori e lampi
Rimane deluso.
E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,
Non crede che già stia avvenendo.
Finché il sole e la luna sono su in alto,
Finché nascono rosei bambini,
Nessuno crede che già stia avvenendo.

Solo un vecchio canuto, che sarebbe un profeta,
Ma profeta non è, perché ha altro da fare,
Dice legando i pomodori:
Non ci sarà altra fine del mondo,
Non ci sarà altra fine del mondo.

In questo poema “un vecchio canuto” è insieme segno di disperazione e di speranza a proposito della figura di maestro, è paradossale. Perché da una parte questo vecchio non è un profeta (cioè maestro) o perché non vuole esserlo, o forse perché non ha per chi esserlo? Ma d’altra parte lui è sempre un profeta (un maestro) che pur non essendo visto dagli altri o conscio del suo “ruolo” insegna. Chi coglie il suo gesto, chi capta il suo sguardo, che sente la sua voce – forse sarà istruito (senza che il maestro si renda conto di tutto ciò). In tal caso il mondo sarebbe seminato da tali maestri – basta che i discepoli aprono gli occhi e si mettano alla ricerca della verità che abita nello spirito, che non si sa da dove provenga e dove vada, però passa per di qua.

Maciej Bielawski (2004) 

« IN SPIRITO E VERITÀ » – GESÙ E IL SACRO; PAOLO DI TARSO E IL SACRO – Rinaldo Fabris

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=102

« IN SPIRITO E VERITÀ » – GESÙ E IL SACRO; PAOLO DI TARSO E IL SACRO

sintesi della relazione di Rinaldo Fabris
Verbania Pallanza, 9 dicembre 1995

La verità è il tema dominante del IV vangelo. Non è la verità come conoscenza intellettuale della realtà, ma come fedeltà, fiducia, relazione. L’esperienza biblica del sacro rimanda ad una relazione di ascolto, ad una relazione di amore: Ascolta Israele, ama il Signore con tutto il cuore, la mente, le forze. Più che ritorni di Dio oggi ci sono i ritorni degli dei: è la tendenza umana a controllare e a identificare la realtà divina in qualcosa di manipolabile e visibile. È il vitello d’oro.

GESÙ E IL SACRO
Gesù è un laico che si colloca nella linea profetica. Invece il falegname, il terapeuta, il maestro itinerante è stato sacralizzato.
Gesù e il tempo sacro (il sabato). Gesù prende posizione nei confronti del giorno di riposo, del sabato, la cui osservanza è al centro delle dieci parole. Il sabato era la memoria della creazione e della liberazione dall’Egitto. Gesù prende posizione contro il modo di osservare il sabato, osservanza diventata scrupolosa e ossessiva in Israele (elenco minuzioso delle azioni interdette) come modo per distinguersi dagli altri popoli.
Gesù (Marco 2,23-28) afferma che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato, rispondendo all’accusa dei farisei. Fa così comprendere che l’ambito del sacro non è tanto un tempo definito, quanto la relazione tra Dio e l’essere umano. Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato. Tutti gli esseri umani sono signori del sabato, del sacro.
Inoltre il criterio della vera sacralità del sabato è fare il bene, salvare una vita (Marco 3,1-6), come emerge dall’episodio della guarigione di un uomo con la mano inaridita in giorno di sabato. Il sacro è nel rapporto con Dio che passa attraverso l’attenzione agli uomini.
Nell’episodio della guarigione della donna curvata in giorno di sabato (Luca,13-10-17) emerge la concezione del sabato come memoriale della liberazione. Di fronte alle critiche del capo della sinagoga Gesù sottolinea l’importanza del gesto di guarigione-liberazione in giorno di sabato. La sacralità risiede per Gesù nel gesto iniziale della creazione e nei gesti di liberazione.
Gesù e lo spazio sacro (il tempio). Gesù prende posizione nei confronti del tempio scontrandosi con i funzionari del potere sacro.
Innanzitutto Gesù entra nel tempio (Marco 11,15-19) e si mette a scacciare quelli che vendevano e comperavano, rovesciando i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombi. È un intervento contro il mercato. Il tempio era un’industria di turismo e di pratica religiosa. Gesù afferma il tempio come luogo di preghiera contro la sua trasformazione in spelonca di ladri. Il tempio può consentire l’incontro con Dio, ma non perché è uno spazio sacro.
Il tema del tempio si sviluppa lungo tutto il racconto della Passione. Gesù è accusato di avere annunciato la distruzione del tempio e la costruzione di un tempio non fatto da mano d’uomo. In Luca si parla del tempio nell’episodio di Stefano che dichiara che l’altissimo non abita in costruzioni fatte da mani d’uomo (Atti,7,48). Il Dio trascendente non può essere racchiuso in nessuna struttura umana. Stesse espressioni si trovano nel discorso all’Aeropago di Paolo. Il tempio di Gerusalemme viene assimilato ai templi pagani, al tentativo umano di controllare Dio attraverso un’immagine o uno spazio.
Gesù propone di superare la distinzione tra puro e impuro, con un nuovo criterio di sacro: passare dalle cose alle relazioni, dall’interno all’esterno (Marco7,1-23).
Segno della distinzione del popolo scelto è la dieta kashér. Il tema del cibo sarà presente anche nella chiesa primitiva, imponendo ai pagani convertiti alcuni divieti alimentari. Nell’antichità il mangiare e il bere erano una delle modalità per entrare in contatto con la divinità. Gesù sostiene che nonc’è nulla fuori dell’uomo che entrando in lui possa contaminarlo. Sono invece le cose che escono dall’uomo che possono contaminare. Il contatto con Dio non passa attraverso i cibi, ma attraverso la relazione profonda che viene dal cuore. È ciò che esce dal cuore dell’uomo che rende impuro.
La carica rivoluzionaria presente nel laico, falegname, non sacerdote, terapeuta Gesù, schiacciato dal potere religioso, è spesso non colta.
la manifestazione di Dio avviene attraverso la parola e l’azione di Gesù, azione che rende libere le persone e che si manifesta nella creazione e nell’esodo (nel Regno).
Gesù riporta il sacro alla relazione profonda del cuore. Dio è santo perché non si lascia imprigionare in nessuna struttura umana.
L’ambito privilegiato in cui si manifesta Dio il santo è la relazione giusta e positiva.

PAOLO DI TARSO E IL SACRO
Paolo affronta il problema dell’entusiasmo, dell’esperienza estatica e dei carismi nella lettera agli Corinzi ed indica tre criteri per valutare l’esperienza del sacro.
Anzitutto la fede in Gesù Cristo (1Cor 12,1-3). La fede in Gesù è un orizzonte che consente di orientare l’esperienza dello Spirito.
Un secondo criterio riguarda l’origine, la fonte e l’orientamento dei carismi (1Cor 12,4-11). Paolo sostiene che i doni vengono da Dio e sono in funzione della costruzione della comunità. Meno importanti quelli più « spettacolari ». Lo Spirito dà ad ognuno una qualità per la manifestazione e la crescita della comunità. Ognuno ha un dono dello Spirito per l’utilità comune.
Terzo criterio è il significato cristologico e ecclesiale dei carismi (1Cor12,12-27). Non c’è nessuna gerarchia in funzione dell’esperienza privilegiata di qualcuno. Anzi i carismi meno appariscenti sono quelli che vanno maggiormente curati. I carismi più importanti sono quelli della parola annunciata, condivisa e insegnata.
E il carisma per eccellenza è l’agape. Paolo chiama amore quello che Gesù formulava con altro linguaggio, l’interesse per l’essere umano, per la vita, per la libertà, per la dignità. Quale rapporto tra questa energia che dà sapore e senso alla vita e la realtà che chiamiamo Dio? Qui è il sacro.
L’amore è il supercarisma, che dà senso a tutti i doni. Perché l’amore sia forza vitale deve trovare le vie della relazione. Anche i doni più alti, senza agape, sono nulla. L’amore non è un fatto emotivo, ma una realtà che si vive nelle relazioni.
L’unica realtà che si può collegare con Dio è l’amore.
Paolo rappresenta il cuore dell’esperienza religiosa nell’amore, che è il vero sacro. Nella pienezza vedremo faccia a faccia, …come anch’io sono conosciuto. È un essere avvolti nella realtà di Dio, un essere conosciuti, non un possedere.
Per vivere l’esperienza dello Spirito nella comunità che si riunisce nella preghiera bisogna assegnare un ruolo privilegiato al carisma della parola profetica(1Cor 14,1-5). La profezia per Paolo è la capacità di comunicare partendo da un’esperienza di fede. La profezia edifica.
Inoltre è centrale la costruzione e la intensificazione dei rapporti comunitari (1Cor 14,6-25). Le esperienze carismatiche che non comunicano sono segni confusi.
Infine tutto per Paolo deve essere fatto per l’edificazione (1Cor14,26-40), cioè per far crescere la comunità, dando la possibilità a tutti di esprimersi come corpo vivo di Cristo.
Si può dire in conclusione che l’esperienza dello Spirito fa parte della dimensione originale profonda della fede cristiana. Solo attraverso il dono dello Spirito si può riconoscere che Gesù è il Signore.
Nella storia della chiesa lo Spirito è stato identificato spesso con l’istituzione, con il privilegio del carisma di governo rispetto a quello della carità. In questi anni la morale è stata proposta come norme, divieti e principi piuttosto che come relazioni da potenziare.
La via di collegamento tra lo Spirito e la comunità è la relazione.

II. PAOLO APOSTOLO ALLA SCUOLA DEL CRISTO CROCIFISSO – GIOVANNI HELEWA OCD

http://www.stpauls.it/studi/maestro/italiano/helewa/itahel02.htm

GIOVANNI HELEWA OCD

II. PAOLO APOSTOLO ALLA SCUOLA DEL CRISTO CROCIFISSO

Avvicinare l’Apostolo Paolo a Gesù il Maestro è seducente ma problematico. A parte il fatto, di certo non casuale, che Paolo non chiama Gesù con questo titolo, un ampio silenzio sul Gesù storico caratterizza le lettere paoline. I fatti e le situazioni, i miracoli, le parabole, l’annuncio del vangelo del regno e la sua spiegazione, l’intimità con i Dodici, i contrasti con il giudaesimo ufficiale, gli spostamenti locali, la salita verso Gerusalemme, l’articolata vicenda della passione – elementi tutti che formano la trama narrativa di un ricordo e di una proposta e che sono il quadro in cui Gesù appare « maestro » – sembrano estranei alla prospettiva dell’Apostolo. Una cosa è certa: Paolo non è un « discepolo » di Gesù nel senso e nel modo in cui lo sono un Pietro o un Giovanni. La sua è una diversità che lo esclude dall’ambito storico di una parola come questa: <<Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono>> (Lc 10,23-24).
<<Ho veduto Gesù, Signore nostro>> (1Co 9,1). <<Apparve anche a me>> (15,8). Il suo incontro con Gesù, tuttavia, avvenne a cose fatte. Non essendo stato di quelli che furono <<con Gesù sin dal principio>> (cf Gv 15,27; At 1,21-22; Lc 1,2; Mc 3,13-14), non poteva fare propria la dichiarazione tipica dei testimoni diretti: <<Ciò che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo a voi>> (1Gv 1,3; cf At 10,39; 13,30-31). Valga globalmente questa differenza: anche se esortava i credenti a farsi imitatori di Cristo nell’amore (Ef 5,2), non poteva avvalersi dell’esemplarità magisteriale di un ricordo come quello della lavanda dei piedi (Gv 13,12-15). <<Rabbunì!>>, esclama Maria di Magdala al riconoscere Gesù (Gv 20,16). Tale privilegio non fu di Paolo.
È lecito allora parlare di Gesù il Maestro a proposito di Paolo? La risposta è affermativa, a condizione che si tenga presente la specificità del caso. (torna al sommario)

1. Dal Cristo Signore a Gesù di Nazaret
Confidava ai Corinzi: <<Siamo i vostri servitori per amore di Gesù>> (2Co 4,5; cf 5,14). Almeno questo dobbiamo riconoscere in partenza: non ha imparato alla scuola del Maestro come gli altri, ma l’amore che lo legava a Gesù non poteva non avere suscitato in lui il desiderio di conoscerlo il più possibile.
Del resto, quello che predicava ed insegnava era un vangelo che doveva orientare la sua mente e il suo cuore verso quel Gesù che non ebbe la fortuna d’incontrare personalmente. Diceva al mondo la « parola della fede » (Rm 10,8), la « parola di Cristo » (v. 17); e con ciò annunziava quale vangelo di Dio, insieme ed inseparabilmente, « Cristo Gesù Signore » (2Co 4,5) e « Gesù Cristo crocifisso » (1Co 2,2; cf 1,22). Non era un’astrazione la « parola della croce » che proclamava (1,18). Come poteva disinteressarsi della vicenda storica di Gesù o non informarsi per lo meno del modo in cui venne crocifisso il suo Signore e dell’itinerario che l’ha portato al Calvario? Ai Galati ricorda che <<ai loro occhi fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso>> (3,1). Paolo allude certamente alla sua catechesi orale mentre insegnava la morte di Gesù: non solo l’evento nella sua essenziale verità, ma un racconto più o meno circostanziato, comunque caldo e coinvolgente, della Passione così come l’aveva potuto sapere da fonti appropriate. Una storia concreta, un ritratto vivo; e con ciò stesso, un magistero insostituibile.
Certo, quel che conta decisivamente ormai è la fede nel vangelo di Dio, l’incontro personale con l’attuale Cristo della fede. Non già quindi il Cristo per sé accessibile all’occhio carnale e all’orecchio fisico (cf 2Co 5,16), ma il Cristo nel quale Dio opera e dice <<quelle cose che occhio non vide mai, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo>> (1Co 2,9), quelle cose che soltanto lo Spirito di Dio conosce e comunica alle persone (vv. 10ss). In tale prospettiva, la quale è tipicamente paolina, è la fede a dirigere lo sguardo verso il Gesù della storia, suscitando il desiderio di ascoltare la sua parola e di sostare ai piedi della sua croce; e questo cercare Gesù presuppone che si contempli nel suo volto l’attuale « Signore della gloria » (v. 8), il Cristo cioè che attualmente è il vangelo di Dio, attualmente vive nelle persone (Ga 2,20; Col 3,4) quale « sapienza e giustizia e santificazione e redenzione » (1Co 1,30), attualmente sta alla destra di Dio ed intercede per i credenti (Rm 8,34).
Detto ciò, ricordiamo l’originalità dell’approccio paolino: non ci sarebbe l’attuale Cristo della fede se non ci fosse il Gesù della storia; e non è possibile separare il « Signore della gloria » dall’individuo che portava il nome di Gesù di Nazaret, dal Maestro che diceva le cose di Dio ed è morto sulla croce a Gerusalemme. Dobbiamo insistere: tutto predisponeva Paolo ad avvicinarsi a quel Gesù che gli altri, più fortunati di lui, avevano personalmente conosciuto come il Maestro. Infatti, il vangelo a lui rivelato riguarda il Figlio di Dio (Ga 1,16; Rm 1,3; 1,9); ma questo Figlio, la cui identità divina è eterna, ha fatto irruzione nella sua coscienza rivestito di una identità umana e storica precisa: è « Gesù Cristo nostro Signore » (Rm 1,3-4). È il Figlio che, nella veste individuale di un Gesù, visse nel mondo degli uomini <<nato da donna, nato sotto la legge>> (Ga 4,4), <<fatto della stirpe di Davide secondo la carne>> (Rm 1,3; cf Ga 3,16), in tutto simile agli uomini (cf Rm 8,3; 1Tm 2,4-6) sino ad avere voluto per sé la condizione di un « servo » (Fl 2,7), di un « povero » (2Co 8,9), di un « debole » (1Co 1,25; 2Co 13,4) – una kenosis che di umiltà in umiltà lo portò, obbediente a Dio, ad una morte come quella della croce (Fl 2,8). E se questo Figlio è contemplato adesso nella sua gloria celeste, Signore di tutti e sede viva di tutta la potenza dello Spirito (Rm 1,4; 1Co 15,45ss), tale sua esaltazione egli l’ha guadagnata per il modo in cui volle vivere e terminare la sua esistenza terrena (Fl 2,9). Non è questa la visione di un credente tanto affascinato dalla gloria del Signore da non avere il desiderio di fissare lo sguardo sul « servo » che fu Gesù.
Ad avere trasformato Paolo nel credente-apostolo che ammiriamo fu certamente la <<sublime conoscenza di Cristo Gesù, suo Signore>> (Fl 3,8), la quale gli fu donata per « rivelazione » (Ga 1,16) e pura grazia (1Co 15,10). Ma questa stessa « conoscenza », apocalisse del vangelo nel suo intimo, era tale che doveva per forza orientarlo anche verso il passato ed aprire la sua mente ad un magistero che sapeva insito alla vicenda storica che si era compiuta sul Calvario. E Paolo non viveva in una sfera astratta: aveva ampia possibilità di documentarsi, d’informarsi, sia alla fonte diretta dei testimoni storici (cf Ga 1,18-19; 2,1ss; 1Co 15,3ss; 11,23-25), sia a quella indiretta di una tradizione che già si formava nelle chiese. Perché pensare Paolo meno interessato di Luca a conoscere la storia di Gesù, anche nei particolari (cf Lc 1,1-4)? Proprio perché Gesù gli è ormai rivelato come il Figlio di Dio, dobbiamo pensarlo più che attento alla storia di Gesù, alle cose che gli vengono notificate come vissute e dette dal Maestro. Questo stesso titolo, anche se non appare nelle Lettere, Paolo non può averlo ignorato, dato che circolava già nella chiesa nascente; e Paolo era più che disposto ad imparare alla sua scuola e farsi discepolo di un tale Maestro.
Non è forse ciò che lui stesso suggerisce quando esorta: <<Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo>> (1Co 11,1)? Si imita un esempio di vita degno di essere preso a modello (2Ts 3,9; Tt 2,7; 1Pt 5,3), a scuola di comportamento (Gv 13,15), proprio nella linea tracciata in Fl 4,9: <<Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, questo dovete fare>>. In pratica, Paolo si augura che i fedeli vivano come discepoli suoi – appunto come egli sta vivendo, come un discepolo di Cristo! Nei due casi l’esempio è concreto e il modello è avvertibile; soltanto che nel secondo caso, l’esemplarità che ha « imparato e ricevuto » da Cristo, Paolo l’ha ascoltata e veduta indirettamente. Non è stato un discepolo del Maestro come un Pietro, un Giovanni, un Giacomo o un Andrea; ma lo divenne certamente quanto loro. (torna al sommario)

2. Presso la Croce con la mente e il cuore
A questo punto può sembrare strano il grande silenzio di Paolo sul Gesù storico, quel Gesù di cui deve avere acquisito ampie e dettagliate informazioni. A tale riguardo possiamo fare due precisazioni.
La prima è che le Lettere, anche se ricche di dati autobiografici e documentano a sufficienza una dottrina articolata e coerente, non dicono tutto di Paolo e della sua catechesi. In particolare, lasciano nell’ombra un settore che vorremmo conoscere meglio: la parola viva di Paolo quando predicava il vangelo ai non-credenti e, soprattutto, mentre, spiegando ai credenti il vangelo, comunicava loro la verità di Gesù Cristo <<per il progresso e la gioia della loro fede>> (Fl 1,25; cf 1Ts 3,10; 2Co 1,24). Non costretto allora dai limiti del mezzo epistolare, poteva dare libero corso ad una catechesi prolungata, didattica ed esortativa, dove i grandi temi del vangelo – quegli stessi che emergono nelle Lettere – venivano associati ad una evocazione amorosa delle cose che si sapevano di Gesù, del Gesù che Paolo stesso cercava già di imitare e di cui non poteva non desiderare che anche i credenti si facessero imitatori. Pure nella loro stringatezza, testi come Col 2,6-7 e Ef 4,20-21 aprono uno spiraglio di luce su un tipo di discorso, insieme dottrinale e pratico, dove il richiamo alla coerenza di un vivere nuovo in Cristo e secondo Cristo veniva rafforzato con il ricordo della figura supremamente esemplare di Gesù.
La seconda precisazione è attinente al carisma paolino. Anche se l’avesse voluto, Paolo non avrebbe potuto tessere una narrazione della vicenda storica di Gesù con l’autorevolezza del testimone. E sapeva che tale non era il carisma concessogli. <<Il vangelo da me annunziato… io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo>> (Ga 1,11). <<Ha rivelato in me il Figlio suo perché lo annunziassi in mezzo alle genti…>> (1,16). La sua vita nella fede e il suo apostolato rimangono condizionati da questo incontro genetico con Cristo – il Cristo vivo rivelatogli come il vangelo vivo che deve annunziare. È di questo Cristo, il Figlio e il Signore, che Paolo ha conoscenza diremmo immediata; ed è questa medesima conoscenza ad abilitarlo, ai propri occhi, ad essere anch’egli, benché sia l’ultimo e come un aborto, un autentico apostolo di Cristo (1Co 9,1; 15,8). <<Subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia…>> (Ga 1,16.17). Gli è bastata l’apocalisse avvenuta nel suo intimo, la « sublime conoscenza di Cristo Gesù, suo Signore » (Fl 3,8), per sapersi apostolo e darsi alla predicazione del vangelo « in mezzo alle genti » (Ga 1,16). Maturerà la convinzione di dovere conoscere Gesù di Nazaret e avrà il tempo e la possibilità d’informarsi; ma il suo itinerario è tracciato: trasmettere il vangelo rivelatogli, irradiare la luce fatta splendere nel suo cuore (2Co 4,6), diffondere nel mondo il « profumo » del Cristo che vive in lui (2Co 2,14-16).
Comprendiamo pertanto la diversità di Paolo rispetto a coloro che erano apostoli prima di lui (Ga 1,17), ai testimoni cioè storici di Gesù: il suo non poteva essere il linguaggio narrativo del ricordo; e se il vangelo stesso lo orientava verso la vicenda storica di Gesù, di questa vicenda era portato a privilegiare, soprattutto nello spazio compresso delle Lettere, quegli elementi che più direttamente e strutturalmente appartenevano alla novità cristiana: chi era Gesù (la sua identità divina-eterna e umana-storica) e come egli divenne l’attuale Cristo-Signore, per sempre e per tutti il vangelo vivo di Dio (anzitutto il supremo e ricchissimo evento pasquale).
Bisogna infatti riconoscere che nelle Lettere la figura di Gesù di Nazaret è fatta presente con spiccata essenzialità. Spesso viene ricordata, perché ciò rientra nella verità del vangelo; ma l’approccio rimane molto selettivo. Paolo contemplava Gesù con l’ardore di un amore gratissimo, la penetrazione di un’intelligenza unica e la prontezza di un discepolo desideroso di seguirne le orme; ma è facile costatare, leggendolo, che per lui Gesù era soprattutto il crocifisso, il Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui (Ga 2,20), il servo che si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce (Fl 2,8).
Per la sua sublimità, la conoscenza di Cristo suo Signore ha fatto comprendere a Paolo, con l’impatto di una folgorazione, la vanità di tutto ciò che un tempo costituiva il suo vanto personale. È Cristo ormai il suo vanto e l’intera sua aspirazione. Tutto il resto è spazzatura (Fl 3,4-6.7-8). È « conquistato » come da un tesoro che ha calamitato il suo cuore staccandolo da tutto il resto (Fl 3,12; cf Lc 12,34). Questo suo tesoro ed unico vanto, però, lo interpellava di continuo ed egli se ne lasciava conquistare più e più ancora. Come? Mettendosi con la mente ai piedi della croce e fissando lo sguardo del cuore sul Signore mentre moriva per lui e per tutti. Come comprendere se non in tale senso Ga 6,14: <<Quanto a me… non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è crocifisso, come io per il mondo>>? È ricca la possibile esegesi di questa parola; ma la sua ispirazione profonda è lineare: un senso d’identità e di dignità, una libertà e un’appartenenza, un distacco totale e la sicurezza di un vanto ricchissimo; e tale visione di sé, riflesso di una religiosità meditata, Paolo la trae consapevolmente dal pensiero della croce, imparando alla scuola del Crocifisso la propria verità in Cristo e nello sguardo di Dio. Tutto permette di ritenere che Paolo, come gli altri apostoli anche se diversamente da loro, accoglieva in Gesù il suo Maestro (vedi sopra); ma tutto porta a precisare che il magistero che attingeva a tanta fonte era primariamente quella « parola della croce » che pure trasmetteva e spiegava come la verità del Cristo-vangelo (cf 1Co 1,18; 2,2). (torna al sommario)

3. Alla scuola del Crocifisso
Che cosa imparava Paolo da Gesù crocifisso? Basta ricordare che il vangelo stesso è da lui definito come la « parola della croce » per capire che la risposta potrebbe coinvolgere, direttamente o indirettamente, l’intera sua esperienza e l’intero suo messaggio. Ci atteniamo quindi ad una triplice linea, dove potremo cogliere con particolare chiarezza alcune delle sue certezze più personali ed apostolicamente più feconde: l’iniziativa del grande amore; il primato della grazia e della fede; la trascendenza di una sapienza e di una potenza degne di Dio. (torna al sommario)

a) L’iniziativa e la dimostrazione del grande amore
Del « Servo del Signore » è stato detto: <<Ha consegnato se stesso alla morte>> (Is 53,12); e del Cristo della passione Paolo ama dire: <<Ha dato se stesso>> (Ga 1,4; 2,20; Ef 5,2; 5,25; 1Tm 2,6; Tt 2,14). La formula esprime la volontarietà piena di un atto compiuto come un’offerta di sé (Ef 5,2). Si precisa che Gesù <<ha dato se stesso… secondo la volontà di Dio e Padre nostro>> (Ga 1,4): ciò che Dio ha voluto, Cristo ha compiuto nel momento in cui dava se stesso; l’offerta di sé, egli l’ha fatta nella consapevolezza e con il desiderio di aderire fino in fondo alla volontà divina come ad una norma che lo riguardava. Si allude così a quella « obbedienza » che ha portato il servo Gesù alla morte di croce (Fl 2,8), un « obbedire » che ha sovrabbondantemente compensato la colpa di Adamo ed ha aperto a tutti i tesori della grazia divina (Rm 5,18-19).
Infatti, era « per i nostri peccati » che Gesù dava se stesso (Ga 1,4), ossia « in riscatto per tutti » (1Tm 2,6), « per riscattarci da ogni iniquità » (Tt 2,14). Era questa oggettivamente la volontà di Dio; ed era questo il volere di Gesù stesso quando, fattosi servo obbediente ed offrendo se stesso, si è lasciato mettere a morte « per i nostri peccati » (Rm 4,25).
Proprio questa finalità redentiva, volontà di Dio a cui Gesù aderiva pienamente, attirava Paolo presso la croce per ascoltare la parola del grande amore. Anzitutto quella dell’amore di Gesù stesso: <<Mi ha amato e ha dato se stesso per me>> (Ga 2,20); <<vi ha amato e ha dato se stesso per noi>> (Ef 5,2); <<ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei>> (5,25). Ha amato noi dando se stesso; ha dato se stesso amando noi. Questo amore occupava totalmente Paolo e ne condizionava la via e l’apostolato (2Co 5,14); ed è un amore che non si finisce mai di scrutare e di comprendere, tanto vasto e profondo da « sorpassare ogni conoscenza » (Ef 3,17-19).
Alla scuola della croce Paolo imparava anche il mistero vivo dell’amore di Dio, di quella agápe toû Theoû che è l’anima eterna del vangelo (Ef 2,4; Tt 3,4-5) e la ricchezza stessa della grazia di Cristo riversata nei credenti (2Co 13,13; Rm 5,5). Infatti, la comunione di volontà tra Cristo Gesù e Dio Padre era insieme la comunione in una medesima agápe, la quale si è manifestata come una philantropia tutta misericordia e grazia e perfettamente degna di Dio (Tt 3,4-7). Alla croce vista come il documento storico del grande amore pensa Paolo quando dice che Cristo <<ha dato se stesso per noi>> (Ef 5,2; Ga 2,20; Ef 5,25); la stessa visione ispira quest’altra sua parola: Dio <<non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi>> (Rm 8,32). Nel momento in cui Gesù <<dava se stesso per noi>>, Dio era coinvolto come colui che <<dava il proprio Figlio per tutti noi>>: una medesima agápe, un medesimo « amore di donazione »! L’agápe manifestata sul Calvario è il dinamismo di un amore che è di Cristo e di Dio, insieme e inscindibilmente (Rm 8,35.36.39).
Per sé, una speculazione teorica, adoperando categorie atemporali, può cogliere il concetto di un Dio che ama e quello di un amore che è divino. Ma non è questa la prospettiva del credente Paolo e del predicatore del vangelo. L’agápe toû Theoû in cui crede e che proclama non è astratta, ma la sostanza di una iniziativa divina storicamente compiuta. Colui che chiama il « Dio dell’amore » (2Co 13,11), Paolo lo conosce come il « Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (2Co 1,3; Ef 1,3; Rm 15,6; cf 1Pt 1,3); è il Dio che ama « in Cristo Gesù » (Rm 8,39), colui cioè che si è rivelato per sempre come il « Dio dell’amore » allorquando, non risparmiando il proprio Figlio, lo ha dato per tutti noi (v. 32), dando se stesso a tutti noi. Questa agápe, tutta donazione, è volontà e potenza di salvezza nell’attuale vangelo che è il Cristo Signore; riferirla però alla croce e morte di Gesù è un’esigenza di fede irrinunciabile. È l’eterna e presente agápe di Dio, ed insieme è <<il grande amore con il quale Dio ci ha amati>> (Ef 2,4). L’aoristo porta il pensiero ad un momento del passato, ad un evento della storia, a quel momento e a quell’evento in cui Dio <<non ha risparmiato il proprio Figlio>> ed ha compiuto per tutti noi la grande donazione (Rm 8,32). Quando il soggetto del verbo agapân è Dio o Cristo, Paolo adopera diremmo istintivamente l’aoristo, perché pensa direttamente al momento in cui Cristo ha dato se stesso e Dio ha dato il proprio Figlio. Questo momento può essere esteso all’intera missione del Figlio, <<nato da donna, nato sotto la legge>> (Ga 4,4); ma il linguaggio di Paolo fa capire che si tratta piuttosto della croce-morte di Gesù.
Presso la croce Paolo si lasciava compenetrare da quest’altra verità: la grandezza propriamente divina di quell’agápe. Si deve leggere insieme Ga 2,20 e 6,14. Il Paolo che si compiace di non avere <<altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo>> (6,14), è il credente che si accosta di continuo al <<Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui>> (2,20). Sapersi tanto amato da tanta vittima! Paolo vi attinge una sicurezza sempre più solida, liberandosi da ogni vanto che possa trovarsi altrove. A tale sicurezza l’Apostolo invita anche gli altri, parlando loro del <<grande amore con il quale Dio li ha amati>> (Ef 2,4). <<Ci vantiamo in Dio>> (Rm 5,11): non è sufficiente dire che il « vanto » dei credenti è il « Dio dell’amore »; per aderire al pensiero di Paolo bisogna aggiungere che è il Dio di quell’amore, grande oltre ogni misura, che splende nella luce rivelatrice della croce.
Per questo egli parla del Dio che <<dimostra il suo amore verso di noi>> (v. 8). Quella del Dio in cui ci vantiamo è un’agápe che si lascia « dimostrare » al credente che la voglia contemplare. Dove? La risposta, essendo paolina, è scontata: <<Mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi… quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo>> (vv. 8 e 10). La dignità della vittima e l’indegnità dei beneficati! È questo il documento storico, sempre aperto alla fede, del grande amore; ed è questa l’epifania di un’agápe come soltanto Dio può avere e che dice ai credenti, con una propria sua evidenza, quanto sia giustificato il loro vanto e fondata la loro speranza.
Infatti, un amore tanto grande, dimostrato in una morte come quella del Figlio stesso Dio, non può non essere solido e vincente: in esso il Dio del vangelo ha impegnato, una volta per sempre, la propria potenza e fedeltà a salvezza dei chiamati. Paolo l’insegna in Rm 8,31-39 dove, essendosi riferito alla croce nel v. 32, proclama che in mezzo a qualsiasi tribolazione e di fronte a qualsiasi ostilità abbiamo la fiducia di essere <<più che vincitori a motivo di colui che ci ha amati>> (v. 37) e che non esiste nel creato una potenza che ci possa <<separare dall’amore>> di Cristo e di Dio (vv. 35 e 38-39). Il tono sa di trionfo, tanto è certa la fede e sicura la speranza di chi si apre al magistero sempre attuale della croce. (torna al sommario)

PAOLO, APOSTOLO DI GESÙ, IL CRISTO, PER DISEGNO ED ELEZIONE DI DIO

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PAOLO, APOSTOLO DI GESÙ, IL CRISTO, PER DISEGNO ED ELEZIONE DI DIO

P. Alberto Eronti

La notizia dice semplicemente che: « il prossimo 28 giugno alle 17,30 il Papa Benedetto XVI presiederà i Primi Vespri della Solennità di San Pietro e San Paolo nella Basilica di San Paolo fuori delle Mura, a Roma. Che cosa ha di particolare quest’annuncio?. Di per sé niente, perché è comune per questa Solennità, che i Papi abbiano questi gesti verso « l’apostolo dei gentili ». Ciononostante il Papa proclamerà in quel pomeriggio l’inizio « dell’Anno Paolino », in occasione dei 2000 anni dalla nascita di chi portava il Vangelo « fino ai confini ».

Al ricordare espressioni di P. Kentenich su San Paolo, di cui ha parlato in numerose opportunità, ce n’è una particolarmente illuminante: « …San Paolo è stato eletto nel seno di sua madre per annunciare al mondo il mistero di Cristo ». Se prendiamo le lettere attribuite a San Paolo nel Nuovo Testamento e leggiamo le prime righe di ognuna, costateremo che l’espressione che ho appena citato tocca il fondamento di quello che l’Apostolo ha vissuto e sentito come seguace di Cristo. Tutte le lettere cominciano con un’allusione al Messia (Cristo), e l’inizio della lettera ai Romani è la miglior sintesi: « Paolo, servo di Gesù Cristo, eletto apostolo, messo a parte per annunciare il Vangelo di Dio… « . Ciò che più colpisce di San Paolo è la sua coscienza d’elezione e la sua appartenenza a Cristo. In lui si riflette il proprio e l’essenziale dell’elezione ad essere discepolo del Figlio di Dio fatto Uomo. Non c’è dubbio che San Paolo aveva un temperamento appassionato, ha seguito e servito Cristo, e vissuto per Lui con assoluto radicalismo. Così che scriverà alla Chiesa della Galazia: « …non vivo già più io, ma Cristo vive in me; la vita poi che adesso vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e dato se stesso per me ». (Gal. 2,20). In un mondo pagano è stato capace di vivere per Cristo e di annunciarlo con la sua vita e la sua parola. Per far notare la grandezza della fede che proponeva, sapeva che doveva cercare una coerenza tra il suo dire ed agire. E nemmeno dimostra timidezza al manifestare la sua decisione più intima e personale nei confronti del mondo e a quello che il mondo gli offre. Non mostra disprezzo per il mondo, bensì una stima totale per Colui che gli ha cambiato la vita e gliel’ha colmata di pienezza, e lo dirà alla Chiesa di Filippi: « Ma quel che per me era un vantaggio, questo per amore di Cristo ho ritenuto una perdita, che anzi ritengo tutto una perdita a paragone della suprema cognizione di Gesù, mio Signore… » (Fl.3, 7-8). Esagerato? Può essere, ma ci sono momenti che solo gli « esagerati » nell’amore, la dedizione e la lealtà, costituiscono una luce per il mondo ed una scelta di vita per tanti. Solo coloro che « vivono radicalmente le loro convinzioni, si distinguono dalla mediocrità e dalla noia in cui si immerge la massa umana ». In un tempo d’indifferenza verso l’avvenimento cristiano, in un’epoca in cui avviene un cambiamento secolare della civilizzazione che ha creato un neo paganesimo, in un tempo così, solo coloro che « vivono radicalmente le loro convinzioni, si distinguono dalla mediocrità e dalla noia in cui si immerge la massa umana ». Gesù aveva detto ai suoi « Voi siete la luce del mondo » (Mt. 5,14). Paolo si è costituito luce di Cristo per tanti. Ha parlato con passione di Colui che amava e al quale aveva dato la vita. Ha posto tanto amore in quello che faceva per Cristo, che l’uomo retto e lottatore, che arrischiava fino all’audacia, si è dichiarato madre di molti all’illuminarli per il Vangelo, così come lo manifesta in maniera sincera, quando manifesta l’essenza stessa di essere discepolo: « Figli miei, ancora una volta mi avete causato dolori di parto, fintantoché Cristo non si formi in voi ». Dirà, con la meravigliosa libertà interiore, propria di chi si sa discepolo di Gesù Cristo, a quelli che ha convertito al Vangelo che devono essere come lui. Non ha nessun problema in considerarsi modello di discepolo del suo Signore: « Siate dunque miei imitatori, come io lo sono di Cristo » (1ª Cor. 11,1). Conoscitore del suo mondo, sapeva che abbondavano le « offerte » ingannevoli per coloro che hanno abbracciato la fede, perciò capiva anche che non è sufficiente parlare, ma si deve incarnare quanto si annuncia. Si tratta di vivere in modo tale quanto si annuncia che non ci siano dubbi di quale strada si debba seguire. « Siate tutti miei imitatori, fratelli ed osservate quelli che si comportano secondo il modello che avete in noi » (Fl. 3,17) Pochi hanno saputo annunciare con la praticità di Paolo il mandato di Gesù: « Vi do un nuovo comandamento, che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato » (Gv. 13,34) nel suo desiderio che tutti capissero, che essere seguaci di Gesù suppone la novità di essere conosciuti per l’amore (« da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri » Gv.13,35) e darà insegnamenti bellissimi e concreti alle chiese che fondava. Alla comunità di Corinto lascerà come testamento il chiamato « Inno d’Amore » (1ª Cor 13,1-8), in cui s’insegna « un cammino eccezionale », perché solo  » l’amore non erra mai ». Alla Chiesa di Colossi dirà, che per amare come Gesù ci comanda ci si deve « spogliare » o togliersi il vestito del non amore: la collera, l’ira, la cattiveria, le oscenità…..e vestirsi del vestito nuovo dell’amore più grande: …. »vestitevi di sentita compassione, di generosità, di gentilezza, di pazienza, sopportandovi gli uni gli altri e perdonandovi… » (Cl. 3, 8) Accoglienza, trasformazione ed invio Nei nostri Santuari, al lato del Tabernacolo e di Maria, abbiamo le statue dei due apostoli. Uno ha « la chiave » , l’altro « la spada ». I simboli distinguono a ciascuno, e allo stesso tempo mettono in evidenza la loro identità e missione. Pietro e Paolo sono stati « eletti, chiamati e inviati », da Gesù Cristo. Si tratta di unire ciascuno di questi verbi alla grazie del Santuario: accoglienza, trasformazione ed invio. Il Padre Fondatore paragona la sua missione al vivere dell’Apostolo dei gentili: « Così come Paolo è stato eletto nel ventre di sua madre per annunciare al mondo il mistero di Cristo, io sono stato eletto nel venre di mia madre per annunciare al mondo il mistero di Maria ». Non sono due « misteri » paralleli, bensì un mistero solo: Maria ha vissuto per Gesù, il mistero di Maria è quello di Gesù, poiché per Lui ha vissuto, lottato e si è dedicata. Che quest’Anno Paolino ci trovi uniti e riuniti nei nostri Santuari facendo sì che l’amor ci accolga, trasformi e invii, affinché l’orizzonte della missione di Schoenstatt si apra sempre più alle vaste sfide del tempo e con il Padre della Famiglia possiamo pregare: Madre, che Schoenstatt continui ad essere il tuo luogo preferito, il baluardo dello spirito apostolico, il capo che conduce alla lotta santa, la sorgente di santità nella vita quotidiana, fuoco del fuoco di Cristo, che fiammeggiante sparga scintille luminose, finché il mondo, come ungere di fiamme, s’accenda per la gloria della Santissima Trinità. Amen » (Verso il cielo, nº 499-500)

LA FIGURA DI CRISTO NELLE EPISTOLE DI SAN PAOLO – ROMANO GUARDINI

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LA FIGURA DI CRISTO NELLE EPISTOLE DI SAN PAOLO

ROMANO GUARDINI  -  FRAMMENTI DA – LA FIGURA DI GESÙ CRISTO NEL NUOVO TESTAMENTO – ED. MORCELLIANA

Chi ricorra al Nuovo Testamento per sapere chi sia il Signore, può fare un’esperienza curiosa.

Senza volerlo egli penserà che saranno i Vangeli a servirgli di guida e di questi, anzitutto i primi, cioè i Sinottici. E se avrà una qualche idea del sistema moderno di ricerca delle fonti storiche, porrà al primo posto il Vangelo di Marco, o si proporrà in cuor suo di cercare il Marco delle origini e la fonte dei versetti… ma ben presto rileverà come i Sinottici, presunti facili, siano, in realtà, tutt’altro che semplici. E se saprà scrutare sufficientemente in profondità, si accorgerà anche donde provenga tale parvenza di semplicità, cioè dal fatto ch’egli ha considerato la figura di Gesù dal lato della sola umanità, trascurando o stimando leggenda quanto di essa va oltre l’umana natura… Ed allora lo studioso che sta cercando uno spiraglio attraverso il quale entrare nell’argomento che l’attrae prosegue nelle indagini e perviene a Giovanni. Questo si presenta già più accessibile, ma non proprio del tutto, non quanto basti affinchè abbia la sensazione si essersi messo per la via giusta. Ancora un passo avanti ed eccolo a Paolo. Qui sente ben presto di essere in porto: chi ci schiude la via per penetrare nel mondo del Nuovo Testamento non sono né i Sinottici , né Giovanni, nessuno quindi dei Vangeli, ma Paolo e appunto per il fatto di essersi trovato nella identica situazione in cui ci troviamo noi stessi. Paolo è l’unico apostolo che non abbia visto con i propri occhi Gesù durante la sua vita terrena… di Lui Paolo aveva avuto notizie solo come ne possiamo avere noi: dall’esterno, ad opera di quelli che riferiscono di Lui e per gli effetti che da Lui si ripercossero nella storia, poi dall’interno, allorché il Signore lo chiamò e gli si rivelò nello Spirito e nel cuore. E allorché Paolo delinea la propria figura di Cristo, attinge dunque fondamentalmente alle stesse fonti alle quali noi pure facciamo ricorso: al messaggio tramandato e alla propria esperienza. Ciò che manca a noi, e che ebbe invece  così grande parte nei riguardi dei primi apostoli, vale a dire l’essere stati testimoni oculari… mancava anche a lui, e non saremo certamente in errore asserendo che ciò lo abbia addolorato molto… ma appunto per essersi trovato in tali condizioni nei riguardi delle sue cognizioni sulla vita terrena di Gesù, egli è proprio l’uomo che fa al caso nostro. E se qualcuno afferma di comprendere il Nuovo Testamento senza far ricorso a Paolo, è da temersi che non sia riuscito a comprendere ancora molto della vera figura di Cristo. Negli Atti degli Apostoli si narra come la giovane Chiesa conducesse dapprima una esistenza tranquilla, anche allora completamente basata sull’Antico Testamento, circondata d’amore ed insieme di rispetto dal popolo. I detentori del potere tentarono due volte di farsi avanti, senza riuscire, però, a scuotere la fermezza degli apostoli, mentre temevano, inoltre, il popolo. Ed ecco che si mette in evidenza un uomo, all’ardore pneumatico del quale scoppia l’incendio: Stefano. Lo si incolpa di avere offeso la Legge e lo si trascina innanzi ai giudici. Ottenuta la parola per difendersi dall’accusa, egli parla, e lo fa, tutto permeato com’è dalla grazia di Cristo, con tanta foga e potenza da incidere nei loro cuori. Ed essi digrignando i denti contro di lui, urlano, lo proclamano colpevole e lo sospingono subito violentemente fuori della città per lapidarlo. E si legge: “I testimoni deposero le vesti ai piedi di un giovane chiamato Saulo: Poi il racconto prosegue: “E Saulo consentì alla  morte di lui”. E avvenne allora una grande persecuzione contro la Chiesa, e Saulo, infierisce con la minaccia e con la strage contro i discepoli del Signore. “Saulo devastava la Chiesa, entrava per le case e quanti trovava, uomini e donne, li cacciava in prigione  “ ( At. 8,1 ss. ). Ottenuto l’incarico di dare ulteriore sviluppo alla persecuzione, egli si muove alla volta di Damasco. Ma lungo la strada Gesù gli appare all’improvviso, come si narra nel nono capitolo degli Atti degli Apostoli.

Che uomo era Paolo? Possiamo desumerlo dalle sue epistole… Sarà forse opportuno cominciare col dire che Paolo non era prestante nella persona e aveva una certa timidezza nel tratto… nella seconda epistola ai Corinzi egli dice delle voci che corrono sul conto suo, secondo le quali egli sarebbe umile tra la gente, tanto da non osare di parlare, mentre di lontano si farebbe coraggio, sì da scrivere lettere aspre. Piccinerie, queste, che egli ha disprezzato certamente nel suo spirito, e cristianamente compatite, ma proprio queste piccinerie incidono in profondità e dicono molto. A ciò si aggiunga quanto egli dice, nella stessa epistola, dello “stimolo” che ha nella carne e dell’angelo di Satana che lo schiaffeggia, di liberarlo dal quale ha pregato tre volte il Signore per poi doversi accontentare di sentirsi rispondere. “Basti a te la mia grazia”! ( 2 Cor. 12,7 ss. ). Qualunque sia l’interpretazione congetturale che si voglia dare a tutto ciò, se ne deve concludere che, in ogni caso, Paolo non deve avere avuto la freschezza naturale dell’uomo perfettamente sano e completamente sicuro di sé. Se ci si immedesima nel suo modo di pensare e di esprimersi e nel suo temperamento, si potrà forse dire anche di più. Egli sembra essere stato uno di quegli uomini che attirano le calamità, che predispongono contro di sé la loro sorte, un uomo tormentato.”Io gli mostrerò quanto dovrà patire per il mio nome” ( At 9,16 ), aveva detto di lui il Signore ad Anania, e queste parole si riferiscono anzitutto alla sua vita di apostolo, ma rivelano anche qualcosa dell’essere suo. Paolo ha dovuto soffrire molto, continuamente e per tutto. Leggiamo in proposito gli appassionati ultimi capitoli della seconda epistola ai Corinti. Altrettanto si può dire della sua vita  morale e religiosa. Egli voleva divenire buono, giusto, santo, ma riteneva di potervi riuscire facendo violenza a se stesso, considerava la bontà come una continua imposizione a base di devi e non devi, così che era sempre in uno stato di tensione della volontà. In lui erano potenti energie religiose: ardeva di zelo per la legge e la santità di Dio. Ma tali energie erano sorde, inceppate, e quindi finivano per intossicare se stesse; il suo zelo era violento e non illuminato, atto soltanto ad assoggettare e demolire. Paolo era tormentato da due forti passioni: da una sensualità potente e da una grande ambizione. È assurdo precisare se fosse anche avido di possedere: comunque è singolare come egli sia il solo degli apostoli che parli di collette. Egli vuol dominare tali istinti, e li contiene, ma essi gli si voltano contro, turbinano, ribolliscono. Lotta contro ciò che è malvagio, riesce a piegarlo, ma sperimenta anche che il male diviene sempre più insidioso. In se stesso, nelle sue membra, egli sente il contrasto di due potenze, una buona e una cattiva. Ma non riesce a fare in modo di dare libero il passo a quella buona e di soggiogare con la grandezza dell’animo quella malvagia e piuttosto, odia se stesso, si fa violenza e finisce per sentirsi sempre più disperatamente misero. La legge è tutto per lui. Egli si adopera con zelo per rispettarla, si sacrifica e si fa violenza per le mille e le diecimila prescrizioni che fanno della vita una schiavitù, una esistenza contro natura. Da esse egli vede dipendere la rettitudine, ma non può conseguirla, perché vuol basarsi sulle sole sue forze. Egli percepisce come tutto ciò che è cattivo si desti proprio sotto la costrizione della Legge, ciononostante non riesce ad uscire dal vortice angosciante perché l’unica conseguenza che ne sa dedurre è quella di essere ancora più severo verso se stesso. Assolutamente privo di libertà, anela ad essa, ma già per il solo fatto di desiderarla ritiene di essere in fallo… Sulla via di Damasco venne per Paolo la grande ora. Una luce lo irraggia. Non è retorica questa, ma verità, perché si tratta qui di luce interna, spirituale, divina, luce che lo abbatte e, come si costaterà in seguito, gli toglie la vista. Qualcuno però, parla e si designa come Colui che Saulo ha perseguitato, come Gesù Cristo. Nella figura spiritualmente luminosa di Stefano, negli uomini e nelle donne incamminati per le vie del Signore, egli ha odiato quello stesso Cristo, e forse proprio perché non riusciva a trovare una diversa maniera per difendersi da un ardentissimo desiderio che lo sospingeva verso di Lui. Cristo lo aveva già toccato, ed ora egli gli va incontro apertamente. Tutto ciò è ormai evidente. Il brano  riportato a frammenti è tratto dall’opera di Romano Guardini “ La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento”.

Guardini, abbiamo letto, sottolinea l’importanza della lettura delle epistole di Paolo e degli Atti degli Apostoli per una migliore e sicura intelligenza dei Vangeli. Nulla di assolutamente personale, ma quanto sperimentato e conosciuto da coloro che amano la Parola di Dio e cercano una intelligenza che vada oltre il velo del semplice senso letterale. È Paolo in definitiva la chiave che apre l’ingresso nel senso spirituale delle parole e della vita di Gesù. La Parola non si comprende se non in virtù della Parola: è regola aurea. Chi più dell’Apostolo ci aiuta a comprendere i santi Vangeli? Paolo è l’Apostolo più vicino a noi, non soltanto perché non ha conosciuto Gesù secondo la carne, ma anche perché porta alla luce  tutto quel sottofondo spirituale dell’uomo che  trova la propria soluzione e giustificazione soltanto nella grazia del Salvatore mandato dal cielo. Gli Evangelisti annunciano la Parola semplicemente, Paolo l’annuncia alla luce della propria esperienza di uomo risorto in Cristo. E non capisce Paolo se non chi è come lui tutto preso da una sincera volontà di essere obbediente a Dio in tutto e per tutto. Colui che può sembrare l’eccezione, non è compreso se non quando diviene la regola, il modello di ogni santità, nello spirito di osservanza del primo e più grande comandamento: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Se non c’è questa totalità dell’impegno, il Vangelo è lettera morta. Non è parola per la salvezza, ma parola per la dannazione, perché il cuore falso convincerà se stesso di giustizia e non di peccato, facendosi meritevole di un giudizio di eterna condanna da parte di Dio. Perché mai Gesù parla in parabole? Per rendere più chiaro, più semplice ed intellegibile un discorso o al contrario perché appaia oscuro quello che è fin troppo chiaro? Perché tutti possano comprendere, anche quelli che stanno fuori o perché comprendano soltanto quelli che sono entrati dentro? “ Parlo in parabole perché sentendo non intendano, né io li risani”. Giustamente Guardini rileva che i Vangeli non sono di facile comprensione. Tutto diventa più chiaro solo quando siamo rivestiti dal Signore di occhi nuovi, illuminati da una luce diversa che viene dal cielo. Se è difficile entrare da soli nel senso nascosto della Parola di Dio, tutto è più facile quando seguiamo l’apostolo Paolo. Non basta leggere i Vangeli, bisogna leggere la spiegazione che ne dà l’Apostolo. Non la parola dell’uomo illumina la parola di Dio, ma è la stessa Parola di Dio che getta una luce su se stessa, per chi ha orecchi di ascolto. E lo fa in virtù dell’insegnamento di un uomo che riassume in sé e porta alle estreme conseguenze della fede in Cristo tutto il proprio vissuto, senza celare ambiguità e contraddizioni, senza falsità ed ipocrisie, unicamente desideroso di compiacere a Dio in tutto e per tutto. La complessità delle parabole, ripercorre la molteplicità di aspetti di un cammino spirituale che vuol raggiungere ed ottenere quella semplicità del cuore che unicamente è gradita e accetta a Dio. Le parabole sono complesse nello sviluppo interno del discorso, sono assolutamente semplici nella loro conclusione. Partono da realtà e situazioni diverse, per approdare all’unica àncora di salvezza che ha nome di Cristo. La conclusione è sempre la stessa: non c’è salvezza senza la fede in Cristo Salvatore e non è fatto salvo chi non è perduto. Ciò che è sicuramente vero e fuori discussione per Dio Padre non lo è altrettanto per l’uomo che  di fronte al Salvatore si pone in una posizione di giudizio e di superba sufficienza a se stesso. Se Cristo è venuto per i peccatori, per riportare all’ovile la pecorella smarrita, allora va fatta salva la situazione di chi peccatore non è e cerca un’altra via di salvezza che è quella dell’osservanza della Legge e di una giustificazione che gli è accreditata dallo stesso Dio. E allora la parabola, partendo dal punto di vista dell’uomo che si crede giusto, deve ribaltare un giudizio falso e frettoloso, fatto in proprio ed affermare un peccato che abbraccia tutto il genere, per concludere nella necessità di una salvezza che è donata gratuitamente da Colui che è stato mandato dal cielo. C’è un solo giusto ed è Cristo Gesù: in Lui e per Lui, in virtù della sua morte e resurrezione i molti sono giustificati e  ottengono in dono la salvezza per la fede nel Salvatore. Non c’è parabola che non sia esaltazione dell’unico giusto e dell’unico santo: speranza e gioia per chi crede in Cristo , giudizio di condanna ed amarezza senza fine per chi rifiuta il Salvatore. Il Vangelo è annuncio di una grande gioia: in Cristo la terra è riconciliata col cielo, coloro che si sono perduti ritrovano la via della salvezza, i peccati sono  perdonati, un cuore nuovo è dato all’uomo, perché senta e comprenda quanto grande l’amore di Dio Padre. Tutto semplice e tutto facile dunque? Niente affatto, perché l’uomo è di dura cervice, non vuole vedere e non vuole comprendere la necessità di una morte che è per la vita. La mancanza di fede rende vano il sacrificio di Cristo e nasconde ai nostri occhi la grandezza e la bellezza dell’Amore divino. L’uomo che con il peccato di Adamo si è condannato alla solitudine, dopo aver crocifisso Cristo si trova ancora più solo, senza gioia e senza speranza. Non comprende il Vangelo chi non è come Paolo, chi non si riconosce e non fa proprio il suo cammino spirituale, che è passaggio dalle tenebre alla luce, dalla consapevolezza del proprio peccato alla consapevolezza dell’amore di Dio, così come si è a noi tutti manifestato in virtù della morte e resurrezione del Figlio suo. Le lettere che Paolo invia alle comunità da lui fondate altro non sono che la spiegazione del Vangelo, così come è dato comprendere soltanto attraverso un cammino di salvezza, che l’Apostolo prima di altri ha percorso. “Fatevi miei imitatori come anch’io lo sono di Cristo”. Se Cristo è l’unico vero modello di santità, è pur vero che non è compreso se non in virtù di un modello a noi più vicino che è l’apostolo Paolo. La conversione di Paolo non è un semplice prodotto del pensiero, o sforzo etico, ma è innanzitutto un fatto, un evento: l’incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco. L’iniziativa è sempre di Dio e nessuno va al Figlio se non è attirato dal Padre che è nei cieli. Una nuova luce, misteriosa ed inaccessibile investe la nostra vita: non abbiamo occhi per portarla e abbiamo bisogno di una vista spirituale che Dio ci dona attraverso la sua Chiesa. L’uomo vecchio è fatto uomo nuovo, vede diversamente non soltanto se stesso in rapporto a Dio, ma anche Dio in rapporto a se stesso. Scopre il proprio peccato di fronte al Signore, ma anche l’infinita sua misericordia. Se noi siamo nulla, Lui è tutto, se noi siamo poveri, Lui ci arricchisce di ogni dono spirituale, se noi siamo ingiusti, Lui ci fa giusti. Paolo è tutto questo e solo questo: un morto che è tornato in vita, un ingiusto che è stato fatto giusto, un cieco che ha trovato in Cristo non una semplice luce, ma la luce che conduce a vita eterna.

Riconsideriamo insieme a Guardini alcune caratteristiche fondamentali della personalità dell’Apostolo. Nell’ora di Damasco, Paolo viene liberato dal giogo che lo opprimeva col dover operare da sé, e, conseguentemente, dal tormento assillante di non potervi riuscire. Impara, così, quanto esprimerà più tarsi con queste parole: “Vivo, ma non sono io a vivere: è Cristo che vive in m,e”. e con queste altre: “Da me solo nulla posso, ma posso tutto in Colui che mi dà la forza, in Cristo”. Per il tramite di Cristo viene a noi la grazia divina, ed è essa che agisce, ma insieme la grazia opera tutto: illumina la conoscenza, libera la coscienza, infiamma il cuore, muta la volontà, eleva e dà ali all’essere, e proprio così l’uomo è quello che deve essere… Una singolarità colpisce, la visione è una luce. Colpito da essa, Paolo cade a terra, accecato, e una voce dice: “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?”. Poi soggiunge: “Io sono Gesù che tu perseguiti”. Dunque Paolo non ha scorto il volto del Signore sulla via di Damasco. Non è nelle nostre intenzioni fare affermazioni affrettate, e ci chiediamo se Paolo abbia sollevato mai gli occhi – dello spirito, beninteso – alla sua figura, al suo volto. Comunque, in chi legge le sue epistole si forma il convincimento che il Gesù Cristo di cui esse trattano è più potenza in atto, energia creativa, luce illuminante, vita irradiante e creante che non una figura fisica sulla quale si possa fissare lo sguardo, un volto da poter rimirare. Quest’ultima possibilità si ha per il Gesù dei Sinottici. Anche in Giovanni la si riscontra, ma soprattutto in Matteo, in Marco e in Luca. In essi egli è il Gesù che ci viene incontro per la via, che guarda verso di noi, che ci rivolge la parola, che agisce. Ciò costituisce la più spiccata singolarità degli evangelisti, il loro privilegio prezioso, ma nello stesso tempo un elemento che ci dà l’impressione di essere tanto lontani dalla loro narrazione, in quanto non abbiamo mai visto con gli stessi nostri occhi il Signore. Ed appunto per questo ci sentiamo, invece, tanto più vicini a Paolo, e forse non ci inganniamo reputando che egli non tanto guardi a Cristo come figura e come volto, quanto lo senta come potenza. Con quest’ultima espressione non intendiamo, ovviamente, una energia religiosa impersonale, ma sempre Lui, Gesù, nella sua persona divina, il Signore nostro vero Dio e vero Uomo, e non, però, come figura, ma come potenza in atto che agisce, che impera, che crea; come creatore di un’opera prodigiosa, immensa, di un’opera che può paragonarsi soltanto alla creazione del mondo… Il mondo paolino è tutto pieno di questo Cristo. Egli agisce negli uomini, nel singolo credente, come nella Chiesa. Egli impera su tutte le cose create. È in tutto, e tutto è in Lui. “In Lui, infatti, viviamo, ci muoviamo e siamo” disse Paolo agli uomini dell’Areòpago parlando di Dio, e tali parole le ripeterebbe anche nei riguardi di Cristo. “Nel nome di Dio”, si saluta e si ringrazia, si giudica e si ammonisce, si fa il bene e si sopporta il male, si esercita la pazienza e si conseguono vittorie. Essere cristiano significa essere partecipe di Lui. Vivere da cristiano vuol dire che Egli respira ed opera in noi. Il meraviglioso mistero della vita cristiana consiste nel fatto che Egli vive in ogni credente la sua vita umana e divina, in una singolarità sempre nuova, che non si ripete mai, rimanendo sempre l’Uno, l’Uguale, l’Immenso. In ognuno di noi Egli nasce, cresce, “si avvia alla maturità”… Cristo è nell’uomo, e l’uomo è in Lui. E quando l’uomo crede e riceve il battesimo, accade in esso qualche cosa di singolare, afferma Paolo. Egli viene a trovarsi in comunanza di esistenza con Cristo, proprio come se questi penetrasse in lui e vi permanesse come figura a dominarlo, come forza ad agire in lui. E quando Gesù si è stabilito dentro di noi vuole rivelarsi nell’esistenza umana… Nell’uomo che si unisce al Signore nella fede entra una nuova figura e una nuova forma, lo stesso Cristo risorto nella sua mistica spiritualità. Egli si impadronisce di quest’uomo e, così com’è, lo plasma nella sua particolarità di essere e di vita, nei suoi doveri, nei suoi destini. Con ciò Cristo rinnova il ciclo della sua esistenza di Uomo-Dio, come vita eterna di origine divina, nel suo Spirito, in questo uomo vagante nel tempo. Egli rivive in lui la sua fanciullezza, la sua adolescenza, la sua maturità, il compimento del suo eterno destino. Ma la possanza di Cristo è anche nella totalità, nella Chiesa. La stessa impronta che caratterizza il singolo cristiano caratterizza anche il complesso della cristianità, vi domina, vi urge, vi agisce, ne soffre danno. Allorché Paolo perseguita Stefano, Cristo gli grida: “Saulo, Sauolo, perché mi perseguiti?”: poiché è Cristo che viene oppresso nelle persecuzioni alla Chiesa, come è Cristo che soffre per le divisioni, per gli irrigidimenti, per le ingiustizie che possano turbarla. Poiché Cristo domina in una stessa maniera tanto l’individuo quanto la comunità, il rapporto del credente nei riguardi della Chiesa è, così, diverso da quello che abitualmente si riscontra in ogni altra società umana. In essi circola, infatti, una stessa linfa, palpita una stessa vita, impera la stessa figura umana e divina… ma la Chiesa va ben più lontano dalla cerchia rappresentata dal complesso degli uomini. Le epistole agli Efesini e ai Colossesi dicono come sia piaciuto a Dio di “riunire sotto un solo capo, in Cristo, tutto ciò che è in cielo e in terra, affinchè Egli sia “il capo del corpo della Chiesa, Egli, il principio, il primogenito dai morti, affinchè si elevi, primo fra tutti. Perché così gli piacque, che in Lui fosse tutta la pienezza” ( Col. 1,18-19 ). In tal modo la Chiesa è orientata alla creazione, destinata ad attirarla nell’ambito di quel primo inizio in Cristo. Da ciò deve sorgere l’universo della libertà suprema, “il nuovo cielo e la nuova terra” ( Ap. 21,1 ) della fine. Questo Cristo che domina così nell’uomo siede alla destra del Padre. E noi intendiamo appieno Paolo allorchè afferma che il Cristo che domina in noi è nello stesso tempo nell’alto dei cieli e ci innalza a Lui. Egli ci conquista interiormente , urgendo sulla essenza viva dell’anima nostra, ci trae a sé dall’alto, facendoci udire la sua voce dal trono della sua eterna maestà. Ma Egli è anche il Veniente che si approssima avanzando dalla fine dei tempi. Emergendo dal misterioso interno della profondità di Dio, Egli penetra nell’uomo per manifestarsi nella sua esistenza ed alla fine spinge nel tempo per scuoterlo e prepararlo all’evento supremo. Così il mondo di san Paolo è tutto pieno di Lui. Egli è ovunque.

Publié dans:Paolo e Gesù, TEOLOGIA |on 29 janvier, 2014 |Pas de commentaires »

PAOLO : IL CRISTIANESIMO INCANDESCENTE – DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.santamariaregina.it/letto_e_scelto/2008/giugno/cristianesimo.pdf

PAOLO : IL CRISTIANESIMO INCANDESCENTE

DI GIANFRANCO RAVASI

Oggetto d’indomato amore e di ardente detestazione, Paolo traccia una discriminante soprattutto tra giudaismo e cristianesimo ma anche tra ellenismo e cultura cristiana, divenendo «scandalo» nel senso etimologico della parola greca, cioè pietra d’inciampo. La sua conversione fu un’assunzione esclusiva del Cristo come termine di ogni verità e di ogni giudizio. Una vera immedesimazione con la sua persona, fino a dire: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» «Come la fiamma che si abbatte tra le canne e il fieno trasforma nella propria natura ciò che arde – scriveva Giovanni Crisostomo – così Paolo tutto invade e tutto trasporta alla verità, torrente che tutto raggiunge e che schianta gli ostacoli.  Come atleta che insieme lotta e corre e sferra pugni, come soldato che combatte in campo aperto, così Paolo usava ogni genere di battaglia, spirando fuoco…» Paolo, Servo di Cristo Gesù, Apostolo per vocazione». Inizia proprio con questa autodefinizione la Lettera che san Paolo indirizza «a  quanti sono in Roma amati da Dio e santi per vocazione». Ed è partendo da  queste parole che noi ora vorremmo proporre in modo molto essenziale e sintetico un profilo dell’Apostolo per eccellenza, in occasione dell’«anno  paolino» che la Chiesa sta celebrando, anno simbolico non essendo a noi  nota la data reale della nascita a Tarso di colui che avrebbe inciso così profondamente nella storia della cristianità e dell’intera umanità. Come  scriveva il nostro grande poeta Mario Luzi, «il nucleo della forza di Paolo sta  nell’assunzione totale ed esclusiva del Cristo Gesù come termine di ogni verità e di ogni giudizio. Si tratta anzi di una vera immedesimazione con la sua persona e di una piena integrazione nel suo corpo avvenute (e predicate) mediante il battesimo nella morte di Gesù». Paolo, «il Lenin del cristianesimo»? Eppure non sempre la figura dell’Apostolo è stata esaltata. «Il vero cristianesimo, che durerà eternamente, viene dai vangeli, non dalle epistole di Paolo. Gli scritti di Paolo sono stati, in verità, un pericolo e uno scoglio; sono stati la causa dei principali difetti della teologia cristiana. Paolo è il padre del sottile Agostino, Paolo è il padre dell’arido Tommaso d’Aquino, Paolo è il padre del tetro calvinista, Paolo è il padre del bisbetico giansenista. Gesù è, invece, il padre di tutti coloro che cercano nei sogni dell’ideale il riposo delle anime loro». Così dichiarava nel suo Saint Paul (1869) Ernest Renan, iscrivendosi nella lista dei detrattori dell’Apostolo, come avrebbe fatto più tardi il «laico» Gide, insofferente per il Paolo calvinista della sua famiglia d’origine. Oggetto d’indomato amore e di ardente detestazione, Paolo traccia una discriminante soprattutto tra giudaismo e cristianesimo ma anche tra ellenismo e cultura cristiana, divenendo «scandalo» nel senso etimologico di questa parola greca, cioè pietra d’inciampo. Per secoli nel giudaismo Paolo è stato bollato come traditore e apostata; ma non è mancato più recentemente chi, come l’ebreo Richard I. Rubenstein, l’ha ritrovato «fratello» ( My Brother Paul, New York 1972) o, come si legge nel titolo di un’opera di Alan F. Segal, l’ha definito Saul the Pharisee (New Haven 1990), considerandolo l’unico scrittore fariseo del I sec. e il fervido annunziatore del monoteismo ai pagani, mentre un esegeta cristiano, Ed P. Sanders, allentava di molto le tensioni tra Paolo e la dottrina giudaica tradizionale, contrariamente all’opinione dominante. Anche nel cristianesimo l’Apostolo per eccellenza, come viene chiamato, non ha mancato di dividere. La stessa definizione di «secondo fondatore del cristianesimo», coniata nel 1904 da Wilhelm Wrede nel suo Paulus, è ambigua: può indicare un’opera benefica di rigenerazione rispetto al primo fondatore Gesù, ma pure un intervento devastante di degenerazione. In questo secondo senso si muoverà Nietzsche, che nel suo Anticristo bollerà Paolo come «disangelista», cioè annunziatore di una cattiva novella, al contrario degli «evangelisti»; mentre Gramsci sbrigativamente lo classificherà come «il Lenin del cristianesimo». Certo è che qualche riserva almeno per un uso improvvido delle sue teorie appariva già nel Nuovo Testamento quando nella Seconda Lettera di Pietro si leggeva: «[Nelle lettere del nostro carissimo fratello Paolo] vi sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli incerti le travisano, al pari delle altre Scritture, a loro rovina» (2 Pt 3,16). Non è mancato, però, chi ha abbozzato ritratti aureolati dell’Apostolo, come Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli, che nella XXV Omelia dedicata alla Seconda Lettera ai Corinzi, esclamava: «Come la fiamma che si abbatte tra le canne e il fieno trasforma nella propria natura ciò che arde, così Paolo tutto invade e tutto trasporta alla verità, torrente che tutto raggiunge e che schianta gli ostacoli. Come atleta che insieme lotta e corre e sferra pugni, come soldato che assedia le mura e combatte in La « conversione di San Paolo » di Caravaggio (1601)campo aperto e guerreggia sulle navi, così Paolo usava ogni genere di battaglia, spirando fuoco… Balzava in ogni luogo senza interruzione, accorreva presso gli uni, raggiungeva gli altri, assisteva questi e si affrettava da quelli, più veloce del vento. Governava come fosse una sola casa o una sola nave il mondo intero, sollevando i sommersi, consolidando coloro che turbati cadevano, comandando ai marinai; seduto a poppa, teneva fisso lo sguardo a prua, tirava le funi, manovrava i remi, tendeva le vele con gli occhi che scrutavano il ciclo, facendo tutto da solo, come nocchiero, prodiere, vela, nave. E tutto per portare fuori dalla sventura tutti». Lutero ha assunto la Lettera ai Romani come vessillo della sua Riforma, brandendo spesso una frase paolina come spada per la sua lotta teologica ed ecclesiale. Bossuet nel suo Panegirico di San Paolo (1659) esaltava «colui che non lusinga le orecchie ma colpisce dritto al cuore», mentre Victor Hugo nel William Shakespeare (1864) lo inseriva tra i genii, «santo per la Chiesa, grande per l’umanità…, colui al quale il futuro è apparso: nulla è superbo come questo volto stupito dalla vittoria della luce». Franz Werfel nel dramma Paolo tra gli Ebrei (1926) cercava, invece, di illustrare il fallito tentativo del giudaismo di non perdere questo suo figlio brillante. Il suo antico maestro Gamaliel lo supplica: «Per la libertà di Israele, confessa: Gesù era solo un uomo!»; ma Paolo ormai ha la vita attraversata dalla luce di Cristo e non può che respingere il pur amato rabbì Gamaliel. Si potrebbe a lungo continuare questo elenco di ammiratori di Paolo, giungendo fino ai nostri giorni. Pensiamo al Saulo dell’ungherese Miklos Meszöly, composto tra il 1962 e il 1967, diario autobiografico paolino in cui il persecutore si trasforma nell’uomo braccato dal mistero, «come se fossi sempre inseguito da qualcuno» che alla fine lo raggiunge per sempre. Ma vorremmo soprattutto evocare quell’«abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo (sotto forma di appunti per un direttore di produzione)», datato «Roma, 22-28 maggio 1968», che Pier Paolo Pasolini ha elaborato e ripreso nel 1974 senza mai concluderlo e che sarà pubblicato postumo nel 1977 con il titolo San Paolo. L’idea era di trasporre la vicenda dell’Apostolo ai nostri giorni, sostituendo le antiche capitali del potere e della cultura con New York, Londra, Parigi, Roma, la Germania. «Paolo è qui, oggi, tra noi» scriveva l’autore delle Lettere luterane «egli demolisce rivoluzionariamente, con la semplice forza del suo messaggio religioso, un tipo di società fondata sulla violenza di classe, l’imperialismo, lo schiavismo…. Il film, però, rivelerà la contrapposizione tra ‘attualità’ e ‘santità’: il mondo della storia che tende, nel suo eccesso di presenza e di urgenza, a sfuggire nel mistero, nell’astrattezza, nel puro interrogativo; e il mondo del divino che, nella sua religiosa astrattezza, al contrario, discende tra gli uomini, si fa concreto e operante». Sulla strada verso Damasco «Oltre ogni misura perseguitavo la Chiesa di Dio cercando di distruggerla»; così confessava Paolo ai Galati (Gal 1,13) in un vasto brano autobiografico (cc. 1-2), documento rilevante per la ricostruzione della vicenda personale dell’Apostolo, insieme con 1’«autoelogio» di 2 Corinzi 11-12. Una confessione che ribadirà ai Filippesi: «Ero uno zelante persecutore della Chiesa» (Fil 3,6). Negli Atti degli Apostoli, dopo la lapidazione di Stefano, il primo martire cristiano, si annota: «Saulo era compiaciuto della soppressione di Stefano» (At 8,1). Ma ecco la grande svolta che Paolo affida solo a tre verbi, due di illuminazione, uno di lotta: «[Cristo] è apparso anche a me … [Dio] si degnò di rivelarmi il suo Figlio… Sono stato afferrato da Cristo Gesù» (1 Cor 15,8; Gal 1,16; Fil 3,12). Tre sono anche le
narrazioni di quella celebre epifania sulla via di Damasco: Ace le offrono gli Atti degli Apostoli, alla terza persona nel c. 9 e alla prima nei cc. 22 e 26. Quell’evento è per Paolo discriminante: da allora ci sarà un «prima» sconfessato e un «poi» tutto segnato da Cristo. Prima c’era Saulo («Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», gli grida la voce misteriosa), poi ci sarà Paolo, l’apostolo di Cristo. Anche Felix Mendelssohn Bartholdy nel suo mirabile oratorio Paulus op. 36, ideato a partire dal 1831 ed eseguito per la prima volta a Düsseldorf il 22 maggio 1836 con ben 356 coristi e 160 strumentisti, ha diviso la storia paolina desunta dagli Atti degli Apostoli in due parti, affidandola a due bassi diversi, l’uno è Saulo e l’altro incarna Paolo. «Un’opera, quella di Mendelssohn» come riconosceva Robert Schumann «dell’arte più pura, un’opera di pace e di amore». Nei nostri occhi, invece, quell’illuminazione divina rimane fissa nella raffigurazione della tela del Caravaggio a Santa Maria del Popolo a Roma, con l’enorme cavallo che sogguarda Saulo disarcionato e accecato. Una conversione che diventa quasi il modello di ogni altro rivolgimento spirituale. Basterebbe pensare ad Agostino che muterà la sua vita proprio aprendo una pagina paolina, al c. 13 della Lettera ai Romani: «Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze! Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata la lettura di questa frase, una luce di certezza penetrò il mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono» ( Confessioni VIII, 12,29). Osservava Victor Hugo nel citato William Shakespeare: «La via di Damasco è necessaria al cammino del progresso. Cadere nella verità e rialzarsi uomo giusto è una cadutatrasfigurazione: questo è sublime! Questa è la storia di Paolo e, dopo di lui, questa sarà la storia dell’umanità. Il progresso si attuerà solo attraverso una serie di illuminazioni». Anche August Strindberg nel suo audace dramma Verso Damasco, composto tra il 1898 e il 1904, trasforma quell’evento antico in una parabola del percorso della vita, ma per lo scrittore svedese la via che conduce a Damasco è un labirinto onirico ove le tracce si confondono, è una spirale ossessiva ove il passato a brandelli si mescola con il presente, ove ogni decorso lineare si aggroviglia in ripetizioni, ove ogni sbocco atteso si rivela un inganno, ove la folgorazione finale non accade. Così non è per Saulo che da quel giorno degli anni 32-35, a poca distanza dalla morte di Cristo, diventa il più appassionato missionario cristiano, soprattutto sulle strade dell’area geografica chiamata poeticamente da Deissmann «l’ellisse dell’ulivo», cioè la costa mediterranea che si dispiega da Antiochia, Efeso, Tessalonica, Atene, Corinto, fino a Roma. Proteso fin dall’inizio verso i pagani (Gal 1,16) e incline a scegliere i grossi centri (l’unica città di rilievo esclusa fu Alessandria d’Egitto), Paolo «evangelista» procede armato solo della parola, «come se Dio esortasse Iper mezzo nostro» (2 Cor 5,20), «non parola d’uomo ma parola di Dio, che effonde la sua energia in voi che avete creduto» (1 Ts 2,13). Il vangelo, però, non è solo una teoria, è anche e soprattutto un modo di esistere ed è per questo, come notava Dietrich Bonhoeffer nel suo Schema per un saggio scritto in carcere, che la parola dev’essere sostenuta dal «modello umano che trae origine dall’umanità di Cristo». Paolo, allora, si presenta proprio come un modello di vita da imitare: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1 Cor 4,16). Le sue Lettere sono questo intreccio tra parola e vita; non sono, come spesso erroneamente si crede, freddi trattati teologici. La lingua stessa è piegata all’azione, come riconosceva uno che se ne intendeva, Erasmo da Rotterdam nella lettera premessa alle due Epistole paoline ai Corinzi: «Se si suda a spiegare le idee di poeti e oratori, con questo retore [Paolo] si suda ancor di più a capire cosa vuole, a cosa mira», pronto com’è a farsi greco con i greci, giudeo con i giudei, «servo di tutti, per guadagnare il maggior numero« a Cristo (1 Cor 9,19-23). Il citato Wrede chiamava giustamente le Lettere paoline «frammenti di missione» e noi ad esse potremmo applicare la definizione che uno scrittore greco contemporaneo a Paolo, Demetrio, aveva coniato per il genere epistolare: è «l’altra parte del dialogo», che di sua natura è già intessuto con la presenza e la parola viva. Un mistero ancora da scoprire La lettura integrale degli scritti di Paolo rimane indispensabile per comprendere tutti i lineamenti di un volto originale e sfuggente. Ed è un limite grave che essi siano quasi del tutto assenti, sia nella predicazione ecclesiale sia nella conoscenza laica: quanti sono i cristiani che hanno letto con attenzione l’intera Lettera ai Romani? E quanti sono i cultori della storia dell’Occidente che hanno cercato di individuare e comprendere le radici paoline? Il vangelo di Paolo è centrato sul Cristo crocifisso e risorto, umiliato e glorioso: si pensi che delle 535 presenze nel Nuovo Testamento del nome di Gesù Cristo (di Gesù, di Cristo e così via) almeno 400 si trovano nell’epistolario paolino. Nella Lettera ai Romani egli confessava: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? No, in tutte queste cose noi stravinciamo per merito di Lui che ci ha amati. Sono, infatti, convinto che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39). l discorso teologico dell’Apostolo, radicato nel vangelo di Cristo, si allarga però fino ad abbracciare e ad illuminare orizzonti diversi entro i quali l’umanità si muove e si scontra continuamente. Il quadro generale potrebbe, essere così formulato secondo una sintesi suggerita da un esegeta, Pietro Rossano: «In un grande disegno salvifico Dio offre la salvezza a tutti, ebrei e gentili, in Cristo Gesù morto e risorto. Si diventa partecipi della salvezza unendosi a Cristo mediante la fede, morendo con lui al peccato e partecipando alla forza della sua risurrezione. La salvezza tuttavia non è ancora completa finché egli di nuovo ritorni; nel frattempo colui che in Cristo è stato affrancato al potere della legge e del peccato diventa un uomo nuovo per opera dello Spirito e la sua condotta si ispira alla nuova situazione in cui è venuto a trovarsi per la chiamata divina». Questo linguaggio teologico, pur accurato, risulta, però, uno stampo freddo che non può del tutto contenere l’incandescenza del pensiero e del sentimento dell’Apostolo.

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