Archive pour la catégorie 'Paolo – approfondimenti su temi diversi'

Il genio di san Paolo (O.R. 13 novembre 2008)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2008/265q01b1.html

DA: L’OSSERVATORE ROMANO
(13 novembre 2008)

Nel confronto tra fede e ragione

Il genio di san Paolo

di Juan Manuel de Prada

La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l’impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l’orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra:  poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l’eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo – che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito – deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell’Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell’uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti:  basta leggere il suo discorso nell’Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice:  san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l’annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori – fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici – che potevano accettare l’immortalità dell’anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell’Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole:  la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un « fratello carissimo » nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo – ad esempio – aborrire l’aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto:  « Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…) L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (…) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare ».
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l’anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.

(L’Osservatore Romano 13 novembre 2008)

« Se uno è in Cristo, è una nuova creatura », Pirandello (Catechesi al Movimento Apostolico)

dal sito:

http://www.caffarra.it/incontro140307.php

« Se uno è in Cristo, è una nuova creatura »

(PIRANDELLO E SAN PAOLO)

Catechesi al Movimento Apostolico

Catanzaro, 14 marzo 2007

Vorrei iniziare questo nostro incontro ascoltando la voce di uno dei più radicali nichilisti del nostro tempo e nello stesso tempo testimone del bisogno che l’uomo oggi ha di incontrare Gesù, L. Pirandello.

Egli ha scritto una novella di struggente bellezza, struggente per il bisogno dell’incontro che questa pagina esprime: Ciaula scopre la luna. La vicenda è nota: Ciaula è più un animale che un uomo, costretto come è a lavorare sempre, spesso anche di notte, nella miniera. Ma una notte, distrutto dalla fatica, era appena sbucato dal buio della miniera: « Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle… Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna… Estatico cadde a sedere sul suo carico… E Ciaula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva… per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore » [Novelle per un anno, volume secondo - tomo I, Mondadori ed. Milano 1996, pag. 463-464].
Ed ora poniamoci all’ascolto di S. Paolo: « E Dio che disse: rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » [2Cor 4,6].
L’ateo Pirandello si incontra coll’apostolo Paolo: l’uomo ha bisogno di luce, altrimenti è costretto a vivere come Ciaula lavorando penosamente dentro una tana. E poiché ne ha bisogno, ciascuno di noi desidera profondamente essere illuminato; desidera di poter vedere la realtà nella sua bellezza, nella sua bontà, nella sua verità.

1. Ciascuno di noi può trovarsi in tre diverse condizioni, che ora cercherò di descrivere.
- Vorrei descrivere la prima condizione con una parabola. Immaginate di viaggiare in treno e che a causa di un guasto si sia fermato. Ma ciò è accaduto in una lunga galleria, in un punto in cui non si vede più la luce dell’inizio e non si vede ancora la luce della fine. Un viaggiatore vi dice: « non vi preoccupate; intanto possiamo passare qualche ora assieme; possiamo parlare di ciò che ci interessa maggiormente; possiamo anche inventare qualche gioco che ci diverta: non ci accorgeremo neppure alla fine di essere fermi in una galleria » -.
Ora cercherò di spiegarvi questa breve parabola. Ad una riflessione attenta e pacata, ci rendiamo conto che i quesiti fondamentali della vita sono due: da dove vengo? verso dove vado? Se uno vi rispondesse: « tu, come ogni persona umana, vieni dal caso; esisti cioè per caso; sei un incidente fortuito, casuale dell’evoluzione della materia ». Se alla seconda domanda poi vi rispondesse: « tu, come ogni persona umana, non sei in possesso di una vita sensata, orientata cioè ad uno scopo ultimo: sei in cammino, ma senza un traguardo finale: un vagabondo, non un pellegrino ».
Se tu ti convincessi che questa è la verità, sulla tua vita, la parabola del treno esprimerebbe perfettamente la tua condizione esistenziale: buio alle spalle; buio davanti. Qualcuno ha vissuto tragicamente questa condizione; altri, hanno cercato di vivere comunque con gli altri nel modo migliore l’attimo di luce fra le due notti. Oggi purtroppo si sceglie spesso la soluzione peggiore: non pensare troppo; soprattutto non porre quelle due domande; e vivere come a ciascuno pare e piace, nella misura del possibile.
- La seconda condizione è narrata stupendamente nella novella di Pirandello. Invece che in un treno fermo sotto una galleria, Ciaula vive nel buio di una miniera perché lavora faticosamente. E la vita è in larga misura fatica e lavoro. Ma Ciaula, l’uomo, può « sbucare all’aperto » e rimanere « sbalordito »: è lo « sbalordimento » di fronte alla bellezza dell’essere. Voi provate questo quando per esempio vi siete resi conto per la prima volta che un/a ragazzo/a vi amava; quando vi siete trovati di fronte alla bellezza di spettacoli naturali. Quanto maggiore è la possibilità di conoscere, quanto più vaste e dettagliate sono le conoscenze dei processi della vita, tanto maggiore è – o almeno dovrebbe essere – lo stupore. Ciaula è ancora nel buio, nella notte, ma la sua notte è « ora piena del suo stupore ».
Anche voi potete essere in questa situazione; o forse conoscete amici vostri che vi si trovano. Può essere l’inizio di un cammino.
- La terza condizione è quella suggerita da S. Paolo. Anche l’Apostolo parla di tenebre. Ma la notte in cui si trova l’Apostolo è all’improvviso illuminata da una luce, potremmo dire, esterna e da una luce interna. La luce esterna è il volto di Cristo, il sole che illumina la notte; la luce interna rifulge nel cuore. Si dà come una sorta di riverbero: il sole che è il volto di Gesù illumina il cuore della persona.
Che cosa significhi questa « illuminazione » cercherò di spiegarlo con due « brevi narrazioni, una evangelica ed una contemporanea ».
La narrazione evangelica. Ricordate tutti l’incontro di Zaccheo con Gesù. Zaccheo desiderava vedere Gesù: curiosità? Stupore e meraviglia per ciò che sentiva dire? Egli comunque « desiderava ». E si sente fare una proposta incredibile: cenare insieme con Gesù; stare a tavola con Lui. È durante quella compagnia che Zaccheo esce dalla « galleria »: il suo cuore è illuminato. Vede la possibilità di una nuova esistenza: non più basata sul possesso ma sul dono. Ha visto Cristo; è stato con Lui: è stato rigenerato nella sua umanità. Le radici della sua persona e della sua esistenza sono state trapiantate in un nuovo terreno: è diventato « figlio di Abramo ». Le promesse di beatitudine fatte da Dio all’uomo sono ora sue: sono fatte anche a lui.
La narrazione contemporanea. Il 14 settembre 1946 una suora professoressa di lingua e letteratura inglese stava accompagnando in treno alcune ragazze al noviziato della sua Congregazione religiosa situato in una piccola città indiana. Ad un certo momento la suora vide non fisicamente ma spiritualmente una folla innumerevole di poveri e di disperati e sentì dentro di sé il grido di Gesù sulla Croce: « ho sete ». Ella vide in ciascuno di quei disperati Cristo sulla Croce che chiedeva di essere saziato sia materialmente sia spiritualmente: fame di pane e di amore: sete di acqua e di affetto. E « si arrese ». In quel momento « nacque » madre Teresa di Calcutta.
Il sole che è il volto sfigurato di Cristo nei poveri, illumina il cuore di quella donna, nel senso che le fa vedere la vocazione, il significato della sua vita: « vivo per dissetare Gesù nei poveri ».
Vi ho descritto le tre condizioni in cui una persona può trovarsi: dentro un treno sotto una galleria, avendo buio alle spalle e buio davanti a sé; sbucati dal buio di una miniera in una notte, ma piena di stupore e con il carico non più sulle spalle; illuminati dalla luce che splende nel volto di Cristo, la quale ci fa vedere da dove veniamo e verso dove andiamo.
Pascal dice tutto questo quando scrive che ci sono tre classi di uomini. Coloro che cercano ed hanno trovato; coloro che cercano e non hanno ancora trovato; coloro che né cercano né trovano.
2. A questo punto potete capire il significato esistenziale dell’affermazione paolina: « se uno è in Cristo è una nuova creatura ».
Chi è in Cristo? il viaggiatore del treno guasto in galleria, Ciaula, Zaccheo – madre Teresa? Sono sicuro che avete già risposto: in nessuna maniera il viaggiatore ["è in Cristo"]; Ciaula è in cammino per diventarlo; Zaccheo – madre Teresa « sono in Cristo ». Non mi ripeto. Ma richiamo subito la vostra attenzione su ciò che accade a chi « è in Cristo »: diventa una nuova creatura.
Vorrei fermarmi brevemente su questa rigenerazione, e così concludere la nostra catechesi.
Questa novità riguarda le radici stesse della nostra esistenza. E quali sono le radici della nostra vita? Che cosa cioè nutre il nostro quotidiano esistere: ciò che ci fa lavorare o studiare, che ci fa prendere moglie/marito, che ci fa desiderare e pensare? Come ha visto bene Agostino: è il desiderio di beatitudine, di pienezza di essere. Le nostre scelte sono sempre in vista di un bene particolare; ma alla fine ciascuna di esse si inscrive e si radica nel desiderio di un bene che sia tale da dare piena soddisfazione alla nostra fame e sete di beatitudine, al nostro sconfinato desiderio di verità, di bontà, di bellezza. Solo una cultura disumana e superficiale come la nostra poteva tentare di estenuare nell’uomo questo suo desiderio, insegnandogli che è possibile ben navigare anche se si naviga sempre a vista senza avere nessun porto a cui dirigersi; che è possibile ben camminare anche senza sapere dove andare.
L’incontro con Cristo pesca in questa profondità dell’essere: Cristo è « sentito » come la risposta vera e totale al proprio desiderio illimitato di beatitudine: « mio Signore e mio tutto » [pregava S. Francesco]. Zaccheo ha capito che non nel denaro, ottenuto con tutti i mezzi, era la risposta al suo desiderio, ma la risposta era Lui, lo « stare a tavola » con Lui. Madre Teresa ha capito che la vita vale nella misura in cui è donata.
Ho parlato di « radici » del nostro essere, della nostra persona. Di radici che pescano nella persona di Cristo, che si impiantano in Lui. Vorrei fermarmi ancora un momento su questo punto richiamando la vostra attenzione all’esperienza di S. Agostino.
Egli era cresciuto nella fede cristiana. Ci confida che fin da bambino era segnato dalla madre Monica con segno della croce: « di tutte queste cose ero certo ». Tuttavia aggiunge: « eppure ero totalmente incapace di godere di te » [Conf. VII, 20,26]. Uno può sapere tutto di una persona, ma non goderne: non godere della sua presenza, della sua compagnia. Si può vivere una dedizione alla « causa » cristiana, ma non essere attratti dalla bellezza di Cristo ed affascinati dal suo volto. La dedizione non è l’attrazione.
Ecco che cosa intendo dire quando dico che siamo rinnovati nella radice della nostra persona. Uso ancora un’espressione agostiniana: « amata est foeda ne remaneret foeda » [È stata amata quando era brutta, ma perché non rimanesse brutta] (En. in ps. 44,3). Siamo attratti da un Amore che ci trasforma; da una Bellezza che ci rende belli. Dice stupendamente Agostino: « evertit foeditatem, formavit pulchritudinem ».
Rinnovati alla radice del nostro vivere, lo siamo di conseguenza anche nei due dinamismi spirituali fondamentali della nostra persona: l’intelligenza e la libertà.
A livello di intelligenza, è soprattutto il testo paolino citato all’inizio ad illuminarci. Sarebbe necessario fare un lungo discorso per comprendere che cosa accade nell’intelligenza della persona che incontra Cristo, che « è in Cristo ». Mi limito ad una sola riflessione.
L’incontro con Cristo mette in moto la tua intelligenza perché tu vuoi sapere la verità e il valore di ciò che è e di ciò che fai alla luce di Cristo. Ti chiedi: che cosa è l’amore umano? Quale è il valore della sofferenza? E così via. Chi « è in Cristo » cerca colla sua ragione la risposta nella luce di Cristo, nella luce della Sapienza stessa di Dio. Ecco perché la ragione del credente è spinta ad esercitarsi al massimo, senza precludersi nulla. Nasce una nuova cultura.
A livello di libertà, è soprattutto la pagina evangelica che narra la storia di Zaccheo ad illuminarci. Anche su questo sarebbe necessario un lungo discorso, perché penetriamo nella chiave di volta di ogni umana esistenza: l’idea e l’esperienza che ciascuno ha della propria libertà. Mi limito ad una sola riflessione.
Zaccheo ha radicalmente cambiato il suo modo di essere libero: dal possesso al dono. Tutto qui! La sua libertà è stata liberata, perché è stata resa capace di amare. Ha acquistato la libertà del dono. Nasce l’amore e l’amicizia. E Paolo con Giovanni dirà che questo è tutto.
Ma c’è qualcosa d’altro nella vita di chi incontra Cristo: colui che incontra Cristo, non può tacere. Paolo percorre quasi tutto l’impero romano per annunciare Cristo; Madre Teresa diventa la pura testimone dell’amore. Non si può tacere!

Conclusione

Mi piace concludere con l’insegnamento di un bambino ed ancora di S. Agostino.
Durante una recente visita pastorale ho tenuto una catechesi ai bambini sul tema della fede, dell’incontro con Gesù. Ad un certo punto un bambino di seconda elementare mi disse: « ma come faccio ad incontrare un morto? ». Si alzò una bambina: « ma Gesù è morto, ma poi è risorto ed è presente in mezzo a noi ».
Ed ora S. Agostino: « Volevo essere considerato sapiente, ma pieno della mia tristezza non piangevo » [VII, 20,26]. Possiamo conoscere tutta la dottrina cristiana, ma questo non basta perché il cuore sia commosso da una presenza, dall’esperienza di una persona che ti ama.
La Chiesa esiste per rendere possibile l’incontro di ogni uomo con Cristo; per rendere possibile ad ogni uomo di essere in Lui. Esiste perché ogni uomo possa piangere di commozione di fronte a Cristo: « habet et laetitia lacrimas suas » [S. Ambrogio, De excessu fra tris sui Satyri I.10].

SANT’AGOSTINO: DISCORSO 299/B – SUL NATALE DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

dal sito:

http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_420_testo.htm

SANT’AGOSTINO

DISCORSO 299/B – SUL NATALE DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

Pietro il primo, Paolo l’ultimo degli Apostoli. Pietro rinnegò, poi seguì il Signore accettando la passione. Si legge Io 21, 15 ss.

1. La passione dei beati Apostoli ha reso sacro per noi questo giorno: disprezzando il mondo, hanno meritato una tale gloria in tutto il mondo. Pietro il primo degli Apostoli, Paolo l’ultimo degli Apostoli. Cristo, il Primo e l’ultimo, condusse ad un unico giorno di passione il primo e l’ultimo. Per poter ricordare quel che ho detto, tenete presente l’alfa e l’omega. Il Signore stesso dice apertamente nell’Apocalisse: Io sono l’Alfa e l’Omega 1; il Primo: nessuno prima di lui; l’Ultimo: nessuno dopo di lui. È colui che precede tutte le cose, colui che è il termine di tutte. Vuoi avere una visione contemplativa del Primo? Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui 2. Ti volgi a considerare l’Ultimo? Il termine della legge è Cristo per la giustizia di chiunque crede 3. Per vivere nel tempo, hai avuto lui come creatore; per vivere sempre hai lui come redentore. Consideriamo, carissimi, lo stesso beatissimo Pietro, primo degli Apostoli che dice nella sua epistola: Cristo patì per noi, lasciandoci l’esempio, affinché seguiamo le sue orme 4. Infine, durante la lettura del Vangelo, avete ascoltato: Seguimi 5. Gli rivolse l’invito, naturalmente Cristo a Pietro, il Maestro al discepolo, il Signore al servo, il Medico al risanato, per dirgli: Pietro, mi ami? E, come sapete, non gli disse soltanto « mi ami? » ma aggiunse: più di questi 6. Mi ami più di questi, più di quanto mi amano questi? Pietro non rispose « Ti amo più di quanto ti amano questi », giacché non spettava all’uomo giudicare dei sentimenti altrui, ma dette questa risposta: Signore, tu sai che io ti amo 7. A che cerchi da me quel che hai infuso in me? Tu sai che cosa hai dato: perché vuoi sapere da me se ti amo, dal momento che solo da te ho di amarti? Tu sai che ti amo. E il Signore ripeté la medesima domanda e Pietro dette di nuovo la medesima risposta. La terza volta il Signore interrogò: Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: mi ami? 8 Il Signore voleva conoscere l’amore di Pietro, noi vogliamo capire l’afflizione di Pietro. Che ne pensiamo del dispiacere di Pietro, sentendosi chiedere per tre volte: Mi ami? Quante volte volesse domandare il Signore, perché il servo se ne dovrebbe rattristare? Ma è che, alla terza domanda del Signore, Pietro tornò con la mente alla sua terza negazione. Tu comprendi, beato Pietro, comprendi la tua defezione, a ripensarvi ti affliggi, ma rallegrati dopo il turbamento. L’amore confessi colui che aveva rinnegato il timore. Infine, fate attenzione a lui – che prima aveva rinnegato – diventato amante; anzi, fin da prima amante, ma debole fino allora. Diciamo che Pietro ha negato Cristo e non diciamo perché seguì Cristo nel rischio della passione. Il Medico si riservò la gradualità della cura: prima mostrò Pietro a Pietro, ma in seguito si rivelò in Pietro. Quasi a dirgli: Hai avuto la presunzione di morire per me e non per la fiducia in me, ma in quanto contavi sulle tue forze. Interpellato da una serva, scopristi te stesso: piangesti e ritornasti a me.

Pietro annunziatore di Cristo.

2. Di conseguenza, solo affidandogli le sue pecore, il Signore gli preannunciò la passione che oggi celebriamo. Disse: Quando eri più giovane, ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio 9. Così avvenne, Pietro negò, Pietro pianse, Pietro lavò nelle lacrime la sua negazione. Cristo risuscitò, Pietro fu esaminato sull’amore: ricevette le pecore affidategli, non sue, ma di Cristo. Non gli disse infatti: Pasci le tue pecore, ma: pasci le mie pecore: pasci quelle che ho acquistato, perché ho riscattato anche te. Quindi, Cristo Signore si trattenne quaranta giorni con i suoi discepoli; una nube lo sollevò sotto i loro occhi ed egli ascese al cielo. Lo accompagnarono con i loro sguardi mentre ascendeva: si fermarono poi in città, al compiersi di cinquanta giorni ricevettero lo Spirito Santo, ne furono ripieni. In quell’istante appresero le lingue di tutti i popoli, cominciarono ad esprimersi in esse tra lo stupore e l’ammirazione di coloro che avevano ucciso Cristo. Il negatore di un tempo, l’amante qual è ora, solo fra tutti, perché il primo di tutti, si precipitò dai Giudei e intraprese ad annunziare Cristo agli uccisori di Cristo. Sparse in mezzo a loro il seme della fede di Cristo, e dispose a morire per Cristo molti di quelli dai quali aveva temuto di essere ucciso per lui.

Viene cantato il Ps 18.

3. Quando si disse, quando venne predetto che gli Apostoli di Cristo avrebbero parlato nelle lingue di tutte le Genti? I cieli narrano la gloria di Dio: intendi per cieli coloro che recano Dio; e l’opera delle sue mani, cioè la gloria di Dio, annunzia il firmamento 10. Questo sono i cieli. Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia 11. Giorno e notte non si smetta di annunziare Cristo. Rifletti tuttavia che il giorno al giorno ne affidò il messaggio: Cristo ai discepoli, la Luce alle luci. E la notte alla notte ne trasmise notizia: Giuda trasmise ai Giudei dove si trovava Cristo. Cristo venne catturato, Cristo fu ucciso, la morte fu uccisa in Cristo, perché Cristo risuscitò, e ascese al cielo, e inviò lo Spirito Santo promesso e ne furono ripieni, come otri nuovi, di vino nuovo. Aveva detto infatti il Signore: Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi 12. E sappiate che questo è stato adempiuto. I Giudei pieni di stupore, e alcuni quasi a scherno, senza sapere quel che affermarono, dissero: Costoro sono ubriachi di mosto 13. Se parlarono lingue che non avevano apprese fu dunque perché lo Spirito Santo ne dette e il dono e l’ispirazione e l’illuminazione. Nel loro ambiente ne avevano appresa una, forse due, invece parlarono che diciamo… tre lingue, quattro, cinque, sei… Perché vai cercando il numero? Non è linguaggio e non sono parole di cui non si oda il suono 14; avete ascoltato ora il Salmo, mentre veniva cantato. Anch’essi furono uccisi ma il loro messaggio è stato scritto. Che fecero quelli che li uccisero? Per tutta la terra si è diffuso il loro annunzio 15. Noi residenti in Africa eravamo lontani di là dove non era linguaggio e non erano parole di cui non si udisse il suono. Lontani da lì eravamo, lontano eravamo a giacere, lontano eravamo in preda al sonno; ma, perché fossimo riscossi dal sopore, per tutta la terra si è diffuso il loro annunzio e ai confini del mondo la loro parola. Svegliati, tu che dormi, destati dai morti e ti illuminerà 16 colui che disse a Pietro: Mi ami? 17 Chi è capace di parlare degnamente di Pietro? È da tanto chi sta parlando di Pietro? Senza offesa, beato Pietro, mi si permetta di tacere appena un poco di te, il cui annuncio mi ha riscaldato. Il mio discorso non può esser solo per te; oggi non fosti solo tu a subire il martirio: senza dubbio sei tu il primo degli Apostoli, ma l’ultimo degli Apostoli ebbe il merito di esserti socio.

Lo zelo di Saulo e lo zelo di Paolo.

4. Si porti avanti a noi anche il beato Paolo, dobbiamo dire qualcosa di lui per un poco; avendo infatti questo senso il nome, volle essere chiamato Paolo, poiché in precedenza si chiamava Saulo. Prima Saulo, poi Paolo; perché prima superbo, poi umile. Ripensate al primo nome ed in esso riconoscete la colpevolezza del persecutore. Venne chiamato Saulo da Saul. Saul, dal quale la denominazione di Saulo, perseguitò il santo David, e nel santo David era prefigurato il Cristo venturo dalla stirpe di David, per mezzo della Vergine Maria. Saulo svolse il ruolo quando perseguitò i cristiani. Era stato un persecutore accanitissimo; quando venne lapidato il beato Stefano, egli stesso conservò le vesti dei lapidatori per trovarsi a lapidare nelle mani di tutti. Dopo il martirio del beatissimo Stefano, i fratelli che si trovavano a Gerusalemme vennero dispersi; e poiché erano delle luci, ardevano dello Spirito di Dio; dovunque si erano recati, comunicavano luce. Allora Saulo, notando che il Vangelo di Cristo si divulgava, fu ripieno di asprissimo zelo: ebbe lettere di presentazione dai sommi sacerdoti e partì, nell’intento di condurre in catene, perché fossero puniti, quanti avesse scoperti testimoni del nome di Cristo; e andava furioso di strage, assetato di sangue. Così, mentre andava, mentre era assetato di sangue cercando quanti poteva catturare e uccidere, proprio così, da persecutore qual era, udì una voce dal cielo. Fratelli miei, che aveva meritato di buono, che non aveva meritato di male? E tuttavia, da una sola voce dal cielo venne atterrato il persecutore e si rialzò il predicatore.

Paolo non viene offeso quando si loda la grazia di Cristo. Si legge 2 Tim 4, 9 ss. I meriti di Paolo: i doni di Dio.

5. Dopo Saulo, eccoti Paolo: ecco, ormai predica, ormai ci fa sapere chi sia stato e chi sia. Io – dice – sono il più piccolo degli Apostoli 18. Se il più piccolo, giustamente Paolo. Rammentate il vocabolo latino: ‘poco’ vuol dire ‘modico’. Certo usiamo dire così: ‘Ti vedrò fra poco’. Di conseguenza, quel Paolo si riconosce il più piccolo, quasi la frangia nella veste del Signore, che toccò la donna inferma. Quella che soffriva perdita di sangue era certamente figura della Chiesa delle Genti, alle quali venne inviato Paolo, e il più piccolo e l’ultimo: infatti la frangia è la minima parte della veste e l’ultima. Paolo riconobbe di essere l’uno e l’altro: si disse il più piccolo e l’ultimo. Egli disse: Io sono il più piccolo degli Apostoli, e disse: Io sono l’ultimo degli Apostoli 19. Non è un’offesa la nostra, egli l’ha detto. E che altro ha detto? Lasciamo che sia lui a parlare perché non sembri che intendiamo recare ingiuria; sebbene non vi sia in alcun modo offesa di Paolo dove si fa valere la grazia di Cristo, tuttavia, fratelli, ascoltiamo lui. Io sono – egli dice – il più piccolo degli Apostoli, io sono chi non è degno di essere chiamato apostolo. Ecco chi era: Io sono chi non è degno di essere chiamato apostolo. Perché? Perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. E com’è che sei apostolo? Ma per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia in me non fu vana, ma ho faticato più di tutti loro 20. Ti prego, san Paolo, uomini non intelligenti ritengono che sia ancora Saulo a parlare: Ho faticato più di tutti loro, dà l’impressione che sia detto con superbia. Eppure è stato proprio detto; ma che viene dopo? Ma quando si accorse di aver detto qualcosa che lo potesse elevare in superiorità – disse infatti: Ho faticato più di tutti loro – ecco subito: Non io, però, ma la grazia di Dio con me 21. L’umiltà si riconobbe, la debolezza trepidò, la perfetta carità confessò il dono di Dio. Quindi adesso parla, come pieno di grazia, come vaso di elezione, come diventato quel che non eri degno; parla, scrivi a Timoteo e annunzia questo giorno. Quanto a me – dice – presto sarò immolato 22. Ora è stato letto dalla Lettera di Paolo, in questo luogo è stato letto quanto sto dicendo adesso: Quanto a me – dice -presto sarò immolato. È prossima la mia immolazione. In effetti, il martirio dei santi è un sacrificio a Dio. Quanto a me presto sarò immolato. È imminente l’ora della mia liberazione. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede; ora mi resta la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi renderà in quel giorno 23. Retribuirà i meriti colui che dona i meriti. È stato eletto apostolo chi non era degno e non sarà coronato chi è degno? Allora infatti non era degno, quando ricevette la grazia non dovuta, ma gratuita: Non sono degno, disse, di essere chiamato apostolo, ma per grazia di Dio sono quello che sono. Ora, invece, esige il dovuto: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede; ora mi resta la corona di giustizia, mi è dovuta la corona di giustizia. Che mi renderà, perché tu comprenda che è dovuta. Non disse ‘mi dà’, oppure, ‘mi dona’, ma: Mi renderà il Signore, il giusto giudice, in quel giorno. Perché misericordioso mi ha donato, perché giusto mi renderà. Ho davanti agli occhi, beato Paolo, a quali tuoi meriti è dovuta la corona; ma, guardando indietro, riconosco quel che sei stato; proprio i tuoi meriti sono doni di Dio. Hai detto: ho combattuto la buona battaglia, ma tu pure hai detto: Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo 24. Di conseguenza, hai combattuto la buona battaglia, ma hai riportato vittoria per dono di Cristo. Hai detto: Ho terminato la corsa, ma hai pure detto: Non dipende dalla volontà né dagli sforzi di chi corre, ma da Dio che usa misericordia 25. Hai detto: Ho conservato la fede, ma tu pure hai detto: Ho ottenuto misericordia per meritare fiducia 26. Notiamo allora che sono doni di Dio i tuoi meriti e perciò ci rallegriamo della tua corona. E se sono stato da meno nel fare l’elogio dei beati Apostoli, dei quali celebriamo la solennità, non sono venuto meno, tuttavia, all’attesa della vostra Carità secondo quanto si è degnato concedermi colui che li ha coronati.

Giovani e gioia, secondo s. Paolo (presentazione mia, estrapolato dal testo: « Ecco la password per accedere al sito segreto della felicità: grazia. Secondo Paolo »)

dal sito:

http://www.diocesi.rimini.it/vescovo/giovani-e-gioia-secondo-s-paolo/

Giovani e gioia, secondo s. Paolo

(presentazione mia, estrapolato dal testo: « Ecco la password per accedere al sito segreto della felicità: grazia. Secondo Paolo »)

Diocesi di Rimini  – Basilica Cattedrale, Intervento conclusivo al termine dell’anno paolino, 28 giugno 2009 – Arcivescovo Francesco Lambiasi

Al termine di questo anno paolino, mentre rinnoviamo vivissima gratitudine al S. Padre per la preziosa opportunità offertaci, mi è caro formulare qualche breve pensiero sul tema: “giovani e gioia, secondo s. Paolo”. Vorrei dedicare questa breve riflessione in particolare ai nostri giovani, che in questi giorni stanno sostenendo gli esami di maturità.
Parto da una constatazione amara: quanto è triste vedere dei giovani… tristi. La rabbia, la depressione, la non-voglia di vivere sono sempre cose brutte, ma quando le leggo sul volto pulito di tanti bravi ragazzi, ancora di più mi stringono il cuore. Tante volte debbo soffocare un grido in gola: “Mondo cinico e perfido, che uccidi così la gioia di vivere di questi giovani! Li adeschi con promesse effimere e miraggi luccicanti, e poi li lasci sprofondare nella frustrazione più buia e desolante”. Certo, in questo contesto non possiamo non condividere il dolore più volte espresso dal S. Padre per gli scandali gravemente diseducativi, causati da alcuni ministri della Chiesa. E che dire quando si legge di responsabili della cosa pubblica, che pure rivendicano il marchio di “cattolici doc”, addirittura vantare comportamenti, che non corrispondono certo all’ideale e allo stile richiamato qualche giorno fa da un nutrito gruppo di parlamentari cattolici, appartenenti a diversi schieramenti: “Il Paese ci chiede di dare un esempio morale credibile, vivendo in prima persona i valori in cui crediamo”.
In un libro recente sui giovani e sul loro male di vivere, viene presentata una diagnosi impietosa: l’origine del malessere giovanile non sarebbe psicologica, ma culturale. “Perciò inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia nella versione religiosa perché Dio è davvero morto, sia nella versione illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini”. Qual è allora la terapia proposta dall’autore? Sarebbe il ritorno al paganesimo e alla sua arte di vivere, che consiste “nel riconoscere le proprie capacità e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura”.
Questa “ricetta” fa pensare: non è forse una proposta narcisista di autosalvezza, come veniva presentata dall’epicureismo? e non è stato proprio il paganesimo a mostrarsi generalmente scettico sulla verità del messaggio di Epicuro? E’ quanto risulta dal diffuso sentire popolare, quale è testimoniato, per esempio, dall’epitaffio di un sarcofago romano di età imperiale, in cui è lo stesso defunto che parla e dice: “Finalmente sono evaso (dal carcere della vita) e me ne sono fuggito. Speranza e fortuna, vi saluto. Non ho più nulla da fare con voi. Prendete in giro qualche altro”.
Ma cosa avrebbe da dire al riguardo Saulo di Tarso, lui che aveva di fronte un mondo, quello greco-romano, impregnato di epicureismo fino al midollo? In quella sorta di “quinto vangelo” qual è la Lettera ai Romani, il verdetto stilato dall’apostolo si presenta documentato e inoppugnabile: sia il mondo pagano come quello giudaico appaiono come mondi malati e tristi, ambedue segnati da “tribolazione e angoscia” (Rm 2,9).
In positivo, il vocabolario della felicità e della gioia è largamente presente in s. Paolo. Nel Dizionario di Paolo e delle sue Lettere, edito dalla San Paolo, si documenta come “su 326 casi in cui ricorre la terminologia della gioia, 131 si trovano in Paolo, ossia il quaranta per cento”.
Senza forzature san Paolo può essere considerato il teologo della gioia, così come è indubbiamente il teologo della grazia. Ecco la password per accedere al sito segreto della felicità: grazia. Secondo Paolo, il cristiano è una persona che è “in Cristo”. Essere cristiani significa essere personalmente uniti al Cristo risorto; significa pensare con la sua mente, amare e pregare con il suo cuore, lavorare con le sue mani e camminare con i suoi piedi. E questo “non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia” (Rm 9,16: è la terza citazione biblica che ricorre nelle primissime righe della Storia di un’anima, di s. Teresa di Lisieux!).
Ecco la grazia: è l’essere amati personalmente, gratuitamente, irrevocabilmente da Dio Padre che ci ha donato tutto il suo amore, fino alla follia della croce, e risuscitando il Figlio ci ha fatto dono del suo Spirito.
“Tutto è grazia”, scriveva il curato di campagna, di G. Bernanos, ma in queste tre parolette c’è tutto s. Paolo e il suo “vangelo della felicità”. Se il Padre è “per noi, chi sarà contro di noi?”. Se “ha dato il Figlio per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” E “se lo Spirito di Cristo abita in noi”, allora “le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura”.
Queste citazioni si ritrovano pari pari nel capitolo 8 della Lettera ai Romani. Ad esse si potrebbe agganciare una litania interminabile di espressioni e testimonianze dei campioni della grazia (e perciò) della gioia, come i santi. Mi limito al nostro Alberto Marvelli: “La giovinezza e la gioia sono compagne inseparabili, e Cristo è l’autore e il donatore di tutt’e due”. San Paolo avrebbe sottoscritto ad occhi chiusi.

Che l’Apostolo delle genti continui a pungolarci con la spina del suo vangelo.

mercoledì, 12 novembre 2008 – e nel ’900 San Paolo si fa poesia

quante cose ancora non conosco! dal sito:

http://graciete.splinder.com/post/19028967/e-nel-900-san-paolo-si-fa-poesia

mercoledì, 12 novembre 2008 – e nel ’900 San Paolo si fa poesia

Convegno a Milano 12 – 13 novembre 2008

Il punto sugli influssi dell’Apostolo delle genti sulla letteratura italiana: accanto ai legami già noti con Dante, Leopardi o Manzoni, altre e insospettate relazioni lo legano anche ai poeti contemporanei.

In un modo in cui solo la poe­sia può comunicare, oltre un silenzio di secoli, san Paolo parla ancora ai poeti di oggi. Un tema affascinante che, nell’anno dedicato a san Paolo, un nutrito gruppo di studiosi affronterà oggi e domani, presso la sacrestia del Bramante in Santa Maria delle Grazie, col convegno « Paolo di Tar­so. Architetto della speranza tra letteratura e teologia », organizza­to dalla Società San Paolo, in col­laborazione con il centro cultura­le Alle Grazie di Milano, per capi­re come la meditazione dell’Apo­stolo delle genti possa aver lascia­to un segno in autori importanti, dal Medioevo ai giorni nostri. Un’i­dea di Francesca D’Alessandro del­l’Università Cattolica di Milano, che è riuscita a realizzarla entro l’anno paolino con l’aiuto di un al­tro docente della Cattolica, Clau­dio Scarpati, e di Giuseppe Trapa­ni, giovane studioso di teologia che lavora alla redazione del periodi­co Jesus.
Il tema è, naturalmente, vastissimo: si va dal percorso di Dante e di Caterina da Siena sul­le orme di Paolo e della sua misti­ca (seguiti da Bortolo Martinelli e Maria Grazia Bianco), alla tensio­ne verso l’indicibile che Giacomo Leopardi affida alla parola poeti­ca (che illustra Elena Landoni), fi­no alla scoperta del lato teologico di Alessandro Manzoni (che è la sfida di Giuseppe Langella). E si arriva ai poeti del Novecento, tra cui alcuni possono essere ‘per affinità naturale’ vicini a Paolo, perché nel loro percorso letterario hanno sempre dato grande spazio alla spiritualità.
È il caso di Mario Luzi, di cui parlerà padre Gianni Festa, docente della facoltà Teolo­gica dell’Emilia Romagna, usando l’epistolario dell’apostolo come u­na sorta di chiave per entrare nel percorso poetico di Luzi da una porta inconsueta. Ricordando che il poeta ha sempre avuto come ‘in­terlocutore privilegiato’ il ‘con­vertito damasceno’, al punto da dedicargli due saggi, Glossolalia e profezia e Sul discorso paolino (che andrebbero riletti con attenzione), Gianni Festa propone di dividere l’opera di Luzi in tre grandi ‘ mo­vimenti’ corrispondenti ai tre te­mi centrali delle Epistole paoline: ‘carità’, ‘verbo’, e ‘ Resurrezio­ne’. Così, se dalla prima raccolta poetica del 1935, La barca, fino a un libro di svolta come Nel mag­ma, Luzi « esprime il cuore del messaggio evangelico» che aveva visto incarnato nella figura esem­plare della madre, a partire pro­prio da Nel magma abbandona le certezze della giovinezza per en­trare nel mondo, e quindi « interrogarsi sul significato della poesia e sul ruolo della parola nella vita dell’uomo». Il tentativo di rispon­dere a questa domanda immer­gendosi nella realtà, come verbum nel mondo, è alla base di libri co­me Su fondamenti invisibili e Al fuoco della controversia, e corri­sponde alla ‘ fase purgatoriale’ della poesia di Luzi. Superata infi­ne da un terzo tempo che Festa de­finisce ‘ paradisiaco’: è la poesia della speranza, della luce, che trionfa in Dottrina dell’estremo principiante del 2004 in cui Luzi appare «immerso paolinamente nell’onda viva della creazione».
Chi invece nell’ultima parte della sua vita non è riuscito a raggiun­gere una tale pienezza paradisia­ca è Carlo Betocchi, di cui ha stu­diato la ‘prospettiva della salvez­za’ Maria Chiara Tarsi, dell’Uni­versità Cattolica di Milano, so­prattutto nell’ultima produzione, a partire dalle Ultimissime (1968­1973), scoprendole come «la sof­ferta espressione di una crisi reli­giosa destinata a rimanere dram­maticamente irrisolta». Proprio il poeta che aveva fondato la rivista cattolica Il Frontespizio, negli ulti­mi anni aveva visto diventare pro­blematica, tormentata, la propria fede. Tarsi cita alcune poesie, co­me Ma si è già nel Vangelo quando e Ne’ miei panni, tratte da Poesie del sabato (1980), in cui alcuni ver­si molto intensi ben testimoniano questo tormento: «Il Vangelo ci in­segue / come il veltro la preda a­gognata » e «Tant’è. La mia fede, che non è fede, / è condita di quel coraggio di roccia / che ne fa mas­so, veemente d’esistere» . Ma da questa sofferenza nata dal senso di smarrimento in un mondo cie­co, e dal fortissimo bisogno di non perdere la propria fede, nasce a sua volta «un sentimento di carità che coinvolge tutti gli esseri», e che può apparire come un’affinità, anche se non direttamen­te affermata, con la caritas che domina il discorso paolino.
Più sorprendente ancora il dialogo con san Paolo in un altro poeta ‘di pen­siero’, di solito me­no letto da un pun­to di vista spiritua­le,   Vittorio Sereni.
Affronta questo tema Francesca D’Alessandro, proponendo una ‘lettura in chiave paolina’ di al­cuni versi di Sereni in cui «emer­gono linee tematiche riconducibi­li ai motivi e agli archetipi della spi­ritualità di matrice paolina». An­che in Sereni, come già per Festa in Luzi, si individua il «dipanarsi del filo della speranza» : è una ‘di­sposizione spirituale’ simile a quella descritta da Paolo con l’im­magine del «gemere interiormen­te aspettando». Un’attesa di un’al­tra vita, oltre quella del corpo fisi­co, «intesa come trasformazione dalla deperibilità della materia terre­stre, all’incorrutti­bilità del movi­mento e della lu­ce», che san Paolo esprime nella Pri­ma lettera ai Corin­zi e che D’Alessan­dro rileva soprat­tutto ne Gli strumenti umani e in Stella variabile. Pur senza alcun ‘abito dottrinale’, per D’Alessan­dro Sereni appare alla ricerca di u­na «ragione ultima dell’umano sperare», di quella verità «che pos­sa dare senso al viaggio di ogni uo­mo sulla terra» . È una speranza plasmata dalla fede, e viene e­spressa dalle immagini più tipiche di Sereni, come nelle poesie La speranza appunto, e La spiaggia, che chiude Gli strumenti umani:
«I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce o cene­re / pronte a farsi movimento e lu­ce». Versi sorprendentemente vi­cini alla prospettiva paolina «di non venire spogliati dal peso del corpo, ma sopravvestiti e assorbi­ti dalla vita».
I primi autori che seguirono le orme della sua mistica furono l’Alighieri e santa Caterina da Siena.

di Bianca Garavelli, tratto da [Avvenire] 12 novembre 2008

La misericordia di Dio sperimentata e proclamata da san Paolo

dal sito:

http://www.collevalenza.it/Riviste/2007/Riv1007/Riv1007_05.htm

La misericordia di Dio sperimentata e proclamata da san Paolo

- »Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione,
il quale ci consola in ogni nostra tribolazione » (2Cor 1,3-4)-

3.1.5 – 1° Lettera a Timoteo 1,12-13
In 1Tim 1,12-13, Paolo ci fa interpretare moralmente la sua conversione:
« Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna » (1Tim 1,12-16)
Paolo ricorda a se stesso e a Timoteo la sua conversione, nella quale sovrabbondò veramente la grazia di Dio che, in un istante fece di un persecutore e bestemmiatore un Apostolo. Per questo Paolo sente il bisogno di ringraziare il Signore Gesù che gli apparve sulla via di Damasco: pur avendo delle attenuanti, quali l’ignoranza e la mancanza di fede, si riconosce come peccatore, anzi il primo dei peccatori, oggetto in quanto tale della misericordia di Dio.
Paolo presenta l’apostolato come un servizio o ministero talmente importante che non si può realizzare senza una speciale forza che venga da Dio: perciò egli ringrazia Cristo non solo di averlo scelto per il ministero, ma di averlo anche fortificato.
All’origine della sua conversione sta una sovrabbondanza di grazia e di amore da parte di Dio che lo rinnovò interiormente, facendo fiorire nel suo cuore il prodigio della nuova fede e della nuova carità, che non solo terminano nel Cristo, ma da lui hanno principio e alimentazione: « dove aveva abbondato il peccato, sovrabbondò la grazia » (Rm 5,20).
Paolo inserisce la sua conversione nel quadro più generico della condotta di Dio verso i peccatori che Cristo è venuto a salvare. Essendo l’Apostolo il primo e più grande dei peccatori, può ben servire da esempio per tutti gli altri ad avere fiducia nella misericordia e longanimità di Cristo per ottenere la vita eterna.
Paolo sperimenta la misericordia di Dio e la augura a tutte le comunità da lui fondate e a tutti i suoi figli: « grazia, misericordia e pace » (1Tim 1,2). Si tratta dell’amore gratuito e salvante di Dio rivelatosi e comunicato in Cristo che dà un contenuto nuovo al kaire (sta bene, sii felice), greco-pagano. L’amore che accoglie e perdona, cioè la misericordia, è di sapore biblico. La pace rimanda ancora a quella tradizione biblica che attende per il tempo finale il shalom messianico, cioè la felicità piena e duratura. Dio « nostro salvatore » si fa incontro ai credenti cristiani nei doni salvifici che la fede in Gesù fa pregustare come pegno e anticipo della speranza19.

3.1.6 – 2° Lettera ai Corinti 12, 1-10
Paolo scrivendo alla comunità di Corinto a proposito della sua chiamata permette di penetrare profondamente nella sua anima, ricordando ai Corinti, in questa lettera, « dalle molte lacrime » (2,4), la grazia straordinaria che « un uomo »20 ha ricevuto quattordici anni prima.
« Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo21.
Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto. « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza ». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio delle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole e allora che sono forte » (2 Cor 12, 1-2.7-10).
Nel prosequio del racconto Paolo sottolinea come Dio abbia provveduto al rimedio ed all’antidoto al pericolo di cadere in superbia, che questa esperienza di rivelazione poteva causare: « Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia » (v.9) .
Paolo si immerge allora, immediatamente, nella preghiera, che, anche se appare semplicemente come richiesta di allontanamento della spina nella carne, mi piace considerarla come esperienza di incontro con il Signore per discernere le proprie mozioni interiori. Emerge gradualmente, così, nel profondo del suo essere attraverso questa preghiera, l’intuizione e l’ispirazione da parte del suo Dio, che lo porta a sperimentare ciò che evidenzia e rivela, in modo evidente, con la frase: « A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse da me ed egli mi ha detto. « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza » (2 Cor 12, 8-9).
Questa «asqene¢ia» fa certo e sicuro Paolo solo della fiducia del suo Signore, ed in questo slancio d’amore formula tutto il programma del suo apostolato. Così può guardare alle sue «debolezze» in relazione esistenziale con la forza di Dio e giungere ad una certezza operativa: « Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo…: quando sono debole è allora che sono forte » (2 Cor 12, 9b-10b) .

In Galati 6, 14 Paolo dice:
« non c’è altro vanto per me che nella croce del Signore Gesù Cristo per mezzo della quale io sono stato crocifisso al mondo e il mondo è stato crocifisso a me ».
Paolo si chiede: volete che io mi vanti? Io mi vanto della croce di Gesù che vive in me, che è croce di morte e di risurrezione, e nessuno mi dia più fastidio perché io porto le stigmate, i segni di questa presenza crocifissa e risorta di Gesù che vive in me (cfr. Gal 6,17). Anzi, io porto a compimento, a favore della Chiesa, i patimenti di Cristo, a favore di questa Chiesa, della mia Chiesa! (cfr. Col 1,24).
Questa è la mistica apostolica di Paolo. Paolo non è un visionario, quella di Paolo non è la mistica delle grazie infuse destinate a pochi. La mistica di Paolo è la mistica di un uomo contemplativo nell’azione. Paolo parla della sua esperienza mistica, di lui, di questo uomo si vanterà, di se stesso invece non si vanta, se non nelle sue debolezze. Lui si vanterà della grazia di Dio che lo ha trasfigurato e lo ha fatto tempio della sua gloria. Non può vantarsi se non nella sua infermità, perché nella su infermità, nella sua incapacità di arrivare lì dove è chiamato ad essere, la grazia di Dio sovrabbonda e lo trasfigura.
C’è l’invito forte a guardare i luoghi delle « proprie prigioni ». Contemplare « la spina nella carne », che è l’invito a morire a se stesso, accettando la propria debolezza e quella degli altri: « perché si estenda su di me la potenza di Cristo ». La propria « debolezza kenotica » permette alla potenza di Cristo di fare i miracoli dell’amore, e di un apostolato e di un annuncio di vita fecondo, trasfigurante e provocante.
È una spirale progressiva. Paolo invita, come ha fatto lui, a penetrare nella gradualità della debolezza della propria crescita umana e spirituale in ogni qui ed ora, che si attua nel trovare il « dettaglio specifico » della volontà del Padre per me, non generico, ma legato direttamente e proporzionalmente alla propria debolezza, alla propria infermità e alla forza del Cristo, che così – e solo così -, cresce fino alla piena maturità, che è la maturità del Cristo che vive in me, ed allora si diventa il buon profumo di Cristo per gli altri e per il mondo (cfr. 2 Cor 2,16).
Tre volte Paolo chiede al Signore di togliergli il pungolo nella carne. Qui Paolo è perfettamente in comunione con la preghiera di Gesù nel Getsemani. Gesù per tre volte chiede come Paolo che il Padre gli tolga quel pungolo nella carne che è la volontà del Padre, quel calice da bere. Questa volta Paolo non è accontentato come in At 16,26. Paolo è conformato totalmente alla richiesta di Gesù. È chiamato a sudare sangue per essere trovato nel Figlio dal Padre ed essere oggetto del compiacimento del Padre (cfr. Lc 22,39-46): « Ti basta la mia grazia ». Ecco la risposta del Padre nel Cristo che vive in lui.
L’evento di Damasco ha segnato per Paolo una svolta reale, ma non lo ha cambiato immediatamente, anzi ha proteso verso « una direzione opposta tutto il suo intatto temperamento fatto di intelligenza, generosità, ardore e tenerezza » (cfr. 1 Cor 4, 19-21; Fil 3, 2;1 Ts 2, 7-9 ; Gal 4,18-19). Paolo, nel suo cammino di formazione al discernimento della volontà di Dio, « di ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rom 12,2b), prende coscienza, per prima cosa, che la sua esperienza umana e cristiana deve essere permanentemente in stato di conversione, in quanto stato di perenne chiamata di Dio a trascendersi ed a trasformarsi in quel livello di perfezione, che è tipico ed originale per ciascuna persona per giungere alla « piena maturità di Cristo » ( Ef 4,13) nello stato di « uomo nuovo, creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera » (Ef 4, 24). Per questo non cessa di « ringraziare con gioia il Padre, che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce; è lui, infatti, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto » (Col 1, 12-13).
È ben evidente da tutti i racconti dell’incontro con Cristo sulla via di Damasco come la conversione sia legata indissolubilmente alla libera iniziativa di Dio, non un Dio garante del patrimonio asettico e normativo della Torah, Dio geloso e vendicatore, ma in una presenza continua di un Gesù, che dall’inizio della storia con Paolo, si presenta per quello che è: « Io sono Gesù, che tu perseguiti » ( At 26, 15b).
La chiamata è soprattutto per Paolo, allora, conversione ( = «meta¢noia» ) verso il « nou~V » di Cristo, per discernere e scegliere « e¢n Cristw~ » i sentieri e gli orizzonti di questa sequela personale ed istaurare un rapporto di amicizia, che si fonda e si radica nella risposta e costituisce la stessa logica della sequela cristica paolina al cui servizio è posta ogni esperienza di discernimento: « Non sono più io che vivo ma lui vive in me… Chi mi separerà dall’amore di Cristo… » (cfr. Gal 2, 20a; Rom 8,35 a).
Paolo, almeno secondo il racconto lucano degli Atti, è oggetto-soggetto, non solo di una « Cristofania », ma anche di una « Staurofania » (stauros=croce): Gesù gli si presenta come colui che ha nella sua Croce il suo punto di vista decisivo. Essere trovato in Lui (cfr. Fil 3,9), vivere di Lui e per Lui (cfr. Rom 14,8) significa, da subito, per Paolo penetrare nel mistero-realtà dell’essere con-crocifisso con Lui, con-sepolto con Lui, con-risuscitato con Lui (cfr. Rom 6, 3-8).

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19 Cfr. R. FABRIS, Le lettere di Paolo, Borla, Roma 1980, III, 345-346.
20 La menzione di se stesso in terza persona a proposito di questa rivelazione, può essere un indizio di umiltà ma anche un’eco dello straniamento che l’estasi gli aveva fatto sentire nei confronti della vita presente. Cfr. AA.VV., Le lettere di San Paolo, Paoline, Roma 1978, 221-222.
21 Le speculazioni rabbiniche conoscevano due, tre e perfino sette cieli: San Paolo adotta qui la cosmografia dei tre cieli: il primo, dell’atmosfera; il secondo, degli astri; il terzo, del cielo, dimora di Dio e dei beati, quindi paradiso.

L’Apostolo Paolo: Una stella polare per la vita cristiana (Gianfranco Ravasi, 2006)

dal sito:

http://www.scuolamissionaria.it/Scout/Documenti%20vari/San%20Paolo_Le%20lettere_G.%20Ravasi.doc

L’APOSTOLO PAOLO

Le lettere

Una stella polare per la vita cristiana

Pur nella complessità dell’impianto generale del pensiero dell’Apostolo e della sua tradizione, pur nell’occasionalità pastorale di molte sue riflessioni, pur nella diversità dei tempi e persino degli autori, l’epistolario paolino costituisce uno straordinario progetto in cui teologia e morale, pensiero e azione, cristologia ed ecclesiologia, teologia e pastorale si richiamano e si fondono, dilatandosi verso nuove prospettive e costituendo una stella polare per la storia e per la vita della cristianità.

Articolo di Gianfranco Ravasi in Vita pastorale n. 1/2006
Rappresentano una grossa parte del Nuovo Testamento. È ormai pacifica tra gli studiosi la distinzione tra quelle che risalgono all’Apostolo e quelle attribuite alla sua cerchia più diretta di
discepoli, in ogni caso ritenute da sempre « canoniche » dalla Chiesa. L’epistolario è un grande progetto, di cui vediamo per sommi capi il contenuto

Se stiamo al computo dei versetti, il corpus delle 13 lettere che recano il nome di Paolo ne comprende 2.003 su un totale di 5.621 dell’intero Nuovo Testamento. Siamo, quindi, in presenza di un materiale testuale rilevante, al cui interno però emergono chiare variazioni di vocabolario, di stile, di temi. Su queste variazioni, a partire dal Settecento, gli studiosi hanno puntato il microscopio dell’analisi storico-critica e letteraria.

La « tradizione paolina »

Progressivamente si è approdati a una conclusione – ora dominante tra gli esegeti – secondo la quale sei lettere attribuite dalla titolatura a Paolo sarebbero in realtà « pseudoepigrafe » o « deuteropaoline », poste cioè sotto il nome e l’autorità dell’Apostolo ma in verità provenienti da discepoli e da quella che è stata chiamata « la tradizione paolina » (Ef, Col, 2Ts, 1 e 2Tim, Tt). Questa conclusione merita, però, due osservazioni di indole generale.
La prima è di taglio storico-letterario. Le argomentazioni critiche sono, certo, notevoli: ad esempio, in una delle più importanti di queste lettere deuteropaoline, quella ai Colossesi, si hanno 34 vocaboli del tutto inediti per l’intero Nuovo Testamento, 28 estranei all’epistolario strettamente paolino; si ignorano i temi fondamentali cari all’Apostolo quali la giustificazione, la fede, la legge; la costruzione delle frasi è pesante, prolissa e ripetitiva; si rivela l’uso della retorica classica e sono assenti gli appelli diretti, tipici di Paolo; Cristo è presentato secondo un inatteso profilo di Signore cosmico, « capo dei Principati e delle Potestà » (2,10), « dei Troni e delle Dominazioni » celesti (1,16), come colui nel quale « tutto sussiste » (1,17) e tutto è riconciliato e redento (1,20); di scena non è più la Chiesa locale, ma quella universale di cui Cristo è « capo », variando così l’immagine paolina classica della Chiesa come « corpo di Cristo » (1Cor 12).
Potremmo andare avanti a lungo nell’appuntare le variazioni tematiche di questo scritto, a partire da una concezione del credere non più visto come atto di adesione personale radicale, ma come la « conoscenza » di un contenuto di verità (fides quae più che fides qua, per usare il linguaggio teologico successivo). E così via con molte altre sorprese di solito segnalate nei commentari alla lettera. Detto questo, bisogna però anche riconoscere che simili considerazioni, pur notevolissime e imprescindibili, riguardanti la lettera ai Colossesi e le altre deuteropaoline, non sono mai totalmente apodittiche, perché di per sé non si possono escludere evoluzioni stilistiche e tematiche all’interno di un pensatore così creativo e originale com’è Paolo.
C’è, poi, un’altra importante osservazione da fare, di taglio più teologico: le lettere deuteropaoline rimangono comunque « canoniche » e, riconoscendole come appartenenti all’orizzonte dei discepoli paolini, non se ne inficia l’ispirazione divina. Come faceva notare la Dei Verbum (7 e 8), che alcuni testi neotestamentari provengano da autori « della cerchia » degli apostoli è un fatto che non contrasta la loro « canonicità » perché anche questi scritti sono « apostolici », nel senso che testimoniano – sia pure mediatamente – la predicazione apostolica (si pensi al caso di Marco e Luca).
Come si legge in un commento a un’altra importante lettera ritenuta « pseudoepigrafa », quella agli Efesini (a cura di Stefano Romanello, Paoline 2003), « che Paolo non sia l’autore della lettera nulla toglie al valore con cui la comunità credente l’accoglie. Nella lettera siamo comunque a contatto con una predicazione apostolica, ossia con una testimonianza della fede della Chiesa delle origini, che non rimane attaccata in modo fisso alla figura dell’Apostolo fondatore, ma ne elabora la parola come un tesoro vivo, che diviene significativo per le nuove situazioni in cui la comunità si trova a vivere ».

Un piano di lettura integrale

A questo punto vorremmo proporre in modo estremamente essenziale un itinerario nelle due aree del corpus paolino, partendo da quella direttamente assegnata all’Apostolo. Si potrebbe, così, configurare anche un piano di lettura integrale di questi scritti, capitali per la fede e la storia del cristianesimo, seguendone la probabile articolazione cronologica e quindi l’eventuale evoluzione del pensiero.
 Siamo attorno all’anno 51. Da Corinto Paolo invia ai cristiani di Tessalonica una prima lettera che è segnata dal registro autobiografico dei ricordi, da quello pastorale riguardante le tensioni che attanagliano la comunità e dal filo teologico che in questo caso s’annoda attorno al tema escatologico della parousía di Cristo alla fine dei tempi, suggello della storia ma anche luce per illuminare il presente senza cadere in eccitazioni apocalittiche.
 A Corinto Paolo aveva soggiornato almeno un anno e mezzo. Da Efeso, a metà degli anni 50 indirizza la prima delle sue due lettere ai Corinzi. Essa è una clamorosa smentita di chi considera l’Apostolo come un freddo teorico, « il Lenin del cristianesimo », per dirla con Gramsci. Le pagine dello scritto, infatti, toccano tutti i temi di una Chiesa immersa in un contesto secolare col quale è invitata a confrontarsi, dal quale riceve spesso influssi negativi ma nel quale deve testimoniare con coraggio la sua fede nel Cristo risorto e l’amore fraterno che la unisce.
I rapporti tra i cristiani di Corinto e Paolo non furono idilliaci. La seconda lettera a essi indirizzata ne è una vigorosa attestazione. La sua stessa redazione rivela salti tematici e di tonalità, riflettendo le tensioni interne ma anche il difficile rapporto con l’Apostolo. Tuttavia in quelle pagine si configura pure un progetto caritativo e intraecclesiale (quello della colletta per la Chiesa di Gerusalemme) molto suggestivo.
Con la lettera ai Galati entriamo nel cuore del « Vangelo » di Paolo, anche se spesso lo scritto è stato considerato una « prova d’autore », rispetto al capolavoro successivo della lettera ai Romani. Al centro si ha, infatti, la tesi squisitamente paolina della giustificazione per la fede nella grazia divina: si legga 2,16, ove per tre volte viene ribadito che « l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo ». E pronta, così, la base per l’architettura centrale della lettera ai cristiani di Roma.
Ma prima di essa si innesta probabilmente lo scritto rivolto agli amatissimi cristiani filippesi nel quale, come scriveva un esegeta (J. Murphy O’ Connor) « si sente battere il cuore di Paolo ». Composta nel carcere (forse durante un periodo di detenzione a Efeso), la lettera conserva uno splendido inno (2,6-11) che sintetizza in modo mirabile l’incarnazione e la Pasqua di Cristo secondo uno schema di « esaltazione » che sarà poi caro anche a Giovanni.
Eccoci, così, a quell’opera che un commentatore, Paul Althaus, introduceva con questa dichiarazione: « Le grandi ore della storia della Chiesa sono state le grandi ore della Lettera ai Romani », anche nei tempi del confronto aspro, come accadde con la Riforma protestante. Ritmata su un duplice movimento teologico-dottrinale (capp. 1-11) ed etico-pastorale (capp. 12-16), frequente negli scritti paolini, la lettera ha nel suo cuore una grandiosa riflessione modulata sulla giustizia per la fede (capp. 1-5) e sulla vita secondo la Spirito (capp. 6-8), sulla base del motto di Abacuc 2,4 reinterpretato da Paolo: « Il giusto divenuto tale per la fede, vivrà » (1,17 ).
o La serie delle lettere protopaoline si conclude col commovente biglietto indirizzato a Filemone per la vicenda dello schiavo Onesimo e con un sorprendente finale di speranza che illumina la prigionia dell’Apostolo: « Preparami un alloggio perché spero – grazie alle vostre preghiere – di esservi felicemente restituito! » (v. 22).

Gli scritti deutero-paolini

Siamo così di fronte all’altra area storico-teologica dell’epistolario, quella delle lettere deuteropaoline.
1 Impressiona la seconda lettera ai Tessalonicesi, striata dei colori dell’apocalittica e non priva di passi difficili da interpretare, sempre però attenta a coniugare storia ed escatologia.
Subentra la lettera ai Colossesi di cui abbiamo parlato e che è un punto di riferimento anche per il testo destinato agli Efesini (e forse anche alle altre Chiese dell’Asia Minore), lettere entrambe contrassegnate da una solenne apertura innica. Cristo, la Chiesa e il cristiano sono i tre protagonisti di una riflessione dalle prospettive nuove e originali.
 Il corpus epistolare paolino si chiude con un fascicolo di tre scritti omogenei che dal XVIII secolo vengono chiamati lettere pastorali, a causa del loro tema dominante e dei loro destinatari, i collaboratori di Paolo e pastori di comunità cristiane Timoteo e Tito. In esse la Chiesa si presenta già con la sua struttura ministeriale di episcopi, presbiteri, diaconi, ma anche di vedove, di maestri non sempre ortodossi, e si rivela segnata da una crisi di crescita. Indimenticabile è il testamento posto sotto la penna ideale di Paolo (2Tm 4,6-8).
Esterno al corpus paolino, con una sua radicale autonomia, pur con alcuni rimandi all’orizzonte paolino, rimane la lettera agli Ebrei, un monumento letterario-teologico a sé stante.
Pur nella complessità dell’impianto generale del pensiero dell’Apostolo e della sua tradizione, pur nell’occasionalità pastorale di molte sue riflessioni, pur nella diversità dei tempi e persino degli autori, l’epistolario paolino costituisce uno straordinario progetto in cui teologia e morale, pensiero e azione, cristologia ed ecclesiologia, teologia e pastorale si richiamano e si fondono, dilatandosi verso nuove prospettive e costituendo una stella polare per la storia e per la vita della cristianità.

Gianfranco Ravasi
Bibliografia
AA. W., Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di Penna R., San Paolo 1999, Cinisello Balsamo;
AA. W., Lettere paoline e altre lettere, « Logos » 6, Elledici 1996, Leumann (To); Barbaglio G., Il pensare dell’apostolo Paolo, Dehoniane 2004, Bologna; id., Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella 1989, Assisi; Fabris R., La tradizione paolina, Dehoniane 1995, Bologna; Metzger B.M., Il Canone del Nuovo Testamento, Paideia 1997, Brescia; Sanchez Bosch J., Scritti paolini, « Introduzione allo studio della Bibbia » 7, Paideia 2001, Brescia
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