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Nel confronto tra fede e ragione : Il genio di san Paolo

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Nel confronto tra fede e ragione

Il genio di san Paolo

di Juan Manuel de Prada

(L’Osservatore Romano 13 novembre 2008)

La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l’impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l’orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra:  poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l’eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo – che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito – deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell’Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell’uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti:  basta leggere il suo discorso nell’Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice:  san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l’annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori – fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici – che potevano accettare l’immortalità dell’anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell’Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole:  la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un « fratello carissimo » nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo – ad esempio – aborrire l’aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto:  « Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…) L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (…) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare ».
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l’anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.

LA CHIESA ORTODOSSA SULLE ORME DI SAN PAOLO APOSTOLO

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LA CHIESA ORTODOSSA SULLE ORME DI SAN PAOLO APOSTOLO

(Pensieri di un Metropolita Ortodosso)

(quello che è scritto  ???? è russo credo, nessun blocco notes me lo prende, ma il testo vale, grazie)

1. Introduzione
Ringrazio particolarmente per l’invito fraterno a partecipare a questo Convegno, importante dal punto di vista ecumenico, pastorale e sociale.
Ogni Convegno, di conseguenza anche questo, il nostro, costituisce una riflessione sulla responsabilità per il percorso della testimonianza cristiana e del suo ruolo nel mondo di oggi, angosciato e travagliato, bisognoso di modelli e soluzioni per i propri gravi problemi.
Sono lieto e mi congratulo con il Professore Farrugia e con il Prof. Busattil della Fondazione di Malta, per l’invito che tocca anche la Chiesa dell’Oriente, la Chiesa di Costantinopoli, il Patriarcato Ecumenico, in quanto la mia umile persona, è Metropolita della Chiesa di Costantinopoli.
Il gentile pensiero degli organizzatori di invitare anche la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e Malta del Patriarcato Ecumenico, nella persona del suo Metropolita in questo significativo incontro è per essa un sostegno morale ed un riconoscimento di un prestigio particolare per continuare la sua peculiare missione: testimoniare e trasmettere la sua ricchissima Spiritualità, fare conoscere ai suoi fedeli la sua fede, il suo culto e la sua Tradizione; costruire Ponti di amore e di pace, di rispetto e fratellanza, di unità e di speranza, indispensabile per la sincera collaborazione, per rafforzare il “Dialogo della Carità” che è la base del “Dialogo Teologico”, per pregare ed affrontare la volontà di Dio: “Che tutti siano una cosa sola”; creare, cosi, un popolo di Dio cosciente; preparare la coscienza per la realizzazione dell’unità, in quanto l’unità sarà dono di Dio; ma (anche) si realizzerà quando l’ideale diventerà coscienza del popolo, cioè vita con preghiera quotidiana, con interessamento morale ed ardente desiderio per il cambiamento della mentalità e del cuore, affinchè l’uomo possa comprendere la sua responsabilità di fronte a Dio ed al suo prossimo.

2. San Paolo e la sua predicazione
Entriamo nel nostro importantissimo tema: “La Chiesa Ortodossa sulle orme di san Paolo apostolo”. Per iniziare dobbiamo sottolineare che san Paolo è per eccellenza il maestro e la guida spirituale, morale e sociale dei santi Padri Greci, i quali hanno conservato nella Chiesa Ortodossa inalterata la dottrina degli Apostoli e dei Concili Ecumenici.
Approfondiamo in alcuni rilevanti temi teologici, pastorali e sociali, che san Paolo sottolinea prioritamente, dando risposte che influenzano i Padri dell’Oriente, e di conseguenza la Chiesa Ortodossa Orientale, che segue la dottrina e le orme di san Paolo.
Secondo san Paolo, Dio non è lontano dall’uomo, al contrario lo ha conosciuto lui stesso ed è stato da lui illuminato e liberato dai limiti del giudaismo, quando ha visto ed ha incontrato la luce della salvezza; ha sentito il mistero, ha compresso il divino intervento, perciò, accompagnato dalla vigilanza e disponibilità a predicare Cristo, è riuscito, lontano dalle passioni della pigrizia e dalla superbia, a trasformare, coll’assistenza della grazia di Dio, il mondo già colpito e travagliato da grandi problemi morali, spirituali e sociali, cambiandone il suo percorso.
È verità indiscutibile che il Vangelo di Cristo, predicato da san Paolo, ha percorso e toccato tutto l’impero Romano. La sua, era una predica di amore, di pace e di unità, nonchè di giustizia, di libertà e di uguaglianza. La sua predicazione ha dato conforto, riposo e solievo spirituale ad ogni uomo stanco e disperato, che si è redento dai suoi peccati, provocando così una rivoluzione interiore, pacifica e salvifica.
San Paolo è l’apostolo della spiritualità greca, è il predicatore della fede in Cristo, che si è affaticato grandemente affinché il seme della fede si diffondesse in tutto il mondo, è il convertitore delle nazioni alla fede in Cristo.
Così, la predicazione di san Paolo (????? t?? ?a????) è chiara, pura, precisa, è ????? di salvezza; è lo stesso “?????” di Cristo che è la predicazione della verità, della vita, della pace e dell’unità. La sostanza di tutto ciò conferma con chiarezza san Paolo, quando dice: “ieri ed oggi lo stesso e nei secoli”.
È diacronico, immutabile nei secoli, acquista oggi un particolare significato, di fronte a questi tremendi tempi di crisi spirituale, morale e sociale, la conoscenza di Cristo che è per la Chiesa Ortodossa il punto di partenza di un percorso di redenzione e di una nuova brillante civiltà, ove la sua base, il suo centro ed il fine unico è la fede cristiana. Da qui si comprende l’importanza della predicazione di san Paolo per la salvezza del fedele Ortodosso che è in sostanza “? ?????”, cioè la predicazione di Cristo che con chiarezza mette in evidenza: “noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” .
In quella epoca, in cui si è rivelato “il mistero del Vangelo, taciuto per secoli eterni” , l’umanità era sotto l’Impero Romano ed aveva come lingua comune quella greca. San Paolo nelle sue predicazioni ha proclamato il “????? di Cristo” e sulle sue orme il popolo si è nutrito e trasformato, diventando popolo fedele di Dio, che è l’Alfa e l’Omega, “? ?? ?a? ? ?? ?a? ? ????µe???”.
Solo il Pantocratore può fermare la distruzione e può rendere possibile la salvezza di tutti coloro che parteciperanno ed ascolteranno la Parola del Signore, espressa da San Paolo.
Scrive ai Galati: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in noi” .
L’apostolo Paolo vive la sua relazione con Cristo sostanzialmente e realmente, anzi con parole vivissime e persuasive:
“Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” .
Anche la lettera ai Filippesi proclama questa verità in modo straordinario: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno”; ho “il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo” .
Ma, pure, il messaggio: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” dichiara la sua assoluta interiore identificazione con Cristo che presuppone non la sua superiorità, ma sottolinea la sua indegnità e la sua minimizzazione: “Io infatti sono l’ultimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio”.
La verità incontestabile che lui professa è la grandezza della grazia di Dio, che, malgrado noi fossimo “ancora peccatori e Cristo è morto per noi” , e ci ha fatto diventare “concittadini dei santi e familiari di Dio” , nominandoci altressi “eredi di Dio e coeredi di Cristo” .
Questa spiritualità di san Paolo costituisce per la Chiesa Ortodossa Orientale un modello ed una norma riguardo i grandi e profondi temi, dal punto di vista spirituale, morale e sociale, dei suoi membri per la loro esistenza, per la loro relazione e comunione secondo la sua parola “cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati quella della vostra vocazione” .
La dottrina della Chiesa Ortodossa Orientale è basata sulle Orme di San Paolo che promuove la lotta per rendere i suoi membri uniti nello stesso Spirito ed i quali, “s??a?????ta?” lottando per la fede di Cristo e costituiscono il corpo della Chiesa stessa, così come si canta durante la liturgia della Pentecoste, che lo Spirito Santo “costituisce tutta l’istituzione della Chiesa” quale Suo donatore.

3. La Cristologia di san Paolo e l’Ortodossia
San Paolo non ha scritto un trattato di Cristologia, però nelle sue lettere, che costituiscono i più antichi testi catechetici e pastorali della Chiesa, c’è la dottrina che ha riasuto ed ha consegnato: “Vi rendo noto, fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi; e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo la scrittura … fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno … che apparve a Cefa e quindi ai Dodici … e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Cristo” .
La Cristologia di san Paolo sulla persona di Cristo, e sul Vangelo, è stata consegnata alla Chiesa ed è diventata un vero tesoro. L’Agiorita san Filoteo (dopo Metropolita di Iraklias e Patriarca di Costantinopoli) espone la Cristologia Ortodossa sulla base dei relativi versi di san Paolo . Dunque osserva: “l’enipostatos e l’immutata immagine del Padre e di sapienza, “la predica (?????) viva ed efficace” e il figlio omoousios di Dio … perfetto lui stesso nella divinità e perfetto nell’umanità, doppio per la natura, unico per l’ipostasi. È lo stesso unico Cristo unigenito e omoousios figlio di Dio … e omoousios figlio della santa Vergine…”
I monaci del Monte Athos vivono in modo particolare questa cristologia, perché loro, guardando nelle profondità del mare desideran trovare la preziosa perla, secondo tutto quello che proclama Abba Isacco: si spogliano dai loro vestiti, cioè, dalle loro passioni, dalle loro cattive abitudini e le loro dipendenze mondane e si gettano nel mare, per trovare la perla, Cristo, il loro Salvatore.
È attuale ricordare il detto di san Gregorio il Teologo, che riferisce che i santi Padri interpretano la teologia in modo particolare e specifico, imitando i pescatori e negando ogni teoria aristotelica .
Fede e pietà cristocentrica, ma contemporaneamente Triadocentrica, come scrive l’Archimandrita Kapsanis Georgios .
Sua Eminenza il Metropolita di Montenegro Amfilochio, che ha studiato profondamente san Gregorio Palamas, osserva: “… L’incarnazione del Verbo di Dio ha dimostrato l’esistenza delle persone della Santissima Trinità …”. .
La preghiera dei Padri Agioriti con la supplica “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbia pietà di me il peccatore”, ripetuta da loro quotidianamente, è conforme al messaggio di san Paolo. “pregate continuamente”, parole divine di preghiera con le quali gli Agioriti sono aiutati per avere come centro della loro vita Cristo e che Lui soltanto può abitare per sempre nella loro anima, per avere “cuore –intelletto di Cristo” , come san Paolo.

4. L’Ecumenicità di san Paolo e la Chiesa Ortodossa
La Chiesa Ortodossa promuove in modo straordinario lo spirito di amore, di libertà e di ecumenicità, che “ha lasciato a noi questo divino iniziatore di Cristo”, per mezzo di molti suoi scritti e delle dure lotte spirituali, risolte alla cura e alla preghiera incessante “affinché si formi Cristo in noi”. .
San Giovanni Crisostomo, il padre dell’amore e del dialogo, era commosso dalla prostrazione che tutta la vita di san Paolo dimostrava sul suo viso la (sinergia) cooperazione tra Dio e l’uomo, la sua immensa ammirazione per la sua missione apostolica; certamente, ha abbandonato tutto per Cristo, ha sofferto, è stato carcerato; è diventato bastione di Cristo fino alla sua morte nella Città Eterna.
Questi preziosi e chiari messaggi sono stati trasmessi nel seno dell’Oriente Ortodosso e questa spiritualità costituisce il duraturo orientamento per vivere in Cristo, come ritorno al vero centro, al Cristo Dio e Uomo.
Infatti, quando Dio ha considerato il tempo conveniente per rivelare a Paolo il suo Figlio Unigenito con la meta di portare al mondo pagano il gioioso messaggio della salvezza; lui “distinto” , (?f???sµ????), segnalato per l’opera della missione alle nazioni; Theofilaktos di Bulgaria riferisce: “è stato distinto non dal punto di vista di diseredazione, ma dal punto di vista pronostico per la sua dignità”.
I Padri dell’Oriente Ortodosso ammettono la missione ecumenica di Paolo, anzi Theofilaktos di Bulgaria rivela: “Mi ha rivelato il Figlio, non soltanto per vedere lui, ma per portare lui anche agli altri. Non soltanto il credere, ma anche l’ordinare, da Dio ha l’esistenza. Come, dunque, dite che io sono stato istituito dagli uomini? Non soltanto, semplicemente, annunziare Cristo, ma “alle nazioni” .
Tutto questo è allineato con la corrispondente missione che il nostro Signore risorto ha affidato ai suoi discepoli, come meravigliosamente descrive l’evangelista Luca: “Ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi della terra”. .
Sappiamo benissimo che, quando Saulo, sulla via di Damasco ha visto la rivelazione di Dio, l’ordine era che egli divenisse servitore e testimone di Cristo per quello che ha visto e che il nostro Signore ha mostrato a lui: “per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprire loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me” .
Degna di menzione è anche la sua allocuzione al re Agrippa, la quale conferma la missione ecumenica di Paolo. “Pertanto, o re Agrippa, io non ho disobbedito alla visione celeste; ma prima a quelli di Damasco, poi a quelli di Gerusalemme e in tutta la regione della Giudea e in fine ai pagani, predicavo di convertirsi e di rivolgersi a Dio comportandosi in maniera degna della conversione” .
Anche su questo punto della missione ecumenica di san Paolo, la Chiesa Ortodossa guarda non soltanto al materiale d’Archivio per una discussione accademica e ricerca poco utile, ma alla sostanza del risultato a cui la Chiesa deve giungere nel corso della sua missione ecumenica nel mondo. Ecco la linea direttiva verso la quale deve camminare la Chiesa, avendo come base e fondamenta la missione ecumenica di Paolo. In questo modo si spiegano la viva potenza e l’illuminata linea della Chiesa, che dialoga con tutto il mondo, tanto con le Chiese Cristiane, quanto con i non Cristiani e con ogni uomo di buona volontà.
Colgo, pertanto, l’occasione per sottolineare un termine, noto oggi a tutti, la globalizzazione. Di solito con esso intendiamo il movimento libero dei prodotti in tutto il mondo, come anche la possibilità degli uomini di recarsi dall’una all’altra città, in qualunque parte che si trovino, basta che abbiamo la possibilità economica; ancora essa significa il rapido movimento degli uomini dall’una città all’altra, la veloce diffusione delle informazioni tramite internet ecc.
La globalizzazione, da una parte, è positiva, utile; dall’altra è negativa, distruttiva. Alcuni sono a favore di essa ed altri sono contro. La maggioranza guarda alla globalizzazione come antidoto alle diverse forme di nazionalismo, razzismo; come antidoto alla xenofobia ecc. Come tutti i principi portati all’accesso diventano degeneranti e nocivi all’umanità intera.
La globalizzazione (?a???sµ??p???s??) deve distinguere dalla Pancosmiotita, che è collegata coll’ordine del Cristo Risorto ai suoi discepoli “Andate e ammaestrate tutte le nazioni”; ovviamente, discutere su questa realtà, dal punto di vista teologico, richiede l’attenta lettura di tutto il pensiero paolino.
Sarebbe più opportuno sostituire il termine Pancosmiotita con il termine più ampio che è Ecumenicità.
Vediamo, dunque, che con l’Ecumenicità Evangelica l’uomo e la sua morale, spirituale e sociale esistenza, si trova al suo centro, contrariamente a quanto scaturito dal termine negativo e soggettivo della ?a???sµ??p???s?? – Globalizzazione nella quale l’uomo si mette a margine, soffre, si annienta con un duro metodo, con diverse modalità e scopi, che usa per servire, per fare guadagnare alcuni; ma il peggiore distrugge popoli e civiltà, sfiducia la libertà, anzi abolisce i principi del diritto e della morale.
Sua Santità il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, parlando a Davos, in Svizzera, si è riferito particolarmente alla priorità della persona umana contro la ricchezza, che caratterizza la globalizzazione come “segno promettendo molto a pochi e poco a molti” per sottolineare che “la Chiesa Ortodossa vive e coltiva l’ideale dell’Ecumenicità spirituale (Icumenicotita), che è una evoluzione della Pancosmiotita, perché proclama che tutti gli uomini, di ogni tribù e lingua e di ogni civiltà, devono essere collegati con i legami dell’amore, della fratellanza e della cooperazione”.

5. L’uomo e la donna nella Chiesa Ortodossa secondo san Paolo
I complicati versetti sul matrimonio e il celibato, scritti da San Paolo si sono comprensibili a san Giovanni Crisostomo, la cui esperienza e spiritualità diventano stabile linea e tradizione nella Chiesa Ortodossa Orientale, nella quale si ascoltano e si commentano con chiarezza e precisione le interpretazioni dei grandi ermeneuti dell’Oriente, come Teodoreto di Ciro , Giovanni Damasceno , Ecumenio Trikis , Teofilatto di Bulgaria ed Eutimio Zigabinos .
San Paolo ha posto le fondamenta teologiche e in modo meraviglioso ha composto ed ha approfondito l’importantissimo capitolo uomo e donna, attribuendo il giusto valore e soprattutto dimostrando il suo ruolo e la sua contestualizzazione nella società di ieri e di oggi.
È di grande significato il suo capitolo sull’esistenza umana, anzi è la vera colonna spirituale e morale sulla quale si basano la vita e la tradizione Ortodossa, non distingue l’uomo dalla donna riguardo alla loro salvezza.
La donna, insegna la dottrina della Chiesa Ortodossa, è stata creata a immagine di Dio, che è “essere indipendente ed esistenza libera … nella sua perfezione … La sua posizione nel percorso del genere umano si ristabilisce nella persona della sempre Vergine Maria”, “… Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge per riscattare coloro che erano sotto la legge; perché ricevessero l’adozione a figli”. .
L’apostolo Paolo annunzia l’uguaglianza fra l’uomo e donna: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. infatti: “Quando venne la pienezza del tempo”. Maria ha partorito il Figlio e Verbo di Dio, il nostro Salvatore Gesù Cristo.
Simbolizza la donna come sposa di Cristo, il quale vince il male e la sua sposa è glorificata. Questa donna è la Chiesa, la nuova Eva, che vivifica il corpo di Cristo, e l’unione fra l’uomo e la donna verrà definita: “Grande Mistero” (Sacramento), e la metterà in relazione con l’unione fra Cristo e la Chiesa.
Ricordiamo la prima donna Cristiana su terreno Europeo Lidia, nella città di Filippi. Evodia e Sintica , Prisca , Damaris in Atene , le quattro figlie di Filippo , come anche Mariam, Trifena, Trifossa, Persida, la madre di Rufo, Giulia , particolarmente Febe; già citata nella Sua la lettera: “Vi raccomando Febe, nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cristo; ricevetela nel Signore, come si conviene ai credenti e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno; anch’essa, infatti, ha protetto molti, e anche me stesso. “Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù;…”. .
Tra le donne è riferita anche la discepola di Paolo Tecla, in Iconio, (festa 24 settembre), la quale è onorata “come protomartire e campione tra le donne”, “la quale ha illuminato con la parola di Dio”, e “ha annunziato, in diverse città, il nostro Signore Gesù Cristo ed ha attirato molti verso la fede in Cristo”.
La Chiesa Ortodossa, con la sua tradizione rileva la verità di san Gregorio il Teologo: “un creatore per l’uomo e la donna, una terra per ambedue, una immagine, una legge, una resurrezione”.
6. Il monachesimo secondo San Paolo e la sua influenza sulla Chiesa Ortodossa.
Diversi momenti della vita religiosa e sociale dell’uomo rivestono particolare importanza per la chiesa Ortodossa. In particolare per la sua vita spirituale e morale San Paolo ne rileva altri punti con particolare profondità, influenzando decisamente in tal modo i Santi Padri del mondo orientale, che lo hanno costantemente come bussola e modello di riferimento anche quando parlano del monachesimo.
Concretamente secondo San Paolo, come già riferito, “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti siete uno in Cristo Gesù” . Sant’Atanasio il Grande, indirizzandosi alla vergine Sinklitikì, consigliandole serietà e forma morale, afferma: “Rigetta il proprio pensiero di donna, prendi coraggio e diventa forte, poiché nel regno dei cieli non c’è né maschio né femmina, ma tutte le donne che hanno compiaciuto Dio saranno annoverate nell’ordine degli uomini” . San Basilio chiama il monachesimo “theian strateian”, vale a dire “esercito divino”. Dice, allora: “la parola non riguarda solo gli uomini, perché anche la femmina, accanto a Cristo, con la sua forza d’animo si piò annoverare nell’esercito. Il servizio divino è effettuato con ambedue, uomini e donne” .
Pure, l’allontanamento del monaco dal mondo comincia con San Paolo che lo fa allontanare dai suoi parenti, dai suoi amici, dalle circostanze mondane e dalle precedenti abitudini.
Il monaco, secondo San Paolo, non ha città e patria, guarda verso l’invisibile e la patria celeste, è soldato del buon esercito, testimone di messaggi vitali, base e meta del monachesimo.
Esso è stato indicato dal nostro Salvatore Gesù Cristo, nato dalla Santissima Semprevergine Madre di Dio, ha vissuto nella verginità, la castità (purezza), il digiuno, la preghiera, la povertà e l’umiltà.
Gli Apostoli vivono l’ideale del monachesimo e l’insegnamento di San Paolo fu alla base di tutti i principi e delle regole della vita monastica, concretizzatesi durante l’epoca di Basilio Magno, il vero organizzatore del monachesimo della Chiesa Ortodossa Orientale.
San Basilio nel suo famoso libro “oroi kata platos kai kat’ epitomin” come anche nei suoi Discorsi Ascetici, afferma che il monachesimo si presenta come vita d’immensa importanza per conquistare il regno dei Cieli e la salvezza. Per questo i suoi canoni (regole) sono considerati autentici ed autorevoli, di grande valore e prestigio sociale per il valore del monachesimo. Allo stesso criterio di valutazione si giunge per quanto ottiene i Concili Ecumenici, i quali hanno confermato (approvato) i suoi canoni sul monachesimo.
7. La comunione nell’attività missionaria di San Paolo e la Chiesa.
San Paolo combatte una grande battaglia per conservare l’unità dei cristiani, ma anche la comunione tra loro. Essa si manifesta con ciò che egli stesso dice ai Filippesi “rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti” .
D’altra parte la città di Filippi riveste una particolare importanza per l’Europa in quanto è stata la prima città a ricevere il messaggio della salvezza.
L’opera che compiono i Filippesi con San Paolo, “dal primo giorno fino ad oggi, non è né di loro, né di lui”. Senza dubbio, l’ha cominciato un altro che lo condurrà all’integrazione escatologica, fino al giorno del suo ritorno.
I Filippesi, in comunione con San Paolo sono in comunione anche con Cristo, che compie la salvezza dell’uomo. Grazie a San Paolo abbiamo conquistato la nostra comunione. Suo risultato è quello di rendere i Filippesi partecipi della grazia di San Paolo, perchè egli è partecipe della grazia di Dio: “Ringrazio il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo dal primo giorno fino al presente e sono persuaso che colui che ha iniziato in voi questa opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. E’ giusto, del resto, che io pensi questo di tutti voi, perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa, sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Infatti dio mi è testimone del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri ed irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio” .
Parole, queste, che dimostrano il profondo senso di comunione e di unità tra San Paolo ed i Filippesi, esprimendosi con frasi di tenerezza. Perciò grida con sicurezza: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” .
E questa comunione e unità con Cristo daranno a San Paolo la forza e l’esultanza per gridare, pieno di gioia e coraggio: “Dio mi è testimone”.
L’unità ontologica si manifesta nella Chiesa quando i fedeli e il clero sono uniti con Cristo costituendo un corpo indivisibile, indissolubile, unito dal legame dell’amore reciproco con il riferimento a Cristo. E’ indiscutibile che l’apostolo affronti le grandi difficoltà ed i problemi, come anche la divisione e le separazioni con umiltà e comprensione, ma anche con vera gioia, perché alla fine in un modo o nell’altro si deve annunziare Cristo, salvatore dell’umanità: “purchè in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene” .
Ancora sottolineiamo: l’unità della fede e l’amore reciproco conducono all’attività dei fedeli il cui cuore ed anima sono miei, caratteristica principale della comunità cristiana. L’umiltà di Cristo, come si esprime nell’inno cristologico, è il modello per i cristiani e l’unità. E’ lo stesso Cristo che, “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome: Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” .
Oggi esiste una grande realtà: l’unità dell’Europa. Questa verità rende più possibile la necessità dell’unità della cristianità divisa.
Il dialogo è il più prezioso mezzo per arrivare all’unità. Esso riveste il carattere di priorità ed i Santi Padri teologi del mondo ortodosso orientale lo hanno esercitato con sincerità e fraternità, sperando nella pace e nella prosperità. Essi l’hanno accettato, credendo nella sua forza spirituale, morale e sociale. Così come hanno fatto Crisostomo, Basilio, Gregorio, salvando così la cristianità e la sua spiritualità teologica e culturale dalle eresie e dagli scismi di quell’epoca, influenzati, senza dubbio, dal profondo messaggio dottrinale di San Paolo.
8. San Paolo e la sua eredità per l’Europa.
La predicazione di San Paolo riguardo al desiderio di Cristo per l’unità dei discepoli, come anche di coloro che hanno creduto alla sua parola ed, in generale, di coloro che costituiscono la Chiesa, è curata da lui stesso con amore, dedizione e speranza.
La sua dottrina ed i suoi messaggi sono, in verità, per le Chiese e le confessioni cristiane di oggi, ma anche per ogni uomo di buona volontà per il quale Gesù Cristo è nato, è stato crocifisso ed è resuscitato, una preziosissima regola di vita.
Le lettere di San Paolo ai Romani, ai Corinzi, ai Filippesi, ai Tessalonicesi, costituiscono testi importantissimi anche per l’Europa. Sono testi di cultura che hanno sviluppato la civiltà e creato in genere le basi per una vita sociale migliore in tutti gli aspetti spirituali e morali.
Le sue lettere sono state riconosciute come preziose testimonianze non solo sotto l’aspetto letterario, ma anche contenutistico, e costituiscono un esempio di verità e di luce indirizzato non solo alla comunità religiosa, ma anche alla società e rappresentano un modello di evangelizzazione per la trasmissione del messaggio dell’amore e della pace, dell’unità e della speranza.
La lettera ai Tessalonicesi costituisce un modello di fede. I cristiani della città sono esempi di fede, di amore e di speranza.
Oggi l’Europa ha bisogno di questa eredità, perché soltanto così la sua confusione, la sua ansia, la sua indifferenza e la sua secolarizzazione saranno sconfitte, e sarà superata la crisi che devasta il mondo intero. L’Europa deve accogliere la parola del Vangelo con tutto il cuore e l’anima.
Dall’isola paolina, Malta, inviamo quel messaggio che è stato ascoltato 20 secoli fa; il messaggio dell’Apostolo Paolo il cui forte sentimento di fede, il cui zelo, la cui disposizione, il cui sacrificio e martirio sono grandi spinte ed occasioni per accogliere la parola di Dio: “Infatti, la parola del Signore rieccheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell’Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, di modo che non abbiamo più bisogno di parlarne”
Ai tempi dei Padri Cappadoci, anche in questo punto San Paolo ha influenzato il mondo orientale, perché sua particolare caratteristica è quella di presentare non tanto una buona comunità ecclesiastica, ma, qualcosa di più, un modello per quanti credono. “Chi, infatti, se non proprio voi, potrebbe essere la nostra speranza, la nostra gioia e la corona di cui ci possiamo vantare davanti al Signore nostro Gesù, nel momento della sua venuta; siete voi la nostra gloria e la nostra gioia” .
9. L’influenza di San Paolo sulla civiltà europea.
San Paolo commuove l’Oriente ortodosso come anche il mondo occidentale per le affermazioni sulla libertà e l’ecumenicità. Il grande pericolo contro la verità e la sapienza di Dio proveniva dalla non comprensione da parte dei capi spirituali e politici.
Lui stesso ha affrontato durante i suoi primi anni questa realtà. La lettera ai Corinzi è testimone di questa situazione.
L’idea del progresso, come anche la storicità dell’uomo, sono due concetti fondamentali introdotti ed affermati grazie al Cristianesimo.
Per i Greci, la natura è il valore, e di conseguenza la scienza è visibile e salvifica.
San Paolo con le sue lettere: (liberazione dalla schiavitù degli elementi del mondo per mezzo di Cristo . Sappiamo molto bene che tutte queste potenze ed autorità note a San Paolo, sono state intese come divinità da parte di alcune correnti gnostiche: “i corpi di questo secolo” .
L’uomo vive sottomesso alla materia, schiavo degli elementi. L’uomo è incapace di trovare sostegno e protezione in sé stesso.
L’influenza di Paolo sulla civiltà europea si è realizzata in modo diretto ed immediato.
L’adorazione di Cristo è creatura non di Paolo, ma della Chiesa di Gerusalemme.
Il misticismo cristiano di Paolo, collegato con Cristo, costituisce il cuore della Cristianità Europea.
Paolo ha potuto realizzare, per la prima volta, una realtà in maniera ammirevole, cioè ha collegato la spiritualità con il modello di Gesù Cristo: un avvenimento storico, di importanza universale, anzi, per la storia dell’Europa un avvenimento unico.
Paolo non era un moralista, non ha creato un sistema di morale. Certamente, tutti i problemi morali della sua epoca, come anche tutti gli argomenti affrontati, non corrispondono pienamente ai nostri, o alle necessità di oggi.
La libertà secondo San Paolo (Pauleia eleutheria) è raggiunta con la liberazione dalla schiavitù ai diversi elementi del mondo. Si crea con l’Apostolo Paolo una nuova situazione, che è veramente un dono divino: l’adozione divina. Però questa libertà non esiste senza l’amore e la comunione con gli altri uomini, con il prossimo: “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati alla libertà. Perché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità, siate al servizio gli uni degli altri” . La libertà ha come obiettivo la carità, l’amore verso l’uomo che è “icona di Dio”.
La libertà è un bene prezioso che per il quale l’Europa lotta.  Domina l’uomo o domina la tecnologia? Secondo San Paolo la nostra libertà in Cristo dipende dalla carità, dall’amore tra di noi.
L’uomo deve abbandonare il proprio IO, abbandonare la sua avidità, svuotare sé stesso, diventare povero per arricchirsi; soltanto così, seguendo l’Apostolo missionario, l’Apostolo dell’amore e del dialogo, l’Apostolo della pace e della libertà, l’Europa diventerà una potenza utilissima non solo per le nazioni europee, ma anche per le altre nazioni non europee. L’Europa libera insegnerà la libertà con la carità, che dona la vera prosperità e il benessere giusto e duraturo.
D’altra parte gli insegnamenti riguardanti il rispetto del “corpo”, delle sue funzioni, dei suoi organi, costituiscono un faro di indirizzo per l’Europa di oggi, perché vengono in modo meraviglioso manifestati la libertà, l’amore e l’unità che costituiscono forza, prosperità, pace e speranza.
Conclusione: l’Apostolo delle Genti Paolo è l’Apostolo della Chiesa Ortodossa.
La sua influenza è una verità incontestabile.
I Padri dell’Oriente Ortodosso trovano in San Paolo la vera dottrina, e, grazie ad essa, salvano diverse situazioni pericolose dal punto di vista ecclesiastico, spirituale, morale e culturale.
Il monachesimo è forza indispensabile e propulsiva per l’unità e la diffusione del Vangelo, però deve essere libero, senza complessi e senza dubbi, ma solo ed unicamente rivolto alla protezione della Chiesa con amore, pace e speranza.
Il monachesimo è una garanzia ed una sicurezza per la Chiesa e la società civile, inquanto la sua Spiritualità è fonte di vita e di ricchezza culturale e cultuale per la cristianità intera e per ogni uomo di buona volontà.
E solo, seguendo le orme di San Paolo, diventiamo veri fratelli, collaboratori necessari per realizzare la volontà di Dio: “che tutti siano una cosa sola”.

Sua Eminenza Reverendissima
Il Metropolita d’Italia ed Esarca per l’Europa Meridionale
GENNADIOS ZERVOS

Paolo e i Gentili

http://www.saverianibrescia.com/missione_oggi.php?centro_missionario=archivio_rivista&rivista=2009-09&id_r=67&sezione=parola_e_missione&articolo=paolo_e_i_gentili&id_a=2281

Novembre 2009 

Paolo e i Gentili

di: p. Fabrizio Tosolini

Fabrizio Tosolini, missionario saveriano, di Tricesimo (UD), licenziato in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico di Roma, dottore in Teologia Biblica presso la Facoltà di Teologia della Fu Jen Catholic University di Taipei (Taiwan) con una tesi sulla Lettera ai Romani, insegnante di Sacra Scrittura a Taipei

È facile fare delle letture romantiche sulla visione universalistica che Paolo ha nutrito in se stesso e diffuso nella Chiesa degli inizi.

CRISTO: SALVEZZA PER TUTTI GLI UOMINI                        
 In questo contesto di latente violenza Paolo scopre che in Cristo, rigettato dai suoi, crocifisso fuori della sua città, sospeso tra cielo e terra, una salvezza nuova e divina viene offerta. E questa salvezza è per tutti gli uomini perché proposta al cuore di ognuno, nella scoperta di essere amato da Cristo, e nella scelta di affidarsi totalmente alla sua fedeltà.
Da qui Paolo trae una serie di conseguenze, di cui la prima è il superamento di una certa visione umana di Israele come mediatore imprescindibile della salvezza divina (il superamento di una visione assoluta della propria appartenenza culturale); la seconda è l’impegno missionario verso tutti i popoli; la terza è la visione della comunità cristiana come luogo della comunione tra tutti i credenti, nel superamento di ogni appartenenza previa e nella creazione di una nuova tradizione, frutto dell’apporto di tutti, sotto la guida dello Spirito; tradizione unitaria non solo nello spazio, ma anche nel tempo.
L’impegno missionario verso tutti i popoli è il tratto più evidente della missione di Paolo, testimoniata dal libro degli Atti e dalle Lettere.
Occorre dire che tale azione deve essere ritenuta più estesa di quanto il Nuovo Testamento riporta. I tre anni in Arabia tra i Nabatei e la predicazione nell’Illirico, di cui parlano rispettivamente Galati e Romani, sono probabilmente solo la punta di un iceberg, del quale non ci è nota la parte sommersa. Paolo deve aver avuto un’irresistibile passione di comunicare il Vangelo ovunque passasse, a chiunque incontrasse, indifferente alle differenze culturali, favorito in questo dalla patina di uniformità stesa in tutto il bacino del Mediterraneo dalla cultura imperiale ellenistico-romana e dall’uso della koine. [Occorre anche ricordare che la spinta missionaria della Chiesa nascente non conosceva limiti geografici, e si irradiava già fino all'Etiopia e all'India. Paolo è solo il caso da noi meglio conosciuto].
Questo suo impegno missionario deve essere stato anche la causa della persecuzione giudaica che lo ha accompagnato praticamente sempre nel suo ministero (cf. 1 Tess 2,15-16), costituendo per lui la minaccia più pericolosa e reale, date le attinenze giudaiche con il potere romano.

UNA CHIESA MULTIETNICA E MULTICULTURALE
Per quanto riguarda il progetto ecclesiale universalistico perseguito da Paolo, sulla base delle sue lettere possiamo immaginarne i tratti salienti.
Possiamo ritenere che egli sperava di veder nascere, come frutto della predicazione evangelica, delle comunità multietniche e multiculturali, nelle quali i differenti punti di partenza sarebbero confluiti nell’unica voce di lode a Dio (cf. Rm 15,6). Tale rendimento di grazie, all’interno di ogni singola comunità sarebbe frutto dell’esercizio di quella carità scambievole che cerca non l’utile proprio ma quello dell’altro, facendosi una cosa sola con i più deboli nella fede, perché tutti giungano alla salvezza (1 Cor 10,33).
Invece tra le comunità, sparse in Giudea, in Asia e in Grecia, tale ringraziamento (cf. 2 Cor 9,12-15) sarebbe frutto di una comunione di beni, sia materiali che spirituali, segno dell’unità creata da Cristo tra tutti i suoi fedeli e della sua signoria universale.
Si tratta di un progetto nuovo, sorprendente, di cui ancora oggi stentiamo a cogliere la portata. Dare forma a tale progetto implica trovare e proporre alcuni parametri essenziali, che tutti debbano seguire, e che siano possibili e accettabili a tutti.
Attorno a questi parametri si può immaginare che si siano creati dei contrasti all’interno della prima Chiesa: da una parte causa di conflitti e contro-missioni volte a propagandare diverse posizioni dottrinali; dall’altra occasione preziosa per approfondire la verità del Vangelo.
La risposta dei giudeo-cristiani al problema della convivenza con i credenti provenienti da altri popoli e culture era duplice: o ci si atteneva alle prescrizioni ritualistiche della tradizione giudaica, o si separavano le comunità, cosa che deve essere successa ad Antiochia (cf. Gal 2,11-14), determinando la partenza definitiva di Paolo da quella città. I greci avrebbero potuto osservare i punti contenuti nel decreto del Concilio di Gerusalemme (cf. At 15,5-29), i giudei avrebbero continuato a vivere secondo le loro tradizioni.

FEDE, SPERANZA E CARITÀ: I CARDINI DELLA CONVIVENZA ECCLESIALE
Paolo ha un’altra visione e proposta, che parte da molto più lontano. Per lui cardini della convivenza ecclesiale sarebbero le tre virtù: fede, speranza e carità, virtù che appaiono insieme fin dal primo capitolo della prima opera del Nuovo Testamento (1 Tess 1,3).
L’elaborazione della triade delle virtù teologali sembra debba essere attribuita al genio ispirato di Paolo (prima di lui non è attestata); con esse egli descrive da una parte il percorso che porta il credente e la comunità alla salvezza (si veda per questo tutta la Lettera ai Romani, che in 1,16-4,25 sviluppa il tema della fede; in 5,1-8,39 quello della speranza, e in 12,1-15,13 quello della carità); dall’altra offre il parametro relazionale fondamentale che regge la vita della comunità nelle sue dimensioni storiche e culturali.
In questo senso Rm 14 è di grande importanza: Paolo esorta i cristiani a non giudicare chi ha usanze diverse, a non disprezzare chi è debole, a non porre ostacoli o inciampi al fratello, a impegnarsi nelle opere della pace e della edificazione vicendevole: la gara non è a chi sa usare meglio per un proprio supposto vantaggio (altri progetti privati) i doni di Cristo, ma a chi sa offrire di più di se stesso in vista della costruzione della Chiesa (il progetto di Cristo). Tutto questo perché il regno di Dio « non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini » (Rm 14,17-18).
È possibile che questa proposta paolina sia sembrata troppo aleatoria, incapace di dare vita a una comunità chiaramente riconoscibile e distinguibile da altre. Paolo stesso, messo a confronto con il problema delle carni offerte agli idoli (1 Cor 8,1-11,1), offre solo dei parametri per un discernimento da effettuarsi caso per caso; d’altra parte la legge della nuova alleanza è la grazia dello Spirito Santo, che viene data attimo per attimo. Ma pur con la sua apparente debolezza la visione di Paolo è quella che apre alla storia.
Nello stesso tempo occorre anche ricordare, e tutta 1 Cor lo mostra continuamente, quanto sia grande l’importanza che Paolo attribuisce alle tradizioni già esistenti nella Chiesa, e con quanta forza chieda ai corinzi di accoglierle. Il frutto comunitario che continuamente matura sotto il sole dello Spirito Santo, la tradizione che si forma nelle comunità e nella Chiesa, crescendo su se stessa con l’apporto della donazione di credenti di tutti gli spazi e di tutti i tempi è per lui la visibilità del Risorto.

FABRIZIO TOSOLINI

Maturità umano-cristiana nei frutti dello Spirito Santo (per la festa della Conversione di San Paolo Apostolo)

http://www.spiritosanto.org/mensile/316/page1.htm

Maturità umano-cristiana nei frutti dello Spirito Santo

Testo tratto da una conferenza

di Mons. Giuseppe Molinari

Testo non rivisto dall’Autore

Chi è il cristiano maturo? Non è una domanda inutile. E neppure semplice.
Oggi, purtroppo, c’è una diffusa tendenza a ridurre il problema della maturità alla formazione della propria coscienza in base a dei cosiddetti principi cristiani. A denunciare questo pericolo è soprattutto quel grande teologo che è Hans Urs von Baltasar. Egli scrive: «La coscienza, in quanto fa parte della natura umana, è sì, il fondamento della nostra azione morale naturale, ma in quanto siamo cristiani la nostra coscienza deve avere continuamente uno spiraglio aperto per lo Spirito di Cristo che agisce in noi e su di noi in modo potente, libero ed indipendente. Lo Spirito – è sempre von Baltasar che lo rivendica vigorosamente e giustamente – non si può travasare in bottiglie come princìpi che si possono trovare una volta per sempre: soltanto la fresca vivezza di un ascolto continuo ha la possibilità di recepirlo, addirittura di comprenderlo: ciò suppone una estrema docilità, un incarnato istinto soprannaturale di obbedienza, quindi il contrario di ciò che, nella nostra massiccia grossolanità, noi immaginiamo come « maturità ». Quanto più siamo obbedienti al libero Spirito di Cristo, tanto più possiamo crederci liberi e maturi. Tutto il resto è perfida illusione».
Però, seguendo alcune indicazioni del Nuovo Testamento forse possiamo tracciare le linee portanti di una maturità cristiana intesa nel senso descritto da von Baltasar.
Quando parliamo di situazione di una persona adulta e quindi matura, inevitabilmente ci viene in mente, per contrasto, la situazione del bambino. Anche S. Paolo si serve di questa immagine: «Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ciò che ero da bambino l’ho abbandonato» (1Cor 1,13). Qui S. Paolo si riferisce allo stato presente dell’uomo cristiano che un giorno, nella perfezione della visione di Dio, diventerà adulto proprio mediante la carità: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente…» (1Cor 13,12).
La Lettera agli Ebrei applica anch’essa il termine bambino ad un cristiano che ancora non è né adulto né – quindi – maturo nella sua fede: «Su questo argomento abbiamo molte cose da dire, difficili da spiegare perché siete diventati lenti (letteralmente: pigri) a capire… siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido. Ora chi si nutre ancora di latte è ignaro della dottrina della giustizia, perché è ancora un bambino. Il nutrimento solido invece è per gli uomini adulti (letteralmente: perfetti)…» (Eb 5,11ss).
Sempre S. Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, usa la stessa terminologia spiegandosi ancora più chiaramente: «Io fratelli, ancora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati di Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete, perché siete ancora carnali…» (1Cor 3,1). Sappiamo che, per S. Paolo, l’uomo carnale è l’uomo ancora dominato dal peccato, quindi l’uomo chiuso in se stesso, nel suo egoismo, nella sua visione puramente terrena ed umana della vita. È – in una parola – l’uomo che ancora non è stato liberato da Cristo e ancora non è stato invaso dalla luce e dalla Potenza dello Spirito Santo che trasforma.
Basta rileggere un altro testo di S. Paolo (la Lettera ai Romani), che spiega bene chi è l’uomo carnale: «Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace» (Rm 8,5-8).
Facciamo un esame di coscienza e riflettiamo all’esempio dei santi. Per esempio: S. Francesco. Ecco un uomo che si lascia invadere e guidare dallo Spirito. Perciò vediamo come cambia la sua visione dell’uomo, della vita. Come cambia la sua scala di valori (ad esempio: la preghiera, l’amore verso il prossimo, la povertà, ecc.).
Ancora nella stessa Lettera ai Romani, S. Paolo afferma: «Così dunque, fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne, poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete» (Rm 8,12-13).
Sempre nella Lettera ai Romani, S. Paolo descrive, in modo drammatico, la condizione dell’uomo carnale che, schiavo ormai del peccato, vive in uno stato di dolorosa confusione, e non riesce a capire ciò che compie. E S. Paolo, esprimendo l’angoscia di quest’uomo, confessa: «Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vive un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7,21-24).
Anche nella Lettera ai Galati S. Paolo torna a descrivere questa drammatica lotta tra l’uomo spirituale e l’uomo carnale. E qui la premessa fondamentale è che la carne ha desideri contrari a quelli dello spirito. Da questo disordinato stato di cose nascono non solo i cosiddetti peccati della carne (discordie, inimicizie, contese, impudicizie, orge, ubriachezze, ecc.) ma anche quelli essenzialmente intellettuali (idolatria, magia, controversie, ira, divisioni). Le stesse opere, insomma, che rendevano i cristiani di Corinto «bambini in Cristo Gesù» (1Cor 3,3).
Carne è dunque l’uomo, così come egli ha costruito se stesso in contrasto con l’uomo creato secondo Dio a sua immagine e somiglianza, e rinnovato in Cristo.
Carne è l’uomo separato da Cristo e dal suo Spirito. Ebbene, quest’uomo così descritto da S. Paolo, per ammissione dello stesso Apostolo, è immaturo, è l’uomo « bambino in Cristo », l’uomo in cui lo Spirito di Dio non ha ancora potuto dispiegare tutte le potenzialità della sua potente opera liberatrice e santificatrice. A tutto questo si oppone l’uomo maturo, il cristiano, il « perfetto », l’uomo « spirituale »; cioè l’uomo dominato, posseduto dallo Spirito del Signore in tutte le componenti del suo essere.
C’è dunque un chiaro e stretto rapporto (come tra causa ed effetto) tra l’essere cristiani adulti e lo Spirito di Dio.
Nella Lettera ai Romani, capitolo VIII, ci viene presentato da S. Paolo un quadro estremamente significativo di questo rapporto tra essere cristiani adulti e lo Spirito Santo. Qualche versetto di questo capitolo VIII l’abbiamo già citato. In sintesi S. Paolo afferma che senza la presenza e l’azione dello Spirito Santo non si ha un cristiano autenticamente adulto, perché senza lo Spirito non c’è vera assimilazione a Cristo, vero uomo nuovo della nuova creazione. E S. Paolo conclude: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà Padre! Lo Spirito stesso attesta al nostro Spirito che siamo figli di Dio» (Rm 8,15-16). Gridare: «Abbà, Padre» significa avere la stessa intima, personale esperienza di Cristo.
Abbiamo visto, quindi, che l’uomo spirituale, il cristiano adulto, maturo, è l’uomo guidato, condotto, posseduto dallo Spirito in tutte le sue componenti. Ma vogliamo approfondire ancora il significato di tutto ciò.
E allora, interrogando sempre la Parola di Dio ci viene detto che la piena maturità cristiana, la perfezione, si ha nell’amore. S. Paolo chiama l’amore « vincolo di perfezione » (Col 3,14). Basta poi rileggere l’inno alla Carità, per convincersene chiaramente.
L’Apostolo Giovanni dedica tutta la sua prima lettera chiamata appunto « la lettera dell’amore » a questo fondamentale, meraviglioso tema. Questo amore non è un amore qualunque; questo amore è Dio stesso: «Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4,16). L’infinita perfezione di Dio sta nell’essere amore; così la perfezione dell’uomo è partecipare e vivere di questo amore: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio» (1Gv 4,7). E questo amore ci è donato dallo Spirito Santo: come ci ricorda S. Paolo: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato» (Rm 5,5). S. Giovanni: «Da questo si conosce che noi rimaniamo in Lui ed Egli in noi: Egli ci ha fatto dono del suo Spirito» (1Gv 4,13).
L’amore è il primo dei frutti dello Spirito che non manca mai in nessun elenco del Nuovo Testamento e che occupa sempre una posizione chiave. In Efesini 4,30-32 il comando dell’Apostolo di fare scomparire ogni mancanza contro la carità (asprezza, sdegno, ira, clamore, maldicenza) e l’esortazione ad un esercizio positivo degli atteggiamenti della carità (benevolenza, misericordia, perdono) sono collegati direttamente alla raccomandazione: «Non rattristate lo Spirito Santo di Dio».
E S. Agostino dice, in un modo stupendo: «Interroga il tuo cuore e se trovi la carità verso il fratello, stai tranquillo. Infatti non ci può essere l’amore senza lo Spirito Santo». E aggiunge S. Agostino che lo Spirito Santo «è la forza dell’amore, il movimento verso l’alto che si oppone alla forza di gravità che tende verso il basso, per condurre ogni cosa al suo pieno compimento che è in Dio» (Confessioni XIII, 7,8).
Ora l’esercizio di questo amore, che ha due poli – Dio e i fratelli – nasce dalla comprensione, dalla conoscenza dell’amore che Dio, il Padre, ci ha manifestato donandoci suo figlio Gesù Cristo come «vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). Appare qui un dato molto importante, decisivo, se si vuole anche sconvolgente, per capire in che misura l’amore diventa maturità per il cristiano.
Intanto c’è da notare che senza l’effusione dello Spirito non c’è amore, non c’è comprensione del dono di amore che il Padre ci fa con l’offerta di Cristo, «vittima di espiazione per i nostri peccati». L’amore cristiano, l’amore « vincolo di perfezione » è proprio questo: l’amore crocifisso. Solo un amore crocifisso può farsi autenticamente dono e divenire sorgente di vita. Per amare autenticamente occorre capire, contemplare, entrare nell’ottica di questo amore crocifisso che il Padre ci ha donato in Cristo. La maturità cristiana è tutta giocata sul mistero della croce.
Ci sarebbe da fermarsi a lungo su questo tema. Ci basti sottolineare che è ancora e sempre lo Spirito Santo che ha un ruolo fondamentale e decisivo nell’introdurci nella comprensione del Mistero Pasquale, di questo Amore crocifisso.

Opera dello Spirito Santo: www.spiritosanto.org

Il genio di san Paolo – Nel confronto tra fede e ragione

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2008/265q01b1.html

(L’Osservatore Romano 13 novembre 2008)

Nel confronto tra fede e ragione

Il genio di san Paolo

di Juan Manuel de Prada

La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l’impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l’orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra: poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l’eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo – che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito – deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell’Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell’uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti: basta leggere il suo discorso nell’Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice: san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l’annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori – fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici – che potevano accettare l’immortalità dell’anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell’Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole: la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un « fratello carissimo » nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo – ad esempio – aborrire l’aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto: « Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…) L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (…) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare ».
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l’anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.

San Paolo nella letteratura moderna

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Teologo Borèl » Settembre 2008

San Paolo nella letteratura moderna

Attenta com’è all’ascolto delle voci profonde, la letteratura non può non ascoltare quella di san Paolo. Dai primi secoli del cristianesimo ai nostri giorni, poeti, romanzieri e letterati gli si sono accostati, lo hanno ascoltato, interpellato, esaltato, contestato…
L’articolo è una carrellata, agile e sintetica, ma sintomatica, sulla letteratura moderna — saggistica, narrativa, opere drammatiche, biografie — per rintracciare e presentare i vari atteggiamenti assunti nei riguardi di san Paolo. La carrellata prende l’avvio da Nietzsche e inquadra autori di diverse estrazioni: Gibran, Gide, Merejkowski, Papini, I. Giordani, Luzi, Citati, Taylor Caldwell, Dobraczynski, Mészoly, G. Manacorda, Fabbri, Pasolini, E. Baumann, Daniel-Rops. Le varie inquadrature mostrano l’interesse della letteratura per una personalità così densa di storia, di pensiero, di anima e di mistero come quella dell’apostolo Paolo. Il suo posto fu tale che non possiamo comprendere Gesù e la sua Parola senza riferirci al messaggio e all’azione del genio di Tarso.
Attenta com’è all’ascolto delle voci profonde, la letteratura non può non ascoltare quella di san Paolo. Dai primi secoli del cristianesimo ai nostri giorni, poeti, romanzieri e letterati gli si sono accostati, lo hanno ascoltato, interpellato, esaltato, contestato. L’articolo analizza l’incontro di 17 autori moderni con san Paolo. La carrellata, agile e sintetica, ma sintomatica, vuole presentare i vari atteggiamenti della letteratura nei riguardi dell’Apostolo, percorrendo saggistica, narrativa, opere drammatiche e biografie, oltre che il film mancato di Pasolini.
 
San Paolo nella saggistica
In Ecce homo Nietzsche (1844-1900) si è autodefinito: «Io non sono un uomo, sono dinamite» (1). Dinamite perché, novello messia, avrebbe scosso dalle fondamenta il vecchio mondo per costruirne uno nuovo. A frantumarsi per primo sarebbe stato il cristianesimo, fondato non da Gesù ma da Paolo di Tarso. Contro di lui egli si scaglia con violenza e disgusto, soprattutto nel capitolo 42 dell’Anticristo. «In Paolo — scrive — s’incarna il tipo opposto al “buon nunzio”, il genio in fatto di odio, di inesorabile logica dell’odio! Che cosa non ha sacrificato all’odio questo disangelista?» (2). Innanzitutto ha sacrificato Gesù: «Lo ha inchiodato alla sua croce». Paolo ha cancellato quanto non serviva al suo odio. Non gli serviva «il significato e il diritto dell’intero Vangelo», ma la sua contraffazione; «Non la realtà, non la verità storica [...]. E ancora una volta l’istinto sacerdotale degli Ebrei commise un identico, grande crimine contro la storia [...], si inventò una storia del primo cristianesimo». Non soltanto: falsificò la storia d’Israele, asservendo tutto ai suoi scopi.
La menzogna più deleteria di Paolo riguarderebbe la risurrezione di Gesù. A lui non serviva un redentore morto in croce, serviva un redentore risorto. «Paolo voleva il fine, quindi volle anche i mezzi [...]. Ciò che egli stesso non credeva, credettero gli idioti, tra i quali aveva diffuso la sua dottrina. — La potenza era il suo bisogno: con Paolo ancora una volta il prete mirò alla potenza — egli poteva utilizzare soltanto idee, teorie, simboli, con cui si tiranneggiano masse, si formano greggi». A tale scopo serviva soprattutto la credenza nell’immortalità, vale a dire la dottrina del “giudizio”». È doveroso pertanto definire Paolo uno spaventoso impostore, negatore della vita, nemico dell’umanità. Se il cristianesimo «è stato la più grande sciagura dell’umanità» lo si deve a Paolo di Tarso.
Sulla scia di Nietzsche si è avventurato anche Kahlil Gibran (1883-1931) in Gesù figlio dell’uomo (3). La presentazione di san Paolo ha un sapore selvatico: «A volte sembra quasi un animale nella foresta, braccato, ferito, in cerca di un antro dove celare al mondo la sua sofferenza» (p. 57). «Uomo strano», dai lineamenti disarmonici; quando parla non riferisce le parole di Gesù, ma predica il Messia annunciato dai profeti dell’antichità. È un giudeo colto, gode di «poteri nascosti», è capace di ammaliare l’uditorio. Si potrebbe definire un anticristo perché la sua dottrina è antitetica a quella di Gesù. Un personaggio che ha ascoltato entrambi così afferma: «Noi che conoscemmo Gesù e udimmo i suoi discorsi possiamo affermare che ci insegnava a rompere le catene della schiavitù per liberarci dal nostro ieri. Ma Paolo sta forgiando catene per l’uomo di domani. Col suo martello intende percuotere l’incudine nel nome di uno che neppure conosce» (p. 57). L’antitesi Gesù-Paolo continua spietata e approda alla seguente conclusione: Gesù vuole armonizzare l’umanità con quanto la natura ha di bello e di vivo, è portatore di gioia terrestre, liberatore da leggi e tradizioni, pura espressione del divino che è in noi; Paolo è nemico della vita e della gioia, schiavo di leggi e prescrizioni, annunziatore di un Gesù-Messia da lui pensato per compensare le proprie frustrazioni. Come il Gesù di Gibran è espressione poetica del suo romanticismo, così il suo Saulo di Tarso rivela l’insofferenza per quanto sa di Chiesa, cioè di dogmatico e di proibito.
Meno chiassosa ma più sottile e insidiosa delle precedenti è l’accusa che André Gide (1869-1951) ha formulato nei riguardi di san Paolo. Il perché va ricercato in uno degli aspetti portanti della sua opera. Scrive nei Nuovi nutrimenti: «Ho ammirato, non ho finito di ammirare, nel Vangelo, un sovrumano sforzo verso la gioia. La prima parola che ci è riferita del Cristo è “Beati…”. Il suo primo miracolo, la metamorfosi dell’acqua in vino [...]. C’è voluta la stolta interpretazione degli uomini, per fondare sul Vangelo un culto, una santificazione della tristezza e della pena» (4). Autore di questa stoltezza interpretativa è soprattutto san Paolo; la teologia della croce, recepita dalla Chiesa e presentata come verità rivelata, è sua invenzione. Spiegare questo tradimento del Vangelo («Anche il Vangelo secondo Marco, il più antico, avrebbe già subito l’influsso di Paolo») «è di suprema importanza». In merito, il testo gidiano più esplicito si trova nel Diario. Lo sintetizziamo.
Agli occhi del mondo la vita di Gesù è stata un fallimento. In realtà, Cristo, recandosi a Gerusalemme con gli Apostoli, pensava di andare verso il trionfo, non verso la morte in croce. Bisognava pertanto fornire una giustificazione della croce e dimostrare che la fine ignominiosa era stata prevista, dunque necessaria al compimento delle Scritture e alla salvezza degli uomini. Per questo motivo l’espressione «morto a causa dei peccatori» fu sostituita con l’altra: «morto per i peccatori». La sfumatura risultò «una felice confusione in favore della predicazione di san Paolo. Il Cristo non fu più veduto che sulla croce, e questa divenne il simbolo indispensabile. Era necessario gloriarsi soprattutto del segno dell’ignominia: solo così poteva apparire, ad onta di tutto, trionfatrice l’opera di colui che si era detto figlio di Dio. Ciò era indispensabile all’inizio per legittimare e propagare la dottrina» (5).
Gide ristabilisce la verità. La croce è una contraffazione del Vangelo; Cristo ha predicato la santità dei «nutrimenti terrestri» e degli istinti naturali; la «vita eterna», da lui proposta, non ha nulla di futuro, è l’immersione nell’«ebbrezza mistica» dei sensi che dà l’esperienza dell’éternité vécue dès maintenant. I divieti, le condanne e le minacce si cercano invano nel Vangelo: Tout cela n’est que de Saint Paul. Divenuta «padrona degli spiriti e dei cuori», la dottrina paolina ha reso impossibile il recupero della gioia evangelica: «La croce aveva trionfato del Cristo stesso, il Cristo crocifisso, questo si continuava a vedere, a insegnare. Ed è così che questa religione pervenne a oscurare il mondo (enténébrer le monde)» (6). La battuta è di sapore nietzschiano, ma Gide non vuole offendere Cristo: l’«oscuramento del mondo» si deve alla «follia della croce», escogitata dagli animi malati degli Apostoli e soprattutto da san Paolo.
«Riusciamo a scorgere il volto di Paolo, ma il suo cuore ci resta celato» (7). Così inizia la presentazione di Paolo lo scrittore russo Dimitri Merejkowski (1865-1941) nel volume Tre santi in cui, analizzando l’esperienza religiosa di Paolo, Agostino e Francesco d’Assisi, presenta la sua concezione cristiana. Di Paolo è un estimatore convinto. Lo ha frequentato leggendo le sue Lettere e gli Atti degli Apostoli, ha interrogato i suoi esegeti e i suoi storici, ne ha avvertito la presenza nel proprio spirito. Conseguenza? Un sentimento di stupore e di smarrimento perché nell’Apostolo egli ha avvertito la presenza di una realtà sconcertante: la santità. Con Paolo «s’inizia una via lungo la quale, simili a segni misteriosi o a segnali di fuoco, sorgono mille altri santi» (p. 12). Il mistero della santità ci resta sconosciuto.
Osservando il volto dell’Apostolo, Merejkowski riesce a cogliere il segreto del suo cuore: l’amore. «Nessuno, dopo Cristo, ha mai amato più di Paolo gli uomini di maggiore amore. Ecco dove si deve ricercare e dove si trova il segreto della vittoria di Paolo, che ha vinto il mondo» (p. 41). Tale amore è, in lui, fusione della sua volontà con quella del Salvatore; in essa «sta il mistero della Predestinazione, la gioia di tutte le gioie» (p. 31). Alla forza dell’amore si accompagna, in Paolo, la passione per la libertà. È «il più libero degli uomini» perché «sempre prigioniero dello Spirito» (p. 70). Questi due elementi hanno fatto di lui — come del resto anche di Gesù — un ribelle e un perturbatore: «Il primo ribelle è Gesù, il secondo Paolo» (p. 72), «il primo tra tutti i perturbatori è Gesù, il secondo è Paolo» (p. 85).
Uno degli aspetti più significativi di san Paolo è, a parere di Merejkowski, il suo contrasto con Pietro: contrasto da lui enfatizzato fino alla contraffazione, allo scopo di far credere che «la Chiesa non proviene da Cristo» (p. 220). Pietro e la Chiesa sarebbero la legge, la schiavitù, la religiosità statica; Paolo il propulsore di una religiosità dinamica, ispirata allo spirito di libertà. «L’eterna opposizione, l’antinomia tra la legge e la libertà, lacera il cuore di Paolo e lacera il cuore di tutta la Chiesa» (p. 63). Il cristianesimo di Paolo è più genuino di quello della Chiesa perché «appreso da Cristo stesso, suo unico Maestro» (p. 45).
Questo atteggiamento anticattolico dello Scrittore russo gli deriva non soltanto dalla sua dipendenza da studiosi razionalisti e positivisti, ma soprattutto dal fatto che egli «trasfonde nella maggioranza dei suoi scritti la sua strana filosofia della religione, affettatamente profonda, ma in realtà superficiale e isterica» (8). A ciò si deve se il volto del suo san Paolo ha taluni tratti gradevoli e convincenti, altri ambigui e inaccettabili.
Di san Paolo Giovanni Papini (1881-1956) è un cultore entusiasta. Lo cita con frequenza, ne ammira la dedizione, l’energia, la passione. Nel volume Santi e poeti (9) ricerca «quel che di romano vi fu nel suo pensiero e nella sua opera»; nello stesso tempo delinea i tratti specifici della sua personalità. Partendo dall’assioma che «ogni genio ha più d’una patria», all’Apostolo assegna la Giudea come patria etnica, la Cilicia come patria carnale, Roma come patria per diritto e per desiderio.
Alla domanda: quali sono gli elementi che permettono di considerare «romani» il pensiero e l’opera di san Paolo, Papini così risponde: «L’aspirazione all’unità del genere umano, sotto una sola legge e un solo dominatore, la tendenza alla conquista dei popoli, il riconoscimento dell’autorità terrestre ai fini della giustizia e del bene, la diffidenza verso le speculazioni filosofiche che non esclude l’uso della ragione come ausiliaria per la ricerca della verità sono i punti nei quali la prassi di Roma e l’anima di Paolo si accordano» (p. 50). Naturalmente — nota lo scrittore — l’opera di Paolo fu la trasposizione a un ordine indicibilmente più elevato — spirituale e mistico invece che temporale e civico — degli elementi «romani» sopra accennati. Ma ciò non impedisce di scorgere quelle analogie e concordanze che permettono di considerare Paolo «non soltanto cittadino ma santo romano».
Igino Giordani (1894-1980), saggista e narratore, oltre a un’agile biografia di san Paolo (Paolo, apostolo martire, 1929), ha scritto su di lui un profilo preciso ed entusiasta in cui sintetizza gli aspetti che maggiormente lo caratterizzano. «C’è in lui — scrive — il genio del conquistatore, per cui ricorda Alessandro ai greci e Cesare ai romani; c’era nella sua speculazione una profondità che ricordava Platone; e c’era nel suo tratto una tenerezza e una fantasia innamorata, che l’avvicinavano a Virgilio. Ma le loro qualità le fondeva in una sintesi, la quale traeva luce e faceva da candelabro a sette braccia a una fede soprannaturale unica» (10).
In un primo tempo, influenzato da Gide e da certa letteratura nordica, Mario Luzi (1914-2005) confessa di aver visto san Paolo «con occhi distorti», considerandolo «una sorte di custode, autoritario e severo, dell’ortodossia». In seguito ha capito che questo aspetto talvolta c’è, ma in un contesto particolare. San Paolo è tutt’altro: «È una figura mirabile per l’empito e il titanismo, in un certo modo, che egli sprigiona. Veramente quando leggi le sue Lettere ti accorgi della sua estrema consapevolezza e della sua centralità: su di lui grava la decisione di un grande evento, che può finire nel nulla oppure divampare a segnacolo mondiale» (11). Luzi lo ama e lo ammira perché vede in lui «un uomo di grande umanità e di fraternità», consapevole di inaugurare una nuova èra, sovvertendo un modo di vivere e di pensare.
L’elemento che maggiormente colpisce Luzi è il «fuoco di profezia» che fa vibrare l’anima dell’Apostolo. «Mentre parla per istruire gli adepti delle comunità si illumina egli stesso di nuovo sapere, è abbagliato e scosso dalla forza di ciò che sul momento gli si presenta come nuovo argomento di rivelazione. Non cessa dunque di essere in atto profeta neppure quando amministra o governa: e si deve a questa esuberanza di profezia se egli può assumere vertiginosamente sopra di sé l’autorità esclusiva di dettare e di interpretare il vero Vangelo» (p. 156 s). Tale «fuoco di profezia» si sprigiona «da alcune rocciose certezze» che lo alimentano e conferiscono alla sua parola energia e novità. «È il primo a far sentire la fede come sublime non-senso», follia e scandalo. «Paolo esaspera ed enfatizza questa differenza per aumentare lo scandalo della rottura, per mettere in chiaro una volta per sempre la natura sconvolgente della fede» (p. 16). Centro della fede è Gesù Cristo, il Vivente, il Risorto. «Il nucleo della sua [di Paolo] forza sta nell’assunzione totale ed esclusiva del Cristo Gesù come termine di ogni verità e di ogni giudizio» (p. 161). Paolo emerge dal «caos dell’errore e dell’inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza» (p. 163).
Pietro Citati (1930) in un capitolo del volume La luce della notte (12) immagina che un oscuro letterato platonico, vissuto tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo d. C., legga la prima Lettera ai Corinzi e la Lettera ai Romani e ne resti sconvolto. «Aveva un’altissima immagine di Dio: come di un Essere purissimo e invisibile, senza forma e colore, completamente diverso dall’uomo, e sempre uguale a se stesso». Le Lettere di Paolo capovolgono questa sua immagine, soprattutto le affermazioni: che Dio si era fatto uomo e amava l’uomo di carne; che Dio si manifesta nella storia degli uomini come scandalo, follia e stoltezza; che il male non sta nella creazione, fuori di noi, ma nel nostro animo. Paolo inoltre derideva ogni sapienza umana e respingeva quanto era stato affermato su Dio, sull’uomo, sul tempo, sul futuro, sull’amore.
Che cosa conclude Citati? «Malgrado tanto tempo trascorso, e tante migrazioni e fusioni, malgrado la furia di Paolo si sia ammorbidita e il suo stile abbia trovato una forma, il cristianesimo è ancora lo scandalo: la follia della croce, la ferita di Dio, la lacerazione dell’universo. Il contrasto non è conciliato: né forse può esserlo mai. A noi spetta soltanto di conservarlo puro nella nostra mente: di percorrere entrambe le strade sino all’estremo, senza attendere una soluzione» (p. 107). In verità, «dentro di noi c’è un platonico che commenta Paolo; e un cristiano paolino che commenta Platone» (ivi).
 
San Paolo nella narrativa
A san Paolo la scrittrice anglo-americana Taylor Caldwell (1900-85) ha dedicato un fluviale romanzo — Il leone di Dio (13) — dopo «uno studio approfondito durato diversi anni». È da crederle perché, a lettura finita, bisogna riconoscerle larghe conoscenze dell’ambiente geografico, storico, etnico, politico, religioso. Carente è invece la preparazione biblica e la personale sensibilità religiosa nel trattare episodi e documenti.
Nell’Apostolo l’Autrice ha «voluto vedere l’uomo così come egli era, un uomo simile a noi, con gli stessi dolori, dubbi, ansie e collere, e intolleranze, e “debolezze della carne” che affliggono noi tutti» (p. 12). Aveva un geloso e tenace attaccamento alla corrente dei farisei, un’intelligenza acuta, ma intollerante e polemica, una psicologia alterata: era osservante scrupoloso della Legge, dominato da un timore di Dio fino all’ossessione e talvolta alla disperazione; soprattutto era un uomo dominato dal confuso presentimento di una grande missione da compiere senza sapere né come né dove.
Le prime due parti del romanzo si leggono con gusto e interesse, data la capacità dell’Autrice di costruire la figura del protagonista con una straordinaria forza di lineamenti, in una prosa piacevole e duttile. Nell’ultima parte — la terza — il romanzo perde mordente: ci si sofferma su descrizioni, belle ma superflue, la fantasia corre senza controllo, la figura di san Paolo sbiadisce e perde di autenticità. Il leone di Dio è un romanzo per alcuni aspetti pregevole, per altri debole e mal sicuro.
Convincente per solidità di struttura e per validità letteraria è il romanzo La spada santa di Jan Dobraczynski (14), tra i più noti, fecondi e discussi scrittori polacchi del Novecento. La storia di san Paolo è il sottotitolo del romanzo. In esso l’elemento storico è solido, il fantastico è dilatazione della storia, suo completamento e spiegazione, l’insieme risulta armonico e compatto. Il romanzo si presenta come un mosaico sul quale è ritratta la storia della primitiva comunità cristiana. Grazie a un continuo flashback, il lettore si muove sull’itinerario di Paolo, ne rivive gli incontri, le peripezie, i dilemmi, ne approfondisce il messaggio, ne intuisce il mistero che in lui si compie.
Le idee di fondo del romanzo sono quattro. Innanzitutto, la presenza di Cristo nella vita dell’Apostolo. Essa conferisce significato al suo agire, chiarezza alle sue scelte, coraggio e fiducia alle sue imprese. In secondo luogo, la consapevolezza dell’universalità della redenzione. Idea, questa, che per un ebreo come Paolo, legato a Gerusalemme e al Tempio con tutte le fibre dell’essere, costituiva un continuo martirio. La terza idea è la novità cristiana che rivoluziona pratiche secolari e proclama il loro superamento. Infine, la consapevolezza della propria nullità. Dopo aver riferito alla comunità di Gerusalemme la diffusione del Vangelo in molte regioni pagane e perfino in città ritenute dissolute (Corinto), arroganti (Atene), «impestate da mostruose superstizioni» (Efeso), dichiara: «Non io le ho conquistate, fratelli, perché io sono una nullità, e quando arriva il momento di predicare, sto davanti alla gente, debole e spaventato, e non trovo le parole, e nella testa ho una grande confusione. Ma il Signore si compiace di mostrare la Sua potenza attraverso la mia miseria. Chi sono io? Mi conoscete. Ero un criminale, figlio dell’ira, che agiva male anche se non lo sapeva. Non conquisterei nessuno, se non fosse per il Signore. Il Signore è tutto» (p. 61).
Nel presentare san Paolo, Dobraczynski ne fa vedere anche l’attualità e l’urgenza: la pace e la giustizia non vanno ricercate con la spada ma con la comprensione e la fratellanza. Cioè con l’amore. E l’amore per il Risorto abbraccia e trasfigura ogni realtà: «Ma alla fine capii — afferma Paolo —. Capii che amare Gesù significa amare tutto e che in questo amore nulla perisce. Perché quando tutto sprofonderà in esso, in esso tutto si potrà ritrovare» (p. 272).
Miklós Mészöly (1921-2001), noto scrittore ungherese, nel romanzo Saulo (15) descrive l’antitesi tra il mondo intransigente della Legge, simboleggiato da Abiatar, amico di Saulo, e quello del nuovo Verbo, fondato sull’amore e sul perdono, simboleggiato da Stefano. Saulo è impegnato a fondo nella difesa della Legge e nel punire quanti la misconoscono. Un dialogo notturno con Stefano, prima che questi venga arrestato, gli rivela la superiorità di una legge fondata sull’amore e sulla libertà. Partecipa alla lapidazione di Stefano, ma si sente braccato da una misteriosa presenza che lo sospinge verso coloro che perseguita. Andando verso Damasco, calzando i sandali che Stefano gli ha lasciato in eredità, resta accecato. Dove lo condurrà la misteriosa presenza?
 
San Paolo in tre opere drammatiche
Guido Manacorda (1879-1965), letterato di vasta cultura, è autore di Paolo di Tarso (16), dramma sacro in tre atti e un intermezzo, costruito con intelligenza storica, denso di contenuto, un po’ debole nella struttura drammatica.
Il primo atto si svolge a Gerusalemme, nella spianata del Tempio, a pochi giorni dalla crocifissione di Gesù. In un incalzare di voci si distinguono quelle degli Apostoli, frastornati dagli eventi. Sulla scena interviene Saulo, osserva con disgusto la gente che acclama Barabba, dichiara il suo odio per i mercanti e i sacerdoti che tradiscono la Legge. Poi, rivolto a Giovanni, incalza: «Ma più di tutti odio voi, Nazareni, perché con le vostre parole di perdono e di pace snervate le ultime forze d’Israele, e volendo tutti fratelli, ci date in balia del nemico» (p. 29).
L’intermezzo ha come sfondo la strada per Damasco. Quando Saulo incontra la Samaritana, che crede in Gesù, e un pastore che a Betlemme ha visto il Bambino e ascoltato la voce degli angeli che lo hanno proclamato «Cristo, il Salvatore del mondo», furente, punta la spada contro di loro, ma una luce violenta lo abbatte. Lo sguardo velato, le braccia aperte, «Fratelli miei in Cristo, Signore nostro…» comincia a dire, ma vacilla, come sopraffatto, è sorretto e condotto a Damasco.
Il secondo atto si svolge nell’areopago di Atene. Paolo parla ai filosofi che lo ascoltano con interesse ma ne respingono le idee: «Manca di scuola!» e «quell’accento giudaico, che peccato!». Soltanto Dionigi e Damaride, povera peccatrice convertita, lo seguono. Nel terzo atto siamo a Roma, presso un coemeterium dove i cristiani si sono radunati per la santa Cena. Presiede Pietro, partecipano Paolo e Giovanni. Si legge il Libro, si canta, si prega, si consuma l’agape, ci si esorta alla fedeltà a Cristo, in un’atmosfera di gioia ma anche di ansia per il presentimento del martirio di Pietro e Paolo.
Nel dramma Manacorda ha inteso puntualizzare lo scontro tra l’ebraismo religioso del tempo, svuotato d’interiorità, e l’adorazione «in spirito e verità», chiesta da Gesù; tra la filosofia greca e la verità della Rivelazione. In particolare il dramma mette in risalto la rivoluzione dell’amore cristiano che non conosce barriere, illumina la vita, vince il peccato e la morte. Paolo si congeda con un invito alla gioia: «Pantote chairete… Siate sempre gioiosi».
Altre due opere drammatiche hanno san Paolo come protagonista. In Al Dio ignoto Diego Fabbri (1911-80) porta sulla scena un gruppo di attori, stanchi di finzioni e di parole vuote, e assetati di verità e di consistenza. È possibile credere nella risurrezione e sperare in un traguardo trascendente e appagante? Si ribellano all’eclissi di Dio e allo scetticismo, e si impegnano ad approfondire «il punto fondamentale» della fede cristiana, la risurrezione. Così decidono di riviverla per verificarne la veridicità. L’azione drammatica si fa viva e intensa per l’intervento dei vari testimoni e la disarmante semplicità dei testi evangelici. Dopo l’apparizione di Cristo sotto forma di luce, avanza verso il gruppo degli attori Paolo, fa un gesto di tacere, e rivolge un discorso esaltante. Sì, Cristo è realmente risorto, è apparso agli Apostoli, a molti fratelli ancora vivi, infine anche a lui. Dichiara che per testimoniare la risurrezione si affrontano persecuzioni di ogni genere, e conclude: «Non si soffre, fratelli miei, come abbiamo sofferto noi, non si è imprigionati e flagellati come è accaduto a noi, non si versa il proprio sangue per delle visioni: noi abbiamo avuto e abbiamo la certezza della risurrezione. La nostra è una moltitudine pacifica ma travolgente che ha per condottiero un Risorto» (17).
Paolo fra gli Ebrei di Franz Werfel (1890-1945) (18), più che un vero dramma, è una «leggenda drammatica», fondata su due tradizioni, al cui centro sta lo scontro tra il Rabbi Gamaliele e il suo discepolo Saulo di Tarso, convertito a Cristo. L’amato Rabbi si dichiara disposto a riconoscere in Gesù un Maestro giusto, ma non il Messia, come crede Saulo. Congedandosi da Gamaliele morente, Paolo ha la rivelazione del suo drammatico destino: «Andare, andare, perché Cristo è un cacciatore infaticabile».
 
Il film mancato di P. P. Pasolini
Nel «progetto per un film su san Paolo» (19) Pasolini intendeva mostrare l’attualità dell’Apostolo. Più chiaramente, intendeva trasportare l’intera vicenda di san Paolo ai nostri giorni, in modo che lo spettatore percepisse che «san Paolo è qui, oggi, tra noi e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia». Conseguentemente l’itinerario paolino si sarebbe spostato dal bacino del Mediterraneo all’Atlantico; così al posto di Gerusalemme, Antiochia, Tarso, Atene, avremmo avuto Parigi, Roma, Londra, Monaco, New York, Barcellona, Napoli. La sostituzione delle località avrebbe comportato la sostituzione del conformismo del tempo di Paolo col conformismo contemporaneo, più precisamente con quello degli Anni Sessanta del Novecento. Vicende personali e difficoltà produttive impedirono la realizzazione del film; di esso abbiamo un abbozzo di sceneggiatura — San Paolo — che consente una conoscenza della concezione pasoliniana sull’apostolo Paolo.
L’idea portante del film fu espressa dallo stesso Pasolini in una lettera a don Emilio Cordero, che reca la data 9 giugno 1966: «Sono certo che sia lei che Don Lamera sarete, come si dice, choccati, da questo abbozzo. Infatti qui si narra la storia di due Paoli: il santo e il prete. E c’è una contraddizione, evidentemente, in questo; io sono tutto per il santo, mentre non sono certo molto tenero con il prete». Tale distinzione permette a Pasolini di identificare la Chiesa col potere, con una istituzione umana, con una necessità («L’istituzione della Chiesa è stata solamente una necessità», p. 56). Tale istituzione è opera diabolica, suggerita e raccontata da Luca, autore degli Atti degli Apostoli, «invaso dal Demonio» (p. 66); «in lui si è incarnato il mandante di Satana» (p. 49).
Paolo vive il dramma di un’anima scissa tra santità — che è libertà, interiorità, gioia — e sacerdozio, che è potere, schiavitù, moralismo. Pasolini insiste nella presentazione di un Paolo spiritualmente dilacerato perché privo di unità interiore. Nel salone di rappresentanza dell’ambasciata italiana «appare in veste di organizzatore, di ex-fariseo, duro, invasato, diplomatico, insomma non santo, ma prete» (p. 130). E il prete, in lui, è autoritario, «il suo volto spira forza, sicurezza, salute e, in qualche modo, una forma di violenza» (p. 140). Il «prete» arriva anche a pronunciare queste parole: «Il nostro è un movimento organizzato… Partito, Chiesa… chiamalo come vuoi [...]. Dobbiamo difendere questo futuro bene di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali. Accettando di tacere su cose che si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, di fare cose che non si dovrebbero fare» (p. 114).
L’anima del «santo» è soprattutto libertà. Dopo il battesimo, un misterioso sorriso illumina la sua «faccia distorta di fanatico, e dice a bassa voce, ma come si dicono le prime parole di un inno, guardandosi umilmente intorno: “Per la libertà Cristo ci ha liberati”» (p. 33). Libertà da quanto è istituzione, legalismo, convenienza, non importa se ciò comporta scandalo ed emarginazione. Infatti sarà emarginato e respinto sia dai fautori dell’organizzazione sia dagli intellettuali; trascorrerà i suoi giorni in balia di malanni, di rimorsi e di ossessioni che lo ridurranno a uno straccio. L’ultima inquadratura lo presenta «con la faccia del malato, del reietto, ben diverso dal grande organizzatore e teologo, potente e sicuro di sé, in una povera stanza di albergo, ispirato e doloroso», intento a scrivere la lettera di commiato a Timoteo: «Quanto a me, io sono già versato in libagione ed è giunto il momento che io debba sciogliere le vele. Ho combattuto il buon combattimento, ho terminato la corsa, ho mantenuto la fede» (p. 164).
In San Paolo Pasolini riferisce — trasfigurandoli poeticamente — vari episodi della vita dell’Apostolo e riporta correttamente molti suoi testi; tutto però avviene in un contesto «pasoliniano», abitato da complessi psicologici, da rimorsi mai sopiti, da arbitrarie riduzioni teologiche. Nell’Apostolo egli ha trasferito le proprie ossessioni e prospettive.
 
Due biografie
Emile Baumann (1868-1941), narratore dagli sfondi psicologici, talvolta aspri e audaci, è l’autore di una biografia di san Paolo, notevole per validità letteraria, storica e strutturale. Dopo aver percorso gli itinerari dell’Apostolo, ne ha raccontato la «sublime e terribile avventura» con il preciso scopo di «raggiungere l’anima». Grazie alla sua capacità di scavo psicologico, di resa letteraria, di fedeltà ai testi storici, raggiunge lo scopo e offre al lettore un’immagine viva di Paolo che definisce «una delle anime più ardenti di passione, che abbiano sconvolto la terra» (20).
Suggestiva e ben definita è la biografia dell’Apostolo scritta da Henri Daniel-Rops (1901-65), noto storico della Chiesa e robusto autore di romanzi. Nella sua ottica san Paolo «è un ebreo, figlio di una cittadina ellenistica e di un cittadino romano. Ciò vuol dire che egli partecipa di tre forme di civiltà, che egli è attraversato da tre correnti differenti» (21). Il tutto in lui si fonde, si nobilita e si trasfigura nella redenzione operata da Cristo. Sotto l’aspetto psicologico, Paolo «è un essere pieno di contrasti, esigente e tenero, violento e sensibile e, nello stesso tempo, energico e meditativo» (p. 89). In particolare «la potenza della sua personalità è una potenza d’amore; non è l’umanità intera, considerata astrattamente che egli ama e vuol condurre alla salvezza; è ogni uomo in quanto persona, poiché l’amore non conosce che persone» (p. 90 s).
In Paolo — nota Daniel-Rops — si trovano quelle note, intellettuali e spirituali, che fanno di lui «un essere senza pari», diciamo pure «un genio»: «la lunga pazienza, la solidità, l’accanimento nello sforzo [...], la conoscenza lucida dello scopo da raggiungere, l’energia paziente nel tendervi [...], lo spirito di entusiasmo, la fede» (p. 92 s). È anche un «grande scrittore [...] perché possiede il dono delle formule che colpiscono», di dare alle parole un senso nuovo «con ravvicinamenti abbaglianti». Possiede inoltre la potenza di evocazione, l’arte di condensare in brevi battute concetti profondi, la varietà di toni e di formule, il balzo poetico che gli consente voli sublimi «come un grande uccello al di sopra di abissi vertiginosi». Con felice intuizione, così lo Scrittore conclude l’argomento: «Se san Paolo è un grandissimo scrittore, è perché prima è un uomo, e poi uno scrittore» (p. 175).
Chi è san Paolo? «Vien detto di lui “che egli fu il primo dopo l’unico”; il suo posto fu tale che non possiamo comprendere Gesù e la sua Parola senza riferirci al santo genio di Tarso, al suo messaggio, alla sua azione» (p. 235).
«Assume sul suo cuore la passione del Dio eterno»
Paolo, come Gesù, segno di contraddizione: accolto e respinto, amato e odiato. Non ci si accosta a lui impunemente: la sua parola colpisce, rivela, interpella, esalta, inquieta. La sua visione dell’uomo e della storia riceve luce dall’Alto. Paul Claudel ne descrive alcuni tratti in solenni ritmi poetici: «Vedendo Dio, [Paolo] vede con Dio questo mondo ingrato e crudele, e assume sul suo cuore umano la passione del Dio eterno. / E poiché Dio non ha voce, egli è la voce che parla per lui. / [...] Egli va dove il vento lo porta, senza fine né sosta, da un capo all’altro del mondo, come un fuoco che il vento strappa e trascina oltre il mare! [...] E vedendo quei figli ciechi e quei popoli che muoiono senza battesimo, / piange, si torce le mani e chiede di essere anatema per essi» (22).
 

1 F. NIETZSCHE, «Ecce homo», in Opere 1882-1895, Roma, Newton, 1993, 894.
10 I. GIORDANI, «San Paolo», in G. BARRA (ed.), Santi per oggi, Torino, Borla, 1955, 127.
11 M. LUZI, La porta del cielo, a cura di S. VERDINO, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1997, 73.
12 Cfr P. CITATI, La luce della notte, Milano, Mondadori, 1996.
13 Cfr T. CALDWELL, Il leone di Dio, ivi, 1972.
14 Cfr J. DOBRACZYNSKI, La spada santa. La storia di san Paolo, Torino, Gribaudi, 2002.
15 Cfr M. MÉSZÖLY, Saulo, Roma, E/O, 2001.
16 Cfr G. MANACORDA, Paolo di Tarso, Firenze, Vallecchi, 1927.
17 D. FABBRI, Tutto il teatro, vol. II, Milano, Rusconi, 1984, 2.341.
18 Il dramma — Paulus unter den Juden (1926) — non è stato tradotto in italiano.
19 Cfr P. P. PASOLINI, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977. Per una puntuale esegesi del testo pasoliniano cfr I. QUIRINO, Pasolini sulla strada di Paolo, Lungro (Cs), Marco, 1999.
2 ID., L’Anticristo, ivi, 797.
20 E. BAUMANN, San Paolo, Brescia, Gatti, 1952, 340.
21 H. DANIEL-ROPS, San Paolo, Alba (Cn), Ed. Paoline, 1952, 104. Il titolo originale è Saint Paul, conquérant du Christ.
22 P. CLAUDEL, Corona benignitatis anni Dei, Parigi, Gallimard, 1920, 169.
3 Cfr K. GIBRAN, Gesù figlio dell’uomo, Milano, SE, 1987.
4 A. GIDE, «I nuovi nutrimenti», in ID., I nutrimenti terrestri, Milano, Mondadori, 1948, 169.
5 ID., Diario, vol. III, Milano, Bompiani, 1954, 44.
6 Ivi.
7 D. MEREJKOWSKI, Tre santi: Paolo, Agostino, Francesco d’Assisi, Milano, Mondadori, 1936.
8 N. VON ARSENJEV, Die russische Literatur der Neuzeit und Gegenwart, Mainz, 1929, 360. Il testo è riportato da B. SCHULTZE, Pensatori russi di fronte a Cristo, voll. II e III, Firenze, Mazza, 1949, 57.
9 G. PAPINI, Santi e poeti, Firenze, Lef, 1948. 
 
Fonte: La Civiltà Cattolica 2008 III 475-488  quaderno 3798

Liberare gli schiavi (1Cor, tema e citazione)

dal sito:

http://www.giovaniemissione.it/spiritualita/andcat22.htm

Liberare gli schiavi

Gim di Roma Gennaio 2004

Nella prima lettera ai Corinzi, Paolo affronta varie questioni disciplinari, tra le quali, quella abbastanza cruciale della circoncisione. Al capitolo 7,20 afferma: Circoncisione o incirconcisione è niente. Ciò che conta è l’osservanza del comandamento del Signore. E’ in gioco qualcosa di importante. La circoncisione marcherà per il popolo di Israele l’avvenuta liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e l’appartenenza del popolo stesso a Dio. Essa, dunque, era un segno di libertà. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’esenzione da essa per i credenti provenienti dal paganesimo, diventa una questione di libertà. E’ importante, dunque, cercare di penetrare il senso che l’apostolo attribuisce a questa “nuova” libertà che Cristo è venuto a portare. In particolare si possono sottolineare tre aspetti di essa:
1. La libertà cristiana non è primariamente una condizione esteriore. Essa è piuttosto una qualità dell’interiorità. Ovviamente anche per l’antico Israele la circoncisione rimaneva un segno esterno di una libertà più profonda legata all’alleanza con Dio ed alla circoncisione del cuore tanto annunciata dai profeti. Non di meno, con la grazia, interviene qualcosa di veramente nuovo. Le circostanze esterne diventano veramente relative: non c’è più né Giudeo né Greco, né schiavo né libero… né uomo né donna… ma tutti siete una persona sola in Cristo… Gal 3,27 La libertà, dunque, diventa una dimensione della personalità interiore della persona.
Dove, dunque, sperimento questo bisogno di libertà?
Ovviamente qualsiasi circostanza che mi limita mi fa sentire il bisogno di libertà: la mia storia, limitazioni nelle possibilità a me date di realizzazione, il mio carattere che non mi piace, le mie sofferenze interne od esterne… insomma tutto ciò che mi porta alla mormorazione oppure alla ribellione segnala un bisogno di libertà. La novità del discorso evangelico però sta proprio qui: se la libertà è innanzitutto una qualità della tua personalità interiore allora non questa libertà non è semplicemente libertà da quelle circostanze esterne, ma piuttosto dalla tua stessa ribellione o non accettazione. Non si tratta di cercare un semplice cambio delle circostanze ma un modo nuovo di esserci in quelle circostanze. Solo allora si aprono cammini di liberazione vera. Paolo insiste su questo punto: ognuno rimanga nella condizione in cui è stato chiamato… se sei schiavo non te ne fare una preoccupazione… Sta forse Paolo suggerendo la passività? No. Egli aggiunge subito: ma se puoi acquistare la libertà cerca di fare uso di ciò.
Il punto è un altro: finché tu cerchi una libertà dalle semplici circostanze esterne rischi di cadere in una schiavitù ancora peggiore: quella di costruirti un’immagine, un idolo che ti faccia sentire a posto e che ti permetta di affermare te stesso. Se sei stato chiamato da schiavo non fartene una preoccupazione. Non farne una questione di immagine, di competizione, di arrivismo, di confronto con gli altri perché in tal caso non stai cercando la libertà di Cristo ma piuttosto proprio quelle stesse cose che tengono schiavi gli altri che pure si dicono liberi. La ricerca di una libertà interiore sposta allora il fuoco della tua preoccupazione: non mi preoccupo d’essere libero da questo o da quello. Voglio essere libero per questo o per quello. Per un bene. Per una finalità che vada oltre l’affermazione del mio io. Non voglio semplicemente avere la libertà. Voglio saperla usare. Voglio che essa serva a costruire qualcosa. Qui si inserisce la seconda dimensione della libertà cristiana.
2. La libertà cristiana è una qualità dell’interiorità che si esprime primariamente nella capacità di aprirsi ad un altro. Di rendersi disponibili. Il bambino non è libero quando fa i capricci, ma quando impara a dire un “si” responsabile, a rispondere all’altro. C’è un inganno nella cultura attuale: uno è libero se può fare quello che vuole. Ma quando tu fai quello che vuoi che cosa fai? Sei costantemente orientato a cercare quello che ti piace, ti interessa, ti serve. Sei portato a dominare sull’altro. Ti chiudi all’altro per affermare te stesso. Libero, in realtà, non è colui che fa quello che vuole ma colui che può fare ciò che l’amore vuole. Ciò che conta è l’osservanza del comandamento del Signore. Fate tutto senza mormorazione… “qualunque cosa fate, fatela di cuore, come per il Signore e non per gli uomini” (Col 3,23) Non per gli uomini, per un vantaggio, per costruire un’immagine, per un interesse, bensì di cuore, gratuitamente, a partire da un’esigenza interiore di servizio e di amore. Quando la libertà è posta nel suo giusto contesto dell’amore non solo essa diventa una qualità dell’interiorità ma anche qualcosa che per crescere desidera vincolarsi. Io voglio essere tutto a tutti pur di guadagnarne qualcuno. La vera libertà di “Pinocchio” è cominciata quando finalmente si è “vincolato” a suo Padre, dopo averlo ritrovato nella pancia della balena, nell’esperienza della morte e della prigionia. Il discorso, dunque, non è quello di restare burattini. Ma nemmeno quello di diventare liberi come un fine a se stesso. Si tratta di diventare figli, liberi nella figliolanza, persone che hanno accolto in sé la personalità interiore di Cristo, il Figlio per eccellenza. “Colui che è chiamato da libero, dunque, è schiavo di Cristo” (v 22) La sua libertà consiste nella capacità di dimenticare se stesso per amare e servire come Cristo.
3. La terza dimensione della libertà cristiana è quella del dono. Tale libertà, cioè, non è un diritto. Non è qualcosa che puoi conquistarti con i tuoi sforzi o con la buona volontà. “Siete stati comprati a caro prezzo” (v 23) Sei stato riscattato. Tu non avevi il prezzo della tua libertà. Un altro ha pagato per te (parabola dei due servi insolventi).
Paolo aggiunge una raccomandazione che è conseguenza di questo riscatto: non diventate schiavi di uomini. Nella misura in cui la tua interiorità resiste a vincolarsi all’amore di Cristo essa resta in balia degli uomini: paure, rispetto umano, compromessi, falsi valori… Negli Atti si rivela la facilità con cui Demetrio, il costruttore di idoli, riesce a manipolare le folle (19, 23-24). Si tratta di persone apparentemente libere ma che in realtà non hanno interiorità, un riferimento chiaro ai criteri dell’amore e del bene concreto. Cose che si ripetono ai nostri giorni con il caso della Parmalat, Cirio ed altre cose del genere.
Cerchiamo in una scena di vita vissuta un’esemplificazione delle dimensioni della libertà cristiana appena descritte. Ci rifacciamo al caso della fuga di Onesimo dal suo padrone Filemone e della lettera che successivamente Paolo gli scriverà per invitarlo a perdonare lo schiavo fuggito e ad affrancarlo nel Signore Gesù.
Paolo, dunque, è egli stesso prigioniero e in catene. Eppure non si lascia condizionare dalle circostanze esterne. Agisce come uno che può donare libertà allo schiavo Onesimo, ma anche allo stesso Filemone. Li conduce alla libertà di Cristo.
Filemone è libero. Eppure viene da Paolo richiamato alla sottomissione e quindi ad esercitare accoglienza verso Onesimo.
Onesimo, infine, è uno schiavo che cerca la libertà. All’inizio cerca una libertà solo esteriore e scappa. Poi incontra Paolo e viene aiutato a cercare l’essenziale: una libertà più profonda che consiste in una ritrovata relazione con Filemone e nella capacità di rimettersi a servizio ma con un cuore nuovo.
Da cosa si percepisce nell’atteggiamento di Paolo che la sua libertà è una qualità dell’interiorità?

-         L’apertura di Paolo a relazioni di amore gratuito, di collaborazione e non di interessi o vantaggi soggettivi: ho gioia per il tuo amore e per il fatto che per merito tuo il cuore dei santi è stato ricreato (v.7).

-         La gratitudine invece della mormorazione: ringrazio il mio Dio… provo gioia e consolazione. Paolo potrebbe confrontare la sua situazione di prigionia con quella di Filemone che è di libertà e provarne rabbia o dispetto o gelosia. Invece ringrazia.

-         Il ricordo che perdura invece della labilità degli affetti: ogni volta che mi ricordo di te nelle mie preghiere ringrazio Dio. 

Come Paolo esercita la sua libertà e la sua autorità?  non in termini di dominio sull’altro ma di disponibilità verso la volontà dell’altro.

-         Desideravo tenerlo per me … ma non l’ho trattenuto (13). Paolo non ritiene il proprio criterio come volontà di Dio o come principio di decisione.

-         Non ho voluto decidere a tua insaputa…(14) La sua libertà non consiste nel decidere da solo, senza Filemone… “affinché l’opera buona sia spontanea e non imposta dal fatto compiuto.

-         Metti sul mio conto, pagherò personalmente (18-19)… Paolo accetta di pagare il costo implicito nella ricerca di un vero bene, nell’esercizio della vera libertà di amare. Sei anche tu davvero libero di soffrire qualcosa per fare il bene? 

La libertà di cui parla Paolo non è un semplice diritto ma un dono

-         Non ti dico – parla a Filemone – che tu devi a me anche te stesso (19). Anche tu sei stato riscattato. Si fratello. Che io possa servirmi di te nel Signore. La libertà che ho ricevuto non ha prezzo. Sei debitore di amore.

-         Ho fiducia nella tua docilità sapendo che farai di più di quello che ti chiedo. Proprio perché anche la libertà di Filemone è un dono che egli non potrai mai ripagare, Paolo, è fiducioso che non si limiterà a rispettare diritti e ragioni ma che farà di più. 

E’ vero, dunque, che Paolo non si rivolge immediatamente alle strutture esterne di schiavitù e di libertà, ma è pur vero che lo stile di amore che egli annuncia fa esplodere al loro interno questo strutture in modo che nasca una libertà relazionale totalmente nuova:

-         la libertà di chiedere senza paura e di dare più dello stretto necessario o dovuto

-         la libertà di creare subito delle relazioni di fraternità laddove le strutture sociali tardano a cambiare. La libertà di vivere già in quelle strutture in termini di amore.

-         La libertà di perdonare. Di servire, cioè di scoprire la bellezza di rendersi utili (onesimo significa: inutile). Quello che una volta non ti fu utile – proprio perché materialmente schiavo – adesso che torna libero è utile a te e a me. Questa è una sapienza di vita: ogni volta che ti limiti ad usare la vita o gli altri per te stesso non ne ricavi nulla di utile. Non ti giova.

-         La libertà di scoprire una profondità ed una stabilità di relazioni che l’egoismo e l’individualismo non permettono: ti rimando il mio cuore (12), ti è stato sottratto per un tempo breve perché tu possa riaverlo per sempre (16), non come schiavo ma come fratello (16)

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