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IL RAPPORTO LEGGE-LIBERTÀ NEL PENSIERO DI PAOLO – † LUIGI PADOVESE

http://www.cccsanbenedetto.it/Pagina_CCC/I_nostri_incontri/conferenza_legge-liberta.doc.

SAN BENEDETTO CENTRO CULTURALE CATTOLICO

La fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta,  non intensamente pensata, non fedelmente vissuta, Giovanni Paolo II

(non mi sembra di averlo messo)

In occasione dell’Anno Paolino, il Centro Culturale « Alle Grazie » della comunità domenicana della Basilica di Santa Maria delle Grazie di Milano, il Centro Culturale Cattolico San Benedetto, la Fondazione Vittorino Colombo e il Coordinamento regionale dei Centri Culturali Cattolici della Lombardia hanno organizzato la mostra su San Paolo « Sulla via di Damasco. L’inizio di una vita nuova » e tre serate di approfondimento una era stato sul tema « La legge e la libertà » Mons Padovese era stato ospite del Centro Culturale San Benedetto Venerdì 3 aprile 2009 insieme a padre Paolo Garuti (domenicano, biblista, docente di Scienze bibliche presso la Pontificia Università S. Tommaso di Roma e l’École Biblique di Gerusalemme) La serata era stata presentata da Luca Tanduo e Paolo Tanduo fondatori del Centro Culturale Cattolico San Bendetto

IL RAPPORTO LEGGE-LIBERTÀ NEL PENSIERO DI PAOLO

 † L U I G I   P A D O V E S E   

VICARIO APOSTOLICO DELL’ANATOLIA E PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE TURCA

 E’ stato il documento conciliare Gaudium et spes a rilevare che « mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto di libertà » . Concetti analoghi ritroviamo nell’istruzione Libertà cristiana e liberazione della Congregazione per la dottrina della fede. Nel testo in questione si legge che « la coscienza della libertà e della dignità dell’uomo, congiunta con l’affermazione dei diritti inalienabili della persona e dei popoli, è una delle caratteristiche del nostro tempo » .  Queste considerazioni poggiano sul fatto storico che l’accresciuta consapevolezza della libertà è stata una delle forze principali nel plasmare la nostra civiltà. A modo di premessa va precisato che la libertà non costituisce un bene per sé stesso, un valore finale. Ciò che è appetibile per sé stesso è possedere il proprio fine sino al punto in cui ogni appetizione viene meno. Da questo punto di vista la libertà non è nient’altro che lo stile umano, il modo umano di autodeterminarsi nella scelta e nell’esecuzione della scelta.  Il cammino storico che porta a questo concetto generale di libertà si sviluppò originariamente nella Grecia e nelle sue colonie. Qui il concetto di libertà s’è via via precisato ‘per contrasto’ : nell’opposizione tra schiavo e padrone; all’interno della città, tra cittadino con diritti e chi non li aveva; all’interno del mondo antico, tra le libere città greche e i persiani. La riflessione filosofica greca ha concorso a meglio definire la libertà della persona come « libertà spirituale » caratterizzata dalla piena padronanza di sé e dall’emancipazione da condizionamenti esterni .  Il sentimento di libertà, espresso nel pensiero greco, si è successivamente fuso, arricchendosi, con il messaggio cristiano contribuendo alla nascita del sentire odierno. Lo stesso fenomeno di arricchimento si può constatare anche in altri ambiti. Basterebbe rilevare l’incidenza che la riflessione trinitaria e cristologica della Chiesa antica ha avuto nel definire il senso dell’esistenza umana, già precedentemente intravisto dalla filosofia greca. Espressioni come « persona », « dignità personale », « dialogo », rimarrebbero suoni vuoti se non avessero trovato una prima applicazione in teologia, divenendo in un secondo momento oggetto dell’antropologia. E’ stato, infatti, dimostrato che « nella storia dello spirito occidentale la concezione del Dio personale, in particolare quella trinitaria, appare come uno dei presupposti essenziali, se non come il più essenziale, della possibilità di una soggettività libera, dello sviluppo dei diritti umani come diritti soggettivi di libertà » .  Uno sviluppo analogo non si constata nell’ambito culturale di altre religioni . Veramente il discorso su Dio e su Cristo ha stimolato e allargato le conoscenze sull’uomo ed ha sensibilmente contribuito ad affermarne il valore profondo. Tanto per esemplificare, osserviamo come la lotta per il riconoscimento della dignità e libertà umana trovi, in ambito originariamente cristiano, motivazioni e impulsi a partire dalla ‘parentela’ intrecciata da Dio con l’uomo e rafforzata in Cristo. Le teologie che leggono la storia della salvezza come evento di libertà e per questa strada vogliono liberare l’uomo dalle diverse schiavitù odierne, scoprono il loro fondamento ultimo nel testo di Gn 1,26 (« Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza ») e nella constatazione che « il Verbo si è fatto carne ».  Queste considerazioni sul rapporto tra teologia e antropologia in ordine al tema della dignità e libertà umana, non impediscono di riconoscere che l’idea di libertà, maturata con l’apporto determinante anche se non esclusivo del cristianesimo, non è più un concetto omogeneo; anzi è talmente esposta a fraintendimenti da indurre a credere che la crisi dell’Occidente sia una crisi dell’idea di libertà . Come non osservare che la parola libertà, inflazionata sino alla svalutazione, serve a giustificare un atteggiamento di  indifferenza verso gli altri, di apparente tolleranza che – tutto sommato – nasconde una mentalità relativista sia in ambito sociale che privato? Non è forse vero che l’uomo è libero ma non sa più perché (libero da, libero di, ma non libero per?)  E’ vera libertà la mancanza di vincoli? E’ vera libertà il semplice fatto di disporre di beni di consumo come vorrebbe farci credere una società di mercato che riduce questo concetto all’autogestione dell’uomo su se stesso e alla funzione dell’avere?  Non è forse vero che libertà e scelta nella cultura odierna sono divenuti sinonimi? Una tale idea di libertà è certamente riduttiva, perché non rispetta la struttura comunicativa, relazionale dell’uomo.  E’ la libertà dell’individuo, non della persona.  In riferimento al mondo occidentale il sociologo Ulrich Beck ha recentemente osservato che « la nostra vera ‘malattia’ non è una crisi, ma la libertà, o, più precisamente, sono le conseguenze involontarie e le forme in cui trova espressione  quel sovrappiù di libertà che…domina ormai la nostra vita quotidiana » .  Dinanzi a questo stato di cose un rimando al concetto cristiano di libertà risulta utile per comprenderne la specificità. La libertà cristiana possiede infatti un carattere identitario.  E’ noto come sulla bocca di Gesù la parola ‘libertà’ sia del tutto assente. E nondimeno è fuori dubbio che tale concetto impronta tutti i suoi ‘facta et dicta’.  Basti riandare a Marco che « come nessun altro ha scritto il vangelo della libertà » .  Certo, se la libertà costituisce il ‘tratto caratteristico’ di Cristo e la sua storia come ci è presentata, ha una rilevanza teologica, allora la sua libertà diviene l’elemento di verità e di autenticità del discepolo . Detto altrimenti, la realtà di Gesù, uomo libero che libera, non può non riflettersi nel movimento che a lui si richiama. Insomma, non si può essere ed agire da schiavi alla sequela di un libero. Pur lontani dalla tendenza di proiettare in Gesù i nostri desideri, facendone un simbolo che non è più sé stesso, non si può tuttavia dimenticare che proprio nella libertà i discepoli e la comunità primitiva hanno ‘riletto’ la vicenda umana di Cristo. Il filtro di lettura del solo ‘amore’ con il quale è stata poi intesa la personalità di Gesù non deve lasciare in penombra questo aspetto essenziale. Questa libertà/liberazione che traspare da tutto il comportamento e dalle parole di Gesù ha trovato particolare sviluppo nella riflessione di Paolo che  ne ha fatto una parola chiave dell’annuncio cristiano. Nelle sue lettere l’apostolo s’è trovato a dare soluzioni concrete  per delle comunità non ben strutturate all’interno di un mondo multietnico e multireligioso, ma anche singolarmente per dei neofiti con un’identità in formazione e con quesiti precisi che richiedevano una netta  presa di posizione (culto degli idoli, lavoro, sesso, rapporto con il potere politico, rapporto con i pagani, ecc). L’impegno di Paolo è stato quello di  tradurre in vita concreta le conseguenze della fede in Cristo. Ciò spiega perché la tematica della libertà che l’apostolo ha reso un termine fondamentale del suo annuncio è stata affrontata con sfumature diverse sulla base di differenti sollecitazioni. Né va dimenticato che questo annuncio andava poi indirizzato a persone viventi in un ambiente diverso da quello originario della Palestina.   Pur senza tradire l’ispirazione di fondo del messaggio teocratico radicale di Gesù, afamiliare e apolide – impraticabile nelle comunità cittadine ellenistiche – l’apostolo l’ha reso accessibile a uomini e donne viventi in sedentarietà. Evidentemente il passaggio dell’annuncio cristiano dall’ambito aramaico a quello greco ha significato anche un mutamento a livello di contenuti e di rappresentazioni assunti dal bagaglio culturale ellenistico. Lo stesso richiamo paolino alla libertà presentata come il vero segno caratteristico dei cristiani e della comunità, rientra in questo processo di adattamento o d’inculturazione. Nessuno tra gli autori del NT vi ha dedicato tanto interesse quanto Paolo per il quale « la libertà precede l’obbligazione, ogni tipo di obbligazione. Proprio in ciò il messaggio cristiano, secondo l’Apostolo, si dimostra letteralmente eu-anghellion, cioè annuncio buono e lieto, tale che è un sollievo ascoltarlo: perché in prima battuta esso non impone prescrizioni da osservare, ma propone una libertà da accogliere gratuitamente e da fare propria » .  Se è pur vero che il rimando alla libertà, addotta quale criterio identitario del cristiano, risente dell’adattamento all’ambiente ellenistico al cui interno l’apostolo opera, non è meno vero che la centralità data alla libertà  risente della sua esperienza personale sulla via di Damasco. E’ qui che egli fa l’esperienza della grazia,  termine che nel suo linguaggio ha il senso fondamentale  di « benevolenza » .   A Damasco Paolo comprende che l’uomo autocratico, vive una ‘religiosità di scambio’, per la quale ritiene che Dio gli debba qualcosa se adempie i suoi comandamenti. E’, insomma,  l’uomo che si giustifica, non il « giustificato », e – per conseguenza – colui che vanifica l’azione salvifica di Cristo. Che senso ha la sua incarnazione, morte e resurrezione se si può fare a meno di Lui?  Il fatto di sentirsi un ‘graziato’, senza alcun merito, apre gli occhi dell’apostolo ad una nuova immagine di Dio che segnerà tutto il suo cammino. D’ora innanzi Cristo diviene  il riferimento fondamentale ed imprescindibile della sua esperienza religiosa. E’ per questa ragione che ai Galati, in termini appassionati, scrive: « Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (2,20).  Nello spostare il baricentro da una religiosità che  pone al centro l »io dell’uomo anziche il ‘tu’ di Dio, Paolo – attraverso la sua esperienza personale – ci mette in guardia dall’abbaglio di fissarsi su un’immagine di Dio che ne altera i tratti e che presume di misurare l’incommensurabile. Non era lui, Saulo, che, nel nome di Dio, perseguitava i cristiani? Non apparteneva a quanti anche in seguito li avrebbero messi a morte, pensando così di dar gloria a Dio? Ancora ai nostri giorni vediamo terroristi che fanno stragi nel nome di Dio. Tutto questo mostra quali implicazioni pratiche contradditorie si diano nel riferirsi a Dio e come non di rado lo si misuri con un metro umano.  Nell’incontro con Cristo a Damasco l’apostolo ha inteso che l’amore costituisce il primo e più importante principio ermeneutico della fede cristiana che non potrà mai limitarsi ad un semplice assenso della mente se il cuore non è coinvolto. La cosiddetta « conversione » di questo orgoglioso fondamentalista ebraico che aveva identificato l’amore per la Legge con l’aggressione ai dissidenti cristiani ,  indica ora adesione « a una persona viva e liberante come Gesù Cristo, capace di orientare in una nuova direzione non solo le energie umane di cui si dispone, ma anche i propri valori religiosi di origine » . Questo spiega perché l’apostolo, riferendosi alla sua vicenda personale, non abbia mai parlato di un « convertirsi, ravvedersi », « ricredersi », « cambiare ». L’esperienza di Damasco è piuttosto « chiamata », « elezione, « rivelazione » nella quale anche la fase precristiana  ha trovato un senso. C’è così un rapporto di continuità/discontinuità rispetto al passato. D’ora innanzi la Legge per il Paolo ‘convertito’, non sarà più la stessa del Paolo ‘osservante fariseo’. La parola rimane, ma il contenuto cambia. E’ la Legge in Cristo che non conosce obbligazione né paura. E’ la legge della libertà, dal momento che l’amore esclude ogni imposizione ed è ben diversa dalla Legge precedente posta sotto l’imperativo del « dovere ». Ora, secondo Paolo, « il ‘devi’ è diventato un ‘voglio’. La Legge cristiana ha quindi nella libertà il suo fondamento e ciò contrariamente alla concezione greca dove è la legge a fondare la libertà E’ la legge dei figli, ammesso che si possa ancora parlare di legge quando non si è più schiavi, ma figli (Gal 4,3-7). Questi concetti, espressi nella Lettera ai Galati scritta da Paolo presumibilmente da Efeso attorno al 57, sono sviluppati in contesto polemico all’interno della primitiva comunità cristiana . La questione riguardava il ‘peso’ da attribuire alla Legge e, per conseguenza, all’opera redentiva di Cristo  Dopo aver sperimentato la sua cosiddetta ‘conversione’ come una liberazione, l’apostolo comprende che  l’idea di pervenire alla libertà mediante la legge ai suoi occhi è un fallimento . Pertanto collegherà la libertà soltanto con Cristo e non con la legge, come avveniva nello stoicismo e nel giudaismo nel quale si riteneva che fosse l’osservanza della Torà a rendere libero l’uomo Questa concentrazione sulla Legge, però, poteva alla lunga lasciare in penombra Dio stesso Per questa strada si giunse ad attribuire alla Legge dei tratti quasi divini e l’uomo che si riteneva libero, di fatto si trovò schiavo di un dovere che non poteva mai compiere perfettamente. E’ il dramma (di Sisifo) che contrassegna certo giudaismo e che Paolo, da buon fariseo, metterà in luce affermando che l’uomo non è così libero e la legge non cosi liberante come si pensa. La liberazione e la libertà vanno cercate altrove e in altro modo. Contrariamente a questo convincimento, tra i cristiani della Galazia da lui evangelizzati, alcuni missionari giudeo cristiani predicano il ritorno alle osservanze giudaiche in vista della salvezza. Per costoro la legge costituirebbe ancora una condizione o requisito necessario per entrare nella comunità . Il fatto di sentirsi ancora parte d’Israele li induce a richiedere ai convertiti la pratica della circoncisione e l’osservanza delle legge, così come si richiedeva ad un ‘proselito’. Per contro Paolo insiste che i gentili non abbisognano delle legge di Mosé per essere membri del popolo di Dio. L’osservanza della legge, come pure la circoncisione (cf Gal 6,15) non possono valere come requisiti fondamentali per l’ammissione alla comunità. Si tratta ormai di realtà indifferenti (« Essere circoncisi o non esserlo non conta nulla », 1Co 7,19), poiché la giustificazione proviene esclusivamente da Cristo.  Affermare – come predicavano gli ignoti missionari contrari a Paolo – una giustificazione attraverso la legge significava vanificare l’azione di Gesù . Ma ciò era evidentemente in linea con il pensiero giudaico per il quale « accettare la legge e vivere in conformità con essa era il segno e la condizione di una situazione di privilegio » . Togliendo invece valore alla legge Paolo veniva automaticamente a negare il concetto di elezione.  Intorno a questi concetti si svilupperà la riflessione paolina su Cristo che, giustificando l’uomo, lo rende libero. La libertà, dunque, esprime lo ‘status’ del credente in Cristo.  In quanto cittadino della città celeste, Gerusalemme, che è nostra madre e che è libera (cf Gal 4,24-31), anch’egli è libero .  Con altra immagine, Paolo presenta questa libertà anche come effetto ed espressione della nuova condizione di figli (cf Gal 4,3-7). E’ una libertà che inerisce all’essere del cristiano e non va vista tanto come libertà  di scelta ma come uno stato salvifico duraturo. Libertà in Cristo prima che libertà da… o per…. Non si tratta, poi, di una libertà ‘qualità’  che viene ‘conquistata’ : essa è piuttosto frutto dell’evento escatologico di Cristo  che « ci ha liberati per la libertà »(Gal 5,1). Dicendo così, Paolo mette in luce un doppio aspetto : a.l’uomo non può liberarsi da solo, ma abbisogna di un redentore. b.la libertà è un dono e il fine della sua azione salvifica .  Nell’insegnamento dell’apostolo è mediante il battesimo che l’uomo acquisisce questa libertà. Da quel momento – direbbe Paolo -  « sono stato crocifisso con Cristo. Non sono più io che vivo; è Cristo che vive in me »(Gal 2, 19b-20a).  In altre parole la libertà per Paolo è dono ed è espressione di un nuovo stato ontologico. Essa poi « permane nella dipendenza, perché il vivere  nella grazia non costituisce uno stato chiuso, ma un dono continuamente accolto in libertà » .  Quali gli effetti di questo essere « stati uniti a Cristo mediante il battesimo »(Gal 3,27)? Nel possesso dello stesso dono e della stessa dignità, cadono le separazioni precedenti e si crea un nuovo spazio di libertà: uno spazio di uguaglianza, fraternità, amore vicendevole . Ora « non ha più importanza alcuna l’essere ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna, perché uniti a Gesù Cristo, siete diventati un sol uomo »(Gal 3,28). Liberato dal proprio passato, il cristiano è libero per il futuro. Crolla il « dominio degli spiriti che governavano il mondo »(Gal 4,3), vengono meno le prescrizioni riguardanti osservanze di tempi speciali, cibi(cf Gal 4,10). Il ‘mangiare insieme’ con cristiani dalla gentilità è divenuto un ‘adiaphoron’ (cf Gal 2,11). Ma è soprattutto ridimensionato il senso della legge. La nuova via della fede libera da essa, eppure non si tratta d’una libertà assoluta dal momento che è « la libertà che abbiamo in Cristo »(Gal 2,4). Questa ha piuttosto una sua norma (Legge di Cristo) nella parola della croce di Gesù « attraverso la quale il mondo è per me crocifisso ed io per il mondo »(Gal 6,14). E’ in questa esperienza della croce e dell’essere crocifisso con Cristo che la libertà cristiana trova la sua vera essenza. Se perciò Paolo proclama « Dio vi ha chiamati a libertà »(Gal 5,13), subito dopo aggiunge : »Ma non servitevi della libertà per i vostri comodi »(Gal 5,13). Libertà e amore del prossimo sono perciò due facce della stessa medaglia.  Il legame inscindibile di libertà ed amore è ulteriormente sviluppato nella 1Co che Paolo scrisse pure  da Efeso (cf 1Co 16,8) verso il 57.  In essa l’apostolo presenta la libertà interiore come indipendenza dell’uomo dalla sua condizione sociale divenuta ormai indifferente. Ora essere libero o schiavo importa relativamente dal momento che la chiamata alla fede prescinde da tutto ciò. « Chi era  schiavo quando il Signore lo ha chiamato alla fede, è già diventato un uomo libero che è al servizio del Signore. E, viceversa, chi era un uomo libero quando il Signore lo ha chiamato alla fede, è diventato ora uno schiavo di Cristo »(1Co 7,22).  Questa libertà interiore, stando alle parole di Paolo, è altresì indipendenza dal destino che sembrerebbe ‘possedere’ l’uomo. Ormai « tutto è vostro: il mondo, la morte, il presente e il futuro. Voi invece appartenete a Cristo e Cristo appartiene a Dio »(1Co 22-23). Chiaro il senso di queste espressioni: la libertà è un bene che scaturisce dalla constatazione che « voi – commenta l’apostolo – non appartenete più a voi stessi perché Dio vi ha fatti suoi riscattandovi a caro prezzo »(1Co 6,19-20).  Queste affermazioni si comprendono in relazione a quel gruppo di cristiani ‘pneumatici’  di Corinto che avevano inteso malamente il suo annuncio di ‘libertà’ per vivere a loro modo, facendo i propri comodi. Costoro partivano da una falsa teologia della resurrezione che ignorava la croce, fraintendevano il senso dell »escatologia in atto’ come se fossero già perfetti e proclamavano la libertà di coscienza come bene addirittura superiore alla carità verso i più ‘deboli’. Sentendosi ormai risuscitati con Cristo (cf Ef 2,6; Col 2,12-13) attraverso il battesimo, essi nutrivano l’idea di essere cittadini del cielo, non più vincolati alle ‘leggi’ della terra. E’ chiaro che questo  sentire aveva riverberi concreti.  L’apostolo non contesta l’affermazione di principio che costoro usavano e che egli riporta tre volte: « Posso fare tutto quel che voglio »(1Co 6,12; 10,23). « E’ vero » – soggiunge Paolo -  eppure egli sottopone il concetto gnostico di libertà ad una griglia di interrogativi che ne mettono a nudo i fondamenti :   1. l’uso della libertà è sempre finalizzato al bene ? (cf 1Co 6,12a)   2. è libertà lasciarsi vincere dall’impulso del momento ? (cf 1Co 6,12b)   3. è sempre utile l’esercizio della libertà ? (cf 1Co 10,23a)   4. serve al bene della comunità ? (cf 1Co 10,23b).  Con questa serie di impliciti interrogativi Paolo stabilisce una norma tipicamente cristiana: « quando la libertà e l’amore entrano in conflitto, è la libertà che deve cedere il passo all’affermazione dell’amore. La libertà ad ogni costo può essere segno di immaturità e di infantilismo, mentre l’amore è sempre segno di vita adulta e responsabile » . Occorre sottolineare che Paolo, nel trattare questi temi concernenti la morale dei suoi lettori,  non ha fatto uso del suo potere di apostolo (??o????) . Piuttosto « rimprovera, consiglia, ordina, ma sempre portando ragioni per persuadere, come si fa con gli uomini adulti, mai imponendo semplicemente il suo parere. Bisogna raggiungere la maturità con l’uso stesso della libertà, correndo il rischio di commettere errori » . E dunque « dinanzi alla libertà pericolosa dei Corinti, egli non la limita dando norme, ma la educa facendo emergere con la sua argomentazione il senso di responsabilità per gli altri » . A questo proposito – ma anche per giustificare il suo operato da accuse che proprio a Corinto gli si muovevano – Paolo propone il suo esempio. « Non sono libero io ? Non sono forse apostolo ?…Io sono libero. Non sono schiavo di nessuno. Tuttavia mi sono fatto schiavo di tutti, per portare a Cristo il più gran numero possibile di persone »(1Co 9,1.19). La libertà della quale egli aveva usato era quella di farsi « schiavo di tutti »(1Co 9,19) : una libertà dell’amore .  E’ ancora questo tipo di libertà che l’apostolo proclama a quei Corinti i quali mangiavano carne immolata agli idoli scandalizzando i deboli (« Qualcuno mi obietterà: ‘Ma perché la coscienza di un altro deve limitare la mia libertà ?’ » 1Co 10,29). Secondo l’apostolo, la libertà deve piegarsi al rispetto della coscienza altrui, anche se ‘debole’. E anche qui l’apostolo può richiamarsi al principio che regola i suoi atti e che traluce dalla sua vita: la ricerca del bene altrui (« Comportatevi come me, che in ogni cosa cerco di piacere a tutti. Non cerco il mio bene personale, ma quello di tutti, perché tutti siano salvati » 1Co 10,33).   E’ certo significativo che negli scritti neotestamentari successivi a Paolo gli accenni alla libertà cristiana siano pressoché scomparsi. Soltanto in Gc 1,25.2,12 ed in 1Pt 2,16 vi si fa riferimento. Sembra ridotto l’entusiasmo che animava le prime comunità le quali devono ora confrontarsi con problemi che non potevano che ridimensionare il concetto di libertà. Come scrive E. Käsemann « la libertà non è più la corrente impetuosa che trascina l’intera vita sia del singolo credente che della chiesa, ma è uno dei molti ruscelli cui la comunità si abbevera per il suo ammaestramento » .  Ad un siffatto mutamento hanno concorso diverse cause: il bisogno di stabilità e l’emergere di un sistema patriarcale, lo sfumarsi del sentire escatologico, l’affermarsi dell’episcopato e la conseguente istituzionalizzazione dei carismi, e – non da ultimo – le eresie, gli scismi, ovvero tutti  gli sbagli umani che portavano ad essere guardinghi.  In questa temperie di circostanze la libertà cristiana non è stata soppressa ma comprensibilmente « posta sotto controllo ed in un certo senso anche incanalata » .  Eppure l’esperienza di Gesù e del suo apostolo è sempre lì ad indicarci qual è il cammino da percorrere e il mondo sta ancora e sempre attendendo la rivelazione « della gloriosa libertà dei figli di Dio » (Rom 8,21), ossia la nostra testimonianza identitaria di cristiani che si oppongono alla pressione sociale ed alle regole occulte imposte dall’individualismo e dalla mercificazione globale che stanno minando la libertà.  Paolo ci ricorda che possiamo essere liberi da e liberi di, se anzitutto siamo liberi in Cristo.  Come ha scritto anni fa l’esegeta tedesco Ernst Käsemann: » Nulla di più noi dobbiamo dargli (al mondo) e gli rifiutiamo l’evangelo se non schiudiamo ai suoi occhi questa libertà, non come un’utopia, ma come chiamata e dono di Gesù » .

 

IL PROBLEMA DELLA LEGGE AL TEMPO DI PAOLO

http://letterepaoline.net/2008/12/16/il-problema-della-legge-al-tempo-di-paolo/

IL PROBLEMA DELLA LEGGE AL TEMPO DI PAOLO

Questa voce è stata pubblicata il 16 dicembre, 2008, in Approfondimenti, Per conoscere Paolo.

di Paolo Sacchi

Articolo originariamente apparso in “Bibbia e Oriente” 12 (1970 / 4-5), pp. 199-211, col titolo Appunti per una storia della crisi della Legge nel giudaismo del tempo di Gesù. La suddivisione in paragrafi è nostra.

1. PAOLO E LA LEGGE Quando Paolo [1], poco dopo il 50 d.C., spinto dalle molteplici necessità del suo stesso ministero cominciava con la lettera ai Galati a dare sistemazione organica al proprio pensiero, meditando sulla storia eccezionale del suo popolo e sulla esperienza unica della sua vita [2], portava a formulazione chiara un dramma del pensiero ebraico derivante dalla coesistenza contraddittoria di alcuni elementi della sua ideologia, i quali tuttavia risultavano tutti e da tempo bene affermati nella coscienza della gente ebraica: da un lato l’onnipotenza divina sempre più sottolineata con lo scorrere dei secoli, non solo di fronte alla natura, ma anche di fronte alla storia [3], dall’altro la libertà umana assoluta, che è presupposto fondamentale, perché si possa avere una salvezza attraverso la Legge [4]. Il problema della libertà umana, intesa come capacità dell’uomo di scegliere sempre, in totale responsabilità, fra il bene e il male, non esiste, in Israele, come problema a sé stante, ma solo come problema riflesso di quello della via della salvezza, che è tema centrale, credo, dell’ebraismo che va dai Maccabei a Paolo, o ancora oltre, e che in questo scritto chiameremo convenzionalmente “ tardo giudaismo” [5]. Paolo afferma che la Legge non può salvare; la giustificazione, indispensabile per la salvezza, è dono gratuito di Dio (Rom 3,28; Gal 3,18). La legge ha, sì, un grande valore per Paolo, che, come ebreo, non poteva non sentire di quella tutta la grandezza; ma questo valore nell’interpretazione di Paolo si fa puramente storico: la Legge è il pedagogo che ci ha condotti, già condotti, a Cristo (Gal 3,24). Dio è onnipotente e nella sua azione, volta a realizzare i suoi piani misteriosi, Egli sceglie chi vuole. Anche Giovanni insisterà su questo punto: non noi scegliamo Dio, ma Dio sceglie noi. Paolo indaga su questo punto: quali leggi può avere la scelta di Dio? Nessuna, almeno di carattere umano. Si veda Rom 9,11 ss.: Che cosa può avere determinato la scelta divina di Giacobbe, se essa fu fatta quando i due bambini erano ancora nel seno della madre e quindi non potevano ancora assolutamente avere agito? Dio è onnipotente ed elegge chi vuole; non resta che rimettersi al mistero della sua volontà (Rom 11,32). Non è assolutamente pensabile che Dio abbia scelto in base alle opere. È interessante notare che Paolo si riferisce all’episodio narrato in Gen 25,19 ss. non direttamente, ma attraverso le parole di Malachia (1,2-3): «Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù». Nel racconto quale si ha nella Genesi, non si parla né di odio né di amore di Dio: Dio si limita a decretare una sorte: “il maggiore servirà al minore”, ma il perché non è detto. È solo di epoca più tarda, posteriore all’esilio, porsi il problema perché Dio abbia agito così. E se la risposta non si può dare sulla base di un ragionamento etico, non resta che cercare i motivi dell’azione divina al di là dell’umano, in una sorta di amore e di odio divino. Paolo riprende con molto maggiore sofferenza il problema e ne cerca la soluzione nella stessa direzione voluta da Malachia, anche se per lui le parole “odio” e “amore” sono una semplice citazione: tutto per Paolo sprofonda nel mistero insondabile della volontà divina. E in ciò è sulla linea della tradizione cosiddetta sapienziale. Strettamente legata a questa concezione della Legge e della elezione [6] divina, deve essere considerata la concezione che Paolo ebbe dell’uomo. L’uomo non è pienamente libero di fare il bene che forse vorrebbe e che comunque riconosce tale (Rom 7,13 ss.). Perché si possa credere nella salvezza proveniente dalla Legge, bisogna credere in una libertà umana di scelta assoluta fra bene e male. Altrimenti Dio avrebbe posto in mano all’uomo uno strumento perfetto, ma tale che l’uomo non potrà mai adoperare [7] Paolo nega che la salvezza venga dalle opere della Legge, ma nega anche che l’uomo sia interamente libero davanti al male. Fra la sua volontà e la sua azione interviene un quid per cui egli può fare l’opposto di ciò che vuole. Ci deve insomma essere nell’uomo qualcosa che si pone come ostacolo alla volontà fino a divenire principio d’azione [8]. Il cristianesimo si avvia così a riconoscere l’esistenza di un peccato originale. Queste varie concezioni di Paolo sono, come si vede, strettamente legate l’una all’altra. Paolo avvertì l’interdipendenza di queste concezioni e la necessità di sistemarle in un rapporto organico. Ma questo non significa che la loro interdipendenza si faccia sentire solo a livello della coscienza e in una mente di eccezione, come quella di Paolo: erano problemi che dovevano essere ampiamente sentiti. La fermezza, per esempio, con cui i rabbini insisteranno sulla piena libertà dell’uomo di fronte al male, oppure lo sforzo con cui qualcuno cercherà di far rientrare perfino lo jetzer hara‘, nello schema generale della bontà della creazione, una parte, anzi il perfezionamento dello jetzer hattob [9] mostrano che, sia pure con una certa lentezza, il mondo ebraico avvertiva la necessità di una organizzazione del proprio pensiero. Per poter continuare a credere nella salvezza ad opera della Legge, bisognava confutare uno per uno tutti i punti prima toccati da Paolo. Non solo, ma è evidente che quell’ebreo che avesse avvertito il senso della propria impotenza di fronte al male in termini affini a quelli di Paolo sarebbe stato portato ad accettare il punto chiave dell’insegnamento di Paolo circa la Legge; e lo stesso dicasi per quell’ebreo che già si fosse posto il problema del rapporto fra azione umana e azione divina nella storia e avesse risolto il problema nel senso di una sottolineatura della onnipotenza divina agente liberamente nella storia, non più legata dalla concezione rimuneratrice. 2. POSIZIONE DELLE VARIE CORRENTI AL TEMPO DI PAOLO Fra tutti i vari problemi su ricordati, particolarmente vivo al tempo di Paolo doveva essere quello dei limiti delle possibilità della libertà umana. Esso è particolarmente sofferto da Paolo, ma anche Flavio Giuseppe, quando vuole presentare al mondo occidentale le tre sette principali del mondo ebraico e desidera caratterizzarle rapidamente ed efficacemente, non trova niente di meglio che tracciare brevemente e schematicamente l’atteggiamento di ciascuna di esse di fronte al problema della libertà dell’uomo davanti all’azione di Dio [10]. «I sadducei – dice Flavio Giuseppe (Bell. Jud. 11,8,164) – sopprimono assolutamente il destino, e pongono Dio fuori della possibilità di fare alcunché di male o anche solo di scorgerlo; essi dicono che è in potere dell’uomo la scelta del bene e del male, e che secondo la decisione di ognuno avviene l’ima o l’altra delle due cose…». Con la parola “destino” Flavio Giuseppe intende qui, certamente, il gôral, la sorte fausta o infausta che Dio talora assegna alle cose degli uomini nell’Antico Testamento. I sadducei credono nell’uomo e nella sua capacità di forgiarsi un destino qui sulla terra [11]. All’opposto dei sadducei stanno gli esseni: essi credono che tutto venga da Dio, unico autore della storia. Nelle Ant. Iud. (VIII,l, §5), Flavio Giuseppe inizia la sua notizia sugli esseni con queste parole: «Gli esseni insegnano soprattutto a rimettersi per ogni cosa a Dio». Se qualche dubbio può esserci circa l’esatto valore di quel “rimettersi a Dio”, esso viene fugato da un passo analogo delle Ant. Iud. (XIII,5,9, §172): «La setta degli esseni afferma che il destino è padrone di tutto e che niente accade agli uomini diversamente da quanto esso ha stabilito». Ricordando che cosa può voler dire “destino” per un ebreo, non restano dubbi circa il pensiero essenico. Comunque la migliore documentazione di questa convinzione degli esseni, che tutto nel mondo e nella storia è rigidamente predeterminato da Dio, è fornita da un passo del Manuale di disciplina (1QS, III,14 ss.): il passo mostra fino a quali limiti tutto fosse sentito come determinato da Dio (perfino i pensieri degli uomini) e come cogliesse nel giusto Flavio Giuseppe nel caratterizzare le tre sette nel modo che fece. «Dal Dio della conoscenza proviene tutto ciò che è e che sarà. Prima che gli esseri siano, Egli ha fissato tutti i loro pensieri, e quando essi vengono all’esistenza, vivono secondo ciò che di loro è stato fissato. Essi compiranno le loro azioni secondo il pensiero della Sua gloria, senza che nessun cambiamento si possa apportare (ai piani divini)». Così, dunque, gli esseni. Più o meno intermedia fra le altre due è la posizione dei farisei, che in seguito cercheremo di valutare con maggiore precisione. Attribuiscono, dice Flavio Giuseppe (Bell. Jud. II, 8,14, §§ 162-163), ogni cosa al destino e a Dio, ma ritengono che l’operare giustamente o no dipenda in massima parte dall’uomo; però il destino coopera in ciascuna azione. Sembra che la posizione farisaica desideri in qualche modo salvare due posizioni attestate entrambe nell’Antico Testamento e apparentemente inconciliabili, da un lato la piena responsabilità umana, dall’altro l’azione di Dio nella storia in tutta la sua onnipotenza. Questa concezione farisaica di una indipendenza reciproca fra l’azione di Dio e la libertà umana, è veramente una concezione nuova ed autonoma rispetto alle altre due, o, pur nella sua personalità, si avvicina più ad una discostandosi dall’altra? La posizione farisaica appare di fatto una semplice variante della posizione sadducea. Se un abisso dovesse essere disegnato a marcare una separazione, questo abisso andrebbe posto fra l’essenismo e il resto delle sette ebraiche. Nel fariseismo in definitiva tutto dipende dall’uomo come nel sadduceismo e se la dottrina farisaica della libertà umana ha avuto uno sviluppo in senso etico, ignoto al sadduceismo, ciò è dipeso da tutta una serie di concezioni religiose proprie del fariseismo e ignote al sadduceismo, e che esamineremo fra breve. Ora basti osservare che se nel fariseismo quale è tratteggiato da Flavio Giuseppe e quale probabilmente era al tempo in cui Flavio Giuseppe si trovava in Palestina (prima della guerra con Roma) c’è qualche incrinatura in questo senso della libertà dell’uomo, essa è attestata da quell’“in massima parte”, che egli aggiunge all’affermazione per cui i farisei «ritengono che l’operare giustamente o no dipenda dall’uomo». È la spia di un’incrinatura che i rabbini delle età seguenti cercheranno di far scomparire del tutto: essi avvertivano perfettamente che la concezione farisaica della Legge era possibile solo a patto che l’uomo fosse non “massimamente”, ma interamente libero e autonomo. 3. ORIGINI DEL PROBLEMA Ma torniamo alla posizione farisaica in rapporto a quella sadducea ed essenica. È un antico motivo veterotestamentario che Dio protegge Israele, quando questo osserva la Legge, e lo abbandona, quando questo tradisce la Legge. Dio interviene allora per punire il popolo ebraico. La storia diviene così la storia delle punizioni di Israele, ma è facile notare che la libertà di Dio è concepibile solo nei limiti in cui sceglie una pena. Dio altrimenti è chiamato in causa da Israele stesso che lo costringe ad agire, perché ristabilisca l’ordine turbato. Insomma l’azione di Dio è determinata da un certo comportamento etico dell’uomo e l’uomo è padrone del suo comportamento etico. Niente di strano perciò che questa concezione farisaica abbia finito con l’arrivare fino a posizioni del tipo di alcune, oggi assai diffuse, per cui il messia finisce con l’essere Israele stesso; o comunque è Israele che preparerà la venuta del messia, tanto che questa finirà solo con l’essere un segno o una conseguenza della giustizia di Israele. Scrive oggi il rabbino Sierra: «Israele, quale collettività consacrata ed impegnata ad una particolare disciplina di vita, si considera al servizio dell’umanità per precederla e preparare con essa il Regno di Dio sulla terra». Se la testimonianza di Flavio Giuseppe lascia intravvedere la possibilità che nel I sec. d.C. sussistesse qualche dubbio all’interno dello stesso mondo farisaico circa la totale libertà dell’uomo di fronte al male (cosa che bene spiega la problematica di Paolo), nei secoli seguenti i rabbini hanno preso posizione nettissima in favore della libertà morale dell’uomo. Nella seconda metà del II secolo d.C. il grande rabbino Aqiba (Abot, 5,15ss.) aveva detto che tutto è previsto (e quindi determinato da Dio), ma la libertà morale è lasciata all’uomo. Intorno al 300 r. Hanina ben Papa spiegava la sua concezione di una libertà morale assoluta dell’uomo col racconto dell’angelo della notte preposto da Dio ai concepimenti (Niddâ 16b). L’angelo chiede a Dio come dovrà essere l’uomo che sta per essere concepito: Dio determinerà tutto, tutto fuorché la sua libertà; l’angelo domanda se l’uomo dovrà essere debole o forte, saggio o stolto, ma deliberatamente non domanda se dovrà essere giusto, o ingiusto, poiché ciò dipende solo dall’uomo. La tradizione non ricorda, che io sappia, dispute circa questa libertà umana all’interno del rabbanismo. È chiaro che queste affermazioni di R. Aqiba e di R. Hanina servono a chiarire il pensiero rabbanita contro attacchi esterni. Non c’è disputa all’interno. Ma il problema della libertà umana e dei suoi limiti non è nato né al tempo di Paolo e di Flavio Giuseppe, né a quello di Gesù. Ricordo Sir. 15,15, in cui è detto: «Se vuoi, puoi osservare i comandamenti…» [12] Il Siracide afferma cosa che è certamente nella tradizione veterotestamentaria. Poteva avere in mente un passo come Deut. 30,15: «Guarda, io pongo oggi, davanti a te, la vita e il bene, la morte e il male… Se ascolti gli ordini, …vivrai» [13]. Ma l’espressione del Siracide mostra che egli era sollecitato da un problema da cui non era toccato l’autore del Deuteronomio e lo risolve in un certo modo. Si è visto, dunque, che, dal secolo II a.C. fino al 300 d.C., si hanno nel mondo ebraico alcune prese di posizione in favore della libertà morale dell’uomo. È chiaro dal loro tono che queste affermazioni si fanno sempre più nette col passare degli anni. Ciò dipende dal fatto che parallelamente alla corrente farisaica si dovevano essere sviluppate nel mondo ebraico altre correnti che predicavano cose diverse e che dovevano essere sembrate pericolose al farisaismo, se questo prese posizione. Ci si può pertanto domandare se questa disperazione della Legge, da cui nasce il cristianesimo di Paolo come corrente di pensiero marcata da una ideologia ben precisa, risalga solo a Paolo o non abbia nell’ebraismo radici più antiche, non sia cioè una componente della cultura ebraica che, tenuta quasi in disparte perché temuta, ha finito con l’imporsi con l’evidenza di una realtà indiscutibile, quando si è presentato all’uomo la possibilità di inquadrare in nuove sistemazioni ideologiche una concezione così temuta. Prima di guardare i testi qumranici, giova porsi ancora un problema riguardo a Paolo. Abbiamo visto come il mondo ebraico del tempo, grosso modo, di Gesù appare diviso circa il grave problema della libertà umana, o meglio dei limiti e delle possibilità della libertà umana. È certo che Paolo ebbe la sensazione precisa dei limiti di questa libertà e ne abbiamo già parlato. Si pone il problema se questa concezione limitata della libertà umana si possa considerare in Paolo nata con la conversione, oppure rappresenti uno stato d’animo dell’uomo radicato da tempo nella coscienza di Saulo. In altri termini, ci si domanda se quell’incrinatura nella concezione farisaica della libertà che appare nella versione che ce ne ha lasciato Flavio Giuseppe e di cui abbiamo già parlato, non possa ritrovarsi anche in Saulo. Quando Paolo guarda la Legge, da qualunque parte la guardi, trova sempre la sua inutilità, almeno per l’uomo del suo tempo. Può darsi che Paolo sia così disilluso della Legge, proprio perché le chiede di più di quanto essa possa dare; ma questa richiesta alla Legge non può essere invenzione di Paolo; deve essere un’opinio communis abbastanza diffusa. Per esempio, in Gal 3,21 Paolo dice che per credere a una giustificazione dalla Legge, bisognerebbe che Dio avesse dato agli uomini una Legge che dà la vita. Un modo di ragionare di questo genere svela un discreto lembo dell’animo di Saulo, che aspirava alla Vita e che sentiva che fra lui e la Vita c’era sempre la barriera rappresentata dal peccato, a lui presentato proprio dalla Legge con ogni evidenza. C’è in fondo all’anima di Paolo un anelito in direzione di una libertà dalle cose, che difficilmente è nato con la conversione. La conversione gli avrà piuttosto indicato la via per superare certe aporie della sua cultura in una visione organica del mondo. Si rilegga Gal 4,1 ss.: l’uomo senza Cristo è schiavo degli elementi del cosmo e degli astri; la fede in Cristo ha liberato Paolo ed ora si sentirebbe forse più grande dell’umano, se Dio non gli avesse dato, per non farlo salire in superbia, un angelo di Satana che lo schiaffeggiasse [14]. «Nessun uomo è giusto davanti a te» (Sal 143,2) aveva cantato un salmista e la saggezza ebraica aveva riecheggiato questo tema; e se nessuno è giusto, che senso ha attendere la salvezza dalla propria giustizia? Si veda Gal 2,15 ss. dove è detto: «Noi, giudei di nascita… sapendo che non è giustificato nessuno per le opere della Legge…». Mi sembra che Paolo sottolinei il nesso che c’è fra l’essere ebreo e il sapere che nessuno è giusto. In questa luce, lo stesso senso del Patto ancorato alle clausole della Torah si sfalda, perché l’uomo tradisce inesorabilmente il patto [15]. Quando fu data la Legge ci fu un mediatore, anzi fu consegnata al mediatore stesso attraverso mani angeliche: la funzione della Legge è quindi puramente contingente, storica, come diciamo noi? Solo la promessa ha valore universale, perché soltanto nella promessa Dio agisce solo, senza collaborazione umana, destinata di per sé a produrre il fallimento. Idee di questo genere, come la Legge data da Dio agli uomini per mezzo di angeli, mostrano di non derivare dalla fede cristiana, ma da un ambiente colto, le cui idee assorbite da Paolo sono state da questo svolte in funzione cristiana. E chiunque, fariseo o no, sapesse che la Legge era stata data a Mosè attraverso mani angeliche non poteva non sentire una certa umanità della Legge, una sua svalorizzazione di fronte a chi la sentiva come ipostasi divina, o qualcosa del genere. 4. CONFRONTO CON GLI SCRITTI DI QUMRAN Guardiamo ora se nell’ebraismo precristiano si trovano già tracce di quella disperazione della Legge che viene con Paolo alla sua più lucida e drammatica formulazione. Compito di questo articolo è di dare uno sguardo a quel gruppo di testi detti di Qumran, dal luogo del loro ritrovamento, i quali, anche se non esprimono tutti idee necessariamente omogenee di uno stesso gruppo, tuttavia è certo che esprimono idee ebraiche. Quelli comunque di cui ci serviremo in questo articolo appartengono certamente alla setta di tipo essenico, nota come setta di Qumran. A rigore assoluto, non è certo nemmeno che tutti i testi siano anteriori a Gesù, perché l’unico dato veramente certo è quello fornito dall’archeologia, per cui si può affermare solo che si tratta di testi copiati prima del 70 d.C. Credo comunque, che con la maggior parte degli autori i testi si possano ritenere scritti fra il II e il I sec. a.C. Essi ci mostrano pertanto squarci di ideologie ebraiche anteriori di un certo tempo al cristianesimo nascente, all’ingrosso un secolo. Non stupirà trovare a Qumran una grande esaltazione della Legge, che è concepita come il pernio di tutta la vita sociale. Coloro infatti che entrano nell’alleanza, formano una comunità incardinata innanzi tutto sulla Legge: lhjwt ljhd btwrh wbhwn, «per essere una comunità nella Legge e nel patrimonio» (1QS V,l ss.). Era dunque una comunanza di beni spirituali e materiali, e la comunanza di beni spirituali è indicata dal più grande di essi, la Legge. La Legge avrà pieno vigore nell’Israele vero (lQSa 1,11); intanto essa è già il paradigma assoluto per valutare ogni condotta umana (1QS 5,21). Quando infatti si esamina un adepto, per vedere se è degno di divenire membro dell’alleanza, si dovrà esaminare quale è la sua parte in ciascuno dei due spiriti che dalla creazione del mondo si contendono l’uomo; ma per far questo, in pratica, si dovrà solo esaminare la comprensione che l’adepto ha della Legge e la sua capacità di osservarla: lpj sklw wm‘sjw btwrh. Così con la Legge l’uomo può dare giudizi estremamente sicuri. Chiunque poi non osservi la Legge non può restare a far parte della comunità e viene scacciato (1QS 8,22). È chiaro che la Legge rappresenta un perfetto paradigma di giudizio, cosa fondamentale per una comunità, in cui la necessità di giudicare è incessantemente presente, che ogni anno (1QS 5,24) devono essere giudicati tutti i membri prima dell’attribuzione delle nuove cariche. Ma oltre che questo paradigma di giudizio, la Legge può anche essere uno strumento pratico per la salvezza? In questi termini il quesito non fu posto a Qumran, né poteva esserlo. Se il problema fosse stato posto, probabilmente avrebbe provocato turbamenti. A noi interessa solo stabilire quale funzione di fatto la Legge aveva nel pensiero qumranico. In 1QS 8,14 si spiega il passo di Isaia 41,3: «Nel deserto spianate le vie del Signore». L’interpretazione qumranica è che bisogna studiare la Legge per aprire la via all’avvento di Dio. Però l’avvento divino non è determinato dallo studio della Legge, ma al contrario si dovrà iniziare questo studio tutto speciale della Legge solo quando vi saranno nell’aria i segni della prossima venuta del Messia. Allora essi si separeranno dagli altri Ebrei e andranno nel deserto come è scritto. Qui essi, sempre per realizzare la profezia, indagheranno sulla Legge. È chiaro che lo studio della Legge non ha la funzione di provocare la venuta del regno di Dio, come è nella più elaborata concezione rabbinica, ma solo quella di realizzare una profezia. L’azione divina è manifestamente indipendente da ogni contingenza storica. Questo atteggiamento può essere simile a quello di chi vede la possibilità di un acceleramento, ma solo di un acceleramento dei tempi della parusia [16]. Qualcosa ancora di più si ricava da 1QS 9,17. In questo passo si stanno dando norme per il maskil, perché possa degnamente guidare coloro che gli sono stati affidati. Fra l’altro è fatto divieto al maskil di disputare con gli altri ebrei, detti in linea generale “uomini della fossa”. Il motivo di questo rifiuto è che egli deve tener nascosto a tutti coloro che non siano membri della setta ’t ‘st htwrh btwk ’nšj h‘wl, consilium legis inter malos. È chiaro che non si tratta dei comandamenti della Legge scritta, perché tutti gli Ebrei li conoscevano benissimo. Si doveva trattare di comandamenti segreti, nascosti (o della loro interpretazione segreta), e tali, se trasgrediti, da provocare la vendetta di Dio [17]. Per salvarsi, dunque, non basta la Legge, ma ci vuole qualcosa di più, qualcosa che possiede solo la setta e che tiene segreto. Questo qualcosa è l’esatta interpretazione della Legge, quella che Enoc dice di attendere solo dal messia. Si veda Enoc 49,2: «II messia sarà potente in tutti i segreti della giustizia». Si tratta di un passo contemporaneo degli scritti della setta di Qumran, forse anche anteriore, dato che dovrebbe appartenere alla fine del sec. II a.C. Enoc, come l’anonimo autore del Manuale di Disciplina, hanno la percezione di una insufficienza della Legge che può essere colmata sia per l’uno come per l’altro solo da un supplemento di rivelazione, che Enoc proietta senz’altro al tempo del messia, mentre l’autore del Manuale di Disciplina pensa a una ispirazione di Dio già avvenuta e riservata alla Setta. Ma su un punto sono d’accordo: la Legge scritta o le sue interpretazioni umane non bastano. Questa tôrâ della setta è una vera e propria tôrâ rivelata. L’autore di una hôdajâ (IV, 10) ricorda di aver difeso la purezza di questa rivelazione contro gli uomini di Belial che cercavano di costringerlo a «cambiare la Tôrâ che hai scolpito nel mio cuore». Šinnanta, “hai scolpito”, riprende Deut 7,6; ma qui l’uomo deve tramandare i comandamenti di Dio scolpendoli nei figli, mentre a Qumran l’azione di tramandare l’insegnamento è interamente assorbita dall’ispirazione divina. È Dio che scolpisce direttamente e per Sua scelta la Sua Legge nel cuore dell’autore della hôdajâ. La Legge, sia scritta sia orale, è pertanto svalutata. Essa non può salvare, perché non è adeguatamente interpretata [18], ma questa interpretazione esatta che permette la salvezza non è opera dell’uomo: Enoc proietta questa interpretazione definitiva della Legge nell’éschaton. Essa sarà un segno dell’avvento del messia. È interessante notare che Gesù, almeno nell’interpretazione di Matteo, si presenta come interprete assoluto della Legge. L’autore della hôdajâ in questione sa di possedere un’interpretazione nuova della Legge, ma questa interpretazione non ha origine umana: è stata rivelata a lui come la Legge fu rivelata a tutti gli Ebrei. L’autore della hôdajâ è messo in salvo da Dio che lo nasconde agli occhi dei suoi nemici (5,11), ma in lui ha nascosto e la Sua Legge, che resterà nascosta fino alla rivelazione della Sua salvezza. È questa la Legge che ha la capacità di salvare, la Legge segreta e nascosta, non quella che si chiama Tôrâ; e questa Legge che salva non uscirà dal cuore dell’autore della hôdajâ che quando Dio realizzerà il Suo regno. Toccherà all’uomo produrla. In questo contesto di idee è chiaro che l’origine della salvezza è sentita come solamente divina: la Legge che è stata data all’autore della hôdajâ ha una capacità salvifica che si rivelerà solo quando Dio lo vorrà; essa ha più l’aspetto di un segno che non di uno strumento, come è, al contrario, nella concezione farisaica. Un altro passo ancora mostra come la salvezza di Dio non sia, nell’ideologia qumranica, la giustizia di Israele. È pHab. 8,1. Vi è rammentato il versetto di Abacuc «Il giusto vivrà per mezzo della fede». Il versetto è così interpretato : «Questo riguarda tutti coloro che nella casa di Giuda osservano la Legge (certamente la vera Legge); Dio li salverà dal giudizio (mbjt hmšpt) per riguardo alla loro sofferenza e alla fiducia che hanno avuto nel Maestro di giustizia». Da queste parole risulta chiaro che la salvezza riguarda coloro che osservano la Legge, ma non perché la osservano. Dio salva il suo popolo, perché ha pietà delle sue sofferenze e perché (e questo è un elemento nuovo nell’ebraismo) ha avuto una certa fiducia in qualcuno che era stato inviato Dio. È inutile sottolineare le differenze che ci sono fra la concezione cristiana della fede e questa concezione qumranica [19] Ciò che qui interessa non è la differenza fra le due “fedi”; interessa rilevare che nel mondo ebraico è detto con sufficiente chiarezza che la salvezza non deriva dall’aver praticato la Legge, ma da un’altra cosa, che forse non era ben chiara nemmeno alla coscienza dei qumranici stessi. Del resto l’idea che l‘swt htwrh, “fare la Legge”, non è sufficiente a salvare l’uomo è sottintesa anche dall’insistenza con cui i qumranici sottolineano non solo la natura genericamente peccatrice dell’uomo, ma anche la colpa del singolo (1QS 11,9 ss. e Hod., passim). La loro giustizia (tzdqh, dikaiosyne) è talmente un dono di Dio, da essere identificata con Dio stesso, anche nella sua accezione di virtù umana. Penso a quel meraviglioso passo che è 1QS 10,12, in cui l’autore dice, rivolto a Dio: «Tu sei la mia giustizia». Non si può certo pensare che questa tzdqh sia frutto della Legge! Essa è data a coloro che Egli ha scelto ab aeterno, perché ab aeterno li ha amati [20]. Dio tutto ha destinato fino da prima del tempo e per realizzare i Suoi piani si serve di due spiriti, il principe della Luce e il principe delle tenebre. Ma le azioni, perfino i pensieri dei singoli sono stati incrollabilmente fissati ab aeterno, senza che niente da parte di nessuno possa essere cambiato dei piani divini. Allora che funzione ha la Legge per i qumranici? Altissima, ma di segno più che di strumento: segno destinato a distinguere gli eletti, che solo così possono vivere la loro elezione, esserne coscienti.

NOTE [1] L’individuazione dell’esistenza nel mondo ebraico del tempo di Gesù (dai Maccabei ai Tannaim) di una certa crisi della Legge parte da certe affermazioni di Paolo. Questo naturalmente non significa che queste affermazioni contengano tutto il pensiero di Paolo, e non lo significa anche se così qualcuno lo ha interpretato, come Marcione, Lutero, Harnack, Barth. Specialmente i cattolici tendono a sdrammatizzare certe espressioni, inserendole in tutta la complessa ideologia paolina. Si veda per esempio un classico come F. Prat, La théologie de Saint Paul, I, Parigi 1961 (43a edizione), pp. 243-45, dove fra l’altro è scritto: «L’esatta interpretazione di questo passo (Rom 3,21-26) è subordinata ad altri problemi…». Compito di queste pagine non è stabilire quale sia la portata di certe affermazioni di Paolo in seno alla sua stessa ideologia, ma solo di seguire lo sviluppo di idee, la cui importanza è sottolineata dal loro ricorrere a grande distanza nel tempo coi nomi sopra ricordati, da Marcione fino a oggi. Sul problema del valore della Legge in Paolo ricordo il recente lavoro di R. Bring, Christus und das Gesetz, Leida 1969. [2] Su questa impostazione del pensiero di Paolo come strettamente legato alle sue vicende di uomo ebreo, che ha vissuto il dramma di una conversione radicale e ha sentito il dramma della storia del suo popolo, si veda C.H. Dodd, The Epistle of Paul to the Romans, Londra 1960 (14a edizione), p. XXXII. Sulla drammaticità (lutte douloureuse) paolina si veda Prat, op. cit., I, p. 16. [3] Già in testi antichi si dice, per esempio, che Dio indurì il cuore di Faraone (Es 7,3-4): «Farò ostinare Faraone e moltiplicherò i mie prodigi… Tuttavia Faraone non vi darà ascolto». Un passo particolarmente notevole per mostrare questa capacità divina di intervenire nella storia fino a farle prendere una via diametralmente opposta a quello che vorrebbe la logica umana dei fatti si ha nel cantico di Anna. «L’arco dei forti è spezzato, i deboli si son cinti di forza». Si veda sul passo P. Sacchi, in “Rivista degli Studi Orientali”. Sulla datazione del Cantico di Anna ci sono molti dubbi e problemi, raccolti dal Bressan in “Biblica” 32 (1951), pp. 503-521, e 33 (1952), pp. 67-89. Pare escluso che possa essere del II sec. a.C. come taluno vorrebbe, per quanto alcune idee di questo secolo trovino una loro corrispondenza nel Cantico. Comunque deve trattarsi di opera posteriore all’esilio (diversamente le conclusioni del Bressan). Ricordo ancora Sal 139,4-5 e Qohelet, che insiste come tutto nella vita sia dono di Dio (2,25-26; 3,13; 5,18), il quale ad alcuni concede di godere delle loro fatiche e ad altri lo nega, ma non certo per punire e ricompensare (8,10). [4] Che la religione ebraica postesilica (il giudaismo) sia religione essenzialmente etica, è luogo comune. Rimando a G. Ricciotti, Storia di Israele, II, Torino 1969 (2a edizione), pp. 77 ss., dove sono riportati brani che mostrano come Israele riconosca causa della propria rovina il proprio peccato e veda la salvezza nel ritorno alla Legge. [5] Il problema del rapporto fra l’azione di Dio e quella dell’uomo e della responsabilità di quest’ultimo è stato drammaticamente sentito più volte nella storia. Ricordo S. Agostino. Si noti però che Agostino (per esempio, De Civitate Dei, V) imposta il problema sulle tracce di Cicerone, seguendo la problematica del suo tempo e della sua civiltà. I termini del problema nel mondo tardo-giudaico sono diversi. Qui i termini del problema non sono prescienza divina e libertà umana, ma elezione divina e funzione umana nella storia. Il termine che riguarda Dio, nelle due problematiche, è diverso. [6] Gv 15,16: «Non voi avete scelto me, ma io ho eletto voi e vi ho destinati…»; e con tanto maggiore umanità: 1Gv 4,10: «Non noi abbiamo amato Dio, ma Lui ha amato noi». 7] Sulla Legge intesa nel tardo giudaismo come unità assoluta si veda M. Noth, in Gesammelte Studien zum Alten Testament, Monaco 1957, p. 129. Al tempo di Gesù la Legge si andava ipostatizzando. Paolo dice che l’ebreo, in quanto possiede la Legge, ha ten mórphosin tês gnoseos kaì tês aletheías en tô-i nómo (Rom 2,20). La Legge, già identificata con la Sapienza (Sir 24,22-23), nel pensiero rabbinico (Berešit rabba VII, 2) diventa il paradigma eterno della creazione, dotata di una sua personalità, per cui essa sa e conosce; ma l’uomo non deve tentare di indagare i segreti di là dal limite della creazione. La coscienza infatti di possedere in qualche modo lo strumento stesso della creazione era tale da indurre alla superbia e l’equilibrio rabbanita supera la difficoltà secondo il principio di Sir 3,17 ss.: «Tu non devi occuparti…». Ma è sempre un limite che si pone l’uomo. È chiaro che nel mondo ebraico, molto probabilmente per influsso dell’ellenismo greco, si produce un “gonfiamento” della Legge, che cresce da norma morale umana data da Dio fino a paradigma divino della creazione. Essa diviene l’oggettivazione e rivelazione storica dell’idea di bene. È evidente che la crisi della Legge è legata anche a questo “gonfiamento”. Quanto più essa è posta in alto, quanto più essa è avvicinata, anche ontologicamente, a Dio, tanto più da essa ci si attende. Quanto più grande l’attesa, tanto più amara la disillusione. Questo fenomeno poi del “gonfiamento” della Legge è legato alla credenza nell’immortalità, che nel mondo ebraico si andava affermando nel tempo di cui ci occupiamo. Una frase come quella di Lev 18,5, hà koiesas ho ánthropos resetéi en autoîs cambia ormai di significato. Chi legge non capisce più ciò che fu scritto secoli prima. Chi scrisse pensava che attraverso l’osservanza dei comandamenti si sarebbe avuto una buona, lunga vita. Chi legge ora, intende che chi aderisce alla Legge avrà la vita eterna. [8] Cfr. A. Viard, Epître aux Romains (La Sainte Bible, curata da L. Pirot e A. Clamer), Parigi 1951, p. 91, nota a 7,15. [9] Cfr. Berešit Rabba IX. Intorno alla metà del sec. III R. Semuel b. Nahman insegnava a proposito dell’espressione di Gen 1,31 «molto buono», che essa si riferiva non solo allo jetzer tob, ma anche allo jetzer hara‘. «Infatti, se lo jetzer hara‘ non ci fosse, nessun uomo si costruirebbe una casa, si sposerebbe, genererebbe figli, eserciterebbe un’attività». Circa un secolo prima R. Meir aveva insegnato, a proposito di lbb di Deut 6,5 (scritto con due b) che la cosa andava spiegata col fatto che l’uomo doveva onorare Dio sia con lo jetzer buono, sia con quello cattivo. (T. Berakhot 7,7). In genere però il problema sembra piuttosto turbare i rabbini che spesso insegnano che Dio si pentì di aver creato lo jetzer hara‘. Si veda sul problema l’Excursus di P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament…, Monaco 1928, IV, pp. 466-483, dal quale sono tratte le citazioni di questa nota.

[10] Cfr. Bellum Judaicum II, 8, § 162 ss. per quanto riguarda i farisei e i sadducei; Antiquitates Judaicae XVIII, I, 5, § 18; XIII, 5, 9, § 172.

[11] Si veda la rapida, ma efficace rappresentazione dell’ideologia sadducea di I. Epstein, Il Giudaismo, Milano 1967, pp. 83 ss. Sul destino, si veda poi tutta la produzione del Festugière. L’uomo ellenistico avvertiva la necessità di liberarsi da questa forza oscura dalla quale si sentiva schiacciato, in qualunque cosa la identificasse. Credo che la liberazione dagli elementi del mondo di cui parla Paolo vada inquadrata in questa spiritualità. Si veda specialmente L’idéal religieux des Grecs et l’évangile, Parigi 1932, pp. 101-115. [12] Cfr. anche il testo ebraico: edizione recente di F. Vattioni, Ecclesiastico, Napoli 1968. [13] D’altra parte il Deuteronomio stesso sviluppa, e con una coscienza del problema che in queste parole è assente, anche il motivo opposto. Cfr. 9,5, dove è detto che Israele entra in possesso della Palestina, non per la sua giustizia, ma solo perché Dio è fedele alla promessa e a causa della malvagità degli indigeni. La incapacità di avvertire la contraddizione, o, se si vuole, la capacità di non essere legati a ogni aspetto del principio di non contraddizione, in favore di un’osservazione immediata del reale, seguita da un giudizio morale, ha permesso all’ebraismo una grande ricchezza di sviluppi. [14] Se il giudaismo, diciamo così, classico, sorge dall’interpretazione della propria storia in termini rigidamente etici (Dio ha punito il suo popolo con la distruzione del tempio e con la deportazione, perché non ha rispettato la Sua Legge), nel giudaismo più tardo la sventura del popolo non è più sentita come conseguenza della inosservanza della Legge, o almeno qualche voce si alza in tal senso. L’osservazione è del Renan (Vie de Jésus, Parigi 1863, p. 52), che attribuiva questa atmosfera all’epoca maccabaica. Non so su che cosa si fondasse: forse sul Sal 44,23-27. Si veda su ciò A. Jaubert, La notion d’alliance dans le judaïsme aux abords de l’ère chrétienne, Parigi 1963, p. 78. Anche se la data del passo in questione dovesse essere un po’ più alta del sec. II a.C, la cosa non avrebbe importanza per la storia della cultura. Sul problema della datazione del Salmo 44, cfr. G. Castellino, Libro dei Salmi, Torino 1955, p. 298 ss. [15] Sulla concezione di “patto” presso i Qumranici, cfr. Jaubert, La notion d’alliance…, cit. Le sue conclusioni (p. 137) bene si accordano con la tesi generale di questo mio scritto: «A che serviva, dunque, per un giudeo essere figlio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, figlio della circoncisione, se in pratica era necessaria una elezione particolare (choix préalable) da parte di Dio…?». [16] Cfr. 2Pt 3,12. [17] Sui comandamenti segreti e la loro importanza nel giudaismo, cfr. N. Wieder, The Judean Scrolls and Karaism, Londra 1962, pp. 53 ss. [18] Su questa inadeguatezza della interpretazione della Legge, W. Davies, The Setting of the Sermon on the Mount, Cambridge 1964, p. 155. [19] Cfr. J. Carmignac, Les textes de Qumran traduits et annotés (Interprétations de prophétes), Parigi 1963, p. 107, nota n. 4. In maniera diametralmente opposta il Dupont-Sommer, Les écrits esséniens découverts près de la Mer Morte, Parigi 1964 (3a edizione), p. 275, nota n. 6. Quanto all’interpretazione del Davies, op. cit., p. 217, che la salvezza, secondo questo passo qumranico, sarebbe attraverso le opere della Legge, si può dire che essa mostra solo una notevole distorsione del testo: «È chiaro che i membri della Setta saranno salvati da Dio in quanto “facitori della Legge”, e per le loro sofferenze».

L’OBLIO DI PAOLO NEI PRIMI SECOLI

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L’OBLIO DI PAOLO NEI PRIMI SECOLI 

 Frainteso e respinto specie da giudeocristiani 
  
L’Apostolo delle genti, proprio perché si rivolse ai gentili e abbandonò la legge di Mosè, fu in vita attaccato violentemente e poi dimenticato, soprattutto dai cristiani provenienti dal giudaismo. Il relativo silenzio circa i suoi scritti presso alcuni autori della prima ora dipende anche dall’uso fatto della sua dottrina in ambienti gnostici. Differenze poi superate.                                     
         
Autore: Claudio Gianotto  
(Docente di storia del cristianesimo antico presso l’Università di Torino)
  
Tratto da: Vita Pastorale del 01/01/2006
 

Paolo dovette fronteggiare già durante la sua vita serie difficoltà, sia in riferimento alla sua rivendicazione di un’autorità apostolica, sia a proposito dei contenuti dell’Evangelo che annunciava (cf Gal 1). Analoghe difficoltà incontrò, dopo la sua morte, la ricezione dei suoi scritti; per tutto il secolo II, infatti, si registra, accanto a violente contestazioni del personaggio e della sua teologia, un rifiuto, o quantomeno un oblio, dei suoi scritti, che resta difficile da spiegare.
 
DATI GNOSTICI
 Una delle ipotesi cui volentieri si fa ricorso nel tentativo di trovare una motivazione per questo imbarazzante silenzio è suggerita da Tertulliano, il quale definisce Paolo come «haereticorum apostolus» (Adv. Marc. III, 5, 4). Sappiamo che, verso la metà del secolo II, Marcione, nel suo sforzo di identificare e fissare in modo preciso l’insegnamento di Gesù, operò una drastica selezione tra gli scritti attribuiti agli apostoli e destinati a far parte del Nuovo Testamento, accogliendo soltanto il vangelo di Luca (anche questo opportunamente epurato), alcune lettere di Paolo, ed escludendo tutto il resto.
 Sappiamo, inoltre, che Paolo godette di una certa fortuna presso i diversi gruppi gnostici del secolo II, che dimostrano di conoscerne gli scritti e li utilizzano nell’elaborazione delle loro complesse teologie. Questa situazione avrebbe condizionato gli altri autori cristiani, i quali, con il loro silenzio, manifesterebbero un atteggiamento, se non di vero e proprio rifiuto, almeno di sospetto nei confronti dell’Apostolo.
 Alla luce di un più attento esame delle fonti, questa ipotesi deve essere precisata e sfumata. In primo luogo, non si può dire che il silenzio su Paolo nei primi secoli sia generalizzato. Dimostrano di conoscere e di utilizzare le tradizioni paoline la Lettera ai Corinzi di Clemente di Roma; le lettere di Ignazio di Antiochia e di Policarpo di Smirne; la Lettera a Diogneto; l’Epistula apostolorum; gli Atti di Paolo e gli Atti di Pietro apocrifi. In molti scritti che tacciono di Paolo, il silenzio sembra potersi meglio spiegare sulla base di ragioni contingenti (problematiche affrontate, genere letterario utilizzato, ambiente d’origine, ecc.) piuttosto che in riferimento a un atteggiamento di sospetto o di consapevole rifiuto.
È questo, ad esempio, il caso della Didachè, che sceglie di affrontare il problema della legge nella prospettiva di Matteo piuttosto che in quella di Paolo; del Pastore di Erma, che, in forza della sua ispirazione profetica e della sua condizione di visionario, si rifiuta di richiamarsi a qualsiasi tradizione precedente; della Lettera dello Pseudo-Barnaba, il quale sviluppa la sua proposta di un’interpretazione non letterale, bensì allegorica e simbolica dei precetti della legge mosaica esclusivamente all’interno di un confronto con gli scritti dell’Antico Testamento; degli apologisti Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo, i quali in certa misura dimostrano di conoscere gli scritti di Paolo, benché non ne sviluppino le tematiche teologiche.
 Anche nel caso di autori come Papia di Gerapoli o Egesippo, la cui opera peraltro ci è giunta in modo solo frammentario, non si può parlare di un vero e proprio rifiuto di Paolo, ma piuttosto di scarso interesse per la forma di annuncio tipicamente paolina.
 
 DAI GIUDEOCRISTIANI
Un’aperta ostilità nei confronti di Paolo e un rifiuto radicale dei suoi scritti si registra invece, anche se in modo differenziato, negli ambienti giudeocristiani. Sappiamo che Paolo fu contestato, già durante il suo ministero pubblico, da esponenti e gruppi legati a Giacomo, fratello del Signore (cf Gal 2; At 15), i quali gli rimproveravano di insegnare «a tutti i giudei che sono tra i gentili ad allontanarsi da Mosè, dicendo loro di non far più circoncidere i loro figli e di non comportarsi più secondo i costumi tradizionali» (At 21,21). Il pericolo di un ritorno a un legalismo giudaizzante è segnalato negli ambienti legati alla missione di Paolo (cf Col 2, 16-19) e l’autore delle lettere pastorali si vede costretto a prendere posizione contro gente che viene dalla circoncisione (1Tm, 1,6-7; Tt 1,10).
 In alcuni casi, il perdurare del legame con il giudaismo produce atteggiamenti di esplicito rifiuto di Paolo, Ireneo, nella sua notizia sugli ebioniti, riferisce che costoro continuano a praticare la circoncisione e a vivere secondo gli usi e i costumi propri dei giudei, così come sono prescritti dalla legge; e inoltre attesta che «solo autem eo, quod est secundum Matthaeum, evangelio utuntur et apostolum Paulum recusant, apostatam eum legis dicentes» (Adversus haereses I, 26, 2). Accanto al gruppo degli ebioniti, Origene menziona anche gli elcasaiti come eretici che respingevano le lettere di Paolo. Epifanio, infine, spiega il rifiuto di Paolo da parte di questi gruppi facendo riferimento a due espressioni dell’Apostolo tratte da Gal 5,2.4.
 Ma l’opposizione più radicale a Paolo viene da un complesso di scritti noti sotto il nome di Pseudoclementine, in cui si sono raccolti, attraverso una lunga e complessa storia di trasmissione, materiali letterari di epoche diverse, i più antichi dei quali potrebbero risalire ai primi decenni del secolo III. La polemica contro Paolo e il paolinismo non vi è mai sviluppata in modo esplicito e aperto, ma più o meno velato. Il principale avversario che si oppone a Pietro e alla sua predicazione nelle Pseudoclementine è Simon Mago. Ora la descrizione di questo personaggio documentata da questo gruppo di scritti non trova rispondenza in nessuna delle presentazioni che la tradizione eresiologica ci ha lasciato di lui.
 Si tratta, quindi, con ogni verosimiglianza, di una costruzione letteraria che, utilizzando il testo di At 8,9-24 e le leggende su Simone diffuse in particolare in Siria e nelle regioni limitrofe, dà vita a un personaggio polivalente, dietro il quale si celano diversi obiettivi polemici, tra i quali i pensatori gnostici, Marcione e anche Paolo. A quest’ultimo allude Pietro quando, scrivendo a Giacomo, capo della Chiesa madre di Gerusalemme, gli segnala che alcuni gentili hanno respinto il suo insegnamento di fedeltà alla legge, preferendogli quello insensato dell’inimicus homo. (Ep. Petri 2, 3-4).
 Lo stesso epiteto riferito a Paolo ritorna in un passo dove si racconta del tentativo messo in atto da parte di Giacomo per convertire la gente di Gerusalemme, insieme con i sacerdoti del tempio, e indurli a farsi battezzare nel nome di Gesù; operazione che non riesce unicamente per l’intervento violento dell’inimicus homo, il quale arringa la folla, suscitando odio e risentimento nei confronti dei seguaci di Gesù e arriva addirittura ad alzare le mani su Giacomo, che viene scaraventato giù dalla scalinata del Tempio e quasi ne muore (Rec. I, 70-71).
 In questi ambienti giudeocristiani, la diffidenza e anche l’opposizione esplicita nei confronti del personaggio di Paolo e della sua teologia erano motivate dal fatto che l’Apostolo, identificando in Gesù Cristo il mediatore esclusivo della salvezza, metteva in discussione la validità e soprattutto la funzione salvifica della legge mosaica, nella quale essi continuavano a riconoscersi. I gruppi giudeocristiani sopravvivranno per diversi secoli soprattutto nelle regioni orientali dell’impero romano, ma saranno sempre più marginalizzati.
 In ogni caso, a partire dalla fine del secolo II, con Ireneo di Lione, l’eredità paolina, superate le diffidenze e le esitazioni, entrerà pienamente a far parte del patrimonio dottrinale della grande Chiesa.

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO (1)

 http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/peccorpaolo.htm

(è lungo e divido in due, credo che sia Ortodosso Greco)

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO (1)

Giovanni S. Romanidis

La traduzione è tratta da: St. Vladimir’s Seminary Quaterly,vol. IV, nn. 1-2, 1955-1956.

Indice

punto elenco Introduzione 
punto elenco La Creazione decaduta 
punto elenco La giustizia di Dio e la Legge
punto elenco Il destino dell’uomo e l’antropologiapunto elenco Il destino dell’uomo
punto elenco L’antropologia di san Paolo 
punto elenco Osservazioni sintetiche 
punto elenco Conclusioni   

Introduzione      
 Riguardo la dottrina del peccato originale com’è contenuta nell’Antico Testamento e chiarita dall’unica Rivelazione di Cristo nel Nuovo Testamento, nel cristianesimo occidentale, specialmente in quello fondato sullo sviluppo dei presupposti scolastici, continua a regnare una grande confusione che, negli ultimi secoli, sembra aver guadagnato molto terreno nelle problematiche teologiche dell’Oriente ortodosso. In alcune scuole questo problema è stato rivestito di un’aurea di mistificante vaghezza a tal punto che perfino alcuni teologi ortodossi sembrano accettare la dottrina sul peccato originale vedendola semplicemente come un grande e profondo mistero di fede (cfr. Androutsos, Dogmatike, pp. 161-162). Quest’atteggiamento è divenuto certamente paradossale, particolarmente da quando tali cristiani, che non possono definire il nemico dell’umanità [il Demonio], sono gli stessi che affermano illogicamente che in Cristo esiste la remissione di questo misterioso peccato originale. È sicuramente un’opinione molto distante rispetto alla certezza con la quale san Paolo ha affermato che noi “non ignoriamo i pensieri” (noemata) del Demonio (II Cor 2, 11).
Se si mantiene vigorosamente e con fermezza che Gesù Cristo è l’unico Salvatore ad aver portato la salvezza in un mondo bisognoso d’essere salvato, si deve evidentemente sapere che è la natura del bisogno ad aver procurato tale salvezza (Sant’Atanasio, De incarnatione verbi Dei, 4). Sarebbe davvero sciocco esercitare dottori e infermieri a guarire malattie se nel mondo non esistesse alcuna malattia. Analogamente un salvatore che proclama di salvare delle persone che non hanno alcun bisogno di salvezza, è un salvatore soltanto per se stesso.
Indubbiamente una delle cause più importanti dell’eresia sta nel fallimento a capire l’esatta natura della situazione umana descritta nell’Antico e nel Nuovo Testamento per la quale gli eventi storici della nascita, degli insegnamenti, della morte e risurrezione e della seconda venuta di Cristo, rappresentano l’unico rimedio. Il fallimento di tale comprensione implica automaticamente la distorta comprensione di quanto Cristo ha fatto e continua a fare per noi e della nostra conseguente relazione con Lui all’interno del Regno di salvezza. L’importanza d’una definizione corretta sul peccato originale e sulle sue conseguenze non può mai essere esagerata. Qualsiasi tentativo di minimizzarla o di alterare il suo significato comporta automaticamente un indebolimento e, parimenti, un completo malinteso sulla natura della Chiesa, dei sacramenti e del destino umano.
In ogni indagine che voglia approfondire il pensiero di san Paolo e degli altri agiografi apostolici può esserci la tentazione d’esaminare i loro scritti con definiti presupposti, benché molto spesso inconsci, contrari alle testimonianze bibliche. Se ci si accosta alla testimonianza biblica, all’opera di Cristo e alla vita della comunità primitiva con predeterminate nozioni metafisiche riguardo alla struttura morale di quello che i più definiscono “mondo naturale” e, di conseguenza, con idee fisse riguardo al destino umano e alle necessità dell’individuo e dell’umanità in genere, dalla vita e dalla fede della Chiesa antica, si coglieranno indubbiamente solo gli aspetti che si adattano bene al proprio quadro di riferimento. Allora, se si desidera mantenere costantemente autentica la propria interpretazione delle Sacre Scritture, si dovrà necessariamente procedere a spiegare esaurientemente ogni elemento estraneo ai concetti biblici e, quindi, secondario e superficiale, intendendolo semplicemente come il prodotto d’alcuni malintesi sulla dottrina di certi Apostoli, d’un gruppo di Padri, o di tutta la Chiesa primitiva in genere.
Un approccio appropriato all’insegnamento neotestamentario di san Paolo riguardo il peccato originale non può essere trattato in modo fazioso. È incorretto, per esempio, sottolineare eccessivamente la frase di Romani 5, 12 “eph’ho pantes hemarton” per provare che esiste un certo sistema di pensiero riguardo alla legge morale e alla colpa senza prima stabilire il peso delle convinzioni di san Paolo riguardo ai poteri di Satana e alla vera situazione, non solo dell’uomo, ma di tutta la creazione. Sbaglia pure chi tratta il problema della remissione del peccato originale inserendo il pensiero di san Paolo in una struttura antropologica dualistica ignorando, al contempo, i fondamenti ebraici dell’antropologia paolina. Similmente, un tentativo d’interpretare la dottrina biblica della caduta nei termini d’una filosofia edonistica sulla felicità è già condannata al fallimento per il suo rifiuto di riconoscere non solo l’anormalità ma, cosa più importante, le conseguenze della morte e della corruzione.
Un approccio corretto alla dottrina paolina sul peccato originale deve prendere in considerazione la comprensione di san Paolo:

    1) sullo stato decaduto della creazione, inclusi i poteri di Satana, la morte e la corruzione;
    2) sulla giustizia di Dio e la legge e, infine,
    3) sull’antropologia e il destino dell’uomo e della creazione.

Con ciò non si vuole suggerire che nel presente studio ciascun tema sarà trattato dettagliatamente. Tali temi, piuttosto, saranno affrontati solo alla luce del problema principale del peccato originale e della sua trasmissione secondo san Paolo.

La Creazione decaduta   
San Paolo afferma energicamente che tutte le cose create da Dio sono buone (I Tim 4,4). Allo stesso tempo, insiste sul fatto che non solo l’uomo (Rom 5, 12) ma pure tutta la creazione è decaduta (Rom 8, 20). Sia l’uomo che la creazione attendono la redenzione finale (Rom 8, 21-23). Così, nonostante il fatto che tutte le cose create da Dio siano buone, il Diavolo diviene temporaneamente (I Cor 15, 26) “dio di questo secolo” (II Cor 4, 3). Un basilare presupposto di san Paolo è che, sebbene il mondo è stato creato da Dio come una realtà buona, esso si trova ancora sotto il potere di Satana. Il Demonio, comunque, non ha alcun ruolo assoluto poiché Dio non ha abbandonato la Sua creazione (Rom 1, 20).       
Secondo san Paolo, la creazione non è quanto Dio intendeva fosse “poiché la creatura è soggetta alla vanità non per volontà propria ma per causa di chi l’ha assoggettata” (Rom 8, 20) Perciò la cattiveria può esistere, almeno temporaneamente, come un elemento parassita a fianco o all’interno di quanto Dio ha creato originalmente come buono. Un ottimo esempio di ciò è colui che vorrebbe fare il bene secondo l’“uomo interiore” ma ne è impossibilitato per l’insito potere del peccato nella carne (Rom 7, 15-25). Benché la realtà creata sia buona e venga ancora mantenuta e governata da Dio, la creazione per se stessa è lontana dalla normalità o dalla naturalità se, per “normale”, intendiamo la natura secondo l’originale e finale destino della creazione. Colui che governa questo mondo, contrariamente al fatto che Dio sostiene ancora la creazione e conserva per se un resto di essa (Rom 11, 5), è il Demonio (II Cor 4, 3).
Cercare di rinvenire in san Paolo una certa filosofia naturale con un universo equilibrato da fisse e inerenti leggi ragionevoli secondo le quali l’uomo può vivere serenamente ed essere felice, significa fare violenza alla fede dell’apostolo. Per san Paolo non esiste alcun mondo naturale con un sistema inerente di leggi morali, poiché tutta la creazione è stata sottoposta alla vanità e al cattivo dominio di Satana subendo il potere della morte e della corruzione (I Cor 15, 56). Per questa ragione tutti gli uomini sono divenuti peccatori (Rom 3, 9-12; 5, 19). Non esiste alcun uomo che non sia peccatore semplicemente perché vive secondo la legge della ragione o la norma mosaica (Rom 5, 13). La possibilità di vivere secondo la legge universale implica pure la possibilità d’essere senza peccato. Tuttavia, per san Paolo, questo è un mito poiché Satana non rispetta le leggi della ragione che fanno vivere rettamente (II Cor 4, 3; 11, 14; Ef 6, 11-17; II Tess 2, 8) e ha sotto la sua influenza tutti gli uomini che nascono sotto il potere della morte e della corruzione (Rom 8, 24).
Che sia creduto o meno, il presente, reale ed attivo potere di Satana dovrebbe provocare il teologo biblista. Egli non può ignorare l’importanza attribuita da san Paolo al potere demoniaco. Facendo diversamente non si comprende per nulla il problema del peccato originale e della sua trasmissione e si finisce pure per equivocare il pensiero degli scrittori del Nuovo Testamento e la fede di tutta la Chiesa antica. Riguardo al potere di Satana per opera del quale viene introdotto il peccato nella vita d’ogni uomo, sant’Agostino, per combattere il pelagianesimo, ha chiaramente mal interpretato san Paolo. Il potere di Satana, la morte e la corruzione dallo sfondo teologico dov’erano posti sono stati collocati in primo piano per rispondere alla controversia sul problema della colpa personale nella trasmissione del peccato originale. In tal modo, san’Agostino ha introdotto un falso approccio filosofico-moralistico che è estraneo al pensiero di san Paolo (Col 2, 8 ) e che non è stato accettato dalla tradizione patristica orientale (Cfr. San Cirillo d’Alessandria, Migne, PG, t. 74, c. 788-789).
Per san Paolo Satana non è semplicemente un potere negativo nell’universo. È una realtà personale con volontà (II Tim 2, 26), pensieri (II Cor 2, 11) e metodi falsi (I Tim 2, 14; 4, 14; II Tim 2, 26; II Cor 11, 14; 4, 3; 2, 11; 11, 3), contro il quale i cristiani devono intraprendere un’intensa battaglia (Ef. 6, 11-17) poiché possono essere ancora tentati da lui (I Cor 7, 5; II Cor 2, 11; 11, 3; Ef 4, 27; I Tes 3, 5; I Tim 3, 6; 3, 7; 4, 1; 5, 14). Egli è dinamicamente attivo (II Cor 11, 14; 4, 3; Ef 2, 2; 6, 11-17; I Tess 2, 18; 3, 5; II Tess 2, 9; I Tim 2, 14; 3, 7; II Tim 2, 25-26) e combatte per la distruzione della creazione senza attendere con semplice passività in uno spazio circoscritto per accogliere coloro che decidono razionalmente di non seguire Dio e le leggi morali inerenti ad un universo naturale. Satana è pure capace trasformare se stesso in angelo di luce (II Cor 11, 15). Ha a sua disposizione miracolosi poteri di perversione (II Tess 2, 9) e ha per collaboratori eserciti di poteri invisibili (Ef 6, 12; Col 2, 15). Egli è “il bene di questo secolo” (II Cor 4, 4), colui che ha ingannato la prima donna (II Cor 11, 3; I Tim 2, 14). È lui che ha condotto l’uomo (Ibid.) e tutta la creazione nel sentiero della morte e della corruzione (Rom 8, 19-22).
Il potere della morte e della corruzione, secondo Paolo, non è negativo ma, al contrario, positivamente attivo. “Il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56) che, a sua volta, fa regnare la morte (Rom 5, 21). Non solo l’uomo ma tutta la creazione è stata assoggettata alla tirannia del suo potere (Rom 8, 21) e ora attende la redenzione. Perciò la creazione stessa sarà consegnata dalla schiavitù della corruzione (Rom 8, 20). Assieme con la distruzione finale di tutti i nemici di Dio, la morte – l’ultima e probabilmente la maggior nemica – sarà distrutta (I Cor 15, 24-26). Allora la morte sarà inghiottita dalla vittoria (I Cor 15, 54). Per san Paolo la distruzione della morte è parallela alla distruzione del Demonio e delle sue forze. La salvezza dalla prima significa la salvezza dagli altri (Col 2, 13-15; I Cor 15, 24-27; 15, 54-57).
È ovvio che le espressioni paoline riguardanti la creazione decaduta, Satana e la morte non offrono alcuno spazio a qualsiasi tipo di dualismo metafisico o a qualsiasi divisione mentale con la quale si farebbe di questo mondo un dominio intermedio quasi esso fosse, per l’uomo, una pietra di guado tra la presenza di Dio e il regno di Satana. L’idea di tre piani nella storia in cui Dio con i suoi seguaci e gli angeli occuperebbero quello superiore, il Demonio la base e l’uomo nella sua carne il piano intermedio, non trova alcun posto nella teologia paolina. Per Paolo tutte le tre realtà si compenetrano. Non esiste alcun mondo intermedio e neutro dove l’uomo possa vivere secondo la legge naturale ed essere giudicato per ricevere la felicità alla presenza di Dio o per meritare il tormento in abissi tenebrosi. Al contrario, tutta la creazione è dominio di Dio ed Egli non può essere contaminato dal male. Tuttavia, nel suo dominio esistono altre volontà che Egli ha creato le quali possono scegliere sia il Regno di Dio sia il regno della morte e della distruzione.

Contrariamente al fatto che la creazione di Dio è essenzialmente buona, il Demonio ha contemporaneamente e parassitariamente trasformato questa stessa creazione in un temporaneo regno per se stesso (II Cor 4, 3; Gal 1, 4; Ef 6, 12). Il Demonio, la morte e il peccato stanno regnando in questo mondo, non in un altro. Il regno delle tenebre e quello della luce si stanno facendo guerra nel medesimo luogo. Per questa sola ragione l’unica vittoria possibile sul Diavolo è la risurrezione dalla morte (I Cor 15, 1 e ss.). Non esiste alcuna fuga dal campo di battaglia. L’unica scelta possibile per ogni uomo è combattere attivamente il Demonio condividendo la vittoria di Cristo, o accettare le falsità del Diavolo volendo credere che tutto va bene ed è tutto normale (Rom 12, 2; I Cor 2, 12; 11, 32; II Cor 4, 3; Col 2, 20; II Tess 2, 9; II Tim 4, 10; Col 2, 8; I Cor 5, 10).

La giustizia di Dio e la Legge
Secondo quant’è stato detto, per san Paolo la creazione decaduta ha una natura non duplice. Ne consegue che non esiste alcun sistema morale di leggi inerenti ad un universo normale e naturale. Perciò quello che l’uomo accetta come giusto e buono, partendo dalle sue osservazioni sulle relazioni umane nella società e nella natura, non può essere confuso con la giustizia di Dio. La giustizia di Dio è stata rivelata unicamente e pienamente solo in Cristo (Rom 1, 17; 3, 21-26). Nessun uomo ha il diritto di sostituire la propria concezione della giustizia a quella divina (Rom 10, 2-4; Fil 3, 8).
La giustizia di Dio, com’è rivelata in Cristo, non opera secondo un’obiettiva regola di condotta (Rom 3, 20; 5, 15 ss.; 9, 32) ma, piuttosto, secondo le relazioni personali di fede e d’amore (Rom 9, 30; 10, 10; I Cor 13, 1; 14, 1; I Tim 5, 8). “La legge non è fatta per il giusto ma per gli ingiusti e i disobbedienti, per gli empi e i peccatori…” (I Tim 1, 9-10). La legge non è un male ma un beneficio (I Tim 1, 18) pure spirituale (Rom 7, 14). Tuttavia non è abbastanza perché possiede una natura temporanea e pedagogica (Gal 3, 24). Essa dev’essere adempiuta in Cristo (Gal 5, 13) e superata con un amore personale secondo l’immagine dell’amore di Dio rivelato in Cristo stesso (Rom 8, 29; 15, 1-3; 15, 7; I Cor 2, 16; 10, 33; 13, 1 ss.; 15, 49; II Cor 3, 13; Gal 4, 19; Ef 4, 13; 5, 1; 5, 25; Fil 2, 5; Col 3, 10; I Tes 1, 6). La fede e l’amore in Cristo devono essere personali. Per questa ragione la fede senza l’amore è vuota. “Se avessi tutta la fede, sì da trasportare le montagne, e poi mancassi d’amore non sarei nulla” (I Cor 13, 2). Similmente gli atti di fede privi d’amore non sono d’alcun profitto. “Se pure disperdessi, a favore dei poveri, quanto possiedo e dessi il mio corpo per essere arso, ma non avessi l’amore, non ne avrei alcun giovamento” (I Cor 13, 3).
Non esiste possibilità di vita, seguendo delle regole oggettive. Se, seguendo la legge, vi fosse stata qualche possibilità non ci sarebbe stato bisogno della redenzione in Cristo. “La rettitudine sarebbe stata data nella legge” (Gal 3, 21) “Se fosse stata data una legge che avesse il potere di vivificare” (Ibid.). allora non sarebbe stata data ad Abramo la promessa della salvezza ma direttamente la salvezza stessa (Gal 3, 18). La vita non esiste dove sussiste la legge. La vita è, piuttosto, l’essenza di Dio “l’unico che possiede l’immortalità” (I Tim 6, 16). Perciò solo Dio può dare vita e lo fa liberamente secondo la propria volontà (Rom 9, 16), alla sua maniera e al tempo che sceglie come più opportuno (Rom 3, 26; Ef 2, 4-6; I Tim 6, 15).
D’altra parte, è un grave errore attribuire alla giustizia di Dio la responsabilità della morte e della corruzione. In nessun luogo Paolo attribuisce a Dio l’inizio di questi eventi. Al contrario, la natura è stata sottoposta alla vanità e alla corruzione dal Diavolo (II Cor 11, 13; I Tim 2, 14) che, attraverso il peccato e la morte del primo uomo, si è inserito parassitariamente nella creazione della quale faceva già parte anche se, ancora, non ne era il tiranno. Per Paolo la trasgressione del primo uomo ha aperto la via all’ingresso della morte nel mondo (Rom 5, 12); tuttavia questa nemica (I Cor 15, 26) non è certamente il frutto perfetto di Dio. Né può la morte di Adamo, o quella di ciascun uomo, essere considerata la conseguenza d’una decisione punitiva da parte di Dio (San Gregorio Palamas, Kephalia Physica, 52, Migne, PG t. 150-A). San Paolo non suggerisce mai una simile idea!
Per giungere ai presupposti basilari del pensiero biblico è necessario abbandonare ogni schema giuridico di giustizia umana con il quale si attribuisce la punizione o la ricompensa secondo le oggettive regole della moralità. Avvicinandosi al problema del peccato originale con uno schema così ingenuo si dovrà credere che ogni lettore attribuisca ad una penalità comune un’offesa comune ragion per cui tutti condividono la colpa di Adamo (F. Prat, La Theologie de saint Paul, Paris 1924, t. c. pp. 67-68). Questo, però, significa ignorare la vera natura della giustizia divina e negare il potere reale del Diavolo.
Le relazioni che esistono tra Dio, l’uomo e il Diavolo non seguono leggi e regolamenti ma si accordano alla libertà personale. Il fatto che esistano leggi che proibiscono l’uccisione non determina l’impossibilità che tale evento non possa accadere una volta e neppure centinaia di migliaia di volte. Se l’uomo può trascurare l’osservanza di regole e disposizioni di buona condotta, sicuramente non ci si può attendere dal Diavolo l’osservanza di tali regole, visto che quest’ultimo può aiutare l’uomo a prescinderne. La versione paolina del Demonio non coincide certo con quella di chi rispetta semplicemente delle leggi naturali ed esegue la volontà di Dio per sottrarsi alla punizione delle anime in inferno. Ben al contrario, il Demonio combatte Dio attivamente attraverso metodi in cui impiega la maggior falsità possibile cercando di distruggere le opere di Dio con tutta l’astuzia e il potere in suo possesso (Rom 8, 20; I Cor 10, 10; II Cor 2, 11; 4, 3; 11, 3; 11, 14; Ef 2, 1-3; 6, 11-17; I Tess 2, 18; 3, 5; II Tes 2, 9; I Tim 2, 14; 5, 14; II Tim 2, 26). Così la salvezza per l’uomo e la creazione non può venire da un semplice atto di perdono su qualche giuridica imputazione di peccato, né può provenire dal pagamento di qualche soddisfazione al Diavolo (Origene) o a Dio (Roma). La salvezza può provenire solo dalla distruzione del Demonio e del suo potere (Col 2, 15; I Cor 15, 24-26; 15, 53-57; Rom 8, 21).
Secondo san Paolo, è Dio stesso che ha distrutto “i principati e le potenze” inchiodando gli scritti dei decreti che erano contro di noi sulla croce di Cristo (Col 2, 14-15) “poiché è stato Dio che in Cristo ha riconciliato a se gli uomini non imputando loro le mancanze commesse” (II Cor 5, 19). Benché fossimo peccatori, Dio non s’è rivolto contro di noi, ma ha proclamato la sua giustizia a coloro che credono in Cristo (Rom 3, 20-27). La giustizia di Dio non è accordata a quegli uomini che producono opere dalla legge (Rom 10, 3; Fil 3, 8). Per san Paolo la giustizia e l’amore di Dio non sono separati dall’inosservanza di qualche dottrina giuridica d’espiazione. La giustizia di Dio e l’amore di Dio, come sono stati rivelati in Cristo, sono la stessa cosa. Così, nella lettera ai Romani (3, 21-26) l’espressione “amore di Dio” potrebbe essere molto facilmente sostituita da “giustizia di Dio”.
È interessante notare che ogni volta in cui san Paolo parla della collera di Dio si riferisce sempre a quella che è rivelata a coloro che sono divenuti disperatamente schiavi, per loro propria scelta, alla carne e al Diavolo (Rom 1, 18 ss.). Benché la creazione sia tenuta prigioniera nella corruzione, coloro che vivono senza la legge, adorando e vivendo erroneamente, sono senza scusa poiché “le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità” (Rom 1, 20); “perciò Dio li abbandonò nelle concupiscenze dei loro cuori lasciando ch’essi disonorassero sconciamente i loro corpi a vicenda…” (Rom 1, 24). E ancora: “Dio li abbandonò a sentimenti reprobi” (Rom 1, 28). Tutto ciò non significa che Dio ha fatto divenire questi uomini quel che essi sono, quanto piuttosto che li ha abbandonati nello smarrimento totale della corruzione e del potere del Diavolo. Bisogna interpretare così anche altri simili passi (Ad es. Rom 9, 14-18; 11, 8).
 L’abbandono di Dio di un popolo già indurito nel proprio cuore contro le opere divine non è ristretto ai gentili ma riguarda pure i giudei (Rom 9, 6). “Poiché, davanti a Dio, non sono giusti coloro che sentono parlare della legge ma saranno salvati solo quelli che la praticheranno” (Rom 2, 13). “Coloro che hanno peccato nella legge saranno giudicati dalla legge” (Rom 2, 12). I gentili, comunque, pur non essendo sotto la legge mosaica non sono scusati dalla responsabilità del peccato personale poiché essi “non avendo la legge sono legge a se stessi; essi mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza e i loro pensieri per cui vicendevolmente ora s’accusano, ora si difendono” (Rom 2, 14-15). All’ultimo giudizio tutti gli uomini, sotto la legge o meno, udenti o meno, saranno giudicati da Cristo secondo il vangelo predicato da Paolo (Rom 2, 16) e non secondo un sistema di leggi naturali. Pure attraverso le invisibili realtà divine – “le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità” – non esiste alcuna cosa simile ad un corpo di leggi morali inerenti nell’universo. I gentili che “non hanno la legge” ma che “fanno per natura le cose contenute nella legge” non rispettano un sistema naturale di leggi universali. Essi, piuttosto, “mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza”. Anche qui si può vedere la concezione paolina delle relazioni personali tra Dio e l’uomo. “Dio stesso le ha manifestate in loro” (Rom 1, 19) ed è Dio che sta ancora parlando all’uomo decaduto al di fuori della legge, attraverso la sua coscienza e nel suo cuore il quale, per Paolo, è il centro dei pensieri umani (Rom 1, 21; I Cor 4, 5 14-25; Ef 1, 17) e, nei membri del corpo di Cristo (Ef 3, 17), il luogo in cui abita lo stesso Cristo e lo Spirito Santo (II Cor 1, 22; Gal 4, 6).

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO (2)

 http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/peccorpaolo.htm

(è lungo e divido in due, credo che sia Ortodosso Greco)

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO (2)

Giovanni S. Romanidis

Il destino dell’uomo e l’antropologia

Prima d’iniziare il tentativo di determinare il significato del peccato originale, come già precedentemente precisato, è necessario osservare la concezione di Paolo sul destino dell’uomo e la sua antropologia.

Il destino dell’uomo 
Sarebbe un controsenso cercare di leggere nella teologia di Paolo una concezione del destino umano che accoglie come normalità le aspirazioni e i desideri di quello che qualcuno chiamerebbe l’“uomo naturale”. Per l’uomo naturale è normale cercare la sicurezza e la felicità nell’acquisizione e nel possesso di beni oggettivi. I teologi scolastici occidentali hanno spesso utilizzato queste tendenze dell’uomo naturale come prova che, alla fine, l’uomo cerca istintivamente l’Assoluto, possedendo il quale raggiunge l’unico stato in cui è possibile una completa felicità visto che in tale stato è impossibile desiderare qualcosa di più e non esiste nulla di meglio. Questo tipo d’approccio edonistico sul destino umano è ovviamente possibile solo per coloro che ritengono la morte e la corruzione una realtà normale o, al più, la conseguenza d’una decisione punitiva di Dio. In tal maniera costoro accettano che Dio sia la principale causa della morte finendo per attribuirgli realmente il peccato e i poteri della corruzione. Dio stesso diverrebbe sorgente del peccato e del male.
Per san Paolo non esiste alcuna realtà come normale in coloro che non sono posti in Cristo. Il destino dell’uomo e della creazione non può essere dedotto da osservazioni sulla vita dell’uomo e della creazione decaduta. In nessun passo Paolo incoraggia il cristiano a vivere una vita di sicurezza e di felicità secondo lo stile di questo mondo. Al contrario chiama il cristiano a morire a questo mondo e al corpo del peccato (Rom 8, 10; 8, 13; II Cor 4, 10-11; 6, 4-10; Col 2, 11-12; 2, 20; 3, 3; II Tes 1, 4-5) e, pure, a soffrire per il vangelo secondo la forza di Dio (II Tim 1, 8; 2, 3-6; 6, 4-5). Paolo asserisce che “quanti vorranno vivere piamente in Cristo saranno perseguitati” (II Tim 3, 12). È certamente un linguaggio forte per chi cerca sicurezza e felicità (I Tim 6, 7-9). Non è possibile supporre che, per Paolo, le sofferenze senza amore siano considerate dei mezzi per raggiungere il proprio destino. Tale prospettiva sarebbe quella di chi punta al pagamento del proprio lavoro e non di chi ha relazioni personali di fede e d’amore (I Cor 13, 3).
San Paolo non crede che il destino umano consista semplicemente nel conformarsi a delle norme e delle regole naturali che rimangono apparentemente immutate dall’inizio del tempo. La relazione tra la volontà divina e quella umana non comporta né una sottomissione giuridica né una sottomissione edonistica (come insegnano sant’Agostino e i teologi scolastici) ma piuttosto una relazione d’amore personale. San Paolo asserisce che “siamo collaboratori di Dio” (I Cor 3, 9). La nostra relazione d’amore con Dio è tale che, in Cristo, non esiste alcun bisogno della legge. “Se vi lasciate condurre dallo Spirito non siete più sotto la legge” (Gal 5, 18). I membri del corpo di Cristo non sono chiamati ad un livello di vita nel quale si eseguono impersonali ordinanze. Viene loro richiesto di vivere secondo l’amore di Cristo rivelato in Cristo stesso con il quale non c’è bisogno di legge alcuna poiché, tale amore, non cerca il proprio tornaconto (I Cor 13, 4) ma vuole donarsi ad immagine dell’amore divino (Fil 2, 5-8).
L’amore e la giustizia di Dio sono state rivelate una volta per tutte in Cristo (Rom 3, 21-28) attraverso la distruzione del Demonio (Col 2, 15) e la liberazione dell’uomo dal corpo di morte e di peccato (Rom 8, 24; 66) in modo tale che l’uomo può ora divenire imitatore dello stesso Dio (Ef 5, 1) il quale ci ha predestinati a divenire “conformi all’immagine del proprio Figlio” (Rom 8, 29) che in nulla cercò di piacere a se stesso ma soffrì per gli altri (Rom 15, 1-3). Cristo morì in modo che coloro che continuavano a vivere non vivessero per loro stessi (II Cor 5, 15), ma divenissero uomini perfetti, “nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4, 13). I cristiani non vivono più secondo i riferimenti di questo mondo (Col 2, 20), pur vivendo in questo mondo, ma hanno assunto la stessa mentalità di Cristo (I Cor 2, 16; Fil 2, 5-8) cosicché in Cristo essi possono divenire perfetti (Col 1, 28). L’uomo non ama più sua moglie seguendo i modelli di questo mondo ma deve amare sua moglie esattamente “come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). Il destino dell’uomo non è la felicità e l’autosoddisfacimento (Fil 2, 20) quanto piuttosto la perfezione in Cristo. L’uomo deve divenire perfetto come sono perfetti Dio (Ef 5, 1) e Cristo (Rom 8, 29; I Cor 10, 33; 15, 49; II Cor 3, 13; Gal 4, 19; Ef 4, 13; 5, 25; Fil 2, 5-8; Col 1, 28; 3, 10). Simile perfezione può essere assunta solo attraverso il personalistico potere dell’amore divino ed altruistico (I Cor 13, 2-3), “che è vincolo della perfezione” (Col 3, 14). Quest’amore non dev’essere confuso con quello dell’uomo decaduto che cerca il proprio tornaconto (Fil 2, 20). L’amore in Cristo non cerca il proprio interesse ma quello degli altri (Rom 14, 7; 15, 1-3; I Cor 10, 24; 10, 29; 11, 1; 12, 25-26; 13, 1 ss.; II Cor 5, 14-15; Gal 5, 13; 6, 1; Ef 4, 2; Fil 2, 4; I Tess 5, 11).
Divenire perfetti ad immagine di Cristo non si restringe al regno d’amore ma è inseparabile parte e forma la salvezza di tutto l’uomo come della creazione. Il corpo umile dell’uomo sarà trasformato per divenire “conforme” al “corpo glorioso” (Fil 3, 21) di Cristo. L’uomo è destinato a divenire, come Cristo, perfetto pure nel corpo. “Colui che risuscitò Gesù Cristo dai morti, farà rivivere anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che risiede in voi” (Rom 8, 11).
 San Paolo afferma che la morte è il nemico (I Cor 15, 26) venuto nel mondo e riguarda tutti gli uomini a causa del peccato d’un solo uomo (Rom 5, 12). La sottomissione alla corruzione non riguarda solo l’umanità ma tutta la creazione (Rom 8, 20-21). Tale realtà, sotto il potere del Diavolo e della morte, è stata evidentemente provvisoriamente frustrata rispetto al suo originale destino. Nelle asserzioni paoline relative al primo e al secondo Adamo è erroneo rinvenire l’idea che Adamo sarebbe morto anche se non avesse peccato. Questo, semplicemente perché il primo Adamo fu fatto (eis psychen zosan), espressione che nell’uso paolino e nel suo contesto significa chiaramente immortale (I Cor 15, 42-49). Adamo avrebbe potuto essere stato creato naturalmente mortale, ma se egli non avesse peccato non sussisterebbe ragione di credere che non sarebbe divenuto immortale per natura (Sant’Atanasio, De incarnatione Verbi Dei, 4-5). Ciò ha implicato certamente gli straordinari poteri che san Paolo attribuisce alla morte e alla corruzione.

L’antropologia di san Paolo
Come abbiamo già detto, la legge, per san Paolo, non è solo buona (Rom 7, 12) ma pure spirituale (v. 14). Ciò è noto all’“uomo interiore” (Rom 7, 22). Tuttavia l’uomo anche se possiede la volontà per fare il bene secondo la legge, non può trovare la forza (Rom 7, 18) perché è “carnale e soggetto al peccato” (Rom 7, 14). Se egli stesso, secondo “l’uomo interiore”, vuole fare il bene e non può, non è molto distante da chi fa il male e ha il peccato dimorante in sé (Rom 7, 20). Così san Paolo si domanda: “Disgraziato che sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom 7, 24). Essere liberati da questo “corpo di morte” significa essere salvati dal potere del peccato dimorante nella carne. Così “la legge dello spirito di vita in Gesù Cristo mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 2).
È fuorviante cercare d’interpretare questa frase paolina (Rom 7, 13 ss.) secondo un’antropologia dualistica che riferirebbe il termine sarkikos solo agli appetiti più bassi del corpo e specialmente ai desideri sessuali ad esclusione dell’anima. Il termine sarkikos non viene utilizzato da san Paolo in tal senso. Altrove san Paolo ricorda alle persone sposate che essi non hanno autorità sui loro corpi e così non si devono privare gli uni agli altri, “salvo che, acconsentendo, per una volta diate voi stessi al digiuno e alla preghiera. Poi, però, siate come prima perché Satana non vi tenti a causa della vostra incontinenza” (I Cor 7, 4-5. Vedi anche Rom 15, 27). Ai corinti dichiara ch’essi sono una lettera non scritta con inchiostro “ma con lo spirito del Dio vivente, non in tavole di pietra ma nelle tavole di carne del cuore – en plaxi kardias sarkinais” (II Cor 3, 3). Cristo fu conosciuto secondo la carne (II Cor 5, 16) e “Dio fu manifestato nella carne” (I Tim 3, 16) San Paolo si chiede se, dopo aver piantato realtà spirituali tra i corinti, sia una grande cosa cogliere le sarkika (realtà materiali) (I Cor 9, 11). In nessuna parte Paolo usa l’aggettivo sarkikos per riferirsi esclusivamente alla sessualità o a quello che comunemente viene definito come desideri della carne contrari a quelli dell’anima.
Sembra che san Paolo attribuisca un potere positivo di peccato alla sarx come tale solo nell’epistola ai galati i quali, avendo iniziato nello Spirito, pensano d’essere divenuti perfetti nella carne (Gal 3, 3). Qui la sarx ha una volontà di desiderio contro il pneuma (Gal 5, 16-18). “Le opere della carne sono manifeste e sono le seguenti: fornicazione, impurità, dissolutezza, lussuria, idolatria, venefizi, inimicizie, discordie, gelosie, risentimenti, contese, divisioni, sette, invidie, omicidi, ubriachezze, gozzoviglie e altre simili cose” (Gal 5, 19-21). Molte di queste opere della carne (sarkos) hanno una partecipazione, e spesso un’iniziativa, molto attiva dell’intelletto, indicazione che in questo passo la sarx, per Paolo, è molto di più di quanto ammetterebbe una qualsiasi antropologia dualistica. In ogni evenienza, la carne come tale vista come una forza positiva di peccato basandosi sulla sopravvalutazione della lettera dove Paolo si infuria contro la leggerezza dei galati (Gal 3, 1), non può essere isolata da altri riferimenti in cui il peccato dimora parassitariamente nella carne (Rm 7, 17-18) e dove la carne stessa non solo non è cattiva (I Cor 9, 11; Rom 15, 27; II Cor 3, 3; 4, 11; 5, 16) ma è quella realtà nella quale si è manifestato lo stesso Dio (I Tim 3, 16). La carne in quanto tale non è cattiva ma si è molto indebolita a causa del peccato e dell’inimicizia dimoranti in essa (Rom 7, 17-18; Ef 2, 15).
Per comprendere l’antropologia paolina non bisogna riferirsi all’antropologia dualistica dei greci i quali hanno fatto una chiara distinzione tra l’anima e il corpo quanto, piuttosto, all’antropologia ebraica nella quale sarx e psyche (la carne e l’anima) denotano entrambe l’intera persona vivente e non soltanto una parte di essa (Tresmontant, Essai sur la pensée hebraique, Paris 1953, pp. 95-96). Così nell’Antico Testamento l’espressione pasa sarx (ogni carne) viene impiegata per indicare tutte le realtà viventi (Gen 6, 13-17; 7, 15-21; Sal 135, 25) tra le quali, a maggior ragione e particolarmente, l’uomo (Gen 6, 12; Is 40, 6; Ger 25, 31; 12, 12; Zac 2, 17). L’espressione pasa psyche (ogni anima), viene utilizzata nella stessa maniera (Gios 10, 28, 30, 32, 35, 37; Gen 1, 21, 24; 2, 7; 19; 9, 10, 12, 15; Lev 11, 10). Nel Nuovo Testamento entrambe le espressioni pasa sarx (Mat 24, 22; Mc 13, 10; Lc 3, 6; Rom 3, 20; I Cor 1, 23; Gal 11, 16) e pasa psyche (At 2, 43; 3, 23; Rom 2, 9; 13, 1) vengono usate in perfetto accordo con il contesto vetero testamentario.
 Vediamo dunque, che per san Paolo, essere sarkikos (Rom 7, 14) e psychikos (I Cor 2, 14) significa esattamente la medesima cosa. “La carne e il sangue (sarx kai haima) non possono ereditare il regno di Dio” (I Cor 15, 50) poiché la corruzione non può ereditare l’incorruzione (Ibid.). Per tale ragione un soma psychikon è “seminato nella corruzione ma risuscitato nell’incorruzione; seminato nel disonore ma risuscitato nella gloria (I Cor 15, 42-49); seminato nella fragilità ma risuscitato nella forza”. “Viene seminato un soma psychikon e viene risorto un soma pneumatikon. Esiste un soma psychikon ed esiste un soma pneumatikon!” (I Cor 15, 44) Sia il sarkikon che lo psychikon sono dominati dalla morte e dalla corruzione e così non possono ereditare il regno di vita. Questo può riguardare solo il pneumatikon. “Non è precedente il pneumatikon. (l’elemento spirituale) bensì lo psychikon (quello animale). Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre, il secondo uomo, tratto dal cielo, è celeste” (I Cor 15, 46-47). Questo primo uomo diviene eis psychen zosan (un’anima vivente). Per Paolo ciò significa esattamente che diviene psychikon, e quindi soggetto alla corruzione (I Cor 15, 4) poiché “tratto dalla terra è terrestre…” (I Cor 15, 47). Tali espressioni non ammettono alcuna antropologia dualistica. Un soma psychikon “tratto dalla terra, terrestre o una psyche zosa “tratta dalla terra, terrestre” condurrebbero ad una grande confusione se li si collocasse in un contesto dove esiste un dualismo che pone una distinzione tra l’anima e il corpo, tra il basso e l’alto, tra il materiale e il puramente spirituale. D’altronde cosa dovrebbe essere una psyche zosa visto che proviene dalla terra ed è terrestre? Parlando della morte un dualista non potrebbe mai ammettere che un soma psychikon è seminato nella corruzione. Affermerebbe, semmai, che l’anima lascia il corpo il quale è l’unico ad essere seminato nella corruzione.
Né la psyche né il pneuma sono la parte intellettuale dell’uomo. Non abbiamo alcuna prova di ciò né citando I Cor 2, 11 (tis gar oiden anthropon ta tou anthropou ei me to pneuma tou anthropou to en auto?), né citando I Tes 5, 23 (Autos o Theos tea eirenes hagiasai hymas holoteleis, kai holokleron hymon to pneuma kai he psyche kai to soma amemptos en te parousia tou K. H. I. X. teretheie). Non si possono prendere queste espressioni isolandole dal resto degli scritti paolini per cercare di far parlare Paolo con un linguaggio dualistico tomista come fa, ad esempio, F. Prat ne La theologie de st. Paul, t. 2, pp. 62-63. Altrove, parlando contro la pratica di alcuni individui che pregano pubblicamente in lingue sconosciute, san Paolo dice: “Se io prego con un linguaggio sconosciuto prega il mio pneuma ma la mia mente rimane senza alcun frutto. Cos’ho, allora? Pregherò con il pneuma ma pregherò pure con la mente” Qui viene fatta un’acuta distinzione tra il pneuma e il nous (la mente) (I Cor 14, 14-15). Perciò per san Paolo il regno del pneuma non appartiene alla categoria della comprensione umana. È in un’altra dimensione.
Per esprimere l’idea d’intelletto o comprensione tutti i quattro evangelisti utilizzano la parola kardia (cuore) (Mat 13, 15; 15, 19; Mc 2, 6; 2, 8; 3, 5; 6, 52; 8, 17; Lc 2, 35; 24, 15; 24, 38; At 8, 22; 28, 27; Gv 12, 40). La parola nous (mente) è usata una volta sola da san Luca (Lc 24, 45). San Paolo, invece, utilizza entrambi i termini kardia (Rom 1, 21; 1, 24; 2, 5; 8, 27; 10, 1, 6, 8, 10; 16, 18; I Cor 4, 5; 7, 37; 14, 25; II Cor 3, 15; 4, 6; 9, 7; Ef 4, 18; 6, 22; Fil 4, 7; Col 2, 2; 3, 16; 4, 8; I Tes 2, 4; II Tes 2, 16; 3, 5; I Tim 1, 5; II Tim 2, 22) e nous (I Cor 14, 14-19; 2, 16; Rom 7, 23; 12, 2; Ef 4, 23; Tit 1, 15) per definire la facoltà dell’intelligenza. Il nous, comunque, non può essere ritenuto come se fosse le facoltà intellettuali di un’anima immateriale. Esso, piuttosto, è sinonimo di kardia che, a sua volta, è sinonimo di eso anthropon.
Lo Spirito Santo è inviato da Dio nel kardia (II Cor 1, 22; Gal 4, 6) o nell’eso anthropon (Ef 3, 16), e Cristo deve abitare nel kardia (Ef 3, 17). Il kardia e l’eso anthropon sono il luogo in cui dimora lo Spirito Santo. L’uomo si diletta nella legge di Dio secondo l’eso anthropon ma esiste un’altra legge nelle sue membra che muove guerra alla legge del nous (Rom 7, 22-23). Qui il nous è chiaramente sinonimo di eso anthropon che, a sua volta, è il kardia, luogo in cui abita lo Spirito Santo e Cristo (Ef 3, 16-17).                                      
Camminare nella vanità del nous con la dianoia ottenebrata rimanendo, quindi, alienati dalla vita di Dio attraverso l’ignoranza, è un risultato de “l’indurimento del cuore – dia ten perosin tes kardias” (Ef 4, 17-18). Il cuore è la sede della libera volontà umana ed è qui che l’uomo viene accecato (Rom 1, 21) e indurito (Ef 4, 18) a causa della propria scelta o, viceversa, illuminato nella sua comprensione dalla speranza, dalla gloria e dalla forza in Cristo (Ef 1, 18-19). È nel cuore che vengono colti i segreti umani (I Cor 14, 25) ed è qui che Cristo “darà luce ai luoghi nascosti nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori” (I Cor 4, 5).
Sarebbe assurdo interpretare l’utilizzo delle espressioni paoline eso anthropon e nous secondo un’antropologia dualistica ignorando l’uso della parola kardia la quale è in perfetto accordo con gli scritti del Nuovo e dell’Antico Testamento. Usando le parole nous e eso anthropon, Paolo ha certamente introdotto una nuova terminologia estranea all’uso tradizionale ebraico ma non ha introdotto alcuna nuova antropologia basata sul dualismo ellenistico. San Paolo non si riferisce mai né alla psyche né al pneuma come ad una falcoltà dell’intelligenza umana. La sua antropologia è ebraica, non ellenistica.
Sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento si trova l’espressione to pneuma tes zoes (lo spirito di vita), mai to pneuma zon (lo spirito vivente) (Tresmontant, Op. cit., p. 110). Si trova pure psyche zosa (l’anima vivente), mai psyche tes zoes (l’anima di vita) (Ibid.). Il motivo è semplice: la psyche, o la sarx, vivono solo per partecipazione mentre il pneuma è esso stesso principio di vita, dono di Dio affidato all’uomo (Eccl 12, 7). Inoltre, il pneuma “è il solo a possedere l’immortalità” (I Tim 6, 16). Dio dona all’uomo la propria vita increata senza distruggere la libertà umana. In tal modo, la persona non è una forma intellettuale modellata secondo un’essenza predeterminata o secondo un’idea universale di uomo. Il destino della persona non è quello di conformarsi ad uno stato d’automatica contentezza di fronte a Dio dove, per la completa autosoddisfazione e felicità, la volontà umana sia divenuta sterile ed immobile (come, ad esempio, nell’insegnamento neoplatonico di sant’Agostino e, generalmente, nel concetto sull’umano destino da parte dei tomisti cattolico-romani). La personalità dell’uomo non consiste in un’anima immateriale ed intellettuale che ha vita in se stessa e utilizza il corpo semplicemente come luogo da abitare. La sarx o la psyche sono la totalità dell’uomo mentre il kardia è il centro dell’intelligenza. La volontà conserva un’integra indipendenza e può scegliere se indurirsi davanti alla verità o divenire interiormente ricettiva all’illuminazione divina. Il pneuma dell’uomo non è il centro della personalità umana, non è neppure la facoltà che regola le sue azioni quanto, piuttosto, la scintilla di vita divina donata all’uomo come proprio principio vitale. In tal modo, l’uomo può vivere secondo il pneuma tes zoes o secondo la legge della carne che significa morte e corruzione. La vera personalità dell’uomo, comunque, benché creata da Dio rimane al di fuori dell’essenza divina e mantiene una completa libertà. Questo significa che l’uomo può giungere a respingere l’atto creativo per il quale non è stato consultato, o ad accogliere l’amore creativo di Dio vivendo secondo il pneuma, datogli per tale scopo.
“I desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello spirito portano alla vita e alla pace” (Rom 8, 6) Coloro che vivono secondo la carne avranno la morte (Rom 8, 13). Coloro che mortificano i desideri della carne, attraverso lo spirito, avranno la vita (Ibid.). Lo spirito dell’uomo, privato dello Spirito vivificante di Dio, è particolarmente debole dinnanzi alla carne dominata dalla morte e dalla corruzione (Rom 8, 9): “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rom 7, 24). Ma “la legge del pneumatos tes zoes (dello Spirito che dà vita) in Gesù Cristo ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 2). Solo coloro il cui spirito è stato rinnovato (Rom 7, 6) dall’unione con lo Spirito di Dio (Rom 8, 9) possono combattere i desideri della carne. Solo coloro che hanno ricevuto lo Spirito di Dio ed ascoltato la Sua voce nella vita del corpo di Cristo sono abilitati a lottare contro il peccato. “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rom 8, 16).
Benché Dio abbia donato all’uomo il principio di vita (lo spirito), egli può ancora partecipare fragilmente alle opere della carne. Per tale ragione è necessario che i cristiani si guardino non solo dalla fragilità della carne ma pure da quella dello spirito (II Cor, 7, 1). Il battesimo, in cui avviene l’unione tra lo spirito dell’uomo e quello di Dio, non garantisce magicamente l’impossibilità di un’eventuale separazione. Divenire nuovamente schiavi alle opere della carne può seriamente comportare l’esclusione dal corpo di Cristo (Rom 11, 21; I Cor 5, 1-13; II Tes 3, 6; 3, 14; II Tim 3, 5). L’uomo riceve lo Spirito di Dio in modo che Cristo possa dimorare nel suo cuore (II Cor 1, 22; Gal 4, 6; Ef 3, 16-17). “Voi però non siete sotto il dominio della carne ma dello spirito dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi” (Rom 8, 9). Se lo Spirito di Dio dimora nel corpo dell’uomo significa pure che egli è membra del corpo di Cristo. Essere privati del primo significa essere esclusi dall’altro. È impossibile rimanere in comunione soltanto con una parte di Dio. La comunione con Cristo, attraverso lo Spirito, è la comunione con l’intera Divinità. Escludere una Persona significa escludere tutte le tre Persone.
“Le opere della carne sono manifeste…” (Gal 5, 19) “Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. Coloro che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio” (Rom 8, 7-8). Sono così, le persone schiavizzate al potere della morte e della corruzione nella carne. Esse devono essere salvate da “questo corpo di morte” (Rom 7, 13-25). D’altra parte coloro che sono stati seppelliti con Cristo attraverso il battesimo sono morti al corpo del peccato e vivono in Cristo (Rom 6, 1-14). Nessuno vive più secondo i desideri della carne ma secondo quelli dello Spirito. “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri” (Gal 5, 22-24).
È chiaro che, per san Paolo, l’unione dello spirito dell’uomo con lo Spirito di Dio nell’esistenza d’amore del corpo di Cristo è vita e salvezza. D’altra parte, vivere aderendo ai desideri della carne dominata dai poteri della morte e della corruzione significa morire: “i desideri della carne portano alla morte” (Rom 8, 6). San Paolo in tutte le sue epistole utilizza le categorie di vita e morte. Dio è vita mentre il Diavolo tiene le redini della morte e della corruzione. L’unità con Dio nello Spirito, attraverso il corpo di Cristo nella vita agapica, significa esistere veramente ricevendo salvezza e perfezione. La separazione dello spirito umano dalla vita divina nel corpo di Cristo comporta la schiavitù ai poteri della morte e della corruzione. Tali poteri sono adoperati dal Diavolo per distruggere le opere di Dio. La vita dello Spirito è unità e amore. La vita secondo la carne è disunione e dissoluzione nella morte e nella corruzione.
È assolutamente necessario afferrare il significato con il quale san Paolo utilizza i termini di sarx, psyche e pneuma per evitare la diffusa confusione dominante nel campo delle indagini sulla teologia paolina. San Paolo non parla mai in termini di anime razionali immateriali contrarie a dei corpi materiali. La sarx e la psyche sono sinonimi e formano, con il pneuma, l’intero uomo. Vivere secondo il pneuma non è seguire gl’istinti più bassi dell’uomo. Vivere secondo la sarx o psyche significa seguire la legge della morte contrariamente a chi, vivendo secondo lo spirito, vive la legge della vita e dell’amore.
Coloro che sono sarkikoi non possono vivere secondo il loro originario destino d’amore altruistico verso Dio e il prossimo, poiché sono dominati dal potere della morte e della corruzione. “Il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56). Il peccato ha regnato con la morte (Rom 5, 21). La morte è l’ultimo nemico ad essere distrutto (I Cor 15, 26). Tanto in quanto l’uomo vive secondo la legge della morte, nella carne, non può piacere a Dio (Rom 8, 8) poiché non vive secondo la legge della vita e dell’amore. “Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero” (Rom 8, 7). La liberazione dai poteri della morte e della corruzione è venuta da Dio che ha inviato il proprio Figlio “in una carne simile a quella del peccato” per liberare l’uomo “dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 1-11).
Ma benché la forza della morte e del peccato sia stata distrutta dalla morte e dalla risurrezione di Cristo, la partecipazione a questa vittoria può venire solo attraverso la morte a questo mondo con Cristo nell’acqua del battesimo (Rom 6, 1-14). È solo morendo nel battesimo e continuando a morire alla mentalità e ai costumi del mondo che i membri del corpo di Cristo divengono perfetti come Dio è perfetto.
L’importanza che san Paolo attribuisce al rifiuto della mentalità mondana per vivere secondo “lo spirito di vita” non può essere esagerata. Cercare di presentare la sua insistenza sul radicale rifiuto della mondanità in vista della salvezza come se fosse il prodotto d’un entusiasmo escatologico, significa smarrire completamente la vera base del messaggio neotestamentario. Se la distruzione del Diavolo, della morte e della corruzione ha significato la salvezza e l’unica condizione per vivere secondo l’originale destino dell’uomo, il significato d’essere passati dal regno della morte e delle sue conseguenze a quello della vita nella vittoria di Cristo sulla morte stessa, dev’essere considerato molto seriamente. Per Paolo passare dalla morte alla vita significa essere in comunione con la morte e la vita di Cristo nel battesimo vivendo continuamente nel corpo di Cristo. La nuova vita nel corpo di Cristo, comunque, dev’essere costantemente contraddistinta da un quotidiano morire alla mentalità di questo mondo, dominato dalla legge della morte e della corruzione e posto nelle mani dal Diavolo. La partecipazione alla vittoria sulla morte non deriva semplicemente dal possesso d’una magica fede e da un vago e generico sentimento d’amore verso l’umanità (Lutero). La totale appartenenza al corpo di Cristo può essere realizzata solo morendo nelle acque del battesimo con Cristo stesso e vivendo secondo la legge dello “spirito di vita”. I catecumeni e i penitenti hanno certamente la fede ma non sono ancora passati attraverso la morte del battesimo alla nuova vita. Non sono nella nuova vita neppure coloro che, dopo essere morti alla carne nel battesimo, non hanno perseverato permettendo, in tal modo, al potere della morte e della corruzione di prevalere sullo “spirito di vita”.
Riguardo all’insegnamento paolino concernente la morte battesimale alla mentalità mondana è interessante notare l’utilizzo che egli fa della parola soma per designare la comunione tra coloro che, in Cristo, costituiscono la Chiesa. Il termine soma in entrambi i Testamenti, a parte Paolo, è prevalentemente usato per designare una persona morta o un cadavere (Cfr. Mt 5, 29; 10, 28; 14, 12; 26, 12; 27, 52; 58, 59; Mc 14, 18; 15, 43; 15, 45; Lc 12, 4; 23, 52; 24, 3-23; Gv 2, 21; 19, 31, 38, 40; 20, 12; At 9, 40; I Pt 2, 24; Gd 9). Nell’Ultima Cena, nostro Signore ha utilizzato la parola soma per designare, molto probabilmente, il suo passaggio attraverso la morte. Analogamente ha utilizzato il termine haima per mostrare il suo ritorno alla vita poiché, nell’Antico Testamento, il sangue è un elemento designante la vita (Westcott, Commentary on the Epistle to Hebrews). In tal modo nell’Ultima Cena, come in ogni Eucarestia, c’è la proclamazione e la confessione della morte e della resurrezione di Cristo. Secondo i presupposti rinvenibili nei discorsi paolini riguardo alla morte battesimale, è possibilissimo descrivere la Chiesa come il soma di Cristo non solo per l’inabitazione di Cristo stesso e dello Spirito nei corpi dei cristiani ma pure perché tutti i membri di Cristo sono morti al corpo del peccato nelle acque battesimali. Prima di condividere la vita di Cristo è necessario divenire un vero soma liberato dal Diavolo morendo alla mentalità di questo mondo e vivendo secondo lo “spirito” (l’uso paolino del termine soma non è sempre consistente. Tuttavia non viene mai utilizzato in un contesto dualistico per distinguere il corpo dall’anima. Al contrario, Paolo usa frequentemente soma come sinonimo di sarx (I Cor 6, 16; 7, 34; 13, 3; 15, 35-58; II Cor 4, 10-11; Ef 1, 20-22; 2, 15; 5, 28 ss.; Col 1, 22-24). Se la sua antropologia fosse dualistica non sarebbe logico utilizzare il termine soma per designare la Chiesa e kephale tou somatos (capo del corpo) per designare Cristo. Sarebbe molto più normale denominare la Chiesa con il termine di corpo e presentare Cristo come l’anima di tale corpo).

Osservazioni sintetiche
San Paolo non dice in alcun passo che l’intero genere umano è considerato colpevole del peccato di Adamo ed è stato quindi punito con la morte. La morte è una forza cattiva entrata nel mondo attraverso lo stesso peccato radicato nel mondo e regna nella creazione a causa di Satana. Per questa ragione, benché l’uomo possa conoscere le cose buone attraverso la legge scritta nel suo cuore e possa operare quant’è bene, ne è impedito a causa del peccato dimorante nella sua carne. Perciò non è lui che fa il male ma è il peccato che dimora in lui. A causa di questo peccato egli non può trovare la maniera per operare il bene. Deve quindi essere salvato da “questo corpo di morte” (Rom 7, 13-25). Solo in seguito può fare il bene. Cosa vuole dire Paolo attraverso queste affermazioni? Un’appropriata risposta può essere fondata solo quando si tiene in considerazione la dottrina paolina sul destino umano.
Se l’uomo fosse stato creato per una vita di completo amore altruista le sue azioni sarebbero state guidate sempre da un motivo esterno. Si sarebbero mosse sempre verso Dio e il prossimo, mai verso il soggetto agente. Così ci sarebbe stata una perfetta immagine e somiglianza di Dio. È ovvio che il potere della morte e della corruzione ha impossibilitato la persona a vivere una tale vita di perfezione. Il potere della morte nell’universo ha portato con sé la volontà dell’autoconservazione, la paura e l’inquietudine (Ebr 2, 14-15) che, a loro volta, sono la radice e la causa dell’autoasservimento, dell’egoismo, dell’odio, dell’invidia e d’altri simili sentimenti. Poiché l’uomo ha paura di divenire insignificante, si sforza continuamente mettendosi alla prova, davanti a se stesso e agli altri, per mostrare che vale qualcosa. Ha sete di complimenti e paura d’insulti. Cerca il proprio successo ed è geloso di quello degli altri. Gli piacciono le persone come lui e odia coloro che lo odiano. Egli cerca la sicurezza e la felicità nella ricchezza, insegue la gloria e i piaceri fisici e immagina che il suo destino consista nell’essere felice nel possesso della presenza di Dio. La fruizione egoistica di Dio viene immaginata a causa della sua introversa e individualistica personalità incline all’errore e all’egocentrico desiderio di soddisfazione e felicità ritenute come proprio normale destino. D’altra parte egli può divenire premuroso su vaghi principi ideologici d’amore verso l’umanità e continuare, poi, ad odiare i suoi vicini più prossimi. Queste sono le opere della carne delle quali san Paolo parla (Gal 5, 19-21). Sotto ogni azione di colui che il mondo conosce come “l’uomo normale”, esiste la ricerca della sicurezza e della felicità. Ma tali desideri non sono normali. Sono la conseguenza della perversione causata dalla morte e dalla corruzione, attraverso la quale il Diavolo invade tutta la creazione, dividendola e distruggendola. Questo potere è così grande che se l’uomo vuole vivere secondo il suo originale destino ne è impedito a causa del peccato che abita nella sua carne (Rom 7): “Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom 7, 24.).
Condividere l’amore di Dio, senza qualche concessione per se stessi, significa pure condividere la vita e la verità di Dio. L’amore, la vita e la verità in Dio sono una cosa sola e possono essere fondate solo in Lui. Allontanarsi dall’amore di Dio e del prossimo significa rompere la comunione con la vita e la verità divine, che non possono essere separate dal Suo amore. La rottura di questa comunione con Dio può essere consumata solo nella morte, poiché nulla di creato può continuare indefinitamente ad esistere per se stesso (Sant’Atanasio, Op. cit., 4-5). Così, a partire dalla trasgressione del primo uomo, il principio del “peccato (il Diavolo) è entrato nel mondo ed attraverso la morte il peccato, e così la morte ha raggiunto tutti gli uomini.” (Rom 5, 12). Non solo l’umanità ma tutta la creazione è stata soggetta alla morte e alla corruzione dal Diavolo (Rom 8, 20-22). Poiché l’uomo è parte inseparabile della creazione, mantiene con essa una continua comunione ed è collegato con la procreazione all’intero processo storico dell’umanità, la caduta della creazione attraverso un uomo coinvolge automaticamente tutti gli uomini nella caduta e nella corruzione. È attraverso la morte e la corruzione che tutta l’umanità e la creazione è tenuta prigioniera dal Diavolo venendo coinvolta nel peccato, perché è attraverso la morte che l’uomo decade dal suo originale destino che consisteva nell’amare Dio e il prossimo senza alcun egoismo. L’uomo non muore perché è colpevole per il peccato di Adamo (Cfr. San Giovanni Crisostomo, Migne, P.G. t. 60, col. 391-692; Theophylactos, Migne, P.G. t. 124, c. 404-405). Diviene peccatore [e quindi mortale] perché è assoggettato al potere del Diavolo attraverso la morte e le sue conseguenze (Cfr. Cirillo di Alessandria, Migne, P. G. t. 74, c. 781-785 e specialmente c. 788-789; Teodoreto di Ciro, Migne, P.G. t. 66, c. 800).
San Paolo dice chiaramente che “il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56), che “il peccato ha regnato nella morte” (Rom 5, 21) e che la morte è “l’ultimo nemico ad essere distrutto” (I Cor 15, 26). Nelle sue epistole, è particolarmente ispirato quando parla della vittoria di Cristo sulla morte e la corruzione. Sarebbe veramente illogico cercare d’interpretare il pensiero paolino attraverso i presupposti:

    1) che la morte è normale o che, al più,
    2) è la conseguenza d’una decisione giuridica divina di punire l’intera umanità per un peccato;
    3) che la felicità è l’ultimo destino dell’uomo e che
    4) l’anima è immateriale, naturalmente immortale e direttamente creata e concepita da Dio. Perciò essa sarebbe normale e scevra da difetti (scolasticismo romano).

La dottrina paolina dell’uomo sull’incapacità a fare il bene che la persona è in grado di riconoscere secondo l’“uomo interiore”, può essere capita solo se si prende seriamente in considerazione il potere della morte e della corruzione nella carne, che rende impossibile all’uomo una vita secondo il proprio destino originale.
Il problema moralistico esposto da sant’Agostino riguardo la trasmissione della morte ai discendenti di Adamo come punizione per una trasgressione originale è estraneo al pensiero paolino. La morte di ciascun uomo non può essere considerata la conseguenza d’una colpa personale. San Paolo non pensa come un filosofo moralista che cerca la causa della caduta dell’umanità e della creazione nella rottura di oggettive regole di buon comportamento, rottura che esige la punizione di un Dio la cui giustizia è ad immagine della giustizia di questo mondo. Paolo pensa chiaramente alla caduta nei termini di una guerra personale tra Dio e Satana, nella quale Satana non è obbligato a seguire alcuna sorta di regole morali se può essergli di vantaggio. È per questa ragione che san Paolo può affermare che il serpente “ha ingannato Eva” (II Cor 11, 3) e che “non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione” (I Tim 2, 14). L’uomo non è stato punito da Dio, ma reso prigioniero dal Diavolo.
Questa interpretazione è promossa dalla chiara insistenza paolina che “fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo” (Rom 5, 13-14). È chiaro che Paolo nega qualche cosa come una colpa generale personale per il peccato di Adamo. Il peccato rimase comunque nel mondo, visto che la morte ha regnato pure su quelli che non avevano peccato oltre che in Adamo che aveva peccato. Qui il peccato significa evidentemente la persona di Satana, che ha regnato nel mondo attraverso la morte pure prima dell’arrivo della legge. Questa è la sola possibile interpretazione del presente passo, poiché tale spiegazione è chiaramente sostenuta altrove negli insegnamenti paolini a proposito dei poteri straordinari del Diavolo, specialmente in Romani 8, 19-21. Le asserzioni di san Paolo dovrebbero essere prese molto letteralmente quando afferma che l’ultimo nemico ad essere distrutto sarà la morte (I Cor 15, 26) e che “il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56).
Da quanto è stato osservato la famosa espressione eph’ho pantes hemarton (Rom 5, 12) può essere sicuramente interpretata in riferimento al termine thanatos che la precede il quale è l’unica parola che si adatta al significato del testo. Riferire eph’ho ad Adamo è impossibile sia grammaticamente che esegeticamente. Simile interpretazione fu inizialmente introdotta da Origene che la assunse, evidentemente, poiché aveva determinati presupposti mentali: credeva nella preesistenza di tutte le anime. Per tale motivo Origene avrebbe facilmente affermato che tutte le anime hanno peccato in Adamo. L’interpretazione di eph’ho come “perché” fu introdotta in Oriente per la prima volta da Fozio (Amphilochia, heroteseis, 84, Migne, P.G. t. 101, c. 553-556). Egli affermò che in tal passo esistono due prevalenti interpretazioni – Adamo e thanatos –. Fozio, tuttavia, propendeva per dioti (perché) fondando le sue argomentazioni su un’errata interpretazione di II Cor 5, 4 dove, anche qui, ritenteva eph’ho con il senso di dioti. Tuttavia, in questo passo, è veramente chiaro che eph’ho si riferisce a skensi (eph’ho skenei ou thelomen ekdysasthai). Fozio cerca d’interpretare san Paolo in un contesto di leggi morali naturali e perciò cerca di giustificare la morte di tutti gli uomini a causa d’una colpa personale. Afferma, quindi, che tutti gli uomini muoiono perché seguono i passi di Adamo (Ecumenius, extracts from Photius, Migne, P.G. t. 118, c. 418). In ogni evenienza né lui né i Padri orientali accettano l’insegnamento secondo il quale tutti gli uomini sono colpevoli per il peccato adamitico.
Anche con le sole considerazioni grammaticali non è possibile interpretare eph’ho con riferimento ad altra parola oltre che a thanatos. In ogni epoca la costruzione grammaticale della preposizione epi col dativo usata da Paolo, è sempre stata impiegata come pronome relativo per modificare il nome (Rom 9, 33; 10, 19; 15, 12; II Cor 5, 4; Rom 6, 21) o la frase (Fil 4, 10) precedenti. Fare un’eccezione in Romani 5, 12 ritenendo che san Paolo utilizzi un’errata espressione greca per intendere “perché” significa non considerare questa realtà. L’interpretazione corretta di tale passo, sia grammaticamente che esegeticamente, può essere ottenuta solo quando eph’ho è colto per modificare thanatos – kai houtos eis pantas anthropous ho thanatos dielthen eph’ho (thanato) pantes hemarton – “poiché della quale” (morte), o “sulla base della quale” (morte), o “per la qual (morte) ognuno ha peccato”. Satana, essendo lui stesso principio del peccato, attraverso la morte e la corruzione coinvolge tutta l’umanità e la creazione nel peccato e nella morte. Così, essere sotto il potere della morte, secondo Paolo, significa essere peccatore e schiavo del Diavolo, per l’incapacità della carne a vivere secondo la legge di Dio, cioè secondo un amore altruista.
La teoria della trasmissione del peccato originale e della colpa non è sicuramente fondata in san Paolo, che non può essere interpretato né in termini giuridicisti né in termini dualisti i quali operano una distinzione tra una dimensione materiale e una seconda dimensione ritenuta pura e spirituale, parte intellettuale dell’uomo. Non bisogna meravigliarsi se alcuni studiosi biblici sono impotenti quando non possono trovare nell’Antico Testamento qualche chiaro appiglio per sostenere quella che pretendono essere la dottrina paolina sul peccato originale nei termini di una colpa morale e di una punizione (Cfr. Lagrange, Epitre aux Romains, p. 117-118; Sanday and Headlam, Romans, p. 136-137). Identica perplessità viene espressa da molti moralistici studiosi occidentali quando approfondiscono il pensiero dei Padri orientali (A. Gaudel, Peché Originel in “Dictionaire de Theologie Catholique”, t. XII, prèmiere partie). Di conseguenza, sant’Agostino è popolarmente ritenuto il primo e l’unico antico Padre ad avere capito la teologia di san Paolo. Ma ciò è chiaramente un mito dal quale sia i protestanti che i cattolico-romani hanno bisogno d’essere liberati.
Solo quando si capisce il significato della morte e le sue conseguenze si può capire la vita della Chiesa antica e, specialmente, il suo atteggiamento verso il martirio. Essendo già morti al mondo nel battesimo e avendo nascosto la loro vita con Cristo in Dio (Col 3, 3), i cristiani non potevano esitare di fronte alla morte. Erano già morti ma vivevano ancora in Cristo. Avere paura della morte significava essere ancora sotto il potere del Diavolo (II Tim 1, 7): “In Dio non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di forza, d’amore e di saggezza”. Cercando di convincere i cristiani di Roma a non impedire il loro martirio, sant’Ignazio scrive: “Il principe di questo mondo vorrebbe rassegnarmi ad allontanarmi corrompendo la mia disposizione verso Dio. Perciò nessuno di voi che è in Roma lo aiuti” (San’Ignazio, Epistola ai Romani c. 7). La controversia ciprianense sul rinnegamento di Cristo durante i periodi di persecuzione è stata violenta, proprio perché la Chiesa capiva che era una contraddizione morire nel battesimo e poi negare Cristo per paura della morte e della tortura. I canoni della Chiesa, benché oggi generalmente non vengano considerati per illuminare la comprensione dell’intima fede nella Chiesa antica, sono ancora molto severi verso coloro che rigettano la fede per paura della morte (Canone 10°, primo Concilio Ecumenico; 62° Canone apostolico; 1° Canone, Concilio di Angyra, 313-314; 1° Canone, Pietro d’Alessandria). Un tale atteggiamento verso la morte non è il prodotto d’una frenesia escatologica e d’un entusiasmo, quanto piuttosto d’un chiaro riconoscimento di ciò che il Diavolo è, di ciò che i suoi pensieri sono (II Cor 2, 11), di ciò che sono i suoi poteri sopra l’umanità e la creazione e di come vengano distrutti attraverso il battesimo e la mistagogica vita nel corpo di Cristo che è la Chiesa. Oscar Cullman si è seriamente sbagliato quando ha cercato di far dire agli agiografi neotestamentari che Satana e i demoni sono stati privati del loro potere e che ora “leur puissance n’est qu’apparente” (O. Cullman, Christ et le temps, p. 142). Il maggior potere del Diavolo è la morte, che sarà distrutta solo nel corpo di Cristo, dove il fedele è impegnato continuamente nella lotta contro Satana sforzandosi di praticare un amore altruista. Questo combattimento contro il Diavolo e lo sforzo per praticare un amore altruista è concentrato nella vita eucaristica sociale della comunità locale. “Poiché quando vi riunite frequentemente epi to auto (nello stesso luogo) i poteri di Satana sono distrutti. La distruzione alla quale egli tiene è impedita dall’unità della vostra fede” (San’Ignazio, Epistola agli Efesini, c. 13). Allora, se qualcuno non sente la chiamata dello Spirito in sé per la vita sociale dell’amore altruista nell’assemblea eucaristica, è evidentemente sotto l’influsso del Diavolo. “Colui che non si riunisce con la Chiesa ha, con ciò, manifestato il suo orgoglio e condannato se stesso…” (Ibid. c. 5). Il mondo al di fuori della vita sociale d’amore nei sacramenti, è ancora sotto il potere delle conseguenze della morte e, perciò, è schiavo del Diavolo. Il Diavolo è stato già sconfitto dal momento in cui il suo potere è stato distrutto dalla nascita, vita, morte e risurrezione di Cristo. Questa sconfitta continua solo nel resto di coloro che sono stati salvati prima e dopo Cristo. Sia coloro che sono stati salvati prima di Cristo che coloro che sono stati salvati dopo di Lui lo debbono alla Sua morte e risurrezione. Essi fanno parte della Nuova Gerusalemme. Contro questa Chiesa il Diavolo non può prevalere e, per questo fatto, è già stato sconfitto. Tuttavia il suo potere al di fuori di coloro che sono stati salvati rimane lo stesso (Ef 2, 12; 6, 11-12; II Tes 2, 8-12). Satana è ancora “il dio di questo mondo” (II Cor 4, 4) ed è per questa ragione che i cristiani devono vivere come se non vivessero nel mondo (Col 2, 20-23).                  

Conclusioni                                    
Lo studioso biblico non potrà mai essere obiettivo se il suo esame teologico viene influenzato o diretto da determinati pregiudizi filosofici. La moderna scuola di critica biblica lavora chiaramente in una falsa direzione quando vuole giungere all’essenziale forma originale del kerygma rimanendo all’ocuro dell’essenza vetero e neotestamentaria riguardo allo stato decaduto dell’umanità e della creazione, specialmente quando trascura gli insegnamenti sulla natura di Dio e su quella di Satana. Così nelle tendenze anti-liberali del moderno protestantesimo, viene accolto il metodo di critica biblica e, allo stesso tempo, si cerca di salvare quello che si ritiene essere l’essenziale messaggio degli evangelisti. D’altronde gli studiosi di questa scuola in tutto il loro metodo pseudo scientifico di ricerca, mancano di giungere alle mie identiche conclusioni perché rifiutano ostinatamente di considerare seriamente la dottrina biblica su Satana, sulla morte e la corruzione. Per questa ragione la questione se il corpo di Cristo è risuscitato realmente o no, non viene ritenuta importante (cfr. E. Brunner, Il Mediatore). Quello che per loro è importante è la fede in Cristo quale unico salvatore della storia anche se, molto probabilmente, Egli non è storicamente risorto. Come si salva e da cosa vengono salvati gli uomini è, presumibilmente, una questione secondaria.
È chiaro che per san Paolo la risurrezione fisica di Cristo significa la distruzione del Diavolo, della morte e della corruzione. Cristo è la primizia dei risorti (I Cor 15, 23). Se non esiste alcuna risurrezione non ci può essere assolutamente salvezza (I Cor 15, 12-19). Solo una vera risurrezione può distruggere il potere di Satana dal momento che la morte è una conseguenza dell’interruzione della comunione con la vita e l’amore di Dio e, quindi, è la consegna dell’uomo e della creazione al Diavolo. È impreciso e poco profondo cercare di fare passare per biblica l’idea che la questione sulla reale risurrezione fisica è di secondaria importanza. Al centro del pensiero biblico e patristico esiste chiaramente una cristologia nella quale si considera un’unione reale con Dio condizionata dalla dottrina biblica su Satana, sulla morte, sulla corruzione e sul destino umano. Satana governa materialmente e psichicamente attraverso la morte. Anche la sua sconfitta deve dunque essere materiale e fisica. La restaurazione della comunione non deve coinvolgere solo l’atteggiamento mentale ma, cosa ben più importante, deve passare attraverso la creazione della quale l’uomo è parte inseparabile. Senza una chiara comprensione della dottrina biblica su Satana e sul suo potere è impossibile capire la vita sacramentale del corpo di Cristo. Proprio per questo la dottrina dei Padri riguardo la cristologia e la Trinità diviene un’insignificante speculazione affidata agli specialisti scolastici. Sia gli scolastici cattolico-romani che i protestanti sono innegabilmente eretici nelle loro dottrine sulla grazia e sull’ecclesiologia semplicemente perché non vedono che la salvezza è unicamente l’unione dell’uomo con la vita di Dio nel corpo di Cristo dove il Diavolo viene ontologicamente e realmente distrutto nella vita agapica. Al di fuori della vita d’unità con Cristo nei sacramenti e nell’unione agapica non esiste alcuna salvezza, poiché il Diavolo domina ancora il mondo attraverso le conseguenze della morte e della corruzione. Le organizzazioni extra-sacramentali come il papato non possono essere viste come l’essenza del cristianesimo perché giacciono chiaramente sotto l’influenza di convenienze mondane e non hanno come loro unico scopo una vita d’amore altruista. Nel cristianesimo occidentale i dogmi della Chiesa sono divenuti oggetto d’esercizi “logico-ginnici” nelle classi di filosofia. La cosiddetta ragione naturale umana fa da base alla teologia rivelata. Gli insegnamenti della Chiesa riguardo alla Santa Trinità, alla cristologia e alla Grazia non sono accolti per quello che sono: espressione della continua ed esistenziale esperienza del corpo di Cristo che vive della stessa vita trinitaria attraverso la natura umana del Salvatore nella cui carne è stato distrutto il Diavolo e contro il cui corpo (la Chiesa) le porte della morte (Ade) non possono prevalere.
Oggi la missione della teologia ortodossa consiste nel portare un risveglio all’interno del cristianesimo occidentale. Per fare efficaciemente ciò il cristiano ortodosso deve riscoprire le proprie tradizioni e cessare, una volta per tutte, di assumere le corrodenti infiltrazioni della confusione teologica occidentale nella teologia ortodossa. È solo ritornando alla comprensione biblica di Satana e del destino umano che i sacramenti della Chiesa possono nuovamente divenire la fonte e la forza della teologia ortodossa. Il nemico della vita e dell’amore può essere distrutto solo quando i cristiani possono confidenzialmente affermare: “Non siamo all’oscuro dei suoi pensieri” (II Cor 2, 11). Una teologia che non può definire con esattezza i metodi e le falsità del Diavolo è chiaramente eretica perché è già stata ingannata dal Diavolo stesso. È per questa ragione che i Padri potrebbero asserire che quell’eresia è un prodotto del Demonio.

IL FASCINO DI PAOLO

http://web.tiscali.it/pulchritudo/page174/page211/page211.html

IL FASCINO DI PAOLO 

Giovedì 29 giugno si celebrerà, come ogni anno, la festa dei Ss. Pietro e Paolo che in quest’anno giubilare rivestirà un aspetto più solenne. Vorremmo in questo breve spazio far risaltare una figura di altissimo rilievo nel Nuovo Testamento, quella di Paolo, l’apostolo per eccellenza al quale sono attribuite dal Canone 13 lettere. In verità la nostra rubrica, a prima vista, non pan-ebbe adattarsi a questo missionario del vangelo. Infatti san Girolamo, il grande traduttore e interprete della Bibbia, non aveva esitato a scrivere che Paolo «non si preoccupava più di tanto delle parole, una volta che aveva messo al sicuro il significato».
E, secoli dopo, un altro grande studioso delle Scritture, Erasmo da Rotterdam, morto nel 1536, ribadiva che, «se si suda a spiegare le idee di poeti e oratori, con questo scrittore (Paolo) si suda ancor più a capire cosa voglia e a che cosa miri». Il suo effettivamente è un linguaggio strano, travolto dall’irrompere del suo pensiero e della sua passione: egli impedisce che l’incandescenza del messaggio da comunicare si raggeli negli stampi freddi dello stile e delle regole, insomma di un bel testo.
Ma proprio questa ribellione diventa la ragione del fascino che l’apostolo ha sempre esercitato coi suoi scritti, a partire dal vescovo e grande oratore francese Bossuet che in un paneginco del 1659 esaltava «colui che non lusinga le orecchie ma colpisce diritto al cuore», mentre un altro francese, il romanziere Victor Hugo nel suo William Shakespeare (1864) inseriva Paolo tra i genii, «santo per la Chiesa, grande per l’umanità, colui al quale il futuro è apparso: nulla è superbo come questo volto stupìto dalla vittoria della luce».
Conquistato dall’apostolo e dai suoi scritti era stato anche Pier Paolo Pasolini che nel 1968 aveva pensato di dedicargli un film del quale è ilmasto solo un abbozzo di sceneggiatura, pubblicato postumo nel 1977 col titolo San Paolo (ed. Einaudi). Il notissimo scrittore e regista pensava di trasporre la vicenda e il messaggio dell’apostolo ai nostri giorni, sostituendo le antiche capitali del potere e della cultura visitate da Paolo con New York, Londra, Parigi, Roma e la Germania. Scriveva, infatti, Pasolini:
«Paolo è qui, oggi, tra noi. Egli demolisce rivoluzionariamente, con la semplice forza del suo messaggio religioso, un tipo di società fondata sulla violenza di classe, l’imperialismo, lo schiavismo».
Certo, quella parola disadorna, «senza sublimità di discorso o di sapienza», come Paolo stesso confessava ai Corinzi (I Cor 2,1), ha incrinato tante strutture e tanti luoghi comuni del potere e della cultura imperiale romana. Ma la forza, la passione, l’entusiasmo del suo “messaggio religioso” erano nell’amore per Gesù Cristo. Un amore che gli fa dettare le pagine più intense e splendide. Per questo è del tutto insufficiente e fuorviante la definizione di «Lenin del cristianesimo» che gli riserverà una persona pur acuta e sincera come Antonio Gramsci. Per capire Paolo è necessario prendere in mano e leggere quelle sue lettere che – come diceva il nostro grande poeta Mario Luzi – s’insediano «nell’inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza».

PAOLO E LE ARTI MAGICHE

http://letterepaoline.net/2009/02/21/paolo-e-la-%E2%80%9Cmagia%E2%80%9D/

PAOLO E LE ARTI MAGICHE

Questa voce è stata pubblicata il 21 febbraio, 2009,

La “magia” – che qui intendiamo semplicisticamente come insieme eterogeneo di saperi e di pratiche di “confine”, basati sul controllo e la manipolazione di forze naturali e “soprannaturali” – era una realtà ampiamente diffusa al tempo di Paolo. Le stesse fonti protocristiane descrivono a più riprese lo scontro ingaggiato dall’apostolo con taumaturghi e guaritori: ma si tratta di un aspetto della biografia paolina che viene spesso trascurato dagli studiosi, anche per effetto di quell’ipoteca sull’indagine concreta delle esperienze religiose che continua a reggere molta esegesi moderna, interessata più a dirimere le complesse questioni teologico-dottrinali presenti nelle lettere che il quadro storico-sociale ad esse soggiacente.
Eppure, come dicevamo, i riferimenti non mancherebbero. Nella lettera indirizzata ai Galati, ad esempio, l’apostolo nomina la pharmakéia, parola che oggi tradurremmo agevolmente con “stregoneria”, annoverandola fra le «opere della carne», indegne della vita nuova dei credenti in Cristo (Gal 5,20), e collegandola ad altri fenomeni come l’astrologia o il culto delle potenze celesti. L’apostolo, su questo punto, resta fedele al proprio retaggio farisaico, e più in generale al vocabolario angelologico ereditato dal giudaismo (basti pensare alla fortunata distinzione fra dynámeis, kosmokrátores, thrónoi, etc.).
La lettera agli Efesini, considerata da molti come pseudepigrafa, proclama in proposito il definitivo de-potenziamento delle forze angeliche, per il tramite invincibile della Croce «e per la straordinaria grandezza della Sua [di Dio] potenza verso di noi che crediamo, come attesta l’efficacia della Sua forza irresistibile, che [Dio Padre] dispiegò nel Cristo risuscitandolo dai morti e insediandolo alla Sua destra nella sommità dei cieli, al di sopra di ogni principio, autorità, potenza, signoria e di ogni altro nome che viene nominato non solo in questo secolo, ma anche in quello avvenire…» (Ef 1,19-21).
La crocifissione e la resurrezione di Gesù procurano per Paolo un definitivo “scuotimento delle potenze” (cf. Lc 21,26), potenze che vengono talora presentate come demoniache ed ostili, talaltra come angeliche (Paolo attribuisce ad intermediari celesti anche il dono della Torah, in Gal 3,19), e in alcuni casi come semplicemente umane, quali sono gli «arconti di questo mondo» nominati nella prima lettera ai Corinzi (da identificare probabilmente con le autorità religiose sinagogali), che «hanno crocifisso il Signore della gloria» perché ignoravano la «sapienza divina e avvolta nel mistero, che è rimasta nascosta» sino ai tempi ultimi (i nostri).
Paolo si avvale pure di espressioni che ricorrono frequentemente nei papiri magici dell’epoca, come stoicheîa toû kósmou (lat. elementa mundi, “elementi del cosmo”: Gal 4,3.9; Col 2,8.20), rimandando con ogni probabilità a speculazioni cosmologiche sugli spiriti astrali.
I testi giudaici extra-biblici ci rendono edotti riguardo a svariate concezioni angelologiche, e concordano con la testimonianza di Paolo sull’esistenza e la diffusione, anche in ambiente ebraico, di un culto rivolto agli angeli (cf. Col 2,18, dove l’apostolo critica appunto la threskeía tôn angélôn). In alcuni ambienti, a quanto risulta, l’angelologia era divenuta per così dire il baricentro non solo della cosmologia (con la distinzione diversificata e minuziosa dei cieli), ma anche delle diverse valutazioni sulla storia degli uomini.
Nel Libro dei Giubilei, un testo apocrifo di provenienza palestinese, databile al II sec. a.C. e certamente conosciuto a Qumran, si parla ad esempio di una lotta cosmica fra due schiere angeliche, una composta da angeli buoni (guidati dal cosiddetto “Angelo del Volto”, una figura paragonabile al Sar ha-Orim che ritroviamo nei testi di Qumran e all’arcangelo Michele della tradizione ebraico-cristiana), l’altra di angeli malvagi (guidati dall’angelo Mastema, accostabile ad altre figure angeliche come Beliar, Samaele o Satana): la storia terrena è vista dunque come una manifestazione, quasi una ripetizione “liturgica”, delle vicende di un’immensa lotta che si svolge al di sopra della sfera “storica”.
Non è chiaro, tuttavia, a quale tipo di classificazione angelica possa essersi riferito Paolo, ma il fatto ch’egli condividesse la credenza dei suoi interlocutori nell’esistenza di forze spirituali inframondane è assolutamente indubitabile. Paolo sembra concentrare l’attenzione, in particolare, su potenze di tipo malefico, da lui collocate in una zona del cosmo detta “dell’aria” o “del firmamento”, inferiore a quella delle sfere propriamente celesti. Nella lettera agli Efesini, si dice ancora che «la nostra lotta non è contro la carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo oscuro, contro gli spiriti maligni che abitano le regioni celesti» (Ef 6,12).
Anche un testo come l’Ascensione di Isaia, di poco posteriore alla stesura dell’epistolario paolino (almeno per quel che riguarda la sua redazione ultima), suppone la presenza di uno spazio fisico popolato da potenze di segno negativo, intermedio fra i sette cieli superiori e l’abisso degli angeli malvagi.
Un’identificazione precisa di tutte le potenze angeliche nominate dall’apostolo, ciò nonostante, è resa praticamente impossibile dall’assenza di una presentazione sistematica: è necessario prestare attenzione, di volta in volta, al contesto della citazione e alle intenzioni dello scrivente. Ad ogni modo, Paolo si rivela deciso negatore di qualsiasi mediazione angelica nel piano della salvezza: il primato di Cristo è tale da coinvolgere persino la subordinazione degli angeli all’uomo credente («Non sapete che giudicheremo gli angeli?»: 1Cor 6,3).
L’apostolo si oppone pure ad alcune «vane osservanze» diffuse presso i Galati, i quali a suo dire si sarebbero sottomessi a precetti di purità legale e di calendario collegate verosimilmente alla venerazione di potenze astrali personificate (vd. Gal 4,10). In Col 2,15 si afferma poi che Dio «ha spogliato i principati e le potenze e ne ha fatto pubblico spettacolo, dopo aver trionfato (da thriambeúô, “trascinare un prigioniero in corteo trionfale”) su di loro per tramite di Cristo».
Perfettamente coerenti con l’atteggiamento dimostrato da Paolo nelle lettere si rivelano infine i numerosi dettagli biografici desumibili dal testo canonico degli Atti, che riferiscono di un incontro fra l’apostolo e un mago ebreo, un certo Elimas, a Cipro (At 13,6-12), mentre la situazione descritta al capitolo 19, che vede coinvolti alcuni «esorcisti ambulanti giudei» di Efeso che invocavano il nome di Gesù per guarire gli indemoniati, conferma il ruolo di quella città come centro di propagazione e diffusione di pratiche “occulte” nel I secolo.
La conclusione del narratore, al riguardo, è indicativa. Il testo dice che «non pochi di coloro che avevano esercitato le arti magiche (tà períerga) ammucchiavano i loro libri e li bruciavano in presenza di tutti: l’ammontare del loro prezzo fu calcolato in cinquantamila denari d’argento» (At 19,19): una cifra notevole (forse iperbolica), se pensiamo che una moneta d’argento corrispondeva approssimativamente al salario quotidiano d’un bracciante!
Praticare la magia, allora come oggi, era evidentemente un affare molto diffuso, e pure molto costoso.

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