Archive pour la catégorie 'Paolo – approfondimenti di teologia'

L’Apostolo Paolo: Una stella polare per la vita cristiana (Gianfranco Ravasi, 2006)

dal sito:

http://www.scuolamissionaria.it/Scout/Documenti%20vari/San%20Paolo_Le%20lettere_G.%20Ravasi.doc

L’APOSTOLO PAOLO

Le lettere

Una stella polare per la vita cristiana

Pur nella complessità dell’impianto generale del pensiero dell’Apostolo e della sua tradizione, pur nell’occasionalità pastorale di molte sue riflessioni, pur nella diversità dei tempi e persino degli autori, l’epistolario paolino costituisce uno straordinario progetto in cui teologia e morale, pensiero e azione, cristologia ed ecclesiologia, teologia e pastorale si richiamano e si fondono, dilatandosi verso nuove prospettive e costituendo una stella polare per la storia e per la vita della cristianità.

Articolo di Gianfranco Ravasi in Vita pastorale n. 1/2006
Rappresentano una grossa parte del Nuovo Testamento. È ormai pacifica tra gli studiosi la distinzione tra quelle che risalgono all’Apostolo e quelle attribuite alla sua cerchia più diretta di
discepoli, in ogni caso ritenute da sempre « canoniche » dalla Chiesa. L’epistolario è un grande progetto, di cui vediamo per sommi capi il contenuto

Se stiamo al computo dei versetti, il corpus delle 13 lettere che recano il nome di Paolo ne comprende 2.003 su un totale di 5.621 dell’intero Nuovo Testamento. Siamo, quindi, in presenza di un materiale testuale rilevante, al cui interno però emergono chiare variazioni di vocabolario, di stile, di temi. Su queste variazioni, a partire dal Settecento, gli studiosi hanno puntato il microscopio dell’analisi storico-critica e letteraria.

La « tradizione paolina »

Progressivamente si è approdati a una conclusione – ora dominante tra gli esegeti – secondo la quale sei lettere attribuite dalla titolatura a Paolo sarebbero in realtà « pseudoepigrafe » o « deuteropaoline », poste cioè sotto il nome e l’autorità dell’Apostolo ma in verità provenienti da discepoli e da quella che è stata chiamata « la tradizione paolina » (Ef, Col, 2Ts, 1 e 2Tim, Tt). Questa conclusione merita, però, due osservazioni di indole generale.
La prima è di taglio storico-letterario. Le argomentazioni critiche sono, certo, notevoli: ad esempio, in una delle più importanti di queste lettere deuteropaoline, quella ai Colossesi, si hanno 34 vocaboli del tutto inediti per l’intero Nuovo Testamento, 28 estranei all’epistolario strettamente paolino; si ignorano i temi fondamentali cari all’Apostolo quali la giustificazione, la fede, la legge; la costruzione delle frasi è pesante, prolissa e ripetitiva; si rivela l’uso della retorica classica e sono assenti gli appelli diretti, tipici di Paolo; Cristo è presentato secondo un inatteso profilo di Signore cosmico, « capo dei Principati e delle Potestà » (2,10), « dei Troni e delle Dominazioni » celesti (1,16), come colui nel quale « tutto sussiste » (1,17) e tutto è riconciliato e redento (1,20); di scena non è più la Chiesa locale, ma quella universale di cui Cristo è « capo », variando così l’immagine paolina classica della Chiesa come « corpo di Cristo » (1Cor 12).
Potremmo andare avanti a lungo nell’appuntare le variazioni tematiche di questo scritto, a partire da una concezione del credere non più visto come atto di adesione personale radicale, ma come la « conoscenza » di un contenuto di verità (fides quae più che fides qua, per usare il linguaggio teologico successivo). E così via con molte altre sorprese di solito segnalate nei commentari alla lettera. Detto questo, bisogna però anche riconoscere che simili considerazioni, pur notevolissime e imprescindibili, riguardanti la lettera ai Colossesi e le altre deuteropaoline, non sono mai totalmente apodittiche, perché di per sé non si possono escludere evoluzioni stilistiche e tematiche all’interno di un pensatore così creativo e originale com’è Paolo.
C’è, poi, un’altra importante osservazione da fare, di taglio più teologico: le lettere deuteropaoline rimangono comunque « canoniche » e, riconoscendole come appartenenti all’orizzonte dei discepoli paolini, non se ne inficia l’ispirazione divina. Come faceva notare la Dei Verbum (7 e 8), che alcuni testi neotestamentari provengano da autori « della cerchia » degli apostoli è un fatto che non contrasta la loro « canonicità » perché anche questi scritti sono « apostolici », nel senso che testimoniano – sia pure mediatamente – la predicazione apostolica (si pensi al caso di Marco e Luca).
Come si legge in un commento a un’altra importante lettera ritenuta « pseudoepigrafa », quella agli Efesini (a cura di Stefano Romanello, Paoline 2003), « che Paolo non sia l’autore della lettera nulla toglie al valore con cui la comunità credente l’accoglie. Nella lettera siamo comunque a contatto con una predicazione apostolica, ossia con una testimonianza della fede della Chiesa delle origini, che non rimane attaccata in modo fisso alla figura dell’Apostolo fondatore, ma ne elabora la parola come un tesoro vivo, che diviene significativo per le nuove situazioni in cui la comunità si trova a vivere ».

Un piano di lettura integrale

A questo punto vorremmo proporre in modo estremamente essenziale un itinerario nelle due aree del corpus paolino, partendo da quella direttamente assegnata all’Apostolo. Si potrebbe, così, configurare anche un piano di lettura integrale di questi scritti, capitali per la fede e la storia del cristianesimo, seguendone la probabile articolazione cronologica e quindi l’eventuale evoluzione del pensiero.
 Siamo attorno all’anno 51. Da Corinto Paolo invia ai cristiani di Tessalonica una prima lettera che è segnata dal registro autobiografico dei ricordi, da quello pastorale riguardante le tensioni che attanagliano la comunità e dal filo teologico che in questo caso s’annoda attorno al tema escatologico della parousía di Cristo alla fine dei tempi, suggello della storia ma anche luce per illuminare il presente senza cadere in eccitazioni apocalittiche.
 A Corinto Paolo aveva soggiornato almeno un anno e mezzo. Da Efeso, a metà degli anni 50 indirizza la prima delle sue due lettere ai Corinzi. Essa è una clamorosa smentita di chi considera l’Apostolo come un freddo teorico, « il Lenin del cristianesimo », per dirla con Gramsci. Le pagine dello scritto, infatti, toccano tutti i temi di una Chiesa immersa in un contesto secolare col quale è invitata a confrontarsi, dal quale riceve spesso influssi negativi ma nel quale deve testimoniare con coraggio la sua fede nel Cristo risorto e l’amore fraterno che la unisce.
I rapporti tra i cristiani di Corinto e Paolo non furono idilliaci. La seconda lettera a essi indirizzata ne è una vigorosa attestazione. La sua stessa redazione rivela salti tematici e di tonalità, riflettendo le tensioni interne ma anche il difficile rapporto con l’Apostolo. Tuttavia in quelle pagine si configura pure un progetto caritativo e intraecclesiale (quello della colletta per la Chiesa di Gerusalemme) molto suggestivo.
Con la lettera ai Galati entriamo nel cuore del « Vangelo » di Paolo, anche se spesso lo scritto è stato considerato una « prova d’autore », rispetto al capolavoro successivo della lettera ai Romani. Al centro si ha, infatti, la tesi squisitamente paolina della giustificazione per la fede nella grazia divina: si legga 2,16, ove per tre volte viene ribadito che « l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo ». E pronta, così, la base per l’architettura centrale della lettera ai cristiani di Roma.
Ma prima di essa si innesta probabilmente lo scritto rivolto agli amatissimi cristiani filippesi nel quale, come scriveva un esegeta (J. Murphy O’ Connor) « si sente battere il cuore di Paolo ». Composta nel carcere (forse durante un periodo di detenzione a Efeso), la lettera conserva uno splendido inno (2,6-11) che sintetizza in modo mirabile l’incarnazione e la Pasqua di Cristo secondo uno schema di « esaltazione » che sarà poi caro anche a Giovanni.
Eccoci, così, a quell’opera che un commentatore, Paul Althaus, introduceva con questa dichiarazione: « Le grandi ore della storia della Chiesa sono state le grandi ore della Lettera ai Romani », anche nei tempi del confronto aspro, come accadde con la Riforma protestante. Ritmata su un duplice movimento teologico-dottrinale (capp. 1-11) ed etico-pastorale (capp. 12-16), frequente negli scritti paolini, la lettera ha nel suo cuore una grandiosa riflessione modulata sulla giustizia per la fede (capp. 1-5) e sulla vita secondo la Spirito (capp. 6-8), sulla base del motto di Abacuc 2,4 reinterpretato da Paolo: « Il giusto divenuto tale per la fede, vivrà » (1,17 ).
o La serie delle lettere protopaoline si conclude col commovente biglietto indirizzato a Filemone per la vicenda dello schiavo Onesimo e con un sorprendente finale di speranza che illumina la prigionia dell’Apostolo: « Preparami un alloggio perché spero – grazie alle vostre preghiere – di esservi felicemente restituito! » (v. 22).

Gli scritti deutero-paolini

Siamo così di fronte all’altra area storico-teologica dell’epistolario, quella delle lettere deuteropaoline.
1 Impressiona la seconda lettera ai Tessalonicesi, striata dei colori dell’apocalittica e non priva di passi difficili da interpretare, sempre però attenta a coniugare storia ed escatologia.
Subentra la lettera ai Colossesi di cui abbiamo parlato e che è un punto di riferimento anche per il testo destinato agli Efesini (e forse anche alle altre Chiese dell’Asia Minore), lettere entrambe contrassegnate da una solenne apertura innica. Cristo, la Chiesa e il cristiano sono i tre protagonisti di una riflessione dalle prospettive nuove e originali.
 Il corpus epistolare paolino si chiude con un fascicolo di tre scritti omogenei che dal XVIII secolo vengono chiamati lettere pastorali, a causa del loro tema dominante e dei loro destinatari, i collaboratori di Paolo e pastori di comunità cristiane Timoteo e Tito. In esse la Chiesa si presenta già con la sua struttura ministeriale di episcopi, presbiteri, diaconi, ma anche di vedove, di maestri non sempre ortodossi, e si rivela segnata da una crisi di crescita. Indimenticabile è il testamento posto sotto la penna ideale di Paolo (2Tm 4,6-8).
Esterno al corpus paolino, con una sua radicale autonomia, pur con alcuni rimandi all’orizzonte paolino, rimane la lettera agli Ebrei, un monumento letterario-teologico a sé stante.
Pur nella complessità dell’impianto generale del pensiero dell’Apostolo e della sua tradizione, pur nell’occasionalità pastorale di molte sue riflessioni, pur nella diversità dei tempi e persino degli autori, l’epistolario paolino costituisce uno straordinario progetto in cui teologia e morale, pensiero e azione, cristologia ed ecclesiologia, teologia e pastorale si richiamano e si fondono, dilatandosi verso nuove prospettive e costituendo una stella polare per la storia e per la vita della cristianità.

Gianfranco Ravasi
Bibliografia
AA. W., Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di Penna R., San Paolo 1999, Cinisello Balsamo;
AA. W., Lettere paoline e altre lettere, « Logos » 6, Elledici 1996, Leumann (To); Barbaglio G., Il pensare dell’apostolo Paolo, Dehoniane 2004, Bologna; id., Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella 1989, Assisi; Fabris R., La tradizione paolina, Dehoniane 1995, Bologna; Metzger B.M., Il Canone del Nuovo Testamento, Paideia 1997, Brescia; Sanchez Bosch J., Scritti paolini, « Introduzione allo studio della Bibbia » 7, Paideia 2001, Brescia
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IL MATRIMONIO E LA TEOLOGIA DEL CORPO IN SAN PAOLO

dal sito:

http://www.famigliaviva.it/files/la_teologia_del_corpo.doc

IL MATRIMONIO E LA TEOLOGIA DEL CORPO IN SAN PAOLO

Nel secondo millennio dalla nascita di San Paolo ormai tutti sanno che lui è il grande «teologo», ossia il profeta e il pensatore, del mistero della Redenzione . Per lui l’evento centrale dell’uomo, del mondo e della storia, è la liberazione dal peccato operata da Cristo con la sua immolazione sulla Croce (cf Rm 3,21-31). La salvezza dell’uomo in Cristo è il nucleo della sua predicazione. La premessa necessaria è l’esistenza di un peccato sia personale sia collettivo (cf. Rm 5, 8-19;  1Cor 15,21-22). La creazione intera, afferma l’Apostolo nella Lettera ai Romani, soffre e geme con dolori di parto, perché sta aspettando la manifestazione dei figli di Dio (cf. Rm 8,19-23). In questo contesto, squisitamente soteriologico, si inserisce la riflessione sull’uomo e sulla famiglia. L’uomo, che si riconosce fin dall’inizio peccatore, sa che il suo progenitore è Adamo, dal quale sono venuti il peccato e la morte; ma sa anche che il nuovo capo dell’umanità è Cristo .
L’incarnazione ci rivela che il corpo umano, proprio in quanto assunto da Cristo nell’ambito di un’umanità perfetta per esse¬re strumento e «mediatore» della Redenzione, il corpo umano non è una semplice «appendice» della salvezza individuale, ma lo strumento mediante cui si compie la salvezza di ogni uomo. Dio ci salva incarnandosi o, come dicono le antiche professioni di fede, «ominizzandosi» , quindi l’uomo deve far propria questa salvezza scoprendo due cose:
1. la prima è l’integrità della persona umana, in quanto composta da anima e corpo;
2. la seconda è il valore del corpo nell’ordine soprannaturale.
E in questo senso che il platonismo e qualsiasi dualismo che consideri il corpo come un peso, un freno, un carcere dell’ani¬ma, si allontanano radicalmente dal cristianesimo . L’ascetica platonica o pitagorica, e più ancora quella stoica, non hanno niente a che vedere con il senso cristiano della vita. San Paolo lo mette in luce con assoluta chiarezza: non ci salviamo eliminando il nostro corpo, come se dovessimo recuperare una per¬duta condizione angelica; ci salviamo, invece, dando il nostro corpo, sacrificandolo, impiegandolo per servire Dio e gli altri.
Ecco perché il corpo umano ha in sé una dimensione «oblativa», ossia «sponsale». Il corpo umano è fatto per essere generosamente «donato», non per essere annullato. Tutto ciò è particolarmente vero rispetto alla sessualità, che al corpo è indissolubilmente legata, e quindi alle forme che la sessualità umana assume: il matrimonio e il celibato. Perché il celibato non è una repressione della sessualità, ma un modo di esercitarla, concedendo una funzione prevalente non alla generazione fisica, ma a quella spirituale.
Il celibe non è una persona che rinuncia all’amore umano, bensì colui che ne sceglie una strada specifica: l’affetto universale, il cuore disponibile, una carità autentica piena di particolari concreti; una vera paternità o maternità, sollecita e attenta alle circostanze; una dedizione generosa, anche fisica; la grandezza d’animo, infine, di chi sa capire, aiutare, perdonare e sorreggere. E chiaro che quando parliamo di celibato non stiamo parlando necessariamente di uno «stato di vita» o della «vita di perfezione»; ma stiamo parlando della condizione di chi vuol vivere il celibato nella sua situazione nel mondo o di chi, senza averla cercata, accetta la condizione che la Provvidenza gli riserva .
Ovviamente ciò implica un concetto ampio di sessualità, ma chi ha detto che la sessualità umana si limita alla funzione ge¬nerativa? Non è forse l’uomo un essere che, quando «genera», non trasmette solo la vita biologica ma una vita «umana», ossia dotata di fattori intellettuali e volitivi che culminano nell’accet¬tazione di un ordine etico? Se ciò è vero dal punto di vista naturale lo è ancora di più da quello soprannaturale. Ecco quindi perché san Paolo ci offre un’occasione stupenda per scoprire in che modo il corpo umano partecipa al disegno divino della Redenzione.
Inoltre, a ben guardare, la vera dottrina paolina si discosta nettamente dalle due interpretazioni che storicamente ne sono state date, quella luterana e quella pelagiana. Infatti l’interpretazione luterana rimane eccessivamente legata alla condizione dell’uomo come peccatore e ignora, quindi, tutto il valore che l’incarnazione possiede come santificazione delle realtà umane. E una soteriologia esaltata ma falsa, perché pretende di salvare l’uomo «nonostante» la sua condizione umana. Inoltre, per forza di cose, la prospettiva luterana porta a una svalutazione della condizione umana di Cristo, avvicinandosi così alle antiche eresie di tipo docetista e monofisita. Si potrebbe quasi dire, e non mancano elementi storici per sostenerlo, che il luteranesimo non è lontano dal manicheismo.
L’altra ermeneutica del pensiero paolino è del tutto opposta: l’interpretazione pelagiana si sofferma solo sull’aspetto etico della dottrina dell’Apostolo, quasi che la salvezza dipenda dall’acquisizione delle virtù e non dalla grazia gratuita di Dio. San Paolo ricevette da Dio la missione di liberare l’uomo dalla schiavitù della legge di Mose e pertanto ne dichiarò decaduti i precetti. L’Apostolo insegnò inoltre che Cristo aveva stabilito una nuova legge: quella della carità. Eppure i pelagiani ritennero che san Paolo parlasse non di una legge spirituale, fondata sulla libera accettazione dell’amore che Dio ci offre, ma di una vera e propria legge, con nuovi precetti e nuove norme. Perciò essi affermavano di difendere la bontà del matrimonio, dei precetti, dell’uomo e della società, ma in realtà il loro era solamente un moralismo attivista, facile preda della riduzione a semplice filantropia. Al pelagianesimo si avvicina un certo modo di predicare che sottolinea esclusivamente lo sforzo e l’attività umani. Molto più affine alle opinioni di Pelagio è comunque l’atteggiamento, molto diffuso ai nostri tempi, che ignora, almeno in pratica, la realtà del peccato originale e ritiene che tutto ciò che è umano sia per ciò stesso buono e santo.
Per quanto riguarda il matrimonio e la sessualità, la visione luterana ha condotto e conduce al puritanesimo e quindi a pro¬porre, come modello di santità, una condotta «angelica». Il che porta inevitabilmente alla sua perversione, ossia alla convinzione che il peccato sia inevitabile e irresistibile. Invece l’ottica pelagiana rivaluta ed esalta, con apparente ottimismo, l’amore umano e l’unione coniugale. Ma, trascinata dal suo stesso slancio umanitario, finisce per deformare quegli stessi valori che vuole difendere. L’enfasi posta sull’amore reciproco dei coniugi, per esempio, ha fatto dimenticare la realtà della concupiscenza, il valore del celibato e la necessaria relazione dell’amore coniugale con la procreazione e l’educazione dei figli. Si potrebbe addirittura sostenere, senza tema di esagerare, che l’accettazione indiscriminata di qualsiasi metodo contraccettivo, purché marito e moglie si amino, è frutto di una certa mentalità pelagiana, rafforzata dal materialismo e dal pansessualismo imperanti. Il pelagianesimo, come il luteranesimo, offre di Cristo un’immagine deformata: Cristo è fondamentalmente «uomo», in consonanza con una visione di tipo subordinazionista o adozionista . Al più si può riconoscere che Cristo è sommamente santo e rivela all’uomo l’elemento divino presente nell’uomo. La soteriologia pelagiana, di conseguenza, è una soteriologia già realizzata: la Creazione e la Salvezza si implicano necessariamente.
Occorre dunque ritornare all’autentico pensiero di san Paolo che, non dimentichiamolo, è un pensiero ispirato. Orbene, nel vero pensiero paolino il corpo umano fa blocco unico con l’anima; anzi ciò che san Paolo prende in considerazione è l’uomo tutto intero, l’uomo così com’è, nella sua unità sostanziale di anima e corpo; e, aggiungiamo, di «pneuma», cioè di spirito, di presenza di Dio, di azione della grazia. Perciò nulla è più lontano dalla dottrina dell’Apostolo della sua versione manichea, quasi che san Paolo disprezzasse il corpo; e nulla è più distante da san Paolo della sua versione pelagiana, che lo riduce a un predicatore moraleggiante. Invece san Paolo è ben cosciente del dramma dell’uomo, ossia del dramma scatenato dal peccato originale che provoca in lui una divisione radicale e lo spinge a fare il male che non vuole, allontanandolo dal bene che vuole (cf. Rm 7,15-20).
Eppure l’Apostolo sa bene che gli uomini possono salvarsi solo come uomini e non come angeli, perché Gesù è un uomo, come uomo era Adamo. Ecco quindi che il corpo prende parte alla Redenzione. Primo come termine d’arrivo o «ricettacolo» della salvezza e della gloria: il nostro corpo è destinato a essere santificato e, dopo la morte, a resuscitare con Cristo e a ricevere la gloria (cf. 1 Cor 15,20-28). La grazia che proviene dall’incarnazione penetra tutta la realtà umana e ci converte in figli di Dio (cf. Rm 8, 3-17) e tempio dello Spirito Santo (cf. 1Cor 3, 16; 6,19) fino alla nostra più profonda radice: «Glorificate dunque Dio nel vostro corpo» (1Cor 6,20; cf. Rm 12,1).
Non si tratta solo di una funzione ricettiva, il corpo ci serve come strumento per manifestare ciò che è il vin¬colo della perfezione (cf. Col 3,14): quella carità nella quale si riassumono la Legge e i Profeti (cf. Rm 13,8). Per l’Apostolo vivere la carità vuol dire assumere un atteggiamento attivo, dar¬si agli altri, aiutarli nelle loro necessità spirituali e materiali . Quindi è affetto, comprensione, aiuto, sostegno: «Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2). Il corpo è lo strumento naturale e indispensabile di questa sollecitudine amorosa.
Ma c’è di più. La condizione del cristiano è quella di chi si è «sposato» con Cristo (cf. 2Cor 11,2). Ciò implica che dobbiamo dare a Dio non solo i nostri pensieri ma tutto il nostro essere: affetti, parole, opere. Il modello, che non è solo modello ma anche causa, è Cristo. Dobbiamo imparare o meglio  dobbiamo lasciarci «cristificare». Si tratta di vivere con la vita di Cristo, di giungere alla perfetta identificazione con il Figlio di Dio. «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Se è Cristo colui che vive in me, allora il mio corpo ha lo stesso ruolo del Corpo di Cristo, è parte sostanzia¬le della sua umanità e, quindi, strumento della Redenzione. Ecco perché si può dire che il corpo umano è «sacramentalizzabile», ossia è soggetto idoneo a fondare tutta l’economia sacra¬mentale, che è appunto formata da un elemento invisibile, la grazia, e da un elemento sensibile, l’uomo. Ne risulta rivalutato il sacramento del matrimonio, che ha come materia il corpo dei coniugi, proprio perché è un sacramento nel quale l’amore umano, avvolto dall’amore di Cristo per la Chiesa, diventa strumento che realizza il Regno. Ecco, in rapida sintesi, gli aspetti concettuali di questa «teologia del corpo» presente negli scritti paolini.

Mons. Gianfranco Ravasi: San Paolo apostolo, testimone, teologo

era un PDF, è stato particolarmente difficile trasferire il PDF su Word, se c’è qualcosa di poco chiaro, potete – naturalmente – andare al testo originale, dal sito:

http://www.popso.it/xxupload/109_incontriBPS_02.pdf

San Paolo apostolo, testimone, teologo

MONS. GIANFRANCO RAVASI

SALA “FABIO BESTA” DELLA BANCA POPOLARE DI SONDRIO
SONDRIO, 22 DICEMBRE 2008

Autorità, Religiose e Religiosi, Signore e Signori, ben venuti e buona sera.

( Piero Melazzini Presidente della Banca Popolare di Sondrio )

È costume presentare il conferenziere, ma monsignor Gianfranco Ravasi, che è ormai di casa e soprattutto è conosciuto “urbi et orbi”, non può essere presentato. Mi limito quindi a leggere, brevemente, qualche considerazione. Caro, carissimo monsignor Gianfranco, averti qui a Sondrio alla vigilia del Santo Natale è un dono nel dono; anche se tu mi ricordi, da insigne biblista, che vi è più gioia nel dare che nel ricevere (Nuovo Testamento – Atti degli apostoli). Ti abbiamo con noi, in questa sala, per l’ottava volta, che è la prima da quando sei stato insignito della mitria vescovile e pastorale. È a tutti noto che l’illustre Ospite ha ricevuto la consacrazione episcopale nella basilica di San Pietro in Vaticano da Papa Benedetto XVI il 29 settembre 2007. Pochi giorni prima era stato nominato presidente del Pontifi cio Consiglio della Cultura e presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Per quel poco che ho appreso, al nostro Arcivescovo Benedetto XVI chiederà molto di più di un “Consiglio”. Il Papa tedesco è anzitutto un Dottore della Chiesa, una cattedra di principi irrinunciabili e solenni silenzi. Granitico nel difendere l’ortodossia e nel rivendicarne il primato della Chiesa cattolica, apostolica, romana, egli è l’uomo dei tempi che viviamo. E la popolarità del nostro grande lombardo di Osnago è altrettanto grande. Biblista dotto, intellettuale enciclopedico dalla memoria portentosa, inclito conferenziere, organizzatore culturale che ha retto per non pochi anni la Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano; che ha dato alle stampe molti testi di fede ed è conduttore, su Canale 5, del programma “Le frontiere dello spirito”; e che è autore di un ampio servizio dal titolo “Il clandestino di Betlemme”, apparso in prima pagina proprio ieri sul Domenicale del Sole 24 Ore. (Rivolgendosi al conferenziere) Coraggio, Eccellenza Reverendissima, il lavoro non ti manca. Siamo vicini al Natale e si è invogliati a essere buoni, a riflettere sui misteri della vita, approfondendo gli insegnamenti della comune Fede. L’incontro sul tema “San Paolo apostolo, testimone, teologo”, che viene attuato in riferimento all’Anno Paolino indetto da Sua Santità Benedetto XVI e tuttora in corso, è di alto significato e sprona a meditare. Ascoltiamo.

MONS. GIANFRANCO RAVASI

Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e delle Pontificie Commissioni per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra

Arduo è tracciare un ritratto di Paolo, «servo di Cristo Gesù, Apostolo per vocazione», come egli stesso si autodefinisce nell’incipit del suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani. C’è di mezzo, infatti, non solo l’estrema ricchezza e complessità della sua figura e del suo messaggio, ma anche una sorta di diffi denza preliminare che si trascina da secoli e che è ancor oggi inchiodata saldamente nella mentalità di molti, soprattutto tra i “non lettori” dell’Apostolo. Basti questa citazione illuminante: «Il vero cristianesimo, che durerà eternamente, viene dai vangeli, non dalle epistole di Paolo. Gli scritti di Paolo sono stati, in verità, un pericolo e uno scoglio; sono stati la causa dei principali difetti della teologia cristiana. Paolo è il padre del sottile Agostino, Paolo è il padre dell’arido Tommaso d’Aquino, Paolo è il padre del tetro calvinista, Paolo è il padre del bisbetico giansenista. Gesù è, invece, il padre di tutti coloro che cercano nei sogni dell’ideale il riposo delle anime loro». Così dichiarava nel suo Saint Paul (1869) lo studioso francese Ernest Renan, iscrivendosi nella lista dei detrattori dell’Apostolo, come avrebbe fatto più tardi lo scrittore André Gide, insofferente per il Paolo calvinista inculcatogli dalla sua famiglia d’origine. Oggetto d’indomato amore e di ardente detestazione, Paolo traccia una discriminante soprattutto tra giudaismo e cristianesimo ma anche tra ellenismo e cultura cristiana.

Paolo “disangelista”

Per secoli, nel giudaismo, Paolo è stato bollato come traditore e apostata; ma non è mancato ai nostri giorni chi, come l’ebreo Richard I. Rubenstein, l’ha ritrovato “fratello” (My brother Paul, New York 1972) o, come si legge nel titolo di un’opera di Alan F. Segal, l’ha defi nito Saul the Pharisee (New Haven 1990), considerandolo ’unico scrittore fariseo del I secolo e il fervido annunziatore del monoteismo ai pagani, mentre un esegeta cristiano, Ed P. Sanders, allentava di molto le tensioni tra Paolo e la dottrina giudaica tradizionale, contrariamente all’opinione dominante. Anche nel cristianesimo l’Apostolo per eccellenza, come viene chiamato, non ha mancato di dividere. La stessa defi nizione di «secondo fondatore del cristianesimo», coniata nel 1904 da Wilhelm Wrede nel suo Paulus, è ambigua: può indicare un’opera benefica di rigenerazione rispetto al primo fondatore Gesù, ma pure un intervento devastante di deformazione. In questo secondo senso si muoverà Nietzsche, che nel suo Anticristo bollerà Paolo come “disangelista”, cioè annunziatore di una cattiva novella, al contrario degli “evangelisti”; mentre Antonio Gramsci sbrigativamente lo classificherà come «il Lenin del cristianesimo». Certo è che qualche riserva – almeno per un uso improvvido delle sue teorie – appariva già nel Nuovo Testamento quando nella Seconda Lettera di Pietro si leggeva: «[Nelle lettere del nostro carissimo fratello Paolo] vi sono alcune cose diffi cili da comprendere e gli ignoranti e gli incerti le travisano, al pari delle altre Scritture, a loro rovina» (2 Pietro 3,16). Non mancava, però, neanche chi avrebbe abbozzato ritratti aureolati dell’Apostolo, come san Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli, che nella XXV Omelia dedicata alla Seconda Lettera ai Corinzi, esclamava: «Come la fiamma che si abbatte tra le canne e il fieno trasforma nella propria natura ciò che arde, così Paolo tutto invade e tutto trasporta alla verità, torrente che tutto raggiunge e che schianta gli ostacoli. Come atleta che insieme lotta e corre e sferra pugni, come soldato che assedia le mura e combatte in campo aperto e guerreggia sulle navi, così Paolo usava ogni genere di battaglia, spirando fuoco… Balzava in ogni luogo senza interruzione, accorreva presso gli uni, raggiungeva gli altri, assisteva questi e si affrettava da quelli, più veloce del vento. Governava come fosse una sola casa o una sola nave il mondo intero, sollevando i sommersi, consolidando coloro che turbati cadevano, comandando ai marinai; seduto a poppa, teneva fisso lo sguardo a prua, tirava le funi, manovrava i remi, tendeva le vele con gli occhi che scrutavano il cielo, facendo tutto da solo, come nocchiero, prodiere, vela, nave. E tutto per portare fuori dalla sventura tutti». Lutero ha assunto la Lettera ai Romani come vessillo della sua Riforma, brandendo spesso una frase paolina come spada per la sua lotta teologica ed ecclesiale. Il celebre vescovo e oratore francese Jacques-Bénigne Bossuet, nel suo Panegirico di San Paolo (1659), esaltava «colui che non lusinga le orecchie, ma colpisce dritto al cuore», mentre Victor Hugo nel William Shakespeare (1864) lo inseriva tra i genii, «santo per la Chiesa, grande per l’umanità…, colui al quale il futuro è apparso: nulla è superbo come questo volto stupito dalla vittoria della luce». Franz Werfel nel dramma Paolo tra gli Ebrei (1926) cercava, invece, di illustrare il fallito tentativo del giudaismo di non perdere questo suo fi glio brillante. II suo antico maestro Gamaliel lo supplica: «Per la libertà di Israele, confessa: Gesù era solo un uomo!»; ma Paolo ormai ha la vita attraversata dalla luce di Cristo e non può che respingere il pur amato rabbi Gamaliel. Si potrebbe a lungo continuare questo elenco di ammiratori di Paolo, giungendo fino ai nostri giorni. A titolo esemplifi cativo vorremmo evocare soltanto quell’«abbozzo di sceneggiatura per un fi lm su San Paolo (sotto forma di appunti per un direttore di produzione)», datato «Roma, 22-28 maggio 1968», che Pier Paolo Pasolini ha elaborato e ripreso nel 1974 senza mai concluderlo e che sarà pubblicato postumo nel 1977 con il titolo San Paolo. L’idea era di trasporre la vicenda dell’Apostolo ai nostri giorni, sostituendo le antiche capitali del potere e della cultura con New York, Londra, Parigi, Roma, la Germania. «Paolo è qui, oggi, tra noi – scriveva l’autore delle Lettere luterane – egli demolisce rivoluzionariamente, con la semplice forza del suo messaggio religioso, un tipo di società fondata sulla violenza di classe, l’imperialismo, lo schiavismo… II fi lm, però, rivelerà la contrapposizione tra “attualità” e “santità”: il mondo della storia che tende, nel suo eccesso di presenza e di urgenza, a sfuggire nel mistero, nell’astrattezza, nel puro interrogativo; e il mondo del divino che, nella sua religiosa astrattezza, al contrario, discende tra gli uomini, si fa concreto e operante».

L’ebreo Saulo, il greco-romano Paolo

Lo studioso tedesco Adolf Deissmann aveva definito Paolo “un cosmopolita”. Effettivamente
egli era figlio di tre culture, che già occhieggiavano dalla sua ideale “carta d’identità”. Il suo nome originario era lo stesso del primo sfortunato re di Israele, Saul. «Sono un ebreo di Tarso in Cilicia», dichiara al tribunale romano che gli chiede le generalità al momento dell’arresto a Gerusalemme (Atti 21,39). In polemica con i suoi detrattori ebrei di Corinto rivendica le sue radici: «Sono essi ebrei? Anch’io lo sono. Sono israeliti? Anch’io. Sono stirpe di Abramo? Anch’io» (2 Corinzi 11,22). Agli amati cristiani macedoni di Filippi ribadisce vigorosamente di essere «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo secondo la legge» (3,5). In crescendo ai Romani scrive: «Vorrei essere io stesso maledetto, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e a loro appartengono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi. Da essi proviene Cristo secondo la carne» (9,3-5). E ai Galati rivela persino una punta di integralismo nazionalistico: «Essi sono per natura ebrei e non peccatori come le genti» (2,15). Formatosi a Gerusalemme «alla scuola di Gamaliel, nelle più rigide norme della legge dei padri» (Atti 22,3), educato secondo la prassi giudaica anche al lavoro manuale, quello dello skenopoiós,
“fabbricatore di tende” (forse tessitore di peli di capra per stoffe ruvide, dette appunto cilicium dalla regione d’origine che era la stessa di Paolo), Saulo era però un giudeo della Diaspora, nato a Tarso, «non oscura città della Cilicia», come egli la definisce con civetteria (Atti (Atti 22,28), ma anche presentandosi in tutte le sue lettere con il suo secondo nome schiettamente latino, Paolo. Paolo userà con orgoglio questa dignità di cittadino dell’impero, non solo appellandosi – come è noto – al tribunale supremo romano (Atti 22,28), ma anche presentandosi in tutte le sue lettere con il suo secondo nome schiettamente latino, Paolo.
La tradizione posteriore, nel IV secolo, non esiterà a creare un epistolario apocrifo tra l’Apostolo e Seneca ove incontriamo battute sorprendenti. Seneca a Paolo: «Se il nome di un uomo così grande e prediletto da Dio sarà tutt’uno col mio, questo non potrà essere quanto di meglio per il tuo Seneca». Paolo a Seneca: «Durante le tue riflessioni ti sono state rivelate verità che a pochi la divinità ha concesso il privilegio di conoscere. … lo semino, allora, in un campo già fertile un seme imperituro, l’immutabile parola di Dio». Ma Paolo non è solo romano; la sua cultura e la sua attività si muoveranno sempre nell’atmosfera ellenistica. Egli usa il greco in modo creativo, forgiandolo con grande libertà, come fosse un ferro incandescente: conosce le risorse retoriche di quella lingua, la rielabora con inventiva attribuendo accezioni inedite a vocaboli come sarx, “carne”, pneuma, “spirito”, hamartía, “peccato”, dikaiosyne, “giustizia”, sotería, “salvezza”, eleuthería, “libertà”, agape, “amore”, e non esitando a creare verbi rinforzati da una o più preposizioni (soprattutto syn-, “con”, per indicare la “simbiosi” del fedele con Cristo). La storia di Paolo si consuma, dunque, in un crocevia di culture e le sue tre identità di ebreo, di romano e di greco sono indispensabili per comprenderne l’opera e la vicenda personale, che si svolge in tutto il bacino del Mediterraneo, aprendosi anche al sogno di raggiungere l’estremo capo occidentale, la Spagna (Romani 15,22-24).
Di questa biografia è possibile ricostruire la trama, sia pure in modo sommario, sulla base di due fonti documentarie non sempre coincidenti, l’epistolario paolino e la seconda opera di Luca, gli Atti degli Apostoli, dal c. 13 alla fi ne. II punto fermo “profano” della cronologia
paolina è l’incontro dell’Apostolo con il proconsole romano Gallione a Corinto (Atti 18,12-17): un’iscrizione di Delfi ci attesta che costui risiedette nella città greca negli anni 50-51 o 51-52. Da questo nodo cronologico si cerca di ordinare i dati non del tutto combacianti offerti dalle due fonti neotestamentarie citate. Partendo dalla conversione al cristianesimo, da situare probabilmente fra il 32-35, si possono ricostruire due traiettorie temporali. La prima, fondata sugli Atti degli Apostoli, è scandita da tre grandi viaggi missionari di Paolo: dopo il primo, si celebra il “concilio” degli apostoli a Gerusalemme (anni 49-50); si individuano nel 58-60 un biennio di custodia cautelare in attesa di giudizio a Cesarea Marittima e un altro biennio di arresti domiciliari a Roma (60-62), in attesa dell’esito dell’appello presso la corte suprema imperiale. La morte, preceduta da un’altra detenzione, dovrebbe essere collocata nell’arco degli anni 64-67, ma di questo gli Atti tacciono. La seconda traiettoria, basata sulle Lettere della sepoltura paoline, situerebbe invece il “con- cilio” gerosolimitano dopo il secondo viaggio missionario dell’Apostolo in Grecia (50-51), introdurrebbe introdurrebbe un ampio soggiorno, forse con prigionia, a Efeso (52-55), mentre  l’arresto a Gerusalemme e la carcerazione a Cesarea daterebbero al 56-57, il trasferimento per nave del 57-58, gli arresti domiciliari l’arresto a Gerusalemme e la carcerazione a Cesarea daterebbero al 56-57, il trasferimento per nave a Roma avverrebbe nell’inverno del 57-58, gli arresti domiciliari romani durerebbero dal 58-60 e nel 60, sotto Nerone, Paolo sarebbe condannato a morte. Non è, comunque, nostra intenzione tracciare un diagramma particolareggiato della vicenda storica di Paolo: ci accontenteremo di puntare, a livello dottrinale, sul suo maggiore testo teologico, la Lettera ai Romani, e sul suo messaggio.

Il “vangelo” di Paolo

«Le grandi ore della storia della Chiesa sono state le grandi ore della Lettera ai Romani». Questa frase, che apre il commento dell’esegeta tedesco Paul Althaus al capolavoro di Paolo, esprime il valore di vessillo che il testo paolino ha avuto nella cristianità: basti solo pensare alle lezioni che Lutero tenne sulla Lettera ai Romani nel 1515-16 alle soglie della svolta che egli stava per imprimere alla cristianità (l’autografo di quelle note verrà scoperto a Berlino nel 1908, ma una copia era già venuta alla luce nel 1889 nella Biblioteca Vaticana). Per venire ai nostri giorni, è d’obbligo citare l’Epistola ai Romani, il famoso commento teologico che Karl Barth pubblicherà a Berna nel 1919 e che rifonderà completamente nel 1922 a Monaco di Baviera, facendolo diventare un testo di riferimento per la teologia e la cultura del Novecento. È, comunque, paradossale che questa Lettera, causa di divisione e tensione nella cristianità, sia divenuta oggi uno strumento di dialogo ecumenico: è, infatti, con la versione della Lettera ai Romani che è iniziata nel 1967 in Francia la pubblicazione della Traduzione ecumenica della Bibbia. Considerata da Filippo Melantone, uno dei padri con Lutero della Riforma protestante, «il compendio della dottrina cristiana», la Lettera ai Romani «è attraversata, come un cielo da lampi, da grida di dolore e di gioia, da dialoghi concreti e da confessioni drammatiche» (Salvatore Garofalo). Paolo la scrive da Corinto tra il 55 e il 58 (secondo le diverse cronologie a cui si è accennato) con l’aiuto dello scriba Terzo che si firma in 16. Non possiamo entrare nel merito delle molteplici notizie offerte dal capitolo finale della Lettera che, fra l’altro, rivela forse interventi redazionali successivi e che ci offre una lunga serie di saluti a uomini e donne della Chiesa di Roma, tra i quali si notano alcune coppie. Non possiamo neppure seguire con puntigliosa attenzione i 432 versetti dell’intero scritto come potrebbe fare un commento. Ci accontenteremo, allora, di disegnare una mappa teologica essenziale della Lettera che Paolo ha concepito come sua credenziale presso una Chiesa prestigiosa, insediata nel cuore dell’impero, in una Roma popolata da un milione di persone, tra cui si contavano forse cinquantamila ebrei con ben tredici sinagoghe.

Tre stelle oscure nel cielo dell’umanità

La Lettera ai Romani segue sostanzialmente due movimenti; il primo è di taglio teologico-dottrinale (cc. 1-11), il secondo di tono etico-pastorale (cc. 12-16). La parte più rilevante è senza dubbio la prima e potrebbe essere scandita in tre tempi: la giustificazione per la fede (cc. 1-5), la vita secondo lo Spirito (cc. 6-8), la sorte di Israele (cc. 9-11). Se volessimo individuare un ideale filo tematico, potremmo assumere quella citazione del profeta Abacuc (2,4) che Paolo pone sull’ideale frontale della Lettera e che potremmo rendere così: «II giusto mediante la fede vivrà» (1,17). I capitoli 1-8, che sono il cuore dell’opera, sono appunto definiti da questa frase nelle sue due scansioni: «II giusto, divenuto tale mediante la fede (cc. 1-5), vivrà (cc. 6-8)». Per spiegare in pienezza il valore di tale affermazione teologica ci affideremo a una costellazione di termini greci che Paolo plasma secondo significati nuovi e che chiama a illuminare il cielo teologico della Lettera. Si tratta di un settenario di parole che si ordinano in due campi; partiremo da tre vocaboli che sono come stelle “nere”: con la loro tenebra accecante trafiggono l’orizzonte della storia. La prima parola è sarx, “carne”. Non è l’esistenza umana nella sua fragilità, come intendeva Giovanni quando nel prologo al suo vangelo affermava che «il Logos [Cristo] divenne carne [sarx]» (Giovanni 1,14). Per Paolo, invece, la sarx è un principio negativo efficace e deleterio che si annida nel cuore umano. Immaginiamo la zizzania che pervade il terreno seminato a grano, come diceva Gesù in una sua parabola (Matteo 13,24-30): essa è inestricabile, fiorisce, prospera e attenta alla fecondità del grano. La sarx è il terreno offerto al male, un terreno che si distende nelle nostre coscienze. Ecco poi la seconda stella oscura, l’hamartía, cioè il “peccato” nel suo irrompere violento. Il terreno della sarx alimenta e fa crescere la zizzania del peccato il cui sviluppo è contorto e tempestoso e si manifesta nel grappolo delle azioni inique da noi compiute. La terza parola negativa è nomos, la “legge” da osservare. Di per sé essa è santa e donata da Dio ma è l’uso perverso che ne fa l’uomo a portare alla sua degene razione. Per ricorrere ancora all’immagine del terreno, è come se, capitati su una distesa di sabbie mobili, tentassimo da soli
– alzando le braccia – di venirne fuori. Tentativo spontaneo ma vano; quanto più ti agiti per estrarti, tanto più affondi. Così è il destino di chi si illude di vincere la sarx e l’hamartía compiendo le opere della legge, cercando così di liberarsi con le sue sole forze. Per salvarti da quel gorgo di melma è necessario che ci sia una mano che da una roccia stabile ti afferri e ti liberi. Ed è proprio da quattro parole della nostra costellazione teologica.

Quattro stelle luminose nel cielo dell’umanità

Si accende, dunque, nel cielo tenebroso della nostra caduta, la prima stella luminosa, quella della charis, la “grazia”. II vocabolo, che è rimasto nel nostro “carità” o “caro, carezza”, così come nell’inglese charm e nel francese char-me, indica qualcosa di amoroso, affascinante e di gioioso. È l’apparire di Dio nella notte dell’anima. Egli squarcia la nostra solitudine, mettendosi lui per primo alla nostra ricerca, incamminandosi sulle nostre strade. Osserva san Paolo: «Isaia arriva fino al punto di affermare: Io [il Signore] mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non mi interrogavano» (10,20; cf. Isaia 65,1). In principio, dunque, c’è l’amore divino che si rivolge all’uomo. È questo il senso del grido fi nale del Diario di un curato di campagna di Bernanos: «Tutto è grazia!». Illuminato dalla charis, l’uomo deve rispondere con la sua libertà di adesione o di rifiuto. Ecco, allora, la seconda stella luminosa, la pistis, la “fede”. Essa è simile a braccia aperte che accolgono l’amore divino donato. È l’afferrare quella mano che ci viene offerta mentre stiamo sprofondando nel terreno molle della sarx, avviluppati nei grovigli dell’hamartía. È a questo punto che si accende la terza stella, quella del pneuma, lo Spirito. Anche in ebraico un unico vocabolo (rûah) indica sia il “vento” sia lo “spirito”, sia il respiro della vita fisica sia quello della vita interiore. Ebbene, con l’abbraccio d’amore tra charis e pistis, tra grazia divina e fede uma na, Dio infonde in noi il suo stesso respiro, il suo Spirito, cioè la sua vita. È per questo che noi lo possiamo considerare come padre e ci possiamo sentire fratelli di suo figlio, Gesù Cristo; tra lui e noi corre la stessa vita: «Voi non avete ricevuto uno spirito [pneuma] da schiavi per piombare nella paura ma avete ricevuto uno spirito [pneuma] di figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, padre!» (8,16). Ora, l’uomo che ha accolto la grazia (charis) nella fede (pistis) e che ha ricevuto in sé il pneuma, lo Spirito della vita divina, acquista un nuovo statuto interiore che è descritto dall’ultima parola, dikaiosyne, “giustificazione”. Essa è la stella terminale che sigilla la vicenda della salvezza, partita dalle tenebre e approdata alla luce: l’uomo è ora “giustificato”, cioè reso giusto, perfetto, è – per usare un’immagine paolina – una “creatura nuova”. Da lui le opere giuste fluiranno come frutto della salvezza ottenuta.

Il testamento di san Paolo

Il poeta Mario Luzi immaginava l’Apostolo come «un’enorme figura che emerge dal caos dell’errore e dell’inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza». Dello stile di Paolo san Girolamo ci ha lasciato una nota critica suggestiva: Non curabat magnopere de verbis cum sensum haberet in tuto, «non si preoccupava più di tanto delle parole quando aveva messo al sicuro il significato». Un contrasto tra parola grezza e messaggio luminoso che – stando all’antico ritratto degli Atti di Paolo e Tecla, pittoresco ma importante apocrifo della fine del II secolo – si ripercuoteva anche nella fisionomia dell’Apostolo: «Era un uomo di bassa statura, la testa calva, le gambe arcuate, il corpo vigoroso, le sopracciglia congiunte, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità: a volte aveva le sembianze di un uomo, a volte l’aspetto di un angelo». Paolo riesce a comporre armonicamente in sé la realtà umana, nella sua pesantezza e carnalità, ma anche nella trascendenza a cui è destinata. Vorremmo a questo punto concludere il nostro profi lo paolino, incentrato sulla sua opera maggiore, la Lettera ai Romani, lasciando la parola a un testo cronologicamente terminale, desunto dalla Seconda Lettera indirizzata al fedele amico e collaboratore Timoteo, nato a Listra di Licaonia (attuale Turchia Centrale) da padre greco e da madre giudeocristiana. Si tratta di una sorta di testamento dal tono commosso, scandito da quattro simboli che cercano di riassumere autobiograficamente l’esistenza di san Paolo, radicalmente e totalmente votata a Cristo e alla vocazione apostolica (4, 6-8). Ecco il primo: «Io sto per es-sere versato in libagione». È l’immagine sacrificale del vino, dell’acqua e dell’olio che vengono fatti esalare su un braciere perché salgano come offerta a Dio. II secondo simbolo è quello dell’analysis che può alludere alle vele sciolte per salpare verso il mare aperto e nuovi lidi oppure al levare le tende del nomade che si mette in marcia alla ricerca di nuovi orizzonti e di pascoli freschi: «Incombe ormai su di me il momento di sciogliere le vele». La terza figura è quella del soldato che «ha combattuto la bella/buona battaglia»: spesso l’Apostolo ha usato la metafora dell’armatura per indicare l’impegno del cristiano in un’esistenza giusta (si veda, ad esempio, Efesini 6,10-17). La quarta immagine è stata spesso evocata da Paolo: si tratta della corsa nello stadio che si conclude con la premiazione. «Ho terminato la corsa, ho conservato la fede» – in greco la frase è rimata: ton dromon tetéleka, ten pistin tetéreka –. «Ora mi rimane la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, in quel giorno mi consegnerà e non solo a me ma anche a tutti coloro che hanno amato la sua epifania». Lo sguardo si protende ormai oltre la storia e l’Apostolo spia già l’orizzonte per veder sorgere l’alba dell’“epifania” del Signore, che suggellerà la sua vicenda personale e quella di tutta la storia. Con questo bellissimo e intenso testamento, forse redatto da un discepolo che vedeva Paolo già come un santo, circonfuso dell’aureola divina, si chiudono idealmente la vita e l’epistolario paolino, con la ricchezza dei suoi testi, la mutevolezza dei suoi registri tematici e stilistici. Partendo dal nucleo della fede cristiana, cioè dalla morte e risurrezione di Gesù Cristo, senza il quale «vuota è la nostra predicazione e vuota la fede» (1 Corinzi 15,14), Paolo ha costruito non tanto un sistema di pensiero quanto piuttosto un progetto dove teologia e morale, riflessione e azione, cristologia ed ecclesiologia, dogmatica e pastorale si richiamano, si fondono, si pongono in contrappunto. Apostolo di Cristo e maestro “ispirato” dei fedeli di ogni secolo, Paolo è per tutti un incontro necessario, come ricordava in un articolo lo scrittore Pietro Citati che ne tracciava l’erto percorso di conoscenza: «Non c’è una lettura più ardua, che debba venire controllata in ogni minimo dettaglio: san Paolo non è un ubriaco di Dio, ma lo spirito più logico e sottile del suo tempo, sebbene la sua logica ci possa sconvolgere. Con la sua drammatica tensione intellettuale, si appropria di ogni vocabolo, lo trasforma in una parola nuova, crea opposizioni, che sfuggono a chi non vive nella sua architettura mentale; gioca drammaticamente sulle antitesi; e così può portare il suo pensiero all’estremo, fino all’ultimo paradosso per rovesciarlo nel suo contrario. Solo i libri chiari e aperti muoiono appena nati. I meravigliosi scorci e aforismi di san Paolo, i suoi lampeggianti scoppi di tenebra si sono impressi per sempre nella memoria dell’Europa».

Carron: avvenimento e conoscenza in San Paolo

dal sito:

http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=35838

MEETING/ Carron: avvenimento e conoscenza in San Paolo

Julián Carrón mercoledì 26 agosto 2009

Il 28 giugno scorso in occasione della chiusura dell’Anno Paolino, Benedetto XVI ha affermato. “L’Anno Paolino si conclude, ma essere in cammino insieme con Paolo, con lui e grazie a lui venir a conoscenza di Gesù e, come lui, essere illuminati e trasformati dal Vangelo – questo farà sempre parte dell’esistenza cristiana” [1]. In un Meeting per l’Amicizia fra i Popoli che mette a tema la conoscenza difficilmente avremmo potuto trovare un testimone migliore di Paolo per documentare la verità del titolo scelto: La conoscenza è sempre un avvenimento. In cammino con l’Apostolo, come ci suggerisce il Papa, è possibile capire che cosa sia per lui la conoscenza come avvenimento: nel modo con cui egli ce l’ha testimoniata nella conoscenza di Gesù.
Dal punto di vista strettamente storico, nell’esistenza di san Paolo non vi è un fatto più indiscutibilmente certo della svolta che conobbe la sua vita in un momento determinato, ossia quando si trovava in cammino verso Damasco [2]. All’inizio della lettera ai Gàlati Paolo narra il cambiamento con queste parole: “Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani”[3]… Il ribaltamento è consistito, secondo la testimonianza dello stesso Paolo, nel passaggio da persecutore ad apostolo di Colui che in precedenza aveva accanitamente perseguitato. Per capire la portata d’una tale svolta occorre soffermarsi un attimo per guardare, anche se sommariamente, la vita precedente dell’apostolo.

“La mia condotta di un tempo nel giudaismo”

Fortunatamente, Paolo ci offre sufficiente informazione per farci un’idea abbastanza chiara su questa tappa della sua vita. Nel testo citato della Lettera ai Gàlati egli ci parla della sua vita di un tempo nel giudaismo, collegando la sua persecuzione della Chiesa e il suo accanimento nel sostenere le tradizioni dei padri. Quest’ultima caratteristica ci informa dell’origine della sua passione per le tradizioni dei padri: la sua educazione farisea. Infatti, come sappiamo attraverso, tra gli altri, lo storico ebreo contemporaneo Flavio Giuseppe, i farisei avevano imposto al popolo molte leggi dalla tradizione dei padri non scritte nella legge di Mosè. Conferma di questo la troviamo anche nel Vangelo: “I farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi”[4]. Ma la cosa più significativa è il suo essere, nella difesa delle tradizioni, “molto zelante” (perissotérôs zêlôtês) fino al punto di sorpassare in questo zelo “la maggior parte dei miei coetanei e connazionali”.
Nella Lettera a Filippesi Paolo ci offre una breve autobiografia prima della svolta, dove esibisce le credenziali che contraddistinguevano la sua vita nel giudaismo: “circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge”[5]. Ai primi posti di questo elenco Paolo enumera i privilegi ereditati dalla sua appartenenza al popolo d’Israele (circonciso, israelita, della tribù di Beniamino, ebreo); i tre ultimi tratti sono scelte fatte da lui: fariseo, persecutore e irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge.
Il motivo, però, di questo elenco non è meramente biografico, bensì apologetico. Infatti, l’apostolo sta difendendo i suoi fratelli della comunità di Filippo[6] dai cattivi operai che mettono a rischio la loro fede cristiana, cercando di rispostare la loro fiducia lì dove la ponevano come ebrei, appunto nella carne. In questo contesto, Paolo insiste che se qualcuno ha dei titoli per vantarsi nella carne è proprio lui: circonciso, ebreo, fariseo, persecutore, irreprensibile nell’osservanza della legge. 
Con ciò Paolo ci informa, tra l’altro, che lui era fariseo quanto alla legge, mettendo insieme, così, il suo fariseismo e la passione per legge. Lo scopo fondamentale del fariseismo era l’educazione alla legge. Non stupisce, quindi, che l’educazione farisea ravvivasse in Paolo la passione per la legge.
Il preciso significato che aveva per lui questa passione è quello che abbiamo scoperto: “accanito [estremamente zelante] com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri”[7]. Luca ci offre una autodichiarazione paolina riassuntiva di cosa significasse per un ebreo formarsi alla scuola farisea. “Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi”[8].
Questo zelo per Dio e per la sua legge è ciò che ha portato Paolo a essere persecutore: “fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge”[9]; “come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, … accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri”[10].
Per capire il significato che aveva per il fariseo Saulo questo zelo per Dio che lo spingeva a perseguitare i seguaci di un condannato per blasfemia dal sinedrio (il tribunale ebraico) basta leggere questo brano di un suo contemporaneo, Filone di Alessandria, in cui si parla dell’apostasia, il reato che Saulo attribuiva ai cristiani di origine ebraica: “È un bene che tutti quelli che sono animati dallo zelo per la virtù possano infliggere le pene immediatamente e con le proprie mani, senza dover condurre il colpevole dinanzi a nessun tribunale, consiglio o magistrato, e possano dar libero sfogo ai sentimenti che li animano: l’odio verso il male e l’amore per Dio, che li spingono a infliggere la pena all’empio, senza compassiona alcuna. Devono ben sapere che l’occasione li ha convertiti in consiglieri, giurati, alti magistrati, membri dell’assemblea, accusatori, testimoni, leggi, popolo; per dirlo con una sola parola: in tutto. Di modo che senza paura né impedimenti possano difendere la santità in tutta sicurezza”[11].
Questo zelo aveva i suoi modelli in personaggi veterotestamentari come Pincas, che trafigge con la sua lancia un israelita che si è unito a una donna madianita[12]; o Elia e Ieu, che uccidono quanti hanno piegato le ginocchia a Baal[13]. A partire dalla rivolta dei Maccabei questo zelo faceva parte dei gruppi radicali, che erano sempre pronti a usare la forza per difendere la legge. Anche se questo zelo non è esclusivo dei farisei (lo troviamo anche negli altri gruppi religiosi del tempo: sadducei, esseni, zeloti), non c`è dubbio che è questo un tratto d’identità dei farisei.
Che lo stesso Paolo non si astenne dall’uso della violenza, si evince dal verbo che usa per descrivere la sua azione contro la Chiesa. Per due volte Paolo usa il verbo porthein, “distruggere”[14]. Fin dove può arrivare la violenza si può vedere dall’uso che di questo verbo fa lo storico ebreo Flavio Giuseppe per descrivere l’incendio di villaggi e città di Idumea da parte di Simone bar Giora[15]. C’è chi vuole ridurre l’azione di Paolo a una forte polemica. Ma i dati offerti dallo stesso Paolo, senza nemmeno doversi appellare agli Atti degli Apostoli, parlano da sé. Più tardi Paolo stesso dirà[16], in allusione agli ebrei che non hanno riconosciuto Cristo a causa del suo zelo per Dio, che questo zelo è stolto, senza vera conoscenza (ou kat’ epignôsin)[17].
Alla fine di questa breve descrizione della prima tappa della vita di Paolo possiamo dire che essa è totalmente determinata dalla legge. La sua formazione farisea, il suo zelo per la tradizione degli antichi, la sua attività di persecutore parlano di questa sua passione per la legge data da Dio al popolo sul Sinai e che costituiva per lui il bene più prezioso. Tutto ruota intorno alla legge. In una situazione come quella sin qui descritta, con una convinzione così radicata, nulla poteva far sperare in un cambiamento significativo nell’esistenza di Paolo. Ma l’imprevisto accade.

L’avvenimento di Damasco

Infatti, nel corso di una delle sue azioni contro i cristiani di Damasco Paolo si è visto sorpreso da un avvenimento che gli ha cambiato la vita (Att 9,1-5). Anche quelli che non erano stati testimoni dell’evento non potevano evitare di trovarsi davanti al fatto di questo cambiamento che si rendeva evidente a loro nel modo con cui Paolo si muoveva e nei nuovi compagni da cui si trovava circondato. Il libro degli Atti[18] narra in modo espressivo questo cambiamento descrivendo i nuovi rapporti di Paolo a Gerusalemme: “Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo”. Dopo che Barnaba narra come Paolo si è comportato a Damasco, il timore viene fugato e l’Apostolo può andare e venire “a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore”.
Rivolgendosi ai Gàlati, Paolo non testimonia soltanto il cambiamento che ha avuto luogo nella sua vita, ma anche il fatto che lo ha causato: la rivelazione del Figlio che gli è stata concessa da Dio. Come afferma categoricamente Charles Kingsley Barrett: “L’essenza della conversione di Paolo fu la rivelazione di Gesù Cristo”[19]. Tuttavia in questo testo Paolo non ci spiega esplicitamente in che cosa sia consistita questa rivelazione. Da altri passi della Lettera sappiamo che essa si basa sull’apparizione di Cristo risorto. Nelle due occasioni in cui Paolo allude a questo fatto nella Prima Lettera ai Corinzi l’esperienza avuta sulla via di Damasco viene collocata nel contesto delle apparizioni pasquali. In 1Cor 9,1 (“Non ho veduto Gesù, Signore nostro?”), utilizza lo stesso verbo, horein, “vedere”, che ritroviamo in contesti legati alla Pasqua[20]. E in 1Cor 15,8, Paolo cita l’apparizione di Gesù risorto di cui fu personalmente oggetto, alla fine di un elenco di apparizioni: di conseguenza la cataloga come tale. Da questi testi si può dunque arguire che “Paolo ha visto Gesù” e che “considera questa visione identica e di pari valore rispetto a quelle che hanno ricevuto come grazia Pietro, Giacomo e gli altri testimoni delle apparizioni del Risorto”[21].
Se “l’esperienza è l’emergere della realtà alla coscienza dell’uomo, è il divenire trasparente della realtà allo sguardo umano”[22], per Paolo in questa esperienza dell’incontro con il Risorto diventa trasparente la realtà di Cristo. In nessun altro momento della sua vita la ragione e la libertà di Paolo furono sfidate, messe in gioco, come di fronte a questo avvenimento. In modo assolutamente imprevisto, sulla strada verso Damasco, Cristo risorto incontra Paolo, la cui ragione viene dilatata dalla grazia della fede perché sia adeguata alla realtà eccezionale che ha davanti a sé. È questa presenza di Cristo risorto – che lo precede e lo provoca, cioè lo precede chiamandolo – a sostenere l’apertura della ragione affinché Paolo possa percepire adeguatamente il significato di quell’incontro, provocando in lui l’attrazione che permette alla libertà l’adesione amorosa a quella presenza[23]. Per questo l’Apostolo può appropriatamente definire l’avvenimento una rivelazione: in esso si rivela a Paolo la piena realtà di Cristo[24]. Come tanti ebrei, Paolo aveva accettato il giudizio su Gesù contenuto nella sentenza del sinedrio: un bestemmiatore, contrario alle più preziose tradizioni di Israele (il Tempio e la Legge)[25]. Credeva di sapere già chi fosse Gesù Cristo. Ora invece l’inaspettata irruzione nella sua vita di Cristo risorto gli fornisce una conoscenza su cui non poteva contare.
Se, come recita l’assioma di Jean Guitton, “‘ragionevole’ significa sottomettere la ragione all’esperienza”[26], Paolo si è dimostrato un uomo ragionevole, accettando di sottomettere la sua ragione, ossia ciò che pensava di Gesù, alla conoscenza della realtà di Cristo così come si era resa trasparente in quell’esperienza. J. Murphy-O’Connor ha descritto magistralmente questo processo: “Ora Paolo conosceva con la convinzione ineludibile dell’esperienza diretta che il Gesù che era stato crocifisso sotto Ponzio Pilato era vivo. La resurrezione che aveva ostinatamente rifiutato era un fatto, innegabile quanto la sua stessa realtà. Sapeva che Gesù ora esisteva su un altro piano. Questo riconoscimento era tutto quello di cui aveva bisogno per la sua conversione. [...] Gesù quindi deve essere precisamente ciò che Egli in modo implicito, e i suoi discepoli in modo esplicito, pretendevano che fosse: il Messia”[27]. Fu la conoscenza della vera natura di Gesù Cristo, ottenuta attraverso la grazia di una rivelazione, a motivare la sua conversione. L’avvenimento di questa rivelazione trasformò il persecutore fariseo in un apostolo. Essere così semplici da riconoscere il contenuto di quella rivelazione implicava il riconoscimento di Gesù Cristo e l’immediata cessazione della sua attività persecutoria. Le persone che egli aveva perseguitato avevano ragione, egli stesso aveva torto.
Questo aiuta a capire la natura della cosiddetta ‘conversione’ di Paolo. È indubbio che a Paolo si debba applicare il concetto di conversione con molta cautela. “Siamo lontanissimi dal cliché della conversione intesa in senso moralistico. Paolo non era un peccatore penitente che ha ritrovato il cammino del bene, dopo aver percorso quello del male. Tantomeno era un agnostico che ha finito per accettare Dio e una visione religiosa della realtà”[28]. Come ha scritto lo studioso di San Paolo, C.K. Barrett: “La conversione di Paolo non ha trasformato un uomo moralmente empio in un uomo moralmente buono; non era mai stato un uomo moralmente empio”. Egli stesso confessa che era “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3,6); che superava “nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali” (Gal 1,14). Si deve a questo zelo anche l’accanita persecuzione della Chiesa di Dio: lo considerava un dovere strettamente religioso, come dimostra il fatto che, dopo la rivelazione della vera natura di Cristo, abbandona la sua attività di persecutore per aderire a Lui”[29]. Per questo, insiste G. Barbaglio, “la sua, se si può parlare di conversione, è stata una conversione a Cristo, scoperto con gli occhi della fede come chiave di volta del destino umano”[30].

Nuova conoscenza

Da quanto detto si evince che la novità dell’evento accaduto sulla via di Damasco non si limita al cambiamento di vita, da persecutore a credente in Gesù Cristo. Per Paolo questo avvenimento è stato una vera conoscenza, di cui il cambiamento di vita non è altro che una conseguenza. “Il suo incontro con Cristo gli ha rivelato la verità di tutto quello che aveva ritenuto falso, costringendolo a una nuova valutazione, che si trasformò nel nucleo cristologico e soteriologico del suo vangelo”[31].
Nella Seconda Lettera ai Corinzi[32] 5,16 San Paolo ci dice esplicitamente la novità di questa conoscenza: ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne (kata sarka); e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne (kata sarka), ora non lo conosciamo più così[33].
Che cosa significa per Paolo questa conoscenza di Cristo “secondo la carne”? Si è discusso molto a che elemento della frase occorreva unire l’espressione “secondo la carne”: a Cristo o al verbo “conoscere” [34]. È chiaro che qui Paolo sta mettendo a contrasto due modi di conoscere: quello del passato (“abbiamo conosciuto”), che era una conoscenza di Cristo “secondo la carne” e quello del presente (“ora però non lo conosciamo più così”). “Quando lui [Paolo] dice ‘Noi abbiamo conosciuto in altro tempo Cristo secondo la carne’ (5,16) si riferisce ovviamente alla conoscenza che aveva di Cristo quando come fariseo perseguitò i cristiani (Gal 1,13; Fil 3,6). Egli condivideva l’opinione comune tra i suoi coetanei che Gesù fosse un maestro eretico e un agitatore turbolento le cui attività l’avevano portato giustamente al patibolo. Questa – egli lo sa – è una valutazione falsa, e l’abbandona. Adesso riconosce Gesù come Salvatore”[35]. Questo ci consente di capire il senso della conoscenza “secondo la carne”. La conoscenza di Cristo “secondo la carne” è una conoscenza di Cristo secondo la sua misura, la sua capacità umana di conoscenza, che l’aveva portato a una valutazione di Cristo che l’avvenimento di Damasco aveva mostrato falso[36]. Leggiamo infine il testo nella nuova versione italiana: “Quindi, da ora in poi, noi non conosciamo più nessuno da un punto di vista umano; e se anche abbiamo conosciuto Cristo da un punto di vista umano, ora però non lo conosciamo più così”.
Che Paolo dia alla rivelazione accaduta sulla via di Damasco il valore di conoscenza si vede nel fatto che il contenuto di questa rivelazione diventa il metro di giudizio fondamentale per valutare ogni cosa[37]. “Cristo gli aprì gli occhi e, una volta che lo ebbe conosciuto, i suoi criteri di giudizio furono semplicemente rovesciati”[38]. Nulla lo rende più evidente che il testo in cui egli ci fa vedere che novità si è introdotta nel giudicare questo evento: “circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”[39].
Paolo è poi obbligato a rivedere tutte le categorie fondamentali del suo pensiero, le sue vecchie convinzioni, alla luce della nuova conoscenza di Cristo[40]. Il risultato di questa revisione e la nuova mentalità derivatane costituiscono ciò che chiamiamo teologia paolina[41].
“Quella rivelazione del ‘Signore della gloria’ crocifisso (1Cor 2,8) fu un avvenimento che rese Paolo, il fariseo, non soltanto un apostolo, ma anche il primo teologo cristiano”[42]. Per questo i tentativi di spiegare la teologia paolina a partire da altri punti sorgivi diversi da quell’evento sono falliti. Secondo J. Jeremias, né l’ambiente ellenistico né l’educazione giudaica costituiscono la chiave per comprendere il pensiero e la vita di Paolo: “né la religione misterica, né il culto dell’imperatore, né la filosofia stoica né il presunto gnosticismo precristiano costituiscono l’humus originario dell’apostolo. [...] Paolo è uno di quegli uomini che hanno sperimentato una violenta rottura con il passato. La sua è una teologia radicata in una conversione repentina”[43].
Per questo “la finalità dell’intera teologia dell’apostolo è in ultima istanza la spiegazione della rivelazione del Figlio di Dio, che ebbe luogo sulla via di Damasco. Questa è l’origine da cui nasce il suo pensiero e da cui egli parte per elaborare la sua teologia. È chiaro che al momento della sua vocazione non era ancora cosciente della portata della rivelazione, che doveva essere il suo vangelo. Ma in nuce tutto il resto era già presente. Concretamente, la rivelazione è proprio il fatto che Gesù è il Figlio di Dio”[44].
Questo non vuol dire che Paolo capisse tutto fin dall’inizio. Osserva J. Fitzmyer: “Affermare il carattere decisivo di questa visione per la penetrazione del mistero di Cristo non significa che Paolo abbia compreso immediatamente tutte le implicazioni della visione che gli fu concessa. Ma gli fornì il criterio valutativo di base, che avrebbe illuminato tutto quello che doveva imparare su Gesù e la sua missione tra gli uomini, non solo nella tradizione della Chiesa primitiva, ma anche nella sua esperienza apostolica personale di predicatore del ‘Cristo crocifisso’ (Gal 3,1)”[45]. Con questo nuovo criterio valutativo Paolo fu costretto a rivedere tutte le sue convinzioni fondamentali: dalla legge alla storia della salvezza, dal culto alla lettura della Scrittura. Tutto è visto alla nuova luce di quest’evento. È ovvio che non possiamo rivedere ciascuno di esse. Ci soffermeremo su due esempi, ognuno portatore di una indicazione decisiva.

Il velo di  Mosè                                                                                                                                        A nessuno risulterà a questo punto strano che il cambiamento operato in Paolo come conseguenza dell’avvenimento sulla via di Damasco abbia influenzato il suo modo di leggere la Scrittura, strumento decisivo per formulare la nuova mentalità e per spiegare il mistero di Cristo; infatti, Paolo si servì come mezzo per esprimere la novità cristiana, di cui ora partecipava, proprio le Sacre Scritture di Israele, l’Antico Testamento[46]. Ma in che cosa consisteva la novità del suo avvicinamento alla Scrittura?
Nel corso della storia, il terzo capitolo della Seconda Lettera ai Corinzi è stato il punto di riferimento fondamentale per comprendere questa novità, quella che chiameremo l’ermeneutica paolina[47]. Questo capitolo fa parte dell’apologia che Paolo fa del suo ministero di apostolo, confrontandolo con quello di Mosè, cui fanno appello i suoi avversari[48]. In esso Paolo contrappone l’effimero ministero della lettera, che è ministero di morte e di condanna, al perenne ministero dello Spirito che dà vita, un ministero di giustizia[49]. Sebbene anche il primo sia un ministero glorioso, la sua gloria non è paragonabile a quella del secondo. “Se dunque ciò che era effimero fu glorioso, molto più lo sarà ciò che è duraturo”[50].
Se il ministero apostolico di Paolo è così glorioso da risplendere tra tante tribolazioni per la sua capacità d’introdurre una novità nella vita, allora perché non viene accolto tra gli ebrei? Questa mancanza di una risposta, non è forse segno della sua inautenticità?[51] Per controbattere a questa obiezione al proprio ministero formulata dai suoi avversari ebrei, Paolo ricorre al racconto del velo di Mosè[52] contenuto nel libro dell’Esodo[53]. E comincia dicendo: “Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero”[54]. L’apostolo con il participio (katargoumenou) si riferisce al fatto che lo splendore di Mosè, che si identifica con quello dell’antica legge, sparirebbe al manifestarsi del mistero di Cristo in tutta la sua pienezza[55]. Questa manifestazione, che ebbe luogo durante la resurrezione di Gesù, inaugura un ministero di gloria duraturo, fonte di una speranza che permette a Paolo di procedere in tutta libertà, senza la necessità di ricorrere, come Mosè, a un velo che ne occulti la scomparsa.
Subito dopo però Paolo utilizza la parola “velo” per designare un altro fatto che avviene presso una parte del popolo ebraico, quella che continua, per zelo verso i supposti diritti del Dio di Israele, a rifiutare Gesù (e con Lui il Suo vangelo, i predicatori dello stesso e quella parte degli ebrei che lo ha accolto)[56]. “Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto”[57]. Nelle riflessioni dell’Apostolo il velo è ciò che ricopre il cuore, ossia gli occhi dell’intelligenza di questi ebrei ostili, di modo che quando ogni sabato la legge (l’Antico Testamento) viene letta nelle loro sinagoghe, essi non vedano la realtà, ossia quello che Gesù Cristo ha rappresentato con la sua predicazione, morte e resurrezione. Finché non si toglieranno (o finché Dio non toglierà) il velo dal loro cuore, non crederanno in Gesù Cristo, e quindi non comprenderanno pienamente l’Antico Testamento[58]. La relazione tra la fede in Cristo e la vera comprensione della Scrittura è fondata sul fatto che, come dice lo stesso Paolo all’inizio della lettera ai Romani, “il vangelo di Dio”, che è il vangelo “riguardo al Figlio suo … Gesù Cristo” Dio lo “aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture”[59]. Per questo possiamo dire con A. Vanhoye che “per quelli che leggono le Scritture senza riconoscere che parlano di Gesù Cristo, l’AT è un libro il cui significato rimane velato (2Cor 3,14)”[60].
Qui tuttavia Paolo non ci dice soltanto che l’Antico Testamento continua a essere velato per chi non crede in Cristo, ma anche come si può rimuovere il velo che ne impedisce la comprensione. Con un tratto stilistico di grande bellezza, che impiega con una certa frequenza per dire ai destinatari delle lettere come si toglierà il velo, Paolo utilizza le parole dell’Esodo[61] in cui l’autore sacro descrive come Mosè, rivolgendosi a Dio per parlarGli, si toglieva il velo. Allo stesso modo, questi ebrei che non vedono la verità di Gesù per il velo posato sui loro cuori possono raggiungere la ricca fonte di speranza costituita dal Vangelo attraverso un’unica via: questa via consiste nel rivolgersi a Dio, perché l’unico Dio di Israele è quello che si è manifestato nella resurrezione di Gesù.
Anche se non è così immediato seguire quella che è stata denominata la “forma midrashica di argomentazione”[62] di Paolo, perché è molto lontana dal nostro modo di ragionare, lo scopo dell’allusione al velo di Mosè in questo contesto è chiaro. Ricorrendo all’immagine del velo, Paolo vuol dire, secondo M. Thrall, che “nella vita della sinagoga rimane attivo ‘lo stesso velo’, la stessa barriera per la comprensione della finalità della Legge di Mosè, già presente come all’epoca di Mosè. [Questo velo] è ancora posto sull’AT, durante la lettura”[63]. La barriera che ostacola la percezione del significato della Scrittura sparisce definitivamente solo con l’arrivo di Cristo[64]. In tal caso, le critiche giudaiche al ministero di Paolo, o in senso più generale al cristianesimo, basate sulla comprensione ebraica dell’Antico Testamento mancano di fondamento[65]. Ma, come abbiamo visto, ciò non è sufficiente. Perché Cristo sveli il significato dell’Antico Testamento si richiede, da parte di chi lo legge, di rivolgersi al Signore, ossia al Dio che si è manifestato in Gesù Cristo[66].
L’importanza di questo testo per l’interpretazione della Scrittura è evidente. Secondo D.-A. Koch, il passo è un testo chiave, dato che è l’unico in cui Paolo affronta esplicitamente, seppure in modo indiretto, la questione dell’ermeneutica[67]. In esso, Paolo stabilisce le condizioni per la comprensione della Scrittura. Forse non risulterà inutile ricordare in questo contesto che coloro a cui Paolo rimprovera di leggere la Scrittura coperta da un velo che impedisce loro di comprenderne il vero significato sono giudei (e non possono essere altro che giudei)[68]. È ben noto il complesso sistema di regole ermeneutiche generato dal giudaismo per la comprensione dell’Antico Testamento[69]. Anche se ai tempi di Paolo questo sistema non era ancora arrivato alla complessità che più tardi sarà testimoniata dalla letteratura rabbinica, sappiamo che aveva già raggiunto un certo grado di sofisticazione[70]. Nonostante questo spreco di energie e d’ingegno, Paolo sostiene che la lettura rimane velata finché non si rivolgeranno al Signore, ossia al Dio che si è manifestato durante la morte e la resurrezione di Cristo (poiché non vi altro Dio oltre quello che si è manifestato in Cristo). In questo modo Paolo stabilisce il principio fondamentale della sua ermeneutica: l’interpretazione della Scrittura non è in ultima istanza una questione tecnica, ma teologica. Tutta l’abilità e tutta la perspicacia dei rabbini non sono in grado di attraversare il sottile velo che li separa da una reale comprensione. Qualsiasi sforzo umano non basta ad attraversarlo. Paolo lo sapeva per esperienza personale. Descrivendo la fase giudaica della sua vita, non può far altro – l’abbiamo visto – che riconoscere come nel giudaismo superasse “la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri”[71]. Questo zelo lo aveva portato a studiare presso uno dei rabbini più prestigiosi del suo tempo, Gamaliele. Munito di questo bagaglio, era convinto di comprendere le tradizioni meglio dei seguaci di Colui che a suo parere le metteva in pericolo, e così secondo lui era legittimo perseguitarLo. Soltanto la grazia della rivelazione del Figlio, concessagli da Dio, ha permesso la rimozione del velo e con questo il reale raggiungimento del vero significato delle tradizioni ricevute.
In tal senso – per limitarci a citare un altro esempio del rinnovato interesse che negli ultimi trent’anni ha suscitato questo capitolo come testo chiave dell’ermeneutica paolina dell’Antico Testamento – P. Stuhlmacher ha richiamato l’attenzione sul vincolo tra l’esperienza di Paolo sulla via di Damasco e 2Cor 3,14, testo in cui Paolo rende esplicito il fondamento della sua ermeneutica. 2Cor 3,14 mostra – secondo il professore di Tubinga – che l’esperienza di Paolo lo ha costretto a concludere che sulla lettura e l’interpretazione della legge era posto un ‘velo’ che occultava al giudeo il suo vero significato e, di conseguenza, gli impediva di giungere a una vera comprensione di Cristo. In Cristo questo velo scompare, rendendo così possibile una vera comprensione della Legge. Secondo Stuhlmacher, l’esperienza cristologica di Paolo è il punto di appoggio sia della sua visione della Legge, sia della sua ermeneutica dell’Antico Testamento[72]. Il principio ermeneutico cristologico tuttavia non impedisce a Paolo l’utilizzo delle tecniche esegetiche del suo tempo, come dimostra anche il testo che stiamo commentando. Lo studio dell’uso dell’Antico Testamento nelle lettere rende manifesto il fatto che Paolo abbia messo al servizio di questo principio ermeneutico, ancorato alla sua esperienza, tutte le sue conoscenze di esperto rabbino. Molte citazioni dell’Antico Testamento che troviamo nelle sue lettere sono così complesse che si possono spiegare solo col fatto che Paolo aveva acquisito una totale padronanza dei metodi esegetici del suo tempo. Principio cristologico e principio razionale, ossia l’impiego di determinate tecniche di interpretazione, non sembrano dunque assolutamente contrapposti nell’uso che ne fa Paolo. Lo dimostra il fatto che l’utilizzo dei testi dell’Antico Testamento da lui citati non è assolutamente arbitrario, ma particolarmente accurato nel rendere il loro significato originale nei rispettivi contesti[73]. Le regole ermeneutiche tuttavia non sono usate in modo neutro, ma alla luce dell’avvenimento che ha determinato la sua vita. Sottolinea M. Hooker: “La differenza fondamentale tra Paolo e i suoi contemporanei non è, dunque, una questione di metodo, dato che egli usa tecniche che ad essi erano familiari, anche quando a noi risultano estranee. [La differenza] consiste piuttosto nell’accettazione del fatto che Cristo stesso è la chiave del significato della Scrittura”[74]. E la ragione di questa differenza si basa, secondo la studiosa, sul fatto che, avvicinandosi alla Scrittura, “Paolo parte dall’esperienza cristiana e spiega la Scrittura alla luce di questa esperienza”[75]. In questo modo Paolo ci insegna una volta per tutte che la contemporaneità di Cristo è l’unica in grado di svelare il senso della Scrittura. Ieri come oggi.

La stoltezza dei Gàlati

Ma come può conoscere Cristo uno che non abbia la grazia che ha avuto Paolo di una apparizione di Cristo risorto? Come può partecipare all’avvenimento che gli consenta di fare esperienza di Cristo per poter conoscerlo? Quanto accadde nelle chiese della Galazia è altamente significativo e funge da esempio spettacolare.
I galati hanno avuto notizie di Cristo attraverso l’annuncio del vangelo grazie all’attività missionaria dell’Apostolo. L’accoglienza di questo annuncio da parte dei Galati ha consentito loro di fare l’esperienza che Paolo sintetizza meravigliosamente in queste parole: “Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”[76]. E continua, poco oltre: “E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!”[77]. L’incorporazione in un gruppo ben preciso, la comunità cristiana, attraverso un gesto determinato, il battesimo, dopo aver accolto il Vangelo, il cui contenuto è condiviso da Paolo con gli altri apostoli, da allora ha permesso ai Gàlati di avere esperienza della novità che Cristo ha introdotto nella storia. Questa esperienza è talmente reale che Paolo si appellerà ad essa per aiutare i Galati ad affrontare una situazione in qui si sono venuti a trovare.
Infatti, poco dopo essi vengono importunati da alcuni intrusi i quali annunciano “un altro vangelo”, che per la loro salvezza insieme con la fede in Cristo richiede la circoncisione e le opere della legge[78]. I Gàlati così si trovano davanti due versioni del ‘vangelo’, e devono prendere una decisione. Sorpreso dalla rapidità con cui essi stanno passando a un ‘vangelo’ diverso da quello che ha predicato[79], Paolo scrive la lettera per dimostrare che “non ce n’è un altro”, ma solo quello che ha annunciato loro e ciò che li sta ammaliando non è altro che una deformazione dell’unico Vangelo di Cristo[80]. Per questo, nella prima parte racconta la sua storia personale: come ha conosciuto il Vangelo per rivelazione e come questo Vangelo che predica è l’unico Vangelo, corrispondente a quello degli altri apostoli, come dimostra il fatto che quando lui aveva esposto il vangelo che predicava tra i gentili direttamente alle colonne della Chiesa di Gerusalemme (cioè Pietro, Giovanni e Giacomo), non solo non gli imposero né aggiunsero nulla di nuovo[81], ma gli tesero la mano in segno di comunione, come riconoscimento della “grazia a me conferita”[82] sulla via di Damasco.
Ma Paolo non si limita a questo, e nella seconda parte della lettera fornisce ai travagliati Gàlati gli argomenti con cui potersi difendere dagli attacchi che stanno ricevendo. Paolo sa per esperienza personale che fu portato a convincersi della verità di Cristo dall’esperienza del suo incontro con Lui. Tenendo conto di questo fatto, non risulta strano che l’apostolo in questa seconda parte cominci appellandosi all’esperienza dei Gàlati. Ecco il testo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. Noi infatti per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo”[83].
In questo passo Paolo mette in primo luogo davanti agli occhi dei Gàlati il fatto che abbiano ricevuto lo Spirito, e i prodigi che questo Spirito ha operato tra loro. Come osserva acutamente Vanhoye, “nel contesto si tratta necessariamente di un fatto osservabile, constatabile. Altrimenti non potrebbe servire come argomentazione”[84]. Proprio perché è un fatto verificabile, i Gàlati hanno potuto fare l’esperienza dello Spirito, e ciò permette a Paolo di appellarsi a questa esperienza come criterio decisivo per chiarire il dilemma che ora devono affrontare. Per questo, – ha sottolineato J. Dunn – “appellarsi all’esperienza da parte di Paolo non è un fatto periferico o casuale. È al centro della sua intenzione di trattenere i Galati all’interno del suo vangelo”[85].
Prima di continuare è necessario soffermarsi brevemente sul valore del verbo pascheinperché sul suo significato è nata una vivace discussione. La ragione di questa discussione si basa sul fatto che il verbo è sempre usato con il significato di ‘soffrire’ [86]. Per questo motivo commentaristi antichi e moderni hanno interpretato l’epathete di 3,4 come un’allusione ai patimenti sofferti dai Gàlati in conseguenza della loro adesione alla fede[87]. Se ora la abbandonassero, passando a un altro ‘vangelo’, tutte queste sofferenze sarebbero state vane. Tuttavia la letteratura greca documenta anche casi in cui paschein viene usato rispetto a esperienze favorevoli, positive, prive di sofferenza[88]. Per questo recentemente alcuni studiosi hanno interpretato il verbo in questione nel nostro testo nel senso di ‘sperimentare, fare l’esperienza di qualcosa di positivo’. A loro parere, questo è l’unico significato adeguato al contesto in cui compare il verbo nel nostro testo, in cui Paolo si sta appellando all’esperienza positiva vissuta dai Gàlati quando hanno ricevuto lo Spirito e, in seguito, ai miracoli che lo Spirito ha realizzato fra di loro[89]. Secondo F. Mussner, “tosauta può designare unicamente i doni dello Spirito e i ‘prodigi’ che discendono da lui (cfr. 5,5). Il verbo paschein ha anche un significato positivo: ‘sperimentare’ (qualcosa di buono)”[90]. Il fatto che Paolo non alluda in nessun altro passo della lettera a sofferenze vissute dai Gàlati – diversamente da quello che dice, per esempio, dei Tessalonicesi, che ricevettero e mantennero la loro fede fra gravi tribolazioni[91] –, è per questi studiosi una conferma dell’uso positivo del verbo in tale contesto. Dato che il verbo paschein può avere il significato più neutro di ‘sperimentare’, e che la scelta del significato è determinata dal contesto, orientato interamente verso un tenore positivo, possiamo concludere che con esso Paolo si sta riferendo alle esperienze positive vissute dai Gàlati dal momento in cui decisero di ricevere il vangelo di Paolo. Scrive R. Longenecker “Per questo tosauta epathete deve essere interpretato con ogni probabilità come riferito all’insieme di esperienze spirituali positive”[92].
Ma che cosa significa ‘ricevere lo Spirito’[93]? È ben noto che a partire da H. Gunkel le opinioni sono concordi e si possono sintetizzare con queste parole: “La teologia del grande apostolo è un’espressione della sua esperienza, non delle sue letture… Paolo crede nello Spirito divino, perché lo ha sperimentato”[94]. Uno degli ultimi studi sulla questione non ha fatto altro che confermare questo convincimento: per Paolo lo Spirito era una realtà sperimentata[95]. Ma Paolo, nella sua concisione, non ci ha facilitato: non ci fornisce una descrizione esplicita dei fatti cui si riferisce, che certamente erano noti ai Gàlati (ma non a noi). Possiamo però essere certi che non furono troppo diversi da quelli enumerati in Gal 5,22, quando Paolo fa un elenco dei frutti che lo Spirito produce in coloro che lo ricevono: “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. In altre parole: il cambiamento dell’io. Inoltre, nel nostro passo troviamo l’altra espressione energôn dynameis, “colui che opera miracoli”. Si tratta di un’azione presente, lo dimostra il participio presente energôn. Come leggiamo in 1Cor, dove “il dono di far guarigioni” e “il potere dei miracoli” (energêmata dynameôn) sono attribuiti allo Spirito. Questi fatti accertabili costituiscono l’esperienza dei Gàlati. “Qui l’obiettivo è ricordare ai Gàlati un genere di esperienze sufficienti a dimostrare che essi hanno ricevuto lo Spirito escatologico”[96].
Dopo aver messo loro di fronte le grandi cose (tosauta epathete) di cui hanno fatto esperienza, può porre la questione decisiva: “Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge [perché siete fedeli alla legge ebraica] o perché avete creduto alla predicazione [all’annunzio cristiano]?”[97]. Se saranno onesti e leali rispetto all’esperienza vissuta, potranno riconoscere attraverso di essa che le grandi cose successe a loro non hanno origine dall’osservanza della legge, dato che il Vangelo predicato da Paolo non la includeva come fattore determinante, ma soltanto dall’ascolto della fede. Soltanto la fede è l’origine dei frutti che vedono con i loro occhi! Questo è il motivo per cui conviene che continuino ad abbracciare il Vangelo che ha prodotto tra loro tanti frutti preziosi.
Appellandosi dunque alla loro esperienza, Paolo offre al contempo il metodo per uscire dallo stato di perplessità in cui si trovano: tutte queste esperienze positive non significano nulla per voi, quando vi trovate di fronte al dilemma se continuare con lo Spirito o tornare alla legge giudaica?[98]. Saranno state vane? Come l’esperienza sulla via di Damasco, cui l’Apostolo ha fatto allusione all’inizio della lettera, ha permesso a Paolo di riconoscere la verità su Cristo (e quindi di scegliere ragionevolmente tra le due interpretazioni della persona di Gesù, quella degli ebrei seguaci del sinedrio e quella cristiana), così l’esperienza dei Gàlati è ciò che permette loro di decidere in modo ragionevole tra le due interpretazioni del Vangelo. Certamente Paolo è cosciente del fatto che sono esperienze di natura molto diversa. Ma questa differenza non sminuisce la loro validità. Nel caso di Paolo l’esperienza dell’incontro con Cristo risorto gli fa conoscere in modo diretto, immediato, la vera realtà di Cristo. Nel caso dei Gàlati il modo per arrivare a conoscere la realtà profonda di Cristo ha seguito un altro corso, non per questo meno adatto a giungere a una certezza. I Gàlati hanno davanti segni palpabili della Sua presenza in mezzo a loro grazie all’azione condotta dallo Spirito attraverso la predicazione, il battesimo, eccetera. Sanno bene che questi segni sono iniziati a partire dal momento in cui hanno deciso di ricevere il Vangelo di Gesù. Sono dunque segni che non possono essere spiegati ragionevolmente se non con la presenza di Cristo risorto in mezzo a loro a opera dello Spirito. Per strade diverse, tanto Paolo quanto i Gàlati ne possono essere certi. Questo dovrebbe convincerli della verità del vangelo di Paolo. La loro esperienza permette che giudichino da soli, senza dipendere né da Paolo né dagli intrusi. Qui risiede il valore dell’appellarsi di Paolo all’esperienza: è in essa che si rende trasparente la verità del Vangelo che Paolo ha predicato loro.
Tutto ciò permette di comprendere la reale portata dell’accusa di ‘stoltezza’ mossa da Paolo ai Gàlati. “O stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati”[99]. Con essa – commenta Vanhoye – “quello che [Paolo] cerca è di provocare la presa di coscienza da parte dei Galati della loro ‘stoltezza’”[100]. In che cosa consiste la loro stoltezza? Nonostante quanto si è reso evidente grazie alla loro esperienza – ossia che la loro adesione al Vangelo ricevuto da Paolo ha procurato straordinari benefici, come documenta ciò che è loro successo –, i Gàlati sono sul punto di lasciare tutto per seguire un altro ‘vangelo’. La stoltezza dei Gàlati, la loro posizione irragionevole, si basa sul non voler sottomettere la ragione all’esperienza vissuta. Se non si lasciassero ammaestrare da questa esperienza, essa risulterebbe realmente vana. Come ha acutamente notato J. Bligh, “se l’esperienza non ha insegnato loro nulla, allora è stata vana”[101]. Invece di fornire ulteriori motivi a favore della loro adesione a ciò che hanno ricevuto, tutto quello che hanno vissuto fino a ora sarebbe paradossalmente stato inutile. “L’esperienza cristiana dimostra l’efficacia salvifica della fede senza alcun riferimento alle opere della legge. Questo fatto iniziale è fondamentale. Il seguito deve corrispondere all’inizio, deve mantenersi sullo stesso piano. I Gàlati però stanno cambiando livello. Dal livello spirituale, dove li ha posti la fede, scendono al livello carnale. È assurdo. Non sono coerenti con la loro propria esperienza. Dio, invece, è coerente, non inizia in un modo per continuare in un altro. Come ha iniziato, così continua, ossia comunica lo Spirito non attraverso le opere della legge, ma attraverso l’ascoltare/ricevere la fede”[102].
Ancora una volta dunque ciò che permette di discernere tra le diverse interpretazioni non è una questione tecnica, ma teologica, o meglio cristologica. È l’avvenimento di Cristo morto e risorto – che per opera dello Spirito si rende presente nella Chiesa e attraverso la Chiesa, comunicandosi alla ragione e alla libertà dell’uomo – a rendere possibile un’esperienza che permette di decidere in ogni momento rispetto alle diverse interpretazioni che possono comparire nel corso della storia umana.

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L’esperienza di Paolo e dei Gàlati ci ha mostrato qual è la condizione per conoscere Cristo: la partecipazione all’avvenimento in cui Lui si rende presente all’esperienza umana. In questo senso possiamo dire che Paolo e i Gàlati sono una documentazione che la conoscenza è sempre un avvenimento. Nessun altro metodo può darci una vera e propria conoscenza. Perché? Vediamolo nel caso di Paolo coi Gàlati.
Tanto l’uno quanto gli altri sono nati in un popolo che li ha introdotti alla realtà attraverso una cultura. A entrambi, così situati storicamente, quindi dotati della tipica precomprensione, va incontro Cristo (direttamente come nel caso di Paolo, oppure attraverso la Chiesa, come per i Gàlati) provocando in loro il dilatarsi della ragione, chiamata a riconoscere la novità che hanno davanti, come succedeva ai discepoli, la cui “capacità di credere”, dice H.U. v. Balthasar, era “completamente sostenuta ed operata dalla persona rivelatrice di Gesù”[103]. Avvenimento cristiano e ragione non si contrappongono nella conoscenza. Al contrario, come si vede dalla questione del velo mosaico, l’avvenimento cristiano libera la ragione dai limiti cui normalmente si conforma seguendo le usanze della propria cultura e tradizione, la restituisce al suo dinamismo più specifico, ossia all’aprirsi liberamente alla comprensione della totalità della realtà, e nella sua novità radicale, come presenza di Dio tra gli uomini, la porta gratuitamente più in là di dove arriverebbe con le sue proprie forze[104].
Quando la libertà di coloro che incontrano l’avvenimento cristiano non si sottrae all’attrazione che la Sua presenza provoca in essi, inevitabilmente si impegnerà a verificarne la corrispondenza con tutti gli aspetti della realtà, giungendo così alla certezza che permette la loro ragionevole adesione. Il caso dei Gàlati dimostra chiaramente che l’annuncio cristiano non viene accettato in modo acritico. Se Paolo si appella all’esperienza dei Gàlati, è precisamente perché non pretende una resa incondizionata al Vangelo – che sarebbe assolutamente indegna della loro natura razionale di uomini –, ma li invita semplicemente a sottomettere la loro ragione all’esperienza vissuta, di modo che quella non si erga a criterio di giudizio avulso da questa, rendendo così vana, inutile, la storia che hanno vissuto, e diventando così irrimediabilmente stolti. L’onestà e la lealtà verso l’esperienza vissuta permette invece di aderire in modo pienamente ragionevole e insieme pienamente libero.
Il caso di Paolo e dei Gàlati è paradigmatico in ogni momento della storia poiché, come per loro, l’avvenimento di Cristo diventa contemporaneo nella vita della Chiesa per ogni uomo, nelle sue circostanze storiche e culturali, permettendogli di vivere la stessa esperienza che consente di raggiungere la certezza sulla verità di ciò che essa annuncia. Questo è così perché, come dice H. Schlier, “il significato ultimo e peculiare di un avvenimento, e pertanto dell’avvenimento stesso nella sua verità, si apre sempre solo a un’esperienza che gli si abbandoni e in questo abbandono cerchi di interpretarlo, a un’esperienza che è vera, se è adeguata all’avvenimento in questione”[105].
Che questo è il metodo non soltanto dell’inizio, ma anche della continuazione della conoscenza ce lo testimonia Paolo nella Lettera ai Filippesi. Infatti l’unico modo di progredire nella conoscenza di Cristo è accettare di partecipare all’avvenimento di Cristo ora, nella potenza della sua risurrezione e la comunione delle sue sofferenze: “Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti. Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù”[106]
Consapevole che progredire in questa conoscenza è un dono, come è stato un dono l’inizio, Paolo invita i cristiani di Efeso a implorare Dio Padre “affinché egli vi dia, secondo le ricchezze della sua gloria, di essere potentemente fortificati, mediante lo Spirito suo, nell’uomo interiore, e faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, perché, radicati e fondati nell’amore, siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza, affinché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”[107].

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[1] Benedetto XVI, Omelia ai Primi Vespri della chiusura dell’Anno Paolino, 28 giugno 2009.
[2] Il fatto che anche coloro che rifiutano l’interpretazione di questo cambiamento fornita da Paolo credano nella necessità di offrire una spiegazione alternativa, mostra chiaramente che anch’essi lo riconoscono. Sulla storia dell’interpretazione si possono vedere: E. Moske, Die Bekehrung des hl. Paulus in der exegetisch-kritische Untersuchung, Roma 1907; E. Pfaff, Die Bekehrung des hl. Paulus in der Exegese des 20. Jahrhunderts, Roma 1942; B. Rigaux, Saint Paul et ses lettres. État de la question, Paris-Bruges 1961, 65-82. Si veda anche il classico: G. Lohfink, La conversione di san Paolo, Brescia 1969. Un resoconto più recente delle diverse interpretazioni dell’avvenimento sulla via di Damasco si trova in A.M. Buscemi, San Paolo. Vita opera messaggio, Jerusalem 1996, 40-44.
[3] Gal 1,13-16.
[4] Mc 7,3.
[5] Fil 3, 4-6.
[6] Fil 3,1.
[7] Gal 1,14.
[8] At 22,3.
[9] Fil 3,4-6.
[10] Gal 1,13.16.
[11] De specialibus legibus II, 55.
[12] Cfr. Nm 25, 6-13.
[13] Cfr. 1Re 19,9-14.
[14] Cfr. Gal 1,13.23.
[15] Cfr. BJ 4,534.
[16] Cfr. Rm 10,2-3.
[17] Cfr. Rm 12,2-3.
[18] At 9,26-29.
[19] C.K. Barrett, Paul. An Introduction to His Thought, Louisville 1994, 10 [La teologia di san Paolo. Introduzione al pensiero dell’apostolo, trad. it. di M.E. Maffeis, Cinisello Balsamo 1996].
[20] Gv 20,14.18.20.25.27.29; Mt 28,10.17; Lc 24,37.39.
[21] S. Légasse, Paul Apôtre, Paris 1991, 62 [Paolo apostolo. Saggio di biografia critica, Roma 1994].
[22] L. Giussani, Il miracolo del cambiamento, Esercizi della Fraternità di Cl 1998, supplemento a “Tracce”, n. 7 luglio-agosto 1998, 13. Sull’esperienza si vedano: J. Mouroux, L’esperienza cristiana, Brescia 1956; H.U. von Balthasar, Gloria. 1. La percezione della forma, Milano 1975, 201-392; J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale: saggi sulla fede e sul ministero, Brescia 1986; A. Bertuletti, Il concetto di esperienza, in AA.VV., L’evidenza e la fede, Milano 1988, 112-181; A. Scola, Esperienza cristiana e teologia. Note introduttive, in Questioni di antropologia teologica, Roma 1997, 199-213.
[23] Cfr. A. Scola, Prometeo o il Risorto? Spiritualismo, tentazioni moderne e cristianesimo, Rimini 1998, 3. Afferma H.U. v. Balthasar, Gloria: “la capacità di credere dei discepoli è totalmente sostenuta ed operata dalla persona rivelatrice di Gesù” (162). E poco oltre: “La ragione non può inserire la chiave di volta senza che questa le venga consegnata nell’atto di fede” (174). Già P. Rousselot aveva richiamato l’attenzione sul fatto che la grazia amplifica la capacità di vedere, affinché la ragione non rimanga prigioniera dei suoi stessi criteri (cfr. P. Rousselot, Gli occhi della fede, Milano 1976). Prima di lui, nel 1870, aveva già troncato con un concetto razionalista di ragione H. Newman, Grammatica dell’assenso, Milano 2005.
[24] C. Geffré, Esquisse d’une théologie de la Révélation, in P. Ricoeur et al., La Révélation, Bruxelles 1984, 83: “Non esiste una vera rivelazione fintanto che non vi sia un’interiorizzazione di questa rivelazione in una coscienza umana. Non si può separare l’aspetto oggettivo della rivelazione di Dio nella storia, dal suo compimento nella fede del Popolo di Dio”.
[25] Per la conoscenza che un fariseo poteva avere di Gesù si veda J. Murphy-O’Connor, Paul. A Critical Life, Oxford 1996, 73-77 [Vita di Paolo, Paideia, Brescia 2003].
[26] J. Guitton, Arte nuova di pensare, Cinisello Balsamo 1991, 71.
[27] Paul, cit., 78-79.
[28] G. Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella, Assisi 1995
[29] C.K. Barret, Paul, cit. 11.
[30] G. Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella, Assisi 1995.
[31] J. Murphy-O’Connor, Paul, cit., 79.
[32] Cfr. 2Cor 5,16.
[33] Per un approccio al testo, cfr. il classico J. Cambier, Connaissance charnelle et spirituelle du Christ dans 2 Co 5, 16, en Littérature et Théologie Pauliniennes (Recherches Bibliques V), Bruges 1960, pp. 72-92. Più recente: C. Wolff, True apostolic Knowledge of Christ: Exegetical Reflections on 2 Corinthians 5.14ff, en A. J. M. Wedderburn, Paul and Jesus. Collecte Essays ( JSNT.SS 37), Sheffield 1989, 81-98.
[34] A favore della tesi che kata sarka modifichi il verbo, cfr. F. C. Baur, Vorlessungen über neutestamentliche Theologie, Leipzig 1864, 131; A. Sand, Der Begriff ‘Fleisch’ in den paulinischen Hauptbriefen (Biblischen Untersuchungen 2), Regensburg 1967, 177; C. F. D. Moule, Jesus in New Testament Kerygma, en O. Bocker-K. Haacker (ed.), Verborum Veritas (Fst. G. Stählin), Wuppertal 1970, 17-18; J. W. Fraser, Paul’s Knowledge of Jesus: II Cor v. 16 Once More: NTS 17 (1970-1) 293-313, esp. 298; J.-F. Collange, Énigmes de la deuxième Épître de Paul aux Corinthiens (SNTSMS 18), Cambridge 1972, 260-261.
[35] J. Murphy-O’Connor, The Theology of the Second Letter to the Corinthians, 58.
[36] C. Wolff, True apostolic Knowledge of Christ: Exegetical Reflections on 2 Corinthians 5,14ff, in A.J.M. Wederburn, Paul and Jesus. Collecte Essays (JSNT.SS 37), Sheffield 1989, 88.
[37] Opportunamente J.D.G. Dunn, The Theology of Paul the Apostle, Edinburgh 1998, 723 [La teologia dell’apostolo Paolo, Brescia 1999], insiste sul fatto che Cristo ha continuato a essere il criterio valutativo fondamentale.
[38] G. Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella, Assisi 1995.
[39] Fil 3,5-8.
[40] Una presentazione sintetica dei punti che Paolo è obbligato a rivedere si trova in J.D.G. Dunn, The Theology of Paul, 723-726.
[41] Cfr. J.-N. Aletti, Jésus-Christ fait-il l’unité du Nouveau Testament?, Paris 1994, 23-72 [Gesù Cristo. Unità del Nuovo Testamento?, Roma 1995].
[42] J. Fitzmyer, Teología de San Pablo. Síntesis y perspectivas, Madrid 1975, 62. Cfr. inoltre K. Stendhal, Paul Among Jews and Gentiles, 71.
[43] J. Jeremias, Per comprendere la teologia dell’apostolo Paolo, Morcelliana 1973, 33. Cfr. anche S. Kim, The Origin of Paul’s Gospel, Tübingen 1984, 269-329 e 355-358; C. Dietzfelbinger, Die Berufung des Paulus als Ursprung seiner Theologie, Neukirchen-Vluyn 1985, 90-147.
[44] J. Gnilka, Paulus von Tarsus. Zeuge und Apostel, Freiburg-Basel-Wien 1996, 185 [Paolo di Tarso. Apostolo e testimone, trad. it. di V. Gatti, Paideia, 1998].
[45] J. Fitzmyer, Teología de San Pablo, cit., 64-65.
[46] In questo Paolo non si differenzia da altri esponenti della Chiesa antica, come ha segnalato B.S. Childs, Teologia biblica. Antico e Nuovo Testamento, Casale Monferrato 1998: “È chiaro che la testimonianza della Chiesa primitiva sul piano neoetico parte dalla consapevolezza di Cristo resuscitato e soltanto in un secondo momento torna all’AT, che utilizza come strumento della sua predicazione” (510).
[47] Questo testo è stato utilizzato in vari modi come principio ermeneutico: nella Chiesa antica e medievale come punto di appoggio per distinguere tra senso letterale e senso spirituale, nella Riforma come base per la contrapposizione fra Legge e Vangelo, eccetera. Un resoconto sulla questione del dibattito su questo capitolo si trova in S.J. Hafemann, Paul, Moses and the History of Israel. The Letter/Spirit Contrast and the Argument from Scripture in 2 Corinthians 3, Tübingen 1995, 1-35.
[48] Generalmente si considera 2Cor 2,14-7,4 la più chiara apologia del ministero di Paolo. Afferma J. Lambrecht, Structure and Line of Thought in 2 Cor 2,14-4,6, Biblica 64 (1983): “2Cor 2,14-7,4, situato fra le sezioni autobiografiche 1,8-2,13 e 7,5-16, è generalmente considerato una parte indipendente di questa lettera paolina e spesso è chiamato più specificamente Apologia di Paolo, una difesa del suo ministero” (344-345); vi si può trovare anche la bibliografia corrispondente.
[49] Seppure in questi versi (3, 8-11) si possa riconoscere un’allusione a Es 34, è necessario tener conto dell’acuta osservazione di A. Vanhoye, L’interprétation d’Ex 34 en 2 Cor 3,7-14, in L. de Lorenzi (ed.), Paolo Ministro del Nuovo Testamento (2 Co 2,14-4,6), Roma 1987: “Dobbiamo evitare di deformare la prospettiva del testo, imponendogli la nostra. Nel testo, questa annotazione ha esclusivamente una funzione subordinata. La gloria del volto di Mosè non è menzionata di per sé, ma come indizio destinato a comprovare la gloria del ministero” (162). Riteniamo che questa osservazione valga anche per le altre allusioni, che si trovano nel resto del capitolo, a Es 34 e al suo contesto.
[50] 2Cor 3,11.
[51] C.A. Hickling, The Sequence of Thought in II Corinthians, Chapter Three: NTS 21 (1975): “Non è necessario aggiungere che il fallimento di Paolo nella conversione di un numero significativo di giudei possa essere stato un argomento particolarmente pungente dell’attacco sferratogli dai suoi avversari come oratore pubblico… e come missionario” (393). J. Lambrecht, Structure and Line of Thought in 2 Cor 2,14-4,6: “Paolo qui pensa in primo luogo ai giudei che non credono in Cristo, cui contrappone i cristiani” (378). M.E. Thrall, Conversion to the Lord. The Interpretation of Exodus 34 in II Cor. 3:14-18, in L. de Lorenzi (ed.), Paolo Ministro, cit.: in questo capitolo “Paolo sta rispondendo a una critica. L’origine più immediata di questa critica è la chiesa di Corinto, ma l’origine più remota sono i giudei non credenti della città, i cui commenti increduli e sprezzanti sul vangelo e il ministero dell’Apostolo hanno cominciato a preoccupare, per lo meno, alcuni membri della chiesa” (197). È noto che, mentre il tema della sezione precedente (3,7-13) è il ministero apostolico, a partire dal versetto 14 inizia una nuova sezione, che verte sull’incredulità dei giudei. Nella discussione seguita alla presentazione del lavoro di M.E. Thrall, il gruppo francofono teorizzò che all’inizio del capitolo seguente (4,2-3) si offre una spiegazione del vincolo che unisce i due temi: “L’incredulità di alcuni è una possibile obiezione contro la gloria del ministero evangelico” (241). Cfr. inoltre S.J. Hafemann, Paul, Moses and the History of Israel, 367-368; L.L. Belleville, Reflections of Glory. Paul’s Polemical Use of the Moses-Doxa Tradition in 2 Corinthians 3,1-18 (JSNTSS 52), Sheffield 1991, 215.
[52] Questo passo ha dato origine a una vasta produzione letteraria. Oltre ai titoli che citeremo più avanti, si possono vedere: J. Goettsberger, Die Hülle des Moses nach Ex 34 und 2 Kor 3: BZ 16 (1922-24), 1-17; K. Prümm, Der Absnitt über die Doxa des Apostolats 2 Kor 3,1-4,6 in der Deutung des hl. Chrysostomus: Eine Untersuchung zur Auslegungsgeschichte des paulinischen Pneumas: Bib 30 (1949), 161-196 e 377-400; J. Dupont, Le chrétien, miroir de la gloire divine, d’après II Cor., III, 18: RB 56 (1949), 392-411; S. Schulz, Die Decke des Moses. Untersuchungen zu einer vorpaulischen Überlieferung in II Cor 3:7-18: ZNW 49 (1958), 1-30; W.C. Van Unnik, ‘With Unveiled Face’: An Exegesis of 2 Corinthians III 12-18: NT 6 (1963-64), 153-169; H. Ulonska, Die Doxa des Mose: EvT 26 (1966), 378-388; I.I. Friesen, The Glory of the Ministry of Jesus Christ. Illustrated by a Study of 2 Cor 2,14-3,18 (ThDiss VII), Basel 1971; E. Richard, Polemics, Old Testament, and Theology. A Study of II Cor III, 1-IV, 6: RB 88 (1981) 340-367; T.E. Provence, “Who is Sufficient for these Things?” An Exegesis of 2 Corinthians II 15-III 18: NT 24 (1982), 54-81; C.K. Stockhausen, Moses’ Veil and the Glory of the New Coventant (AnBib 116), Rome 1989.
[53] Cfr. 34,29-35.
[54] 2Cor 3,12-13.
[55] Rispetto all’apparente contraddizione tra questa affermazione sulla fine dell’antica legge e il costante ricorrere di Paolo a essa per fondare il suo vangelo, si tenga conto dell’osservazione di A. Vanhoye, Salut universel par le Christ et validité de l’Ancienne Alliance: NRT 16 (1994): “Gli scritti paolini distinguono nettamente due aspetti dell’AT: quello profetico e quello istituzionale. Essi attestano il valore permanente del primo, ma contestano radicalmente il secondo. A parere di Paolo e secondo la lettera agli Ebrei, l’AT come profezia annuncia la propria fine come istituzione; l’AT come rivelazione manifesta il carattere provvisorio della sua legislazione” (819) – per esempio in Rm 3,19; 3,21-22 –. Cfr. anche J.-N. Aletti, Jésus-Christ fait-il l’unité du Nouveau Testament?, cit., 70. Sull’articolato rapporto di continuità e discontinuità fra Antico e Nuovo Testamento, cfr. P. Beauchamp, L’un et l’autre Testament. Essai de lecture, Paris 1976 [Saggio di lettura, Brescia 1985]; ID., L’un et l’autre Testament. 2. Accomplir les Écritures, Paris 1992 [Compiere le scritture, Milano 2001].
[56] C.J. Hickling, The Sequence of Thought, segnala che l’irrigidimento di Israele, citato nel passo dell’Esodo, può essere stato un “fattore che ha fatto passare Paolo dalla scena ai piedi del Sinai all’irrigidimento di molti giudei suoi contemporanei. Obiettivo della discesa dal Sinai era stata infatti la seconda consegna della legge, resasi necessaria per l’apostasia di cui Paolo fa un uso allegorico nella precedente lettera ai Corinzi (10,7-10): come la nuova alleanza di Ger 31,31, questa diakonia di Mosè fu un risultato della disobbedienza del popolo a un’alleanza divina precedente. Il pensiero che il peccato di Israele, alla fine del periodo del Sinai, avesse reso necessaria una nuova azione da parte di Dio ha potuto suggerire la riflessione sul fatto che il peccato persisteva, anche prima della dichiarazione di questa nuova alleanza” (392). Anche S.J. Hafemann, Paul, Moses and the History of Israel, 191-231, ha richiamato l’attenzione sul ruolo rilevante della durezza di cuore degli israeliti dei tempi di Mosè nel contesto in cui è situato il passo del velo (Es 32-34).
[57] 2Cor 3,14-16.
[58] S.J. Hafemann, Paul, Moses and the History of Israel, in uno degli ultimi studi pubblicati su 2Cor 3, insiste sul fatto che il velo non è collocato sopra la Scrittura, ma sui cuori dei giudei quando leggono la Scrittura, e pertanto non ci troviamo di fronte a “un rimando a un occultamento divino della chiave ermeneutica delle Scritture, affinché Israele sia incapace di vedere che il vero significato della Legge è rappresentato da Cristo”. Secondo l’autore, “non è la lettura dell’AT a essere velata, ma Israele quando la legge”. E aggiunge: “Il problema posto dal velo non è dunque un’incapacità conoscitiva dovuta alla mancanza di uno speciale dono spirituale, ma l’incapacità volitiva come risultato di una durezza di cuore che non si lascia toccare dal potere di trasformazione dello Spirito”. L’incapacità non è quindi intellettuale, ma morale. Tuttavia lo stesso studioso riconosce che i due aspetti non si contrappongono, come dimostra questa annotazione: “Koch e coloro che condividono il suo punto di vista hanno ragione sul fatto che 3,14-16 induce a concludere che la possibilità di comprensione della Scrittura è data soltanto a chi si converte al Signore. Ma si ingannano sul motivo” (373-374). Questi due aspetti non devono essere contrapposti perché, come ha dimostrato R. Jewett, Paul’s Anthropological Terms. A study of their use in conflict Settings (AGJU 10), Leiden 1971, per Paolo “il cuore come centro dell’uomo è considerato la fonte dell’amore, dell’emozione, dei pensieri e degli affetti” (448). Ricorda M.E. Thrall, The Second Epistle to the Corinthians (CIC), Edinburgh 1994: “L’attuale situazione è parallela a quella dell’epoca degli eventi del Sinai, sia rispetto al ‘velo’ sul reale significato dell’AT (v. 14b), sia rispetto alla mancanza di comprensione da parte dei giudei” (266).
[59] Rm 1,2-4. Questo non è l’unico caso: si vedano Rm 1,16-17; Gal 3,8; 1Cor 15,3-4.
[60] A. Vanhoye, Salut universel par le Christ et validité de l’Ancienne Alliance, 818-819. D.-A. Koch, Die Schrift als Zeuge des Evangeliums, interpreta la metafora di 3,14 nello stesso senso: “l’occultamento della Scrittura, che nasconde la sua comprensione, è fugato soltanto in Cristo” (337).
[61] Cfr. 34,34.
[62] J.A. Fitzmyer, Glory reflected on the face of Christ (2 Cor 3:7-4,6) and a Palestinian Jewish Motiv, TS 42 (1981), 631. Da quando H. Windish, Der zweite Korintherbrief, Göttingen 1924, ha catalogato questo passo come “midrash cristiano” (112), altri studiosi lo hanno seguito: C.J.A. Hickling, The Sequence of Thought, 380-395; A.T. Hanson, The Midrash in II Corinthians 3: A Reconsideration, JSNT 9 (1980) 2-28. L’uso dell’AT fatto da Paolo in questo testo è stato oggetto di un acceso dibattito tra gli studiosi. Alcuni sostengono che qui Paolo usa il testo di Es 43,29-35 in modo del tutto libero, addirittura contraddittorio rispetto al significato originale del testo. Un resoconto sullo stato della discussione si trova in S.J. Hafemann, Paul, Moses and the History of Israel, 255-263. Fra i sostenitori della reinterpretazione si può annoverare M. Hooker, Beyond the things that are written? St. Paul’s use of the Scripture, NTS 27 (1980) 295-309. Tra i difensori della fedeltà di Paolo al contesto originale: W.J. Dumbrell, Paul’s use of Exodus 34 in 2 Corinthians 3, in P.T. O’Brien & D.G. Peterson (ed.), God Who is Rich in Mercy, Fst. D.B. Knox, Homebush West NSW 1986, 179-194: “Paolo non solo fa un uso aderente al contesto di Esodo 34, ma fonda totalmente su di esso i suoi argomenti con gli interlocutori. Naturalmente sarebbe stato interpretato e applicato in modo diverso da Paolo e dai giudei. Tuttavia, qui per noi la chiave del processo interpretativo è rappresentata dal compimento cristologico su cui Paolo si concentra” (190).
[63] M.E. Thrall, The Second Epistle to the Corinthians, 263 [Seconda lettera ai Corinti, Brescia 2007].
[64] Cfr. M.E. Thrall, The Second Epistle to the Corinthians: “Paolo vuol suggerire che, con l’avvento di Cristo, l’ostacolo alla percezione viene rimosso definitivamente” (266).
[65] M.E. Thrall, Conversion to the Lord, 202.
[66] M.E. Thrall, Conversion to the Lord: “Per Paolo è solo attraverso la conversione al Signore che può aver luogo la corretta comprensione del Pentateuco” (236).
[67] Cfr. D.-A. Koch, Die Schrift als Zeuge des Evangelium, 331. Lo stesso sostiene J.-N. Aletti, Jésus-Christ fait-il l’unité du Nouveau Testament?: “È il principio stesso della lettura delle Scritture a partire da Cristo ciò che Paolo afferma esplicitamente in 2 Cor 3,14. In effetti, dice, i giudei che leggono l’AT (palaia diatheke) senza alcun vincolo con Gesù di Nazaret, il Messia, lo leggono con un velo che non può essere tolto; solo la fede in Gesù Cristo rimuove il velo, ‘perché è in Cristo che esso viene eliminato’. In altri termini, la fede in Cristo Gesù permette l’intelligenza delle scritture” (70).
[68] M.E. Thrall, Conversion to the Lord: “Il riferimento più ovvio è ai giudei non credenti che non si sono ancora convertiti al cristianesimo” (204).
[69] Una presentazione sintetica dell’ermeneutica rabbinica si può vedere in H.L. Strack & G. Stemberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, Roma 1995, che contiene anche la relativa bibliografia.
[70] Per una comparazione tra l’esegesi rabbinica e quella paolina, cfr. J. Bonsirven, Éxègese rabbinique et éxègese paulinienne, Paris 1938; W.D. Davies, Paul and Rabbinic Judaism: Some Rabbinic Element in Pauline Theology, Philadelphia 1980. Per una comparazione con Qumran, cfr. J.A. Fitzmyer, The Use of Explicit Old Testament Quotations in Qumran Literature and in the New Testament, NTS 7 (1960-61), 297-333.
[71] Gal 1,14.
[72] Cfr. P. Stuhlmacher, Vom Verstehen des Neuen Testaments. Eine Hermeneutik. Grundrisse zum Neuen Testament (NTD Ergänzungsreihe 6), Göttingen 1986, 68. Anche J.C. Beker, Paul the Apostle. The Triumph of God in Life and Thought, Edinburgh 1980, ha ripreso questo nuovo punto di partenza per un’autentica ermeneutica della Scrittura: “Nonostante il fatto che la Scrittura in tutte le sue parti è il documento autorizzato, ispirato, della rivelazione di Dio a Israele, Paolo subordina la sua autorità a Cristo come chiave ermeneutica della Scrittura (cfr. 2 Cor 3,15-17). Cristo è il canone all’interno del canone, così Paolo in certi contesti distingue tra lettera e Spirito (2 Cor 3,6; Rm 2,29), tra la legge e la Scrittura (Gal 3,21.22), e tra la promessa e la legge (Gal 3,15-21). Arriva perfino a citare la Scrittura contro la Scrittura quando oppone alle opere della legge la giustificazione per fede (Rm 10,5-9; Gal 3,11-12)” (251-252). Afferma C.K. Stockhausen, Moses’ Veil, 171: “In 2Cor 3,14 e 15, il velo di Mosè permane, non sul suo volto, ma sulla lettura (14) o sulla comprensione della (15) testimonianza scritta di Mosè. Ciò indica che proprio in questo momento è la lettura della Scrittura a essere velata… Di conseguenza, ciò che Paolo propone è un’esegesi cristologica dei libri dell’antica alleanza” (171). Si veda inoltre D.-A. Koch, Die Schrift als Zeuge des Evangelium, 331-341.
[73] Afferma M. Silva, Old Testament in Paul: “Molti suoi utilizzi della Scrittura sono riconosciuti da tutti come compatibili con il loro significato storico. In altri termini, sono numerosissime le testimonianze sul fatto che Paolo inseriva i suoi testi dell’AT nei loro contesti con tutte le precauzioni e nella loro integrità. Anche nei casi in cui le citazioni sembrano vagamente arbitrarie, un accurato esame del contesto più ampio può essere illuminante” (639). Anche C.K. Stockhausen, Moses’ Veil, insiste sul fatto che Paolo dimostra l’“attenzione confacente al contesto dei passi citati” (145).
[74] M.D. Hooker, Beyond the things that are written?, 306. Ugualmente, fra gli altri, J.C. Beker, Paul the Apostle: “Il giudaismo e Paolo condividono le stesse tecniche ermeneutiche, ma il loro principio ermeneutico è profondamente diverso” (252). Per i giudei il cuore della Scrittura è la Torah, per Paolo la chiave della Scrittura è Cristo. Vedasi anche C.D. Stanley, Paul and the Language of Scripture: Citation Techniques in the Pauline Epistles and Contemporary Literature (SNTSMS 74), Cambridge 1992.
[75] M.D. Hooker, Beyond the things that are written?, 305.
[76] 3,26-28.
[77] 4,6. Sul battesimo in Paolo, con un ampio apparato bibliografico, cfr. G.R. Beasley-Murray, Baptism, in Dictionary of Paul and his Letters, cit. 60-66 [Battesimo, in trad. it. cit., 153-163], che descrive il rapporto tra battesimo e Cristo, battesimo e Spirito, battesimo e Chiesa.
[78] Cfr. 4,21; 5,4; 5,2; 6,12.
[79] Cfr. 1,6.9.
[80] Cfr. 1,7.
[81] Cfr. 2,6.
[82] 2,9.
[83] 3,1-5. C.H. Cosgrove, The Cross and the Spirit: A Study in the Argument and Theology of Galatians, Macon 1988, considera Gal 3,1-5 “la chiave decisiva della comprensione paolina del ‘problema della Galazia’” (2). Per uno studio dell’aspetto teologico e retorico del passo, si veda A. Vanhoye, Pensée théologique et qualité rhetorique en Galates 3,1-14, in J. Lambrecht (ed.), The Truth of the Gospel (Galatians 1:1-4:11), Roma 1993, 91-103.
[84] A. Vanhoye, La lettera ai Galati, Roma 1997, 74. Cfr. inoltre H. Betz, In Defense of the Spirit: Paul’s Letter to the Galatians as a Document of Christian Apologetics, in E. Fiorenza (ed.), Aspects of Religious Propaganda in Judaism and Early Christianity, Notre Dame 1976, 99-114.
[85] J.D.G. Dunn, The Epistle to the Galatians, Peabody 1993, 156. Cfr. anche Z.I. Herman, La presenza e l’esperienza dello Spirito nella lettera ai Galati, Ant 59 (1984) 3-51; H.R. Lemmer, Mnemonic Reference to the Spirit as a persuasive Tool (Galatians 3,1-6 within the argument 3:1-4:11), Neotestamentica 26 (1992) 359-388; J.F. Johnson, Paul’s Argument from Experience: A closer Look at Galatians 3,1-5, ConcJourn 19 (1993) 234-237; J.M. Díaz Rodelas, Experiencia cristiana y verdad del Evangelio: Ga 1,11-3,5, RevCatInt Communio 18 (1996) 258-269; H.F. Neumann, Paul’s Appeal to the Experience of the Spirit in Galatians 3,1-5: Christian Existence as defined by the Cross and effeted by the Spirit, JournPentTheol 9 (1996) 53-69.
[86] Cfr. Lc 22,15; 24,46; At 1,3; 3,18; 17,3; 1Cor 12,26.
[87] Cfr. J.B. Lightfoot, The Epistle of St. Paul to the Galatians, London 1865, 135; J.-M. Lagrange, Épître aux Galates, Paris 1926, 60; F.F. Bruce, The Epistle of Paul to the Galatians, Exeter 1982, 150.
[88] Cfr. H.G. Lidell & R. Scott, A Greek-English Lexicon, Oxford 1973, 1346-1347; W. Bauer & W.F. Arnadt & F.W. Gingrich, A Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Christian Literature, Chicago-London 1979, 633-634.
[89] Cfr. 3,3.5.
[90] F. Mussner, Galaterbrief, Freiburg-Basel-Wien 1974, 209 [La lettera ai Galati, Brescia 1987].
[91] 1Tes 1,6; 2,14.
[92] R.N. Longenecker, Galatians (WBC 41), Dallas 1990, 104. Anche E.W. Burton, The Epistle to the Galatians (CIC), Edinburgh 1921, 149: “Un riferimento alle grandi esperienze che i Galati hanno già attraversato durante la loro vita di cristiani, e un richiamo a non lasciare che queste esperienze siano trascorse invano” (149). H.D. Betz, Galatians. A Commentary on Paul’s Letter to the Churches in Galatia, Philadelphia 1979, crede che “l’esperienza cui Paolo allude è l’esperienza dello Spirito (cfr. 3,3)” (134). Cfr. anche J. Bligh, Galatians. A Discussion of St Paul’s Epistle, London 1970, 232; R.Y.K. Fung, The Epistle to the Galatians, Grand Rapids, 1988, 133.
[93] Sullo Spirito in Gal si vedano: H.D. Betz, Spirit, Freedom and Law: SEA 39 (1974) 145-160; G.E. Ladd, The Holy Spirit in Galatians, in G.F. Hawthorne (ed.), Current Issues in Biblical and Patristic Interpretation, Grand Rapids 1975, 211-216; D.J. Lull, The Spirit in Galatia: Paul’s Interpretation of Pneuma as Divine Power (SBLDS 49), Chico 1980. Sullo Spirito nella letteratura paolina si veda anche O. Knoch, Der Geist Gottes und der neue Mensch. Der Heilige Geist als Grundkraft und Norm des christlichen Lebens in Kirche und Welt nach dem Zeugnis des Apostels Paulus, Stuttgart 1975; E. Schweitzer, The Holy Spirit, Philadelphia 1980; J.M. Scott, Adoption as Sons of God: An Exegetical Investigation into the Background of huiothesia in the Pauline Corpus (WUNT 2.48), Tübingen 1992; F.W. Horn, Das Angeld des Geistes: Studien zur paulinischen Pneumatologie (FRLNAT 154), Göttingen 1992; G.D. Fee, God’s empowering Presense: The Holy Spirit in the Letters of Paul, Peabody 1994.
[94] H. Gunkel, Die Wirkungen des Heiligen Geistes nach der populären Anschauung der apostolischen Zeit und der Lehre des Apostels Paulus, Göttingen 1888, 86. La stessa direzione fu seguita dai successivi studi di E.F. Scott, The Spirit in the New Testament, London 1923; H.W. Robinson, The Christian Experience of the Holy Spirit, London 1928.
[95] Cfr. G.D. Fee, God’s empowering Presense, XXI, 1 (“Per Paolo lo Spirito, come realtà sperimentata e viva, rappresentava la questione assolutamente cruciale della vita cristiana, dall’inizio alla fine”).
[96] J.D.G. Dunn, Galatians, 156-157.
[97] Gal 3,5
[98] Cfr. R.N. Longenecker, Galatians, 104.
[99] 3,1.
[100] A. Vanhoye, Pensée théologique et qualité rhetorique en Galates 3,1-14, 94.
[101] J. Bligh, Galatians, 232.
[102] A. Vanhoye, Galati, 76. In questo senso, afferma J.M. Díaz Rodelas, Experiencia cristiana y verdad del Evangelio: “L’incoerenza di cui Paolo li accusa implicitamente consisterebbe precisamente nel fatto che il passo che sono disposti a fare adesso nega il valore dell’esperienza vissuta al momento della loro conversione e anche quelle che stanno continuando a vivere attualmente: è innegabile che allora ricevettero lo Spirito (3,2); e parimenti lo dimostra la sua permanente efficacia nelle opere straordinarie che si continuano a realizzare nel seno della comunità (3,5)” (268).
[103] H.U. von Balthasar, Gloria, 163.
[104] Cfr. J. Ratzinger, La fede e la teologia ai giorni nostri, “L’Osservatore Romano”, ottobre 1996, 7: “Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla nuovamente a se stessa. Lo strumento storico della fede può liberare nuovamente la ragione come tale, in modo che quest’ultima – messa sulla buona strada dalla fede – possa vedere da sé”.
[105] H. Schlier, Grundzüge einer paulinischen Theologie, Freiburg-Basel-Wien 1978, 140. J. Ratzinger, Il Catechismo romano e la catechesi per l’oggi, citato in H. De Lubac, La révelation divine, Paris 1983, 188: “Se … la Bibbia è il condensato di un processo di Rivelazione molto più grande e inesauribile, e il suo contenuto è percettibile al lettore solamente quando costui è stato aperto a questa dimensione più alta, allora il senso della Bibbia non ne risulta diminuito” (188).
[106] Fil 3,7-14.
[107] Ef 3,16-19.

IL MISTERO DI DIO SECONDO SAN PAOLO (Mons. Giuseppe Greco) (Link perché la grafica utilizzata non consente la copia, bello!)

IL  MISTERO  DI  DIO
secondo San Paolo

di

Monsignor Giuseppe Greco

http://www.rotarysiracusaortigia.it/Relazioni/il%20Mistero%20secondo%20San%20Paolo.doc

Il “Codex Pauli”, il più grande tributo all’Apostolo delle Genti

dal sito:

http://www.zenit.org/article-20938?l=italian

Il “Codex Pauli”, il più grande tributo all’Apostolo delle Genti

Verrà presentato in Campidoglio il 13 gennaio prossimo

ROMA, venerdì, 8 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Un’opera monumentale, unica nel suo genere, concepita sullo stile degli antichi codici monastici ed arricchita da una minuziosa selezione di fregi, miniature e illustrazioni, provenienti da manoscritti di datazione diversa dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura. Si tratta del “Codex Pauli”.

L’opera, un tomo unico di 424 pagine di alto valore ecumenico, è dedicata a Benedetto XVI, che ha indetto le celebrazioni per il bimillenario della nascita di san Paolo. La tiratura è limitata a 998 copie numerate.

Per il Codex Pauli è stato creato, inoltre, il font originale “Paulus 2008”, che rispecchia la grafia dell’amanuense della Bibbia Carolingia (IX sec.).

L’opera verrà presentata in Campidoglio, presso la Sala della Protomoteca, il 13 gennaio prossimo alle ore 17:30, in preparazione alla Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani (18-25 gennaio).

Saranno presenti, tra gli altri: il Cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, Arciprete emerito della Basilica di San Paolo fuori le Mura; l’Arcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura; l’Archimandrita Mtanios Haddad, Apocrisario di Sua Beatitudine Gregorios III Laham, Patriarca melkita d’Antiochia e di tutto l’Oriente; padre Edmund Power, Abate di San Paolo fuori le Mura; e il senatore Sandro Bondi, Ministro per i Beni e le Attività culturali. Modererà il giornalista responsabile di Rai Vaticano Giuseppe De Carli.

Il Codex Pauli ospita i contributi inediti, appositamente preparati, del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I; del Patriarca di Mosca e di Tutte le Russie, Kirill; di Gregorios III Laham; del dr. Rowan Williams, Primate della Comunione Anglicana; del dr. Eduard Lohse, Vescovo emerito della Chiesa Evangelica di Hannover; e di molti altri.

L’opera si apre con un’articolata parte introduttiva, organizzata secondo alcune sezioni.

Nella prima, Annus Pauli, viene ripercorsa l’avventura dell’Anno dedicato al bimillenario della nascita dell’Apostolo. Ne sono testimoni privilegiati i Cardinali Tarcisio Bertone, Ennio

Antonelli, Raffaele Martino, Jean Louis Tauran, Jozef Tomko, Antonio Rouco Varela, André Vingt-Trois e Walter Kasper.

Nella sezione Roma Pauli viene ripercorsa la ricca tradizione spirituale, liturgica e artistica dei monaci benedettini, che da tredici secoli custodiscono il sepolcro di san Paolo sulla via Ostiense.

Evangelium Pauli è il titolo della terza parte, che presenta la figura e il messaggio del grande Apostolo in dialogo con le culture e con la sensibilità dei nostri giorni. Il Cardinal Kasper legge san Paolo tra Est ed Ovest; il dottor Antonio Paolucci lo ricolloca tra le radici cristiane dell’Europa; il professor M.D. Nanos lo rapporta con l’ebraismo, il professor D.A. Madigan con l’Islam. Ma molti altri sono gli approfondimenti: san Paolo come cosmopolita, viaggiatore, missionario, apostolo, e modello di dialogo interreligioso.

Nell’ultima parte, Vita Pauli, si affronta l’interrogativo sull’identità di Saulo/Paolo dopo duemila anni di interpretazione, esaltazione, avversione, strumentalizzazione dell’Apostolo e del suo messaggio.

Sfogliando le pagine del Codex, il Paolo di ieri, presente con il testo originale greco, ci raggiunge attraverso la traduzione in lingua corrente. Accanto al corpus paulinum integrale, comprendente le tredici Lettere dell’Apostolo, l’opera offre anche il testo italiano-greco degli Atti degli Apostoli e della Lettera agli Ebrei.

Un’ultima sezione raccoglie un’accurata selezione dei poco conosciuti Apocrifi riguardanti Paolo (Atti di Paolo; Lettere di Paolo e dei Corinzi; Martirio del santo Apostolo Paolo; Atti di Paolo e Tecla; Lettera ai Laodicesi; Corrispondenza tra Paolo e Seneca; Apocalisse di Paolo).

Ogni singolo testo si apre con una presentazione curata dai più noti esegeti di san Paolo e si conclude con una pagina di Lectio divina, secondo la millenaria tradizione monastica.

La presentazione e le introduzioni agli scritti paolini sono di mons. Gianfranco Ravasi, affiancato da autorevoli studiosi, biblisti e teologi, quali il cardinale Carlo Maria Martini, Romano Penna, Rinaldo Fabris, Primo Gironi, Antonio Pitta, Stefano Romanello, Giuseppe Pulcinelli, Paolo Garuti e Marco Valerio Fabbri.

“Il Codex Pauli – spiega padre Edmund Power nella presentazione – è primariamente un atto di venerazione alla Parola di Dio. È la Parola che dà la vita. Questo libro trae la propria ispirazione dalla figura del Dottore delle Genti, figura complessa e spiccata, incapace di nascondersi: le sue Lettere, le sue parole, mostrano in maniera eloquente la sua personalità energica e dinamica”.

“Un uomo che sa essere ironico, perfino sarcastico, eppure mai privo di una parte affettuosa, ispirata, maestosa, che ci fa vedere in lui un uomo ‘ossessionato dal Cristo’ – spiega –. Così anche il corpus del Codex Pauli è un magma di creatività umana, da cui scaturiscono bellezza e amore”.

“Secondo la tradizione monastica, l’arte è lo sforzo d’incarnare una visione interiore ricorrendo alla forma espressiva di una Bellezza in se stessa inesprimibile – continua l’Abate di San Paolo fuori le Mura –. Non tutti riescono a percepirla chiaramente: ecco perché l’opera artistica cerca di spingere ciascun contemplante a orientarsi verso l’unico Dio, quale fonte di ogni bellezza”.

“Chi cerca e ama la bellezza mediante il linguaggio dell’arte si indirizza verso il Divino – sottolinea –. Quest’opera si propone lo stesso fine”.

[Per maggiori informazioni: www.codexpauli.itpaolo.pegoraro@codexpauli.it]

Il Prigioniero del Signore – dell’Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

ancora una presentazione di Paolo, dall’Arcivescovo di una Diocesi, io non mi stanco mai di leggere queste presentazioni proposte dai Pastori delle nostre Diocesi, si coglie in esse, nella loro diversità, nell’unità dell’amore per Paolo, la grande ricchezza dell’Apostolo e della nostra Chiesa, dal sito:

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/96/2008-07/11-167/Il%20prigioniero%20del%20Signore%20(S.%20Paolo).pdf

Il Prigioniero del Signore 

di Giuseppe Molinari

Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

(11 luglio 2008, data presa dall’indirizzo web)

Introduzione
 

Queste brevi riflessioni (fatte soprattutto di citazioni degli Atti degli Apostoli e delle Lettere di S. Paolo) solo dei piccoli squarci sulla straordinaria avventura umana e cristiana di colui che qualcuno ha chiamato il secondo fondatore del Cristianesimo (W. Wrede). Sono anche un invito a riprendere in mano gli Atti degli Apostoli e le Lettere di S. Paolo per entrare sempre di più nel mistero di quest’uomo che ha consegnato tutto se stesso al Signore Gesù Cristo. Fino a diventare “prigioniero del Signore”, come egli stesso si autodefinisce nella lettera ai cristiani di Efeso (Ef, 4,1). S. Bernardino da Siena (il cui corpo riposa nell’omonima Basilica della città dell’Aquila) ha scritto: “Quando la bocca di Paolo predicava ai popoli, come per il fragore di un gran tuono, o per l’avvampare irruente di un incendio o per il sorgere luminoso del sole, l’infedeltà era distrutta, la falsità periva, la verità splendeva, come cera liquefatta dalle fiamme di un fuoco veemente”. Possa l’Anno Paolino (28 giugno 2008-29 giugno 2009) far rinascere in ognuno di noi il desiderio di conoscere sempre meglio l’Apostolo Paolo, per imitarlo, per sentirlo vivo in mezzo a noi, come modello e guida per il cammino della nostra santificazione e per inventare gli itinerari più efficaci per la nuova evangelizzazione. 

+ Giuseppe Molinari

Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

1. Il persecutore  

La prima notizia su Paolo nel Nuovo Testamento, la troviamo dopo il racconto della lapidazione di Stefano, il primo martire. Si dice che “i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane chiamato Saulo” (Atti 7,58). Successivamente si precisa che “Saulo era tra coloro che approvavano l’uccisone (di Stefano)” (Atti 8,1). Così all’inizio della sua storia Paolo viene presentato come il “persecutore”. Saulo (questo il nome con cui Paolo era conosciuto in mezzo agli Ebrei) è uno che ha perseguitato i cristiani. Lo confesserà egli stesso: “Ultimo fra tutti (Gesù) apparve anche a me come ad un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa” (1 Cor. 15,9).

Penso al mondo di oggi.

Penso alla gente di oggi.

Papa Benedetto XVI denuncia in modo vigoroso la dittatura del relativismo: non esistono più verità assolute, ogni uomo si crea la sua verità. e la conclusione è che aumentano gli uomini e le donne che non hanno una fede. Dilaga il relativismo e insieme l’indifferentismo. La fede non interessa più, Dio non interessa più; nasce quasi il rimpianto per i tempi in cui esistevano i cosiddetti “nemici della fede”. In verità ci sono ancora, e ci sono pure i persecutori. Ma sembra crescere in modo pauroso il numero di coloro che non si interrogano più sui problemi fondamentali dell’uomo. Sembra non esistano più coloro che combattano Dio e i cristiani, perché l’indifferenza ha bruciato nel cuore di tutti le domande più importanti. Saulo non era un indifferente. Credeva nel Dio d’Israele, nel Dio dei patriarchi e dei profeti. Nel Dio che aveva creato il cielo e la terra. e si era riservato un popolo, il popolo d’Israele, perché annunciasse le sue meraviglie tra le genti. Perché questo piccolo popolo ricordasse agli uomini di tutta la terra chi era il vero Dio. Racconta sempre il libro degli Atti degli Apostoli: “Saulo, frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al Sommo Sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati” (Atti 9,1-2). Saulo non è un uomo sanguinario, un sadico che gode di vedere i cristiani in galera. E’ un adoratore del vero Dio, il Dio d’Israele, quel Dio che non sopporta idoli. Come recita l’antica preghiera: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore Tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt. 6,4). Saulo, da perfetto israelita, viveva questa fede. Sapeva che il suo Dio era un Dio geloso, che non sopportava dai suoi adoratori altri amori verso altri dei, verso forme non autentiche di religiosità. E i discepoli di Gesù di Nazareth apparivano agli occhi di questo zelante ebreo come una pericolosa setta, che si allontanava dalla religione dei padri. Io credo che la disgrazia più grande dei nostri tempi è la schiera enorme di coloro che non credono più a nulla, non combattono più nessuna battaglia, non sono più capaci di opporsi a Dio, perché Dio per loro, è una parola vuota. Saulo non apparteneva a questa massa amorfa e triste. Egli credeva, amava, adorava il Dio d’Israele. E la sua fede ardente lo portava ad essere persecutore dei cristiani, gli “eretici”. Era un “fondamentalista”. Ma guai a chi non crede più a nulla, non lotta più per nessun ideale, si arrende alla cultura dell’indifferenza che regna nel mondo. Nell’Apocalisse c’è un giudizio terribile per chi è tiepido ed indifferente, per chi non sa decidersi: “All’angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: tu non sei né freddo né caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Apocalisse 3,14-16). Saulo non ha mai appartenuto alla categoria dei tiepidi, degli indifferenti. E’ stato un persecutore convinto. Uno zelo indicibile lo spingeva a perseguitare i cristiani. Credeva di essere sulla strada giusta e questa strada la percorreva con una passione ed una dedizione inarrivabili. Ma Qualcuno lo attendeva lungo la via di Damasco. Per rivelargli un’altra verità, un’altra luce, un’altra passione. Una passione che avrebbe trasformato radicalmente e per sempre la sua vita. 

2. Il convertito 

Sentiamo il racconto degli Atti degli Apostoli: «E avvenne che, mentre (Saulo) era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?” Rispose “chi sei o Signore?” e la voce: “Io sono Gesù che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”» (Atti 9,3-6). Poi si racconta dello stupore dei compagni di viaggio, della cecità che colpisce Saulo, e dell’arrivo a Damasco. Qui c’è l’incontro di Saulo con Anania, che il Signore aveva incaricato di aiutare il persecutore dei cristiani ad aprirsi alla vera fede. Anania, che conosce Saulo e il suo odio verso i cristiani, si mostra perplesso e timoroso. Ma il Signore lo incoraggia: “Va’, perché egli è per me uno strumento eletto, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele ed io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (Atti 9,15-16). Qualcuno ha scritto che dopo la risurrezione di Cristo la conversione di Saulo, che diventerà l’Apostolo Paolo, è il miracolo più grande che viene raccontato nel Nuovo Testamento. Umanamente parlando era impossibile che questo seguace dell’ebraismo diventasse cristiano. Gesù Risorto ha compiuto questo miracolo. Paolo sa che la sua conversione è puro dono di Dio. E lo riconosce chiaramente: “Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è in me” (1 Cor. 15,10). Scrivendo al giovane discepolo e vescovo Timoteo Paolo confessa con stupenda umiltà: “Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia, chiamandomi al ministero; io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, ad esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna” (1 Tm. 1,12-16). E’ bello e commovente sentire Paolo che fa queste confidenze. Ma, soprattutto, le sue parole sono una luce che porta chiarezza alla nostra vita. Il tema della conversione attraversa tutto il libro Sacro, la Bibbia. La conversione interessa ogni discepolo di Gesù. Con l’invito alla conversione si apre la predicazione di Gesù nel Vangelo. E viene spontaneo chiederci: ma noi siamo realmente convertiti? Per Paolo la conversione è stata una rinuncia totale al passato e un consegnarsi senza riserve nelle mani di Gesù Cristo: “Quello che poteva essere per
me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza del mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero una spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”. E ancora: “Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione: solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli io non ritengo di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil. 3,7-13).

Ma neppure per Paolo la conversione è stata facile.

Rileggiamo la Lettera ai Romani : “Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo al peccato (…). Infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto (…). Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene! C’è in me il desiderio del bene; ma non la capacità di attuarlo; infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (…) io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo alla legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,14-23). Ma ormai Paolo non ha più paura di questa lotta contro il male, per continuare a vivere ogni giorno la sua conversione. Infatti conclude con gioia: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rm 7, 24-25). E ancora: “Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono di Gesù Cristo. Poiché la legge dello spirito che dà la vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8,1-2). Paolo ci insegna che il nostro passato, anche se negativo, non può impedirci di aderire completamente a Cristo e al Suo Vangelo. Paolo ci insegna anche che convertirsi non significa essersi sottratti per sempre alla lotta spirituale contro il male. L’importante è credere con tutto il cuore che Gesù Cristo è dalla nostra parte e non ci lascerà soccombere. Soprattutto non permetterà che il nostro peccato ci appaia più importante e decisivo dell’amore di Dio per noi.

Convertirsi è avere trovato ciò che è più importante e decisivo.

Convertirsi è non volgersi più indietro.

Convertirsi è avere imparato ad amare e a sperare.

Convertirsi è sperimentare che ormai la nostra vita non ci appartiene più: dev’essere
donata totalmente a Dio e ai fratelli.

3. L’Apostolo 

Paolo, ormai “ghermito dal Signore” (Fil. 3,12), sente che la sua vita non gli appartiene più. Ma è una vita da donare completamente a Dio e ai fratelli. A questo del resto l’aveva chiaramente destinato lo stesso Gesù Risorto, che gli era apparso sulla via di Damasco. Abbiamo sentito ciò che il Signore risorto dice ad Anania: “Egli (Paolo) è per me uno strumento eletto, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele” (At. 9,15). Tutte le lettere di Paolo sono attraversate da questa ansia missionaria, da questo struggente desiderio di portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo: “Guai a me se non evangelizzo”. Paolo sa, però, che nella sua missione di evangelizzatore non deve e non può confidare in se stesso, ma solo nel Signore. Non può annunciare se stesso, ma solo Gesù Cristo Crocifisso: “Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunciarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di
sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1 Cor. 2,1-5). In una delle sue lettere, per rispondere ad alcune accuse dei suoi aversari, Paolo si vede costretto a….fare il proprio elogio di Apostolo. E’ un piccolo saggio (prezioso) per aprire uno squarcio sulla sua incredibile e multiforme attività missionaria. Scrive Paolo: “Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio,veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non frema? (…) A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani” (2 Cor. 11, 21-29.32-33). Paolo, malgrado le prove che il Signore permette anche nella sua vita di Apostolo, non si scoraggia. Continua imperterrito la sua corsa per annunciare il Vangelo a tutti. Così scrive infatti ai Corinzi: “Investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo; al contrario, rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza, al cospetto di Dio” (2 Cor. 4,1-2). E ancora: “Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi siamo i vostri servitori per amore di Gesù. E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor. 4,5-6). Paolo è consapevole che la missione affidatagli da Cristo è sublime. Ma non dimentica mai la sua piccolezza, il suo niente. E, soprattutto, non dimentica che questa vita sulla terra è solo un prepararci a quella vita che durerà per tutta l’eternità, accanto al Signore Risorto. Ecco perché l’Apostolo riesce a trovare sempre la forza e la gioia per andare avanti: “Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti noi che siamo vivi veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita. Animati, tuttavia, da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: “Ho creduto, perciò ho parlato”, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche voi con Gesù e ci porrà accanto a Lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perchè la grazia, ancor più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’inno di lode alla gloria di Dio. Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor. 4,7-18). Paolo è l’apostolo che può dichiarare con mite fermezza la sua purissima intenzione di essere al servizio di Dio e dei fratelli, con una dedizione immensa, una passione grande e una tenerezza incredibile: “Da parte nostra non siamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto” (2Cor. 6,3-10). Sono tantissime le testimonianze che ci rivelano la gigantesca statura spirituale e morale dell’Apostolo Paolo. Ma ci piace concludere queste brevissime annotazioni con una scena che desta sempre tanta commozione nel cuore di chi la rilegge nel libro degli Atti degli Apostoli: l’addio agli anziani di Efeso. Sono le pagine che ci mostrano quanto amore e quanta dedizione sincera accompagnavano Polo nei suoi viaggi missionari. E veniamo anche a scoprire quali legami profondi si creavano tra l’apostolo, i responsabili delle varie comunità e i fedeli che aveva incontrati. Paolo, come ogni vero apostolo si rivolgeva alle persone, non alle masse, conosceva i volti dei suoi, non era interessato al numero degli adepti. Ed ecco il racconto degli Atti: «Da Mileto (Paolo) mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: “Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà(…). Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi. Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l`eredità con tutti i santificati. Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere! ». Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave» (Atti 20,17-37). In quegli abbracci e in quei baci è custodita una ricchezza di incontri, di sentimenti, di legami unici tra l’Apostolo e tutti i fratelli e sorelle della comunità di Efeso. Una storia che possiamo solo intuire ma che, per quel poco che riusciamo ad immaginare, testimonia in modo luminoso l’autenticità, l’intensità, la profonda umanità e l’altissimo profilo spirituale dell’avventura apostolica di Paolo di Tarso.

4. Il Testimone 

Gli Atti degli Apostoli ci presentano almeno tre grandi viaggi missionari di Paolo. Ma è difficile circoscrivere tutta l’attività missionaria dell’Apostolo. Sappiamo che dopo questi viaggi si era recato a Gerusalemme per portare le collette raccolte soprattutto in Macedonia e in Acaia. Sappiamo che in occasione di questa visita a Gerusalemme ci fu un subbuglio provocato contro l’Apostolo da alcuni giudei della provincia d’Asia che accusavano Paolo di aver violato l’area sacra del Tempio e di aver tentato di introdurre nel luogo sacro alcuni gentili. Il tribuno della coorte romana lo sottrasse al linciaggio della folla dei giudei. Paolo si difese sia in pubblico, di fronte ai giudei della città, sia di fronte al Sinedrio. Si difese anche a Cesarea Marittima, di fronte al procuratore romano Antonio Felice e davanti al suo successore Porcio Festo. Fu proprio di fronte a quest’ultimo che Paolo, cittadino romano, si appellò all’Imperatore e fu perciò deferito a Roma. E’ bello rileggere direttamente negli Atti il viaggio di Paolo a Roma, pieno di pericoli e drammatici imprevisti. Un viaggio che fu ugualmente una continua evangelizzazione (Atti 27 e 28). Giunto a Roma, Paolo vi trascorre, sotto custodia militare, due anni, nella casa che aveva preso a pigione: “Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento”. Si conclude così il racconto degli Atti degli Apostoli. Si era negli anni tra il 58 e il 63 (dopo Cristo). Dopo questo momento non abbiamo date e notizie sicure. Sappiamo però che la morte di Paolo avvenne sicuramente a Roma, sotto l’Imperatore Nerone, e fu una morte violenta. Fu un martirio, con l’accusa, forse, di appartenere ad un gruppo sovversivo. Fu la morte di chi fino all’ultimo volle testimoniare la sua fede e il suo amore a Gesù Cristo. “Martirio”, secondo il termine greco da cui questa parola deriva, significa appunto testimonianza. Fino all’ultimo Paolo ha voluto testimoniare che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, è il Messia promesso dai Profeti, è l’unico Salvatore del mondo. Ma possiamo meditare su altri aspetti della straordinaria testimonianza dell’Apostolo. Paolo ci testimonia che l’essenza della vita cristiana è aver trovato Gesù, amarlo e vivere di Lui e per Lui. Lo scrive nella lettera ai Galati: “In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal. 2,19-20). Paolo ci testimonia e ci ricorda che la vita cristiana è tutta qui, nel poter ripetere come lui: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. Tutto il resto viene dopo. E nel resto c’è il cammino verso la santità, l’impegno personale nella vita spirituale, l’impegno sociale e politico, l’impegno per la pace, l’impegno nel custodire la creazione, l’impegno a fare di tutta l’umanità l’unica famiglia dei figlio di Dio. Un grande teologo del nostro tempo (Karl Rahner) ha scritto che il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà. Paolo lo aveva detto duemila anni fa. Paolo ci testimonia anche una fede rocciosa e sicura nel Cristo Risorto. Rileggiamo la lettera ai Corinzi: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor. 15,12-20). Paolo ci testimonia anche la certezza che nel messaggio di Gesù e nella vita cristiana ciò che conta veramente è la carità, l’amore. I cristiani di Corinto, gli stessi a cui Paolo ricorderà che senza la fede nella risurrezione tutto il cristianesimo crolla, non sapevano fare buon uso dei carismi, cioè dei vari doni che lo Spirito dà abbondantemente a ogni membro della Chiesa, per il bene di tutti, l’Apostolo ricorda che c’è una “via migliore di tutte”: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1Cor. 13,1-10). E Paolo conclude: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1Cor. 13,13). Ed infine Paolo ci testimonia che l’amore che Gesù ci ha rivelato è Egli stesso. E’ Cristo l’amore di Dio fattosi carne in mezzo a noi. e chi si affida totalmente a questo amore ha vinto ormai ogni paura. Quante paure, ogni giorno, vengono a turbare la nostra esistenza! Fra tutte la paura più brutta e pericolosa è quella che ci spinge a dubitare dell’amore di Dio. E’ anche la tentazione più terribile del cristiano. Paolo ci racconta come ha vinto questa paura: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall`amore di Cristo? Forse la tribolazione, l`angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun`altra creatura potrà mai separarci dall`amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm. 8,31-35.37-39). Non dimentichiamo mai questo grido gioioso di Paolo. E nessuno potrà mai rubarci la speranza e la salvezza. Nessuno potrà mai separarci da Gesù Cristo Signore nostro, che ci ha amati e ha dato se stesso per noi

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