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LA CHIESA ORTODOSSA SULLE ORME DI SAN PAOLO APOSTOLO

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LA CHIESA ORTODOSSA SULLE ORME DI SAN PAOLO APOSTOLO

(Pensieri di un Metropolita Ortodosso)

1. Introduzione
Ringrazio particolarmente per l’invito fraterno a partecipare a questo Convegno, importante dal punto di vista ecumenico, pastorale e sociale.
Ogni Convegno, di conseguenza anche questo, il nostro, costituisce una riflessione sulla responsabilità per il percorso della testimonianza cristiana e del suo ruolo nel mondo di oggi, angosciato e travagliato, bisognoso di modelli e soluzioni per i propri gravi problemi.
Sono lieto e mi congratulo con il Professore Farrugia e con il Prof. Busattil della Fondazione di Malta, per l’invito che tocca anche la Chiesa dell’Oriente, la Chiesa di Costantinopoli, il Patriarcato Ecumenico, in quanto la mia umile persona, è Metropolita della Chiesa di Costantinopoli.
Il gentile pensiero degli organizzatori di invitare anche la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e Malta del Patriarcato Ecumenico, nella persona del suo Metropolita in questo significativo incontro è per essa un sostegno morale ed un riconoscimento di un prestigio particolare per continuare la sua peculiare missione: testimoniare e trasmettere la sua ricchissima Spiritualità, fare conoscere ai suoi fedeli la sua fede, il suo culto e la sua Tradizione; costruire Ponti di amore e di pace, di rispetto e fratellanza, di unità e di speranza, indispensabile per la sincera collaborazione, per rafforzare il “Dialogo della Carità” che è la base del “Dialogo Teologico”, per pregare ed affrontare la volontà di Dio: “Che tutti siano una cosa sola”; creare, cosi, un popolo di Dio cosciente; preparare la coscienza per la realizzazione dell’unità, in quanto l’unità sarà dono di Dio; ma (anche) si realizzerà quando l’ideale diventerà coscienza del popolo, cioè vita con preghiera quotidiana, con interessamento morale ed ardente desiderio per il cambiamento della mentalità e del cuore, affinchè l’uomo possa comprendere la sua responsabilità di fronte a Dio ed al suo prossimo.

2. San Paolo e la sua predicazione
Entriamo nel nostro importantissimo tema: “La Chiesa Ortodossa sulle orme di san Paolo apostolo”. Per iniziare dobbiamo sottolineare che san Paolo è per eccellenza il maestro e la guida spirituale, morale e sociale dei santi Padri Greci, i quali hanno conservato nella Chiesa Ortodossa inalterata la dottrina degli Apostoli e dei Concili Ecumenici.
Approfondiamo in alcuni rilevanti temi teologici, pastorali e sociali, che san Paolo sottolinea prioritamente, dando risposte che influenzano i Padri dell’Oriente, e di conseguenza la Chiesa Ortodossa Orientale, che segue la dottrina e le orme di san Paolo.
Secondo san Paolo, Dio non è lontano dall’uomo, al contrario lo ha conosciuto lui stesso ed è stato da lui illuminato e liberato dai limiti del giudaismo, quando ha visto ed ha incontrato la luce della salvezza; ha sentito il mistero, ha compresso il divino intervento, perciò, accompagnato dalla vigilanza e disponibilità a predicare Cristo, è riuscito, lontano dalle passioni della pigrizia e dalla superbia, a trasformare, coll’assistenza della grazia di Dio, il mondo già colpito e travagliato da grandi problemi morali, spirituali e sociali, cambiandone il suo percorso.
È verità indiscutibile che il Vangelo di Cristo, predicato da san Paolo, ha percorso e toccato tutto l’impero Romano. La sua, era una predica di amore, di pace e di unità, nonchè di giustizia, di libertà e di uguaglianza. La sua predicazione ha dato conforto, riposo e solievo spirituale ad ogni uomo stanco e disperato, che si è redento dai suoi peccati, provocando così una rivoluzione interiore, pacifica e salvifica.
San Paolo è l’apostolo della spiritualità greca, è il predicatore della fede in Cristo, che si è affaticato grandemente affinché il seme della fede si diffondesse in tutto il mondo, è il convertitore delle nazioni alla fede in Cristo.
Così, la predicazione di san Paolo (????? t?? ?a????) è chiara, pura, precisa, è ????? di salvezza; è lo stesso “?????” di Cristo che è la predicazione della verità, della vita, della pace e dell’unità. La sostanza di tutto ciò conferma con chiarezza san Paolo, quando dice: “ieri ed oggi lo stesso e nei secoli”.
È diacronico, immutabile nei secoli, acquista oggi un particolare significato, di fronte a questi tremendi tempi di crisi spirituale, morale e sociale, la conoscenza di Cristo che è per la Chiesa Ortodossa il punto di partenza di un percorso di redenzione e di una nuova brillante civiltà, ove la sua base, il suo centro ed il fine unico è la fede cristiana. Da qui si comprende l’importanza della predicazione di san Paolo per la salvezza del fedele Ortodosso che è in sostanza “? ?????”, cioè la predicazione di Cristo che con chiarezza mette in evidenza: “noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” .
In quella epoca, in cui si è rivelato “il mistero del Vangelo, taciuto per secoli eterni” , l’umanità era sotto l’Impero Romano ed aveva come lingua comune quella greca. San Paolo nelle sue predicazioni ha proclamato il “????? di Cristo” e sulle sue orme il popolo si è nutrito e trasformato, diventando popolo fedele di Dio, che è l’Alfa e l’Omega, “? ?? ?a? ? ?? ?a? ? ????µe???”.
Solo il Pantocratore può fermare la distruzione e può rendere possibile la salvezza di tutti coloro che parteciperanno ed ascolteranno la Parola del Signore, espressa da San Paolo.
Scrive ai Galati: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in noi” .
L’apostolo Paolo vive la sua relazione con Cristo sostanzialmente e realmente, anzi con parole vivissime e persuasive:
“Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” .
Anche la lettera ai Filippesi proclama questa verità in modo straordinario: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno”; ho “il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo” .
Ma, pure, il messaggio: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” dichiara la sua assoluta interiore identificazione con Cristo che presuppone non la sua superiorità, ma sottolinea la sua indegnità e la sua minimizzazione: “Io infatti sono l’ultimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio”.
La verità incontestabile che lui professa è la grandezza della grazia di Dio, che, malgrado noi fossimo “ancora peccatori e Cristo è morto per noi” , e ci ha fatto diventare “concittadini dei santi e familiari di Dio” , nominandoci altressi “eredi di Dio e coeredi di Cristo” .
Questa spiritualità di san Paolo costituisce per la Chiesa Ortodossa Orientale un modello ed una norma riguardo i grandi e profondi temi, dal punto di vista spirituale, morale e sociale, dei suoi membri per la loro esistenza, per la loro relazione e comunione secondo la sua parola “cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati quella della vostra vocazione” .
La dottrina della Chiesa Ortodossa Orientale è basata sulle Orme di San Paolo che promuove la lotta per rendere i suoi membri uniti nello stesso Spirito ed i quali, “s??a?????ta?” lottando per la fede di Cristo e costituiscono il corpo della Chiesa stessa, così come si canta durante la liturgia della Pentecoste, che lo Spirito Santo “costituisce tutta l’istituzione della Chiesa” quale Suo donatore.

3. La Cristologia di san Paolo e l’Ortodossia
San Paolo non ha scritto un trattato di Cristologia, però nelle sue lettere, che costituiscono i più antichi testi catechetici e pastorali della Chiesa, c’è la dottrina che ha riasuto ed ha consegnato: “Vi rendo noto, fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi; e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo la scrittura … fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno … che apparve a Cefa e quindi ai Dodici … e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Cristo” .
La Cristologia di san Paolo sulla persona di Cristo, e sul Vangelo, è stata consegnata alla Chiesa ed è diventata un vero tesoro. L’Agiorita san Filoteo (dopo Metropolita di Iraklias e Patriarca di Costantinopoli) espone la Cristologia Ortodossa sulla base dei relativi versi di san Paolo . Dunque osserva: “l’enipostatos e l’immutata immagine del Padre e di sapienza, “la predica (?????) viva ed efficace” e il figlio omoousios di Dio … perfetto lui stesso nella divinità e perfetto nell’umanità, doppio per la natura, unico per l’ipostasi. È lo stesso unico Cristo unigenito e omoousios figlio di Dio … e omoousios figlio della santa Vergine…”
I monaci del Monte Athos vivono in modo particolare questa cristologia, perché loro, guardando nelle profondità del mare desideran trovare la preziosa perla, secondo tutto quello che proclama Abba Isacco: si spogliano dai loro vestiti, cioè, dalle loro passioni, dalle loro cattive abitudini e le loro dipendenze mondane e si gettano nel mare, per trovare la perla, Cristo, il loro Salvatore.
È attuale ricordare il detto di san Gregorio il Teologo, che riferisce che i santi Padri interpretano la teologia in modo particolare e specifico, imitando i pescatori e negando ogni teoria aristotelica .
Fede e pietà cristocentrica, ma contemporaneamente Triadocentrica, come scrive l’Archimandrita Kapsanis Georgios .
Sua Eminenza il Metropolita di Montenegro Amfilochio, che ha studiato profondamente san Gregorio Palamas, osserva: “… L’incarnazione del Verbo di Dio ha dimostrato l’esistenza delle persone della Santissima Trinità …”. .
La preghiera dei Padri Agioriti con la supplica “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbia pietà di me il peccatore”, ripetuta da loro quotidianamente, è conforme al messaggio di san Paolo. “pregate continuamente”, parole divine di preghiera con le quali gli Agioriti sono aiutati per avere come centro della loro vita Cristo e che Lui soltanto può abitare per sempre nella loro anima, per avere “cuore –intelletto di Cristo” , come san Paolo.

4. L’Ecumenicità di san Paolo e la Chiesa Ortodossa
La Chiesa Ortodossa promuove in modo straordinario lo spirito di amore, di libertà e di ecumenicità, che “ha lasciato a noi questo divino iniziatore di Cristo”, per mezzo di molti suoi scritti e delle dure lotte spirituali, risolte alla cura e alla preghiera incessante “affinché si formi Cristo in noi”. .
San Giovanni Crisostomo, il padre dell’amore e del dialogo, era commosso dalla prostrazione che tutta la vita di san Paolo dimostrava sul suo viso la (sinergia) cooperazione tra Dio e l’uomo, la sua immensa ammirazione per la sua missione apostolica; certamente, ha abbandonato tutto per Cristo, ha sofferto, è stato carcerato; è diventato bastione di Cristo fino alla sua morte nella Città Eterna.
Questi preziosi e chiari messaggi sono stati trasmessi nel seno dell’Oriente Ortodosso e questa spiritualità costituisce il duraturo orientamento per vivere in Cristo, come ritorno al vero centro, al Cristo Dio e Uomo.
Infatti, quando Dio ha considerato il tempo conveniente per rivelare a Paolo il suo Figlio Unigenito con la meta di portare al mondo pagano il gioioso messaggio della salvezza; lui “distinto” , (?f???sµ????), segnalato per l’opera della missione alle nazioni; Theofilaktos di Bulgaria riferisce: “è stato distinto non dal punto di vista di diseredazione, ma dal punto di vista pronostico per la sua dignità”.
I Padri dell’Oriente Ortodosso ammettono la missione ecumenica di Paolo, anzi Theofilaktos di Bulgaria rivela: “Mi ha rivelato il Figlio, non soltanto per vedere lui, ma per portare lui anche agli altri. Non soltanto il credere, ma anche l’ordinare, da Dio ha l’esistenza. Come, dunque, dite che io sono stato istituito dagli uomini? Non soltanto, semplicemente, annunziare Cristo, ma “alle nazioni” .
Tutto questo è allineato con la corrispondente missione che il nostro Signore risorto ha affidato ai suoi discepoli, come meravigliosamente descrive l’evangelista Luca: “Ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi della terra”. .
Sappiamo benissimo che, quando Saulo, sulla via di Damasco ha visto la rivelazione di Dio, l’ordine era che egli divenisse servitore e testimone di Cristo per quello che ha visto e che il nostro Signore ha mostrato a lui: “per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprire loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me” .
Degna di menzione è anche la sua allocuzione al re Agrippa, la quale conferma la missione ecumenica di Paolo. “Pertanto, o re Agrippa, io non ho disobbedito alla visione celeste; ma prima a quelli di Damasco, poi a quelli di Gerusalemme e in tutta la regione della Giudea e in fine ai pagani, predicavo di convertirsi e di rivolgersi a Dio comportandosi in maniera degna della conversione” .
Anche su questo punto della missione ecumenica di san Paolo, la Chiesa Ortodossa guarda non soltanto al materiale d’Archivio per una discussione accademica e ricerca poco utile, ma alla sostanza del risultato a cui la Chiesa deve giungere nel corso della sua missione ecumenica nel mondo. Ecco la linea direttiva verso la quale deve camminare la Chiesa, avendo come base e fondamenta la missione ecumenica di Paolo. In questo modo si spiegano la viva potenza e l’illuminata linea della Chiesa, che dialoga con tutto il mondo, tanto con le Chiese Cristiane, quanto con i non Cristiani e con ogni uomo di buona volontà.
Colgo, pertanto, l’occasione per sottolineare un termine, noto oggi a tutti, la globalizzazione. Di solito con esso intendiamo il movimento libero dei prodotti in tutto il mondo, come anche la possibilità degli uomini di recarsi dall’una all’altra città, in qualunque parte che si trovino, basta che abbiamo la possibilità economica; ancora essa significa il rapido movimento degli uomini dall’una città all’altra, la veloce diffusione delle informazioni tramite internet ecc.
La globalizzazione, da una parte, è positiva, utile; dall’altra è negativa, distruttiva. Alcuni sono a favore di essa ed altri sono contro. La maggioranza guarda alla globalizzazione come antidoto alle diverse forme di nazionalismo, razzismo; come antidoto alla xenofobia ecc. Come tutti i principi portati all’accesso diventano degeneranti e nocivi all’umanità intera.
La globalizzazione (?a???sµ??p???s??) deve distinguere dalla Pancosmiotita, che è collegata coll’ordine del Cristo Risorto ai suoi discepoli “Andate e ammaestrate tutte le nazioni”; ovviamente, discutere su questa realtà, dal punto di vista teologico, richiede l’attenta lettura di tutto il pensiero paolino.
Sarebbe più opportuno sostituire il termine Pancosmiotita con il termine più ampio che è Ecumenicità.
Vediamo, dunque, che con l’Ecumenicità Evangelica l’uomo e la sua morale, spirituale e sociale esistenza, si trova al suo centro, contrariamente a quanto scaturito dal termine negativo e soggettivo della ?a???sµ??p???s?? – Globalizzazione nella quale l’uomo si mette a margine, soffre, si annienta con un duro metodo, con diverse modalità e scopi, che usa per servire, per fare guadagnare alcuni; ma il peggiore distrugge popoli e civiltà, sfiducia la libertà, anzi abolisce i principi del diritto e della morale.
Sua Santità il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, parlando a Davos, in Svizzera, si è riferito particolarmente alla priorità della persona umana contro la ricchezza, che caratterizza la globalizzazione come “segno promettendo molto a pochi e poco a molti” per sottolineare che “la Chiesa Ortodossa vive e coltiva l’ideale dell’Ecumenicità spirituale (Icumenicotita), che è una evoluzione della Pancosmiotita, perché proclama che tutti gli uomini, di ogni tribù e lingua e di ogni civiltà, devono essere collegati con i legami dell’amore, della fratellanza e della cooperazione”.

5. L’uomo e la donna nella Chiesa Ortodossa secondo san Paolo
I complicati versetti sul matrimonio e il celibato, scritti da San Paolo si sono comprensibili a san Giovanni Crisostomo, la cui esperienza e spiritualità diventano stabile linea e tradizione nella Chiesa Ortodossa Orientale, nella quale si ascoltano e si commentano con chiarezza e precisione le interpretazioni dei grandi ermeneuti dell’Oriente, come Teodoreto di Ciro , Giovanni Damasceno , Ecumenio Trikis , Teofilatto di Bulgaria ed Eutimio Zigabinos .
San Paolo ha posto le fondamenta teologiche e in modo meraviglioso ha composto ed ha approfondito l’importantissimo capitolo uomo e donna, attribuendo il giusto valore e soprattutto dimostrando il suo ruolo e la sua contestualizzazione nella società di ieri e di oggi.
È di grande significato il suo capitolo sull’esistenza umana, anzi è la vera colonna spirituale e morale sulla quale si basano la vita e la tradizione Ortodossa, non distingue l’uomo dalla donna riguardo alla loro salvezza.
La donna, insegna la dottrina della Chiesa Ortodossa, è stata creata a immagine di Dio, che è “essere indipendente ed esistenza libera … nella sua perfezione … La sua posizione nel percorso del genere umano si ristabilisce nella persona della sempre Vergine Maria”, “… Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge per riscattare coloro che erano sotto la legge; perché ricevessero l’adozione a figli”. .
L’apostolo Paolo annunzia l’uguaglianza fra l’uomo e donna: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. infatti: “Quando venne la pienezza del tempo”. Maria ha partorito il Figlio e Verbo di Dio, il nostro Salvatore Gesù Cristo.
Simbolizza la donna come sposa di Cristo, il quale vince il male e la sua sposa è glorificata. Questa donna è la Chiesa, la nuova Eva, che vivifica il corpo di Cristo, e l’unione fra l’uomo e la donna verrà definita: “Grande Mistero” (Sacramento), e la metterà in relazione con l’unione fra Cristo e la Chiesa.
Ricordiamo la prima donna Cristiana su terreno Europeo Lidia, nella città di Filippi. Evodia e Sintica , Prisca , Damaris in Atene , le quattro figlie di Filippo , come anche Mariam, Trifena, Trifossa, Persida, la madre di Rufo, Giulia , particolarmente Febe; già citata nella Sua la lettera: “Vi raccomando Febe, nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cristo; ricevetela nel Signore, come si conviene ai credenti e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno; anch’essa, infatti, ha protetto molti, e anche me stesso. “Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù;…”. .
Tra le donne è riferita anche la discepola di Paolo Tecla, in Iconio, (festa 24 settembre), la quale è onorata “come protomartire e campione tra le donne”, “la quale ha illuminato con la parola di Dio”, e “ha annunziato, in diverse città, il nostro Signore Gesù Cristo ed ha attirato molti verso la fede in Cristo”.
La Chiesa Ortodossa, con la sua tradizione rileva la verità di san Gregorio il Teologo: “un creatore per l’uomo e la donna, una terra per ambedue, una immagine, una legge, una resurrezione”.
6. Il monachesimo secondo San Paolo e la sua influenza sulla Chiesa Ortodossa.
Diversi momenti della vita religiosa e sociale dell’uomo rivestono particolare importanza per la chiesa Ortodossa. In particolare per la sua vita spirituale e morale San Paolo ne rileva altri punti con particolare profondità, influenzando decisamente in tal modo i Santi Padri del mondo orientale, che lo hanno costantemente come bussola e modello di riferimento anche quando parlano del monachesimo.
Concretamente secondo San Paolo, come già riferito, “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti siete uno in Cristo Gesù” . Sant’Atanasio il Grande, indirizzandosi alla vergine Sinklitikì, consigliandole serietà e forma morale, afferma: “Rigetta il proprio pensiero di donna, prendi coraggio e diventa forte, poiché nel regno dei cieli non c’è né maschio né femmina, ma tutte le donne che hanno compiaciuto Dio saranno annoverate nell’ordine degli uomini” . San Basilio chiama il monachesimo “theian strateian”, vale a dire “esercito divino”. Dice, allora: “la parola non riguarda solo gli uomini, perché anche la femmina, accanto a Cristo, con la sua forza d’animo si piò annoverare nell’esercito. Il servizio divino è effettuato con ambedue, uomini e donne” .
Pure, l’allontanamento del monaco dal mondo comincia con San Paolo che lo fa allontanare dai suoi parenti, dai suoi amici, dalle circostanze mondane e dalle precedenti abitudini.
Il monaco, secondo San Paolo, non ha città e patria, guarda verso l’invisibile e la patria celeste, è soldato del buon esercito, testimone di messaggi vitali, base e meta del monachesimo.
Esso è stato indicato dal nostro Salvatore Gesù Cristo, nato dalla Santissima Semprevergine Madre di Dio, ha vissuto nella verginità, la castità (purezza), il digiuno, la preghiera, la povertà e l’umiltà.
Gli Apostoli vivono l’ideale del monachesimo e l’insegnamento di San Paolo fu alla base di tutti i principi e delle regole della vita monastica, concretizzatesi durante l’epoca di Basilio Magno, il vero organizzatore del monachesimo della Chiesa Ortodossa Orientale.
San Basilio nel suo famoso libro “oroi kata platos kai kat’ epitomin” come anche nei suoi Discorsi Ascetici, afferma che il monachesimo si presenta come vita d’immensa importanza per conquistare il regno dei Cieli e la salvezza. Per questo i suoi canoni (regole) sono considerati autentici ed autorevoli, di grande valore e prestigio sociale per il valore del monachesimo. Allo stesso criterio di valutazione si giunge per quanto ottiene i Concili Ecumenici, i quali hanno confermato (approvato) i suoi canoni sul monachesimo.
7. La comunione nell’attività missionaria di San Paolo e la Chiesa.
San Paolo combatte una grande battaglia per conservare l’unità dei cristiani, ma anche la comunione tra loro. Essa si manifesta con ciò che egli stesso dice ai Filippesi “rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti” .
D’altra parte la città di Filippi riveste una particolare importanza per l’Europa in quanto è stata la prima città a ricevere il messaggio della salvezza.
L’opera che compiono i Filippesi con San Paolo, “dal primo giorno fino ad oggi, non è né di loro, né di lui”. Senza dubbio, l’ha cominciato un altro che lo condurrà all’integrazione escatologica, fino al giorno del suo ritorno.
I Filippesi, in comunione con San Paolo sono in comunione anche con Cristo, che compie la salvezza dell’uomo. Grazie a San Paolo abbiamo conquistato la nostra comunione. Suo risultato è quello di rendere i Filippesi partecipi della grazia di San Paolo, perchè egli è partecipe della grazia di Dio: “Ringrazio il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo dal primo giorno fino al presente e sono persuaso che colui che ha iniziato in voi questa opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. E’ giusto, del resto, che io pensi questo di tutti voi, perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa, sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Infatti dio mi è testimone del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri ed irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio” .
Parole, queste, che dimostrano il profondo senso di comunione e di unità tra San Paolo ed i Filippesi, esprimendosi con frasi di tenerezza. Perciò grida con sicurezza: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” .
E questa comunione e unità con Cristo daranno a San Paolo la forza e l’esultanza per gridare, pieno di gioia e coraggio: “Dio mi è testimone”.
L’unità ontologica si manifesta nella Chiesa quando i fedeli e il clero sono uniti con Cristo costituendo un corpo indivisibile, indissolubile, unito dal legame dell’amore reciproco con il riferimento a Cristo. E’ indiscutibile che l’apostolo affronti le grandi difficoltà ed i problemi, come anche la divisione e le separazioni con umiltà e comprensione, ma anche con vera gioia, perché alla fine in un modo o nell’altro si deve annunziare Cristo, salvatore dell’umanità: “purchè in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene” .
Ancora sottolineiamo: l’unità della fede e l’amore reciproco conducono all’attività dei fedeli il cui cuore ed anima sono miei, caratteristica principale della comunità cristiana. L’umiltà di Cristo, come si esprime nell’inno cristologico, è il modello per i cristiani e l’unità. E’ lo stesso Cristo che, “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome: Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” .
Oggi esiste una grande realtà: l’unità dell’Europa. Questa verità rende più possibile la necessità dell’unità della cristianità divisa.
Il dialogo è il più prezioso mezzo per arrivare all’unità. Esso riveste il carattere di priorità ed i Santi Padri teologi del mondo ortodosso orientale lo hanno esercitato con sincerità e fraternità, sperando nella pace e nella prosperità. Essi l’hanno accettato, credendo nella sua forza spirituale, morale e sociale. Così come hanno fatto Crisostomo, Basilio, Gregorio, salvando così la cristianità e la sua spiritualità teologica e culturale dalle eresie e dagli scismi di quell’epoca, influenzati, senza dubbio, dal profondo messaggio dottrinale di San Paolo.
8. San Paolo e la sua eredità per l’Europa.
La predicazione di San Paolo riguardo al desiderio di Cristo per l’unità dei discepoli, come anche di coloro che hanno creduto alla sua parola ed, in generale, di coloro che costituiscono la Chiesa, è curata da lui stesso con amore, dedizione e speranza.
La sua dottrina ed i suoi messaggi sono, in verità, per le Chiese e le confessioni cristiane di oggi, ma anche per ogni uomo di buona volontà per il quale Gesù Cristo è nato, è stato crocifisso ed è resuscitato, una preziosissima regola di vita.
Le lettere di San Paolo ai Romani, ai Corinzi, ai Filippesi, ai Tessalonicesi, costituiscono testi importantissimi anche per l’Europa. Sono testi di cultura che hanno sviluppato la civiltà e creato in genere le basi per una vita sociale migliore in tutti gli aspetti spirituali e morali.
Le sue lettere sono state riconosciute come preziose testimonianze non solo sotto l’aspetto letterario, ma anche contenutistico, e costituiscono un esempio di verità e di luce indirizzato non solo alla comunità religiosa, ma anche alla società e rappresentano un modello di evangelizzazione per la trasmissione del messaggio dell’amore e della pace, dell’unità e della speranza.
La lettera ai Tessalonicesi costituisce un modello di fede. I cristiani della città sono esempi di fede, di amore e di speranza.
Oggi l’Europa ha bisogno di questa eredità, perché soltanto così la sua confusione, la sua ansia, la sua indifferenza e la sua secolarizzazione saranno sconfitte, e sarà superata la crisi che devasta il mondo intero. L’Europa deve accogliere la parola del Vangelo con tutto il cuore e l’anima.
Dall’isola paolina, Malta, inviamo quel messaggio che è stato ascoltato 20 secoli fa; il messaggio dell’Apostolo Paolo il cui forte sentimento di fede, il cui zelo, la cui disposizione, il cui sacrificio e martirio sono grandi spinte ed occasioni per accogliere la parola di Dio: “Infatti, la parola del Signore rieccheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell’Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, di modo che non abbiamo più bisogno di parlarne”
Ai tempi dei Padri Cappadoci, anche in questo punto San Paolo ha influenzato il mondo orientale, perché sua particolare caratteristica è quella di presentare non tanto una buona comunità ecclesiastica, ma, qualcosa di più, un modello per quanti credono. “Chi, infatti, se non proprio voi, potrebbe essere la nostra speranza, la nostra gioia e la corona di cui ci possiamo vantare davanti al Signore nostro Gesù, nel momento della sua venuta; siete voi la nostra gloria e la nostra gioia” .
9. L’influenza di San Paolo sulla civiltà europea.
San Paolo commuove l’Oriente ortodosso come anche il mondo occidentale per le affermazioni sulla libertà e l’ecumenicità. Il grande pericolo contro la verità e la sapienza di Dio proveniva dalla non comprensione da parte dei capi spirituali e politici.
Lui stesso ha affrontato durante i suoi primi anni questa realtà. La lettera ai Corinzi è testimone di questa situazione.
L’idea del progresso, come anche la storicità dell’uomo, sono due concetti fondamentali introdotti ed affermati grazie al Cristianesimo.
Per i Greci, la natura è il valore, e di conseguenza la scienza è visibile e salvifica.
San Paolo con le sue lettere: (liberazione dalla schiavitù degli elementi del mondo per mezzo di Cristo . Sappiamo molto bene che tutte queste potenze ed autorità note a San Paolo, sono state intese come divinità da parte di alcune correnti gnostiche: “i corpi di questo secolo” .
L’uomo vive sottomesso alla materia, schiavo degli elementi. L’uomo è incapace di trovare sostegno e protezione in sé stesso.
L’influenza di Paolo sulla civiltà europea si è realizzata in modo diretto ed immediato.
L’adorazione di Cristo è creatura non di Paolo, ma della Chiesa di Gerusalemme.
Il misticismo cristiano di Paolo, collegato con Cristo, costituisce il cuore della Cristianità Europea.
Paolo ha potuto realizzare, per la prima volta, una realtà in maniera ammirevole, cioè ha collegato la spiritualità con il modello di Gesù Cristo: un avvenimento storico, di importanza universale, anzi, per la storia dell’Europa un avvenimento unico.
Paolo non era un moralista, non ha creato un sistema di morale. Certamente, tutti i problemi morali della sua epoca, come anche tutti gli argomenti affrontati, non corrispondono pienamente ai nostri, o alle necessità di oggi.
La libertà secondo San Paolo (Pauleia eleutheria) è raggiunta con la liberazione dalla schiavitù ai diversi elementi del mondo. Si crea con l’Apostolo Paolo una nuova situazione, che è veramente un dono divino: l’adozione divina. Però questa libertà non esiste senza l’amore e la comunione con gli altri uomini, con il prossimo: “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati alla libertà. Perché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità, siate al servizio gli uni degli altri” . La libertà ha come obiettivo la carità, l’amore verso l’uomo che è “icona di Dio”.
La libertà è un bene prezioso che per il quale l’Europa lotta.  Domina l’uomo o domina la tecnologia? Secondo San Paolo la nostra libertà in Cristo dipende dalla carità, dall’amore tra di noi.
L’uomo deve abbandonare il proprio IO, abbandonare la sua avidità, svuotare sé stesso, diventare povero per arricchirsi; soltanto così, seguendo l’Apostolo missionario, l’Apostolo dell’amore e del dialogo, l’Apostolo della pace e della libertà, l’Europa diventerà una potenza utilissima non solo per le nazioni europee, ma anche per le altre nazioni non europee. L’Europa libera insegnerà la libertà con la carità, che dona la vera prosperità e il benessere giusto e duraturo.
D’altra parte gli insegnamenti riguardanti il rispetto del “corpo”, delle sue funzioni, dei suoi organi, costituiscono un faro di indirizzo per l’Europa di oggi, perché vengono in modo meraviglioso manifestati la libertà, l’amore e l’unità che costituiscono forza, prosperità, pace e speranza.
Conclusione: l’Apostolo delle Genti Paolo è l’Apostolo della Chiesa Ortodossa.
La sua influenza è una verità incontestabile.
I Padri dell’Oriente Ortodosso trovano in San Paolo la vera dottrina, e, grazie ad essa, salvano diverse situazioni pericolose dal punto di vista ecclesiastico, spirituale, morale e culturale.
Il monachesimo è forza indispensabile e propulsiva per l’unità e la diffusione del Vangelo, però deve essere libero, senza complessi e senza dubbi, ma solo ed unicamente rivolto alla protezione della Chiesa con amore, pace e speranza.
Il monachesimo è una garanzia ed una sicurezza per la Chiesa e la società civile, inquanto la sua Spiritualità è fonte di vita e di ricchezza culturale e cultuale per la cristianità intera e per ogni uomo di buona volontà.
E solo, seguendo le orme di San Paolo, diventiamo veri fratelli, collaboratori necessari per realizzare la volontà di Dio: “che tutti siano una cosa sola”.
Sua Eminenza Reverendissima
Il Metropolita d’Italia ed Esarca per l’Europa Meridionale
GENNADIOS ZERVOS

Nel confronto tra fede e ragione : Il genio di san Paolo

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2008/265q01b1.html

Nel confronto tra fede e ragione

Il genio di san Paolo

di Juan Manuel de Prada

(L’Osservatore Romano 13 novembre 2008)

La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l’impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l’orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra:  poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l’eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo – che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito – deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell’Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell’uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti:  basta leggere il suo discorso nell’Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice:  san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l’annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori – fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici – che potevano accettare l’immortalità dell’anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell’Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole:  la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un « fratello carissimo » nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo – ad esempio – aborrire l’aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto:  « Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…) L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (…) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare ».
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l’anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.

LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE – (anche Paolo)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/quesnel_saggezza_cristiana1.htm

(è una serie di 12 studi – metto il primo dove ci sono riferimenti a Paolo, in particolare Colossesi e Filippesi, gli altri li devo leggere, ma il link per vedere di che si tratta è lo stesso che ho messo sopra!)

Michel Quesnel

LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE – (anche Paolo)

INTRODUZIONE

Considerato che dobbiamo morire…

Non dobbiamo avere paura delle parole. Considerato che dobbiamo morire sarebbe stupido – sì, semplicemente, totalmente stupido – vivere come se la vita presente dovesse prolungarsi all’infinito.
Governare – si dice – è prevedere. Governare la propria vita significa prevedere che essa un giorno finirà, almeno nelle forme che conosciamo. Morire è l’unico avvenimento del nostro futuro del quale siamo certi. È così, semplicemente, così. La morte fa parte del programma. Che non è né allegro né triste.
Chi se ne rallegrasse sarebbe sadico o masochista, anche sospettabile di trarre piacere dalla tragedia o dalle sconfitte dell’ esistenza, avido di ricondurre, ad ogni buon conto, i suoi contemporanei nei ranghi della consolazione a buon mercato nell’aldilà. Chi se ne rattrista si proietta troppo in fretta nel futuro, perché la morte non è necessariamente in arrivo in un batter d’occhio. Se tutto va bene, ci vengono donati lunghi anni per gustare la vita, per amare ed essere amati, per fare festa. E sarebbe stupido non approfittarne. A pensarci bene, allora, rattristarsi del dover morire è davvero ragionevole? La morte non porta forse in se stessa anche una dimensione di liberazione? Chi sarebbe felice di una vecchiaia che si prolungasse all’infinito?
Dobbiamo vivere, dunque, consapevoli di dover morire, noi e i nostri cari. Questo significa che ci saranno delle soglie da varcare, delle rotture da accettare. E che, nell’immediato, dobbiamo organizzare il nostro quotidiano tenendo conto del nulla da cui veniamo e dell’ignoto verso cui andiamo. Questo si definisce saggezza o anche arte di vivere: un invito che comprendiamo quando prendiamo coscienza della nostra fragilità; un bene che molti cercano e che non è privilegio di nessuno, ma che alcuni, poiché avvertono più di altri il piacere di scrivere, cercano di esprimere in parole.
Compatibile con tutte le convinzioni, la saggezza riceve da loro colore e vivacità. Esistono saggezze cristiane, saggezze buddiste, saggezze atee. In parte coincidono, non c’è dubbio, ma non si sovrappongono del tutto. La cosa peggiore sarebbe pensare che una fede religiosa non abbia nulla a che fare con la saggezza, come se il riferimento alla trascendenza la dispensasse.
Certo, san Paolo opponeva la sapienza degli uomini alla follia della Croce. Non esitava a mostrarsi severo di fronte alla saggezza totalmente umana alla quale aspiravano i Corinti. Esiste una ragione per diffidare dall’ essere saggi? Egli stesso non esitò ad offrire ai suoi corrispondenti dei consigli che non sono nient’ altro se non esortazioni alla saggezza. E potremmo dire lo stesso del profeta di Nazareth, che fu anche un saggio. Questa, almeno, è l’immagine che i vangeli danno di lui.
La saggezza che propongo qui è una saggezza cristiana, la mia, nutrita di Bibbia e di riflessioni sul mondo nel modo in cui mi s’impone e cerco di comprenderlo. Essa è contrassegnata dalla mia cultura, dalla mia età – già avanzata -, dalle mie attività ecclesiali ed universitarie, dal mio carattere, dai miei interessi.
È descritta in trentatre corti « elogi » raggruppati per tre, va da Gesù Cristo all’umorismo, passando per il silenzio, per la ricchezza, per l’orgia, per la compassione… li si può leggere come si vuole, indipendentemente gli uni dagli altri. Perché trentatre? È il numero degli anni vissuti da Gesù Cristo, secondo la tradizione. Non pratico la numerologia, ma non mi ripugna mettere in rilievo la simbologia dei numeri. Perché a tre per tre? Perché così si ottengono undici insiemi di tre capitoli. Undici è dodici meno uno, cifra simbolo di incompletezza; tre è la perfezione divina. Ora, la saggezza cristiana tiene conto di questa doppia dimensione della persona umana, imperfetta e limitata, ma destinata a raggiungere, mediante la santità, il Dio perfetto che la chiama.
Consapevolmente ho intitolato ogni capitolo: « Elogio di… » La parola elogio deriva dal latino elogium, derivante a sua volta dal greco eulogia, che significa « benedizione ». Perché il fondamento del mio pensiero è che, nel suo complesso, vivere è una benedizione, cosa che non nega in alcun modo il tragico – amo molto, d’altra parte, il libro di Qohélet -, e che la saggezza mal si concilia con l’asprezza.

SOTTO IL SEGNO DEL FIGLIO

Elogio di Gesù Cristo

Una sola persona, nella storia umana, è apparsa di nuovo viva dopo essere morta pochissimo tempo prima, appartenendo già al mondo dell’ aldilà: un profeta ebreo del I secolo della nostra era, chiamato Gesù. È resuscitato, non ritornando alla vita che aveva lasciato, così da dover morire di nuovo, ma vivendo un’altra forma di vita le cui caratteristiche oltrepassano le possibilità dell’immaginazione umana. Si può pensare che questa pretesa resurrezione non sia che una favola, una storia inventata da discepoli incapaci di rassegnarsi alla morte del loro maestro, tanto più per il fatto che questi era morto in un modo particolarmente tragico: crocifisso dall’ autorità romana occupante – un supplizio riservato ai popolani e agli schiavi – in seguito alle pressioni di alcuni grandi sacerdoti di Gerusalemme. Ritenere che la resurrezione di Gesù sia una pura invenzione è un’ipotesi sostenibile; in ogni caso, non possiamo averne le prove. Ugualmente, non possiamo provare il contrario: la convinzione che Gesù sia risorto non è dell’ordine della ragione. Nessuna persona neutrale ha potuto verificare il fatto: quelle che lo hanno testimoniato poco tempo dopo la sua morte erano tutte, in un modo o nell’altro, legate a lui. La loro testimonianza può essere rifiutata come priva di obiettività.
Tuttavia la qualità di una convinzione non si misura soltanto in base alle prove che se ne possono dare; essa mostra il suo buon fondamento anche attraverso la sua fecondità. I cristiani non hanno la prova che Gesù sia risorto. Lo credono fermamente e costruiscono la propria esistenza su questa certezza. Si sforzano di vivere la propria fede e di prendere Gesù come maestro. Questo non significa che ce la facciano, perché l’obiettivo è particolarmente alto.
L’immagine di Gesù così come la tramandano i vangeli è quella di un profeta e di un saggio dalle qualità umane eccezionali. Profeta, annuncia l’imminenza del Regno di Dio nel cuore degli uomini e nella storia: un regno di giustizia e di pace la cui sola regola di vita è l’amore. Egli stesso dimostrò, attraverso l’esempio, che ciò era possibile. Taumaturgo attento a tutte le forme di miseria, messaggero di speranza per i poveri, accusatore dei ricchi e dei profittatori, appaga le aspirazioni profonde sia dei giusti che dei peccatori. Saggio tra i saggi d’Israele, dà fiducia alla libertà di ciascuno a tal punto da non imporre nulla. Chiama, suggerisce, esorta, illustra con esempi, utilizzando con abilità esemplare una specifica forma di breve racconto nel quale l’uditore è invitato a sentirsi coinvolto e grazie al quale può essere portato a trasformarsi: la parabola. Ispirarsi all’insegnamento e alla condotta di Gesù costituisce una completa arte di vivere.
L’espressione consacrata dall’uso spirituale è L’imitazione di Cristo. È anche il titolo di un’opera renana del XIV secolo i cui emuli furono notevoli. È opportuno tuttavia non confondere « imitazione » con « mimetismo ». Oggi noi viviamo in condizioni assai diverse da quelle del vicino Oriente del I secolo; noi non siamo
Gesù Cristo; sarebbe illusorio e stupido pretendere di agire come egli ha agito cercando di scimmiottarlo. Imitare permette di prendere la distanza rispetto al modello. Gesù fu attento al poveri e ai piccoli; noi siamo invitati a fare altrettanto, ispirandoci al suo modo di essere. Gesù manifestò ai suoi contemporanei un amore senza limiti, fino ad accettare di morire per mano di coloro che rifiutavano questo amore; si tratta, per ogni cristiano, di un ideale da non perdere mai di vista; ma non vuol dire che si debba ricercare il martirio. Dobbiamo, al contrario, inventare i nostri comportamenti tenendo conto delle condizioni in cui viviamo, con una libertà tanto grande quanto la sua.
Attraverso la Resurrezione, che apparve loro come la risposta divina alla morte ingiusta che gli era stata inflitta, i primi cristiani hanno finito col riconoscere in Gesù qualcosa di più che un profeta e un saggio. Nel tempo, si sono convinti che egli fosse il vero Messia di Israele, cioè il re unto incaricato da Dio di presiedere all’instaurazione di quel Regno di Dio che aveva annunciato, Figlio di Dio egli stesso, Dio incarnato, parola e immagine di Dio Padre. La sua persona trascende la storia: fin dalle origini del mondo egli presiedeva alla creazione del cosmo; e, alla fine, ritornerà a conc1uderne i destini.
Gli avvenimenti del I secolo in Galilea e in Giudea assunsero una dimensione nuova: la vita, la morte e la resurrezione di Gesù non sono solo un momento chiave della storia ebraica; sono il fulcro della storia universale perché, attraverso questi avvenimenti, Dio si è compromesso nei confronti della propria creazione al punto di farsi uomo tra gli uomini. Un inno liturgico, di qualche decennio posteriore alla morte di Gesù, accosta i due aspetti della sua filiazione divina, la filiazione originale e la filiazione mediante la Resurrezione:

Egli è immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura;
poiché per mezzo di lui
sono state create tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni,
Principati e Potestà.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose
e tutte sussistono in lui.
Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa;
il principio, il primogenito di coloro
che risuscitano dai morti,
per ottenere il primato su tutte le cose.
Perché piacque a Dio
di fare abitare in lui ogni pienezza
e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,
rappacificando con il sangue della sua croce,
cioè per mezzo di lui,
le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.
(Col 1, 15-20)

Più noto è tuttavia l’inizio del prologo di Giovanni, che completa, per Gesù, la realtà del fatto che egli è immagine di Dio, affermando che ne è la Parola o il Verbo (il logos).

In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
(Gv 1,1-3)

Queste due affermazioni maggiori della teologia cristiana – Gesù Immagine e Gesù Parola di Dio – meritano tuttavia di essere completate da un’ altra. Attraverso la morte di Gesù in croce l’Onnipotente è diventato il debole per eccellenza e l’anni-Amante. Si è sottomesso alla volontà umana e si è fatto sorprendentemente vulnerabile, accettando una « discesa » sconosciuta alle altre religioni. Si può scrivere del Padre chiamandolo Il Dio crocifisso, come fece il teologo protestante Jürgen Moltmann. In Gesù Cristo, in effetti, Dio piange, Dio soffre, Dio si cancella per non opprimere con la sua presenza, Dio si fa ombra per non accecare con la sua luce. Dio si fa silenzio per non imporre la sua parola. Durante la scena della lavanda dei piedi riportata dal vangelo di Giovanni, si è addirittura inginocchiato davanti ai discepoli, immagine di un Dio che si mette in ginocchio davanti a me ed accetta di guardarmi dal basso in alto, quando, essendo il mio creatore, potrebbe essere il mio padrone. Per togliermi, nel medesimo tempo, qualsiasi voglia di diventare orgoglioso per questo, egli si inginocchia anche davanti a Giuda, proprio colui che sta per tradirlo. Un inno primitivo consacrato al Cristo, conosciuto da san Paolo e riportato in una delle sue lettere, sottolinea l’originalissima prospettiva cristiana, quella del Dio che compie in Gesù Cristo un vero cammino di de-divinizzazione.

* * *

« Egli, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre »
(Fil 2,6-11).

La Legge e il suo spirito (Paolo Apostolo)

http://www.messiev.altervista.org/spiritolegge.html

(sono tre parti – Lo studio è della Chiesa Evangelica, per la maggior parte è condivisibile, ma bisogna fare attenzione alla differenza di mentalità e teologica, vedere su Agostino per esempio)

La Legge e il suo spirito

Al tempo di Paolo il Tanak, cioè la Torah, i Profeti e gli Scritti dell’Antico Testamento, costituivano tutta la Scrittura disponibile.

Ci si pone la domanda: che cosa della Legge Paolo ha attaccato nelle sue epistole? Tutte le lettere di Paolo sono state indirizzate ad assemblee prevalentemente Gentili, che per quanto riguarda la salvezza non avevano nulla a che fare con i 613 comandamenti di Mosè, che invece erano lo stile di vita del popolo ebraico. È comprensibile che Paolo, l’apostolo delle genti, si arrabbiasse con quei pochi giudaizzanti che cercavano costantemente di ostacolare il suo lavoro, imponendo alle assemblee dei Gentili a tenere usanze ebraiche a garanzia della salvezza. Ma sia Gesù che Paolo non hanno mai smesso di pensare che gli ebrei dovevano continuare a mantenere lo stile di vita prescritto dalla Legge in quanto popolo dell’alleanza. Va notato che versi come Mar.7:15, in cui sembra che Gesù non sia d’accordo con le leggi alimentari ebraiche (quando sottolinea la differenza tra contaminazione fisica e spirituale) non dimostrano affatto che aveva abbandonato le leggi sul cibo date a tutti gli ebrei. Si dovrebbe anche notare che degli studiosi ebrei del Nuovo Testamento, come David Flusser nel suo libro Jesus conclude che « Gesù come Ebreo è stato fedele alla Legge ». Il problema a capire le lettere di Paolo si può paragonare a un gioco dove si conoscono solo le risposte ma non si hanno le domande. Siccome le sue lettere sono state scritte per raddrizzare i problemi dei suoi convertiti Gentili, che non avevano familiarità con le vie e leggi di Dio, il lettore superficiale riceve l’impressione che egli era contro la Legge. In realtà, Paolo indirizza i suoi commenti apparentemente negativi in merito alla Legge, verso due gruppi: (1) I non-ebrei che credevano necessario osservare la Legge (in particolare la circoncisione) per la salvezza, e (2) alcuni ebrei fondamentalisti che cercavano di mettere come prerequisito che i non-ebrei dovevano osservare la Legge (in particolare la circoncisione) se volevano essere salvati.
Quando certi cristiani si mettono subito sulla difensiva al sentir parlare della Legge di Dio, viene la tentazione di chiedere: « Quale legge vi fa sentire a disagio? » Questa è una reazione piuttosto allarmante poiché la Legge condanna solo chi viola la legge. Purtroppo, la Chiesa sin dal primo secolo ha frainteso quella Legge che sia Gesù che Paolo avevano amato e vissuto. Ci sono almeno tre fondamentali ragioni per questa carenza d’informazione riguardo la Legge nella chiesa di oggi:
In primo luogo, quando la chiesa primitiva si è gradualmente espansa da Gerusalemme verso Occidente, molti dei convertiti greci e romani che divennero leader della chiesa hanno conservato alcune delle loro pratiche culturali pagane. Di conseguenza, hanno letto le Scritture Ebraiche con la loro mentalità greca. Hanno imposto al testo biblico uno schema interpretativo straniero che ha immesso un’informazione inesatta nella teologia della chiesa riguardo la Legge di Dio, la quale è in contrasto con la Parola di Dio conosciuta da Gesù e Paolo.
Secondo, per Paolo la Legge era Parola di Dio, ed egli non aveva di certo intenzione di dare inizio a una nuova religione opposta alla Scrittura. Le polemiche di Paolo, che sembrano essere dirette contro la Legge, erano in realtà rivolte contro il cattivo uso della Legge da parte di quelli che cercavano di mettere le chiese gentili sotto la schiavitù dell’insegnamento che la Legge serviva loro per la salvezza.
Terzo, l’insegnamento che la Legge è stata sostituita o è in opposizione alla grazia non ha avuto origine con Paolo, ma si è sviluppata a seguito dell’interpretazione eretica che Marcione ha fatto degli scritti di Paolo. Marcione, che morì verso il 160 d.C. respinse completamente l’Antico Testamento. Egli credeva, attraverso l’influenza dello gnosticismo, a una nozione demiurgica che il Dio dell’Antico Testamento era un Dio crudele e diverso. Era così preso dalla convinzione che il messaggio di grazia predicato da Paolo era contro la Legge di Dio che considerava testo ispirato del Nuovo Testamento solo gli scritti di Paolo, cioè quelli che erano in accordo con la sua teologia. Le idee di Marcione erano così estranee alla Parola di Dio che il pastore Policarpo, discepolo diretto di Giovanni, lo chiamò il « primogenito di Satana ». Marcione si recò a Roma verso il 139 d.C. facendo un generoso dono alla chiesa, la quale, dopo aver esaminato le sue idee restituì il denaro e lo scomunicò. Marcione fondò una sua propria chiesa la quale mischiò gnosticismo e cristianesimo, creando una teologia fortemente dualistica e antagonistica al giudaismo, rigorosamente ascetica, celibe, che ha avuto un’influenza distruttiva sulla cristianità. Purtroppo, molti cristiani moderni hanno inconsapevolmente accolto le sue idee.
In seguito Agostino ha sostenuto le idee di Marcione sulla grazia in opposizione alla Legge, e ne ha fatto una parte importante della teologia della chiesa. Al tempo della Riforma, uomini come John Wycliffe con il suo primo manoscritto inglese della Bibbia, e Miles Coverdale il traduttore della prima Bibbia stampata in inglese, sono stati fortemente influenzati da Agostino. Nel 1514 Coverdale fu ordinato sacerdote ed entrò nel Monastero Agostiniano di Cambridge. Il concetto della grazia contro la Legge ha subito un’accelerazione quando il riformatore francese Giovanni Calvino ha approvato questa posizione nella sua « Istituzione della religione cristiana », che divenne la guida delle Chiese Riformate del protestantesimo.

La Legge è durata fino a Giovanni
È comune sentire qualcuno che riporta, fraintendendola, la frase di Luca 16:16, chiedendo poi: « Il Nuovo Testamento non dice che la Legge e i profeti hanno durato solo fino a Giovanni? » Insieme con l’altra domanda: « Oggi non siamo forse sotto l’era della grazia? » Questo versetto è spesso male interpretato. Luca 16 sta semplicemente affermando che era iniziata una nuova epoca nel piano redentivo di Dio (da quel tempo è annunziata la buona novella del regno di Dio…), ma non sta dicendo che con la venuta di Giovanni la Torah è stata abolita o ha perso la sua autorità. Anzi, fino a Giovanni Battista la Torah e i Profeti hanno dato la loro testimonianza predittiva della venuta del regno di Dio; ora, in aggiunta alla loro testimonianza, il regno di Dio viene proclamato direttamente, prima da Giovanni e poi da Gesù.
Inoltre il Vangelo di Luca non poteva significare che la Legge di Dio è stata superata, perché si è continuato ad osservarla anche dopo questa dichiarazione di Gesù. È chiaro che Gesù Cristo, come anche Paolo, non hanno mai contemplato la sostituzione della Legge eterna di Dio (Mat.5:17-20; Rom.3:31).

Gesù andò oltre la lettera della Legge
Spesso Gesù è andato oltre la lettera della Legge e ha istruito i suoi discepoli nello spirito della Legge. Alcuni esempi possono essere visti quando egli ha ammonito che guardare in maniera lussuriosa una donna equivale ad aver commesso adulterio, e chi dice al proprio fratello di essere pazzo merita di andare nella geenna del fuoco (Mat.5:19-30). Ciascuno degli esempi di cui sopra vanno ben al di là della lettera della Legge.
Qual era l’intenzione di Paolo quando ha insegnato che la lettera della Legge uccide? È ovvio che non voleva dire che la Legge di Dio è cattiva e che rende le persone schiave, come qualcuno oggi suggerisce. Paolo ha rispettato la Legge e ha incoraggiato gli ebrei a fare lo stesso (1Cor.7:18). Dovremmo anche ricordare che queste parole sono state scritte per i gentili di Corinto, non per i credenti ebrei (2Cor.3:6). Il fatto è che uno degli obiettivi della Legge è quello di mostrare e definire il peccato. Per i convertiti Gentili cercare di osservare uno stile di vita ebraico senza un disciplinato retroterra di devozione, sarebbe diventata una schiavitù né necessaria né corretta. In questo contesto Paolo dice che la lettera della Legge uccide, ma poi ha continuato dicendo che lo spirito della Legge vivifica. Paolo stava parlando della salvezza dei Gentili e su questo argomento la lettera della Legge è morte ed è solo attraverso il suo spirito che può venire la vita. La sintesi del pensiero di Paolo lo troviamo nella sua dichiarazione ai Romani: «La legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha affrancato dalla legge del peccato e della morte…affinché il comandamento della legge fosse adempiuto in noi, che camminiamo non secondo la carne, ma secondo lo spirito» (Rom.8:2-4).
Il tributo più significativo alla Legge di Dio è venuto dal Salvatore stesso quando disse: «chi li avrà messi in pratica ed insegnati [i comandamenti di Dio], esso sarà chiamato grande nel regno dei cieli» (Mat.5:19). La triste verità è che ben presto, diverse nuove idee hanno preso il posto della Legge di Dio.

Alcuni scopi della Legge
1 – Istruire i credenti su come servire, rendere il culto e piacere a Dio (Sal.19:7,9).
2 – Istruire i credenti su come trattare i loro simili ed avere tra di loro sane relazioni (Lev.19:18; Gal.5:14; 6,2).
3 – Istruire i credenti sul modo di essere felici e prosperare qui sulla terra e manifestare la potenza e l’autorità del regno di Dio nella loro vita (Gios.1:8; Sal.1:1-3; Luca 12:32).
4 – La Legge è stata data, non per salvare, ma per misurare le opere dell’uomo verso Dio e verso il suo prossimo, raddrizzare tutte le questioni contrarie alla sana dottrina (1Tim.1:8-10; 2Tim.2:5; 1Cor.6:1-12; 3:13; Rom.2:12; Apoc.20:12,13).
5 – La Legge è un maestro che ci mostra la nostra colpevolezza e quindi ci conduce a Cristo, la nostra giustificazione messianica (Gal.3:21-24; Rom.3:19).
6 – La Legge ci dà la conoscenza e la profondità del nostro peccato (Rom.3:20; 4:15; 7:7,8).
7 – La Legge rivela la buona, santa, giusta, e perfetta natura di Dio, nonché la sua volontà (Sal.19:7,9; Rom.7:12).
8 – La Legge deve essere confermata o compiuta dalla nostra fede, perciò è chiamata la «legge della fede» (Rom.3:27,31).
9 – La stessa Legge oggi è scritta nei nostri cuori, e per mezzo dello Spirito di Dio possiamo prendere diletto in essa (Rom.7:22).

Maturità umano-cristiana nei frutti dello Spirito Santo (per la festa della Conversione di San Paolo Apostolo)

http://www.spiritosanto.org/mensile/316/page1.htm

Maturità umano-cristiana nei frutti dello Spirito Santo

Testo tratto da una conferenza

di Mons. Giuseppe Molinari

Testo non rivisto dall’Autore

Chi è il cristiano maturo? Non è una domanda inutile. E neppure semplice.
Oggi, purtroppo, c’è una diffusa tendenza a ridurre il problema della maturità alla formazione della propria coscienza in base a dei cosiddetti principi cristiani. A denunciare questo pericolo è soprattutto quel grande teologo che è Hans Urs von Baltasar. Egli scrive: «La coscienza, in quanto fa parte della natura umana, è sì, il fondamento della nostra azione morale naturale, ma in quanto siamo cristiani la nostra coscienza deve avere continuamente uno spiraglio aperto per lo Spirito di Cristo che agisce in noi e su di noi in modo potente, libero ed indipendente. Lo Spirito – è sempre von Baltasar che lo rivendica vigorosamente e giustamente – non si può travasare in bottiglie come princìpi che si possono trovare una volta per sempre: soltanto la fresca vivezza di un ascolto continuo ha la possibilità di recepirlo, addirittura di comprenderlo: ciò suppone una estrema docilità, un incarnato istinto soprannaturale di obbedienza, quindi il contrario di ciò che, nella nostra massiccia grossolanità, noi immaginiamo come « maturità ». Quanto più siamo obbedienti al libero Spirito di Cristo, tanto più possiamo crederci liberi e maturi. Tutto il resto è perfida illusione».
Però, seguendo alcune indicazioni del Nuovo Testamento forse possiamo tracciare le linee portanti di una maturità cristiana intesa nel senso descritto da von Baltasar.
Quando parliamo di situazione di una persona adulta e quindi matura, inevitabilmente ci viene in mente, per contrasto, la situazione del bambino. Anche S. Paolo si serve di questa immagine: «Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ciò che ero da bambino l’ho abbandonato» (1Cor 1,13). Qui S. Paolo si riferisce allo stato presente dell’uomo cristiano che un giorno, nella perfezione della visione di Dio, diventerà adulto proprio mediante la carità: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente…» (1Cor 13,12).
La Lettera agli Ebrei applica anch’essa il termine bambino ad un cristiano che ancora non è né adulto né – quindi – maturo nella sua fede: «Su questo argomento abbiamo molte cose da dire, difficili da spiegare perché siete diventati lenti (letteralmente: pigri) a capire… siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido. Ora chi si nutre ancora di latte è ignaro della dottrina della giustizia, perché è ancora un bambino. Il nutrimento solido invece è per gli uomini adulti (letteralmente: perfetti)…» (Eb 5,11ss).
Sempre S. Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, usa la stessa terminologia spiegandosi ancora più chiaramente: «Io fratelli, ancora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati di Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete, perché siete ancora carnali…» (1Cor 3,1). Sappiamo che, per S. Paolo, l’uomo carnale è l’uomo ancora dominato dal peccato, quindi l’uomo chiuso in se stesso, nel suo egoismo, nella sua visione puramente terrena ed umana della vita. È – in una parola – l’uomo che ancora non è stato liberato da Cristo e ancora non è stato invaso dalla luce e dalla Potenza dello Spirito Santo che trasforma.
Basta rileggere un altro testo di S. Paolo (la Lettera ai Romani), che spiega bene chi è l’uomo carnale: «Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace» (Rm 8,5-8).
Facciamo un esame di coscienza e riflettiamo all’esempio dei santi. Per esempio: S. Francesco. Ecco un uomo che si lascia invadere e guidare dallo Spirito. Perciò vediamo come cambia la sua visione dell’uomo, della vita. Come cambia la sua scala di valori (ad esempio: la preghiera, l’amore verso il prossimo, la povertà, ecc.).
Ancora nella stessa Lettera ai Romani, S. Paolo afferma: «Così dunque, fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne, poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete» (Rm 8,12-13).
Sempre nella Lettera ai Romani, S. Paolo descrive, in modo drammatico, la condizione dell’uomo carnale che, schiavo ormai del peccato, vive in uno stato di dolorosa confusione, e non riesce a capire ciò che compie. E S. Paolo, esprimendo l’angoscia di quest’uomo, confessa: «Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vive un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7,21-24).
Anche nella Lettera ai Galati S. Paolo torna a descrivere questa drammatica lotta tra l’uomo spirituale e l’uomo carnale. E qui la premessa fondamentale è che la carne ha desideri contrari a quelli dello spirito. Da questo disordinato stato di cose nascono non solo i cosiddetti peccati della carne (discordie, inimicizie, contese, impudicizie, orge, ubriachezze, ecc.) ma anche quelli essenzialmente intellettuali (idolatria, magia, controversie, ira, divisioni). Le stesse opere, insomma, che rendevano i cristiani di Corinto «bambini in Cristo Gesù» (1Cor 3,3).
Carne è dunque l’uomo, così come egli ha costruito se stesso in contrasto con l’uomo creato secondo Dio a sua immagine e somiglianza, e rinnovato in Cristo.
Carne è l’uomo separato da Cristo e dal suo Spirito. Ebbene, quest’uomo così descritto da S. Paolo, per ammissione dello stesso Apostolo, è immaturo, è l’uomo « bambino in Cristo », l’uomo in cui lo Spirito di Dio non ha ancora potuto dispiegare tutte le potenzialità della sua potente opera liberatrice e santificatrice. A tutto questo si oppone l’uomo maturo, il cristiano, il « perfetto », l’uomo « spirituale »; cioè l’uomo dominato, posseduto dallo Spirito del Signore in tutte le componenti del suo essere.
C’è dunque un chiaro e stretto rapporto (come tra causa ed effetto) tra l’essere cristiani adulti e lo Spirito di Dio.
Nella Lettera ai Romani, capitolo VIII, ci viene presentato da S. Paolo un quadro estremamente significativo di questo rapporto tra essere cristiani adulti e lo Spirito Santo. Qualche versetto di questo capitolo VIII l’abbiamo già citato. In sintesi S. Paolo afferma che senza la presenza e l’azione dello Spirito Santo non si ha un cristiano autenticamente adulto, perché senza lo Spirito non c’è vera assimilazione a Cristo, vero uomo nuovo della nuova creazione. E S. Paolo conclude: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà Padre! Lo Spirito stesso attesta al nostro Spirito che siamo figli di Dio» (Rm 8,15-16). Gridare: «Abbà, Padre» significa avere la stessa intima, personale esperienza di Cristo.
Abbiamo visto, quindi, che l’uomo spirituale, il cristiano adulto, maturo, è l’uomo guidato, condotto, posseduto dallo Spirito in tutte le sue componenti. Ma vogliamo approfondire ancora il significato di tutto ciò.
E allora, interrogando sempre la Parola di Dio ci viene detto che la piena maturità cristiana, la perfezione, si ha nell’amore. S. Paolo chiama l’amore « vincolo di perfezione » (Col 3,14). Basta poi rileggere l’inno alla Carità, per convincersene chiaramente.
L’Apostolo Giovanni dedica tutta la sua prima lettera chiamata appunto « la lettera dell’amore » a questo fondamentale, meraviglioso tema. Questo amore non è un amore qualunque; questo amore è Dio stesso: «Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4,16). L’infinita perfezione di Dio sta nell’essere amore; così la perfezione dell’uomo è partecipare e vivere di questo amore: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio» (1Gv 4,7). E questo amore ci è donato dallo Spirito Santo: come ci ricorda S. Paolo: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato» (Rm 5,5). S. Giovanni: «Da questo si conosce che noi rimaniamo in Lui ed Egli in noi: Egli ci ha fatto dono del suo Spirito» (1Gv 4,13).
L’amore è il primo dei frutti dello Spirito che non manca mai in nessun elenco del Nuovo Testamento e che occupa sempre una posizione chiave. In Efesini 4,30-32 il comando dell’Apostolo di fare scomparire ogni mancanza contro la carità (asprezza, sdegno, ira, clamore, maldicenza) e l’esortazione ad un esercizio positivo degli atteggiamenti della carità (benevolenza, misericordia, perdono) sono collegati direttamente alla raccomandazione: «Non rattristate lo Spirito Santo di Dio».
E S. Agostino dice, in un modo stupendo: «Interroga il tuo cuore e se trovi la carità verso il fratello, stai tranquillo. Infatti non ci può essere l’amore senza lo Spirito Santo». E aggiunge S. Agostino che lo Spirito Santo «è la forza dell’amore, il movimento verso l’alto che si oppone alla forza di gravità che tende verso il basso, per condurre ogni cosa al suo pieno compimento che è in Dio» (Confessioni XIII, 7,8).
Ora l’esercizio di questo amore, che ha due poli – Dio e i fratelli – nasce dalla comprensione, dalla conoscenza dell’amore che Dio, il Padre, ci ha manifestato donandoci suo figlio Gesù Cristo come «vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). Appare qui un dato molto importante, decisivo, se si vuole anche sconvolgente, per capire in che misura l’amore diventa maturità per il cristiano.
Intanto c’è da notare che senza l’effusione dello Spirito non c’è amore, non c’è comprensione del dono di amore che il Padre ci fa con l’offerta di Cristo, «vittima di espiazione per i nostri peccati». L’amore cristiano, l’amore « vincolo di perfezione » è proprio questo: l’amore crocifisso. Solo un amore crocifisso può farsi autenticamente dono e divenire sorgente di vita. Per amare autenticamente occorre capire, contemplare, entrare nell’ottica di questo amore crocifisso che il Padre ci ha donato in Cristo. La maturità cristiana è tutta giocata sul mistero della croce.
Ci sarebbe da fermarsi a lungo su questo tema. Ci basti sottolineare che è ancora e sempre lo Spirito Santo che ha un ruolo fondamentale e decisivo nell’introdurci nella comprensione del Mistero Pasquale, di questo Amore crocifisso.

Opera dello Spirito Santo: www.spiritosanto.org

S. Giuseppe, S. Paolo, Paolo VI e il Vescovo dell’Eucaristia

dal sito:

http://www.madredelleucaristia.it/ita/art39it.htm

S. Giuseppe, S. Paolo, Paolo VI e il Vescovo dell’Eucaristia

Veglia per la festa del sacerdozio del 13 marzo 2004

Nessuno può amare pienamente Dio e i fratelli se non è attaccato a Gesù Eucaristia. Chiunque rinnega se stesso e prende la sua croce assomiglia sempre di più a Cristo e vola ad altezze spirituali inimmaginabili. Il Vescovo ordinato da Dio ama profondamente l’Eucaristia e ne ha fatto la ragione principale del suo ministero sacerdotale. Chi vive in grazia e si nutre alla Fonte della vita ha le stesse qualità del Cristo e percorre lo stesso cammino, ostacolato alcune volte dalle cattiverie degli uomini che non comprendono i disegni di Dio. L’intensa vita spirituale e le virtù del nostro Vescovo sono presenti in tre grandi santi che hanno posto al centro della loro vita l’Eucaristia, difendendola e proteggendola dai nemici di Dio. È sorprendente vedere la somiglianza, i punti di contatto e lo stesso amore per Dio e il prossimo che accomunano il nostro Vescovo a S. Giuseppe, a san Paolo e a Papa Paolo VI.
Mons. Claudio Gatti ama profondamente questi tre grandi uomini perché, prima di lui, hanno protetto e amato il tesoro più prezioso: l’Eucaristia.

IL RAPPORTO CON L’EUCARISTIA

S. Giuseppe – S. Giuseppe è il santo più grande dopo la Madre dell’Eucaristia: Dio lo ha collocato così in alto e gli ha dato il titolo di « Santo Custode dell’Eucaristia », poiché è stato particolarmente premuroso e attento nel custodire e adorare Gesù durante la sua vita terrena. Nella lettera di Dio del 2 marzo 2002 la Madre dell’Eucaristia ci ha rivelato un fatto mai conosciuto in duemila anni di storia della Chiesa: « Quando Gesù è morto, il mio amato sposo era accanto a me, spiritualmente parlando, e mi aiutava con le sue dolci parole come aveva sempre fatto durante la vita ». E il 3 marzo ha continuato: « Ieri, ho iniziato a parlarvi del mio amato sposo Giuseppe e vi ho detto che lui era presente durante la passione, la morte e la risurrezione di Gesù; era accanto a me e mi aiutava e mi sorreggeva ». S. Giuseppe è rimasto sempre vicino a Gesù.

S. Paolo – Lo stesso amore per l’Eucaristia è stato al centro della vita di S. Paolo. Egli affermava che ci deve essere unione tra i servi di Dio, essi devono costruire l’edificio del Signore senza antagonismi. L’edificio si fonda sull’Eucaristia, unico vero fondamento, e Paolo ammoniva i costruttori ad edificarlo correttamente, cioè rimanendo perfettamente fedeli agli insegnamenti di Cristo. Paolo viveva intensamente la celebrazione della S. Messa ed era cosciente di non poter far nulla senza l’aiuto dell’Eucaristia: « Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi » (II Cor 4,7).

Paolo VI – Nella vita di Paolo VI domina l’Eucaristia. Per Papa Montini in Essa « è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa ». Nell’Enciclica « Mysterium Fidei » definisce l’Eucaristia la « Medicina dell’immortalità ».
Paolo VI, durante il suo pontificato, aveva avuto il sentore che qualcosa si stava insinuando nella Chiesa e andava ad intaccare il bene più prezioso di un cristiano: l’Eucaristia. « Il fumo di satana è entrato nel tempio di Dio », disse in un discorso. L’obiettivo dell’Enciclica Mysterum Fidei, infatti, era di smentire in modo fermo e deciso le opinioni di alcuni che mettevano in dubbio la centralità dell’Eucaristia nella Chiesa. Paolo VI sottolinea che nell’Eucaristia, per la transustanziazione, Gesù è realmente presente in corpo, sangue, anima e divinità sotto le specie del pane e del vino e che la presenza reale perdura anche al di fuori della S. Messa, per cui l’Eucaristia deve essere conservata in modo dignitoso e deve esserle reso il culto dovuto con l’adorazione.
Monsignor Pasquale Macchi, suo segretario particolare, scrive: « Desidero rivelare che mai si privò della celebrazione della S. Messa, neanche nei giorni di malattia, eccetto in occasione dell’intervento chirurgico del 1967. Il Papa seguì anche l’ultima S. Messa della sua vita con intensa devozione e al momento della Comunione egli si protese verso l’Eucaristia « come la cerva anela alle sorgenti delle acque ». Paolo VI abolì il latino dalla liturgia della S. Messa proprio per farla seguire ed amare di più dai fedeli e li esortò a partecipare quotidianamente al sacrificio eucaristico.

Vescovo dell’Eucaristia – Il Vescovo Mons. Gatti ha fatto dell’Eucaristia il centro della propria vita pastorale, riuscendo a raggiungere alte vette spirituali e a dare tutto se stesso alle anime. Egli parla dell’Eucaristia con un tale trasporto che le sue parole arrivano al cuore di chi le ascolta. Il Vescovo, come dovrebbe fare ogni sacerdote della Chiesa, ha basato la sua vita sulla S. Messa che è la forma più grande di preghiera che ci avvicina al Signore, ed ha cercato di portare un rinnovamento, un maggiore amore e una fede più ardente nei riguardi dell’Eucaristia.
Il Vescovo ha fatto dell’Eucaristia la sua ragione di vita ed ha pagato in prima persona per difenderla dagli attacchi dei nemici di Dio.

L’ANSIA APOSTOLICA E LA PREDICAZIONE

S. Paolo – Per S. Paolo la centralità della predicazione è Cristo. Leggiamo nella seconda lettera ai Corinzi: « Noi, infatti, non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù » (II Cor. 4; 5). L’amore grande che ha avuto S. Paolo verso Gesù, lo ha spinto a predicare il S. Vangelo affrontando persecuzioni, sofferenze e fatiche. L’ansia della predicazione della Parola di Dio traspare dall’incisività delle sue parole. Suo unico desiderio è annunciare Cristo con coerenza e chiarezza e non vuole abbagliare con parole forbite i suoi fedeli per trovarne il plauso o per far emergere la propria persona: « Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai se non predicassi il vangelo! » (I Cor 9,16).
L’efficacia e la forza della predicazione di Paolo, che ha portato alla Chiesa grandi frutti spirituali, derivano dalla sua profonda unione con Cristo, dalla presenza della grazia di Dio che ha sostenuto la sua missione d’evangelizzazione: « Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza » (II Cor 3,5).

Paolo VI – La stessa ansia apostolica è stata sempre presente in Paolo VI. Papa Montini ha avuto il difficile compito di portare avanti tre delle quattro sessioni del Concilio Vaticano II ed è stato costretto a prendere decisioni importanti che ha cercato di imporre, mosso dal suo grande amore per la Chiesa e dalla consapevolezza che qualcosa andava cambiato. Tutto ciò lo ha portato ad essere amato e odiato allo stesso tempo. A tale proposito nell’enciclica Ecclesiam suam si denota la preoccupazione di Paolo VI di far sì che la Chiesa si adatti alle circostanze storiche e sociali in cui svolge la propria missione. Essa deve cercare una forma di dialogo e d’apertura verso la civiltà contemporanea per raggiungere più facilmente il cuore di chi è lontano da Cristo, ma questo non deve tradursi in un’attenuazione o in una diminuzione della Verità; l’apostolato non può arrivare ad un compromesso rispetto ai principi di pensiero propri della professione cristiana. Solo rimanendo sempre fedeli alla dottrina di Cristo si può esercitare l’apostolato con forza e vigore.

Vescovo dell’Eucaristia – Il gran desiderio che ebbero S. Paolo e Paolo VI di annunciare Cristo agli uomini è lo stesso che tutti noi abbiamo riscontrato nel nostro Vescovo. La diffusione della conoscenza e dell’amore verso l’Eucaristia, la predicazione della Parola di Dio sono impegni che Mons. Claudio ha sempre cercato di portare avanti, con la forza e l’autorità che gli competono. È stata sempre sua ferma convinzione che avvicinare i fratelli lontani da Cristo non vuol dire scendere a compromessi, ma spiegare alle anime l’importanza della vita di grazia, una vita che comporta sacrifici ed un notevole impegno.
Troviamo nelle parole del Vescovo la sua grande ansia apostolica: « Quando la Madonna ci comunica che anche in altre parti si fanno gli incontri biblici, io provo una grande gioia perché l’ansia del vero sacerdote è che Cristo sia conosciuto, perché quando è conosciuto, è talmente forte, simpatico e vivo che non si può non amare. Si ama il Cristo che si conosce, non si ama il Cristo che non si conosce. Il sacerdote deve cercare di portare avanti quest’ansia e trasfonderla negli incontri biblici che devono essere desiderati, preparati, alimentati dalla meditazione e dalla preghiera e devono essere accompagnati dalla presenza dell’Eucaristia, che, sola, può renderli vivi e vitali, per questo non si può scindere la Parola di Dio dall’Eucaristia ».
Spesso la Madonna ci ha ripetuto: « Avete conosciuto fino in fondo Gesù Eucaristia, questa conoscenza è frutto dell’amore del vostro Vescovo, il Vescovo dell’Eucaristia, il Vescovo del Vangelo; di ogni rigo del S. Vangelo ne fa un poema » (Lettera di Dio, 1 gennaio 2000).

L’UMILTÀ

S. Giuseppe – S. Giuseppe è un autentico esempio di umiltà. Quando la Sacra Famiglia appare alla nostra sorella Marisa, lei ci racconta che S. Giuseppe si colloca sempre un passo indietro rispetto a Gesù e alla sua sposa, ed è sempre la Madre dell’Eucaristia che lo invita a fare un passo in avanti per mettersi al suo fianco. Giuseppe è stato chiamato da Dio a custodire Gesù durante la vita terrena e a questo compito ha risposto con un amore immenso. Ha vissuto il ruolo di sposo e di padre putativo con maturità e responsabilità, perché si è preparato con profonda umiltà a vivere i compiti che Dio gli ha affidato.
L’amore di S. Giuseppe è stato alimentato dall’umiltà, egli ha raggiunto le più alte vette spirituali perché ha vinto il proprio io, ha dominato l’orgoglio ed è vissuto sereno e fiducioso nel nascondimento. Ha riservato il primo posto a Dio, collocando il prossimo immediatamente dopo e tenendo per sé l’ultimo posto.

S. Paolo – S. Giovanni Battista diceva: « Cristo deve crescere e io diminuire ». S. Paolo ha applicato alla lettera questo insegnamento in tutta la sua vita. L’umiltà è anche sincerità e verità, l’apostolo dichiarava apertamente di essere stato chiamato da Dio e di avere dei doni, ma ammetteva prontamente che questi gli venivano da Dio e non da lui. Infatti, nella prima lettera ai Corinzi S. Paolo scrive: « Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio » (I Cor 2,3-5).

Paolo VI – Fra le molte qualità di Paolo VI c’erano sicuramente l’umiltà e la semplicità. Nel Natale del 1957 donò per la costruzione di nuove chiese ciò che di più caro conservava della sua consacrazione episcopale: una stupenda croce pettorale d’oro massiccio con gemme e un anello pastorale con un grosso brillante, dono della nobiltà romana. All’arcivescovo di Milano, futuro Pontefice, piacevano le cose semplici, abolì tutto ciò che non serviva a dare gloria a Dio, ma solo agli uomini, compresa la sedia gestatoria. Sotto il suo pontificato i paramenti liturgici, infatti, persero i ricchi pizzi e tutto ciò che era ridondante e superfluo, affinché si raggiungesse una religiosa sobrietà. Ai vescovi del Concilio Vaticano II donò un anello episcopale molto semplice e privo di pietre preziose: questo gesto inaugurò un nuovo stile. Nel suo testamento scrisse: « I miei funerali siano pii e semplici. La tomba amerei che fosse nella vera terra, con umile segno che indichi il luogo e inviti a cristiana pietà. Niente monumento per me ».

Vescovo dell’Eucaristia – Essere umili, come ci ha insegnato il nostro Vescovo, non vuol dire rinnegare le proprie qualità. L’umile è colui che riconosce la grandezza dei doni che riceve dal Signore e li mette al servizio del prossimo. Il Vescovo ha sempre affermato che senza l’aiuto di Dio non sarebbe mai riuscito ad andare avanti nella grande missione, non ha mai confidato in se stesso, ma nella forza che scaturisce dall’Eucaristia. Egli ci ha invitato a ringraziare Dio per gli insegnamenti profondi che ci trasmette, perché è il Signore che lo ispira. Il Vescovo ci ha sempre insegnato che Dio deve trionfare, non gli uomini, per questo ha scelto delle insegne episcopali dignitose, ma semplici, evitando tutto ciò che può servire solo ad alimentare la vanità umana.

LA PUREZZA

S. Giuseppe – Il giglio è un fiore che descrive il candore e la bellezza dell’anima di S. Giuseppe che ha offerto la sua purezza a Dio.
I puri ricordano la condizione definitiva e finale dell’uomo, ad un mondo che si immerge sempre più nei piaceri disordinati della carne: « Sarete come angeli di Dio nel cielo » (Mt 22,30).
La purezza permette all’uomo di vivere con Dio una relazione più intima e di dedicarsi in modo generoso al servizio dei fratelli, distaccandosi dalle inclinazioni negative. S. Giuseppe è stato pronto e felice di offrire a Dio il giglio della sua purezza, lo stesso giglio che poi con Maria ha offerto di nuovo durante gli anni della vita coniugale.

S. Paolo – « Tutto è puro per i puri, ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro » (Tt 1,15). S. Paolo ha sempre esortato i suoi figli spirituali e le comunità a vivere in maniera casta rispettando e amando il proprio corpo. « Perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dalla impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto non come oggetto di passioni e libidine » (I Ts 4,3). « Fuggite la fornicazione! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo, ma chi si dà all’impudicizia, pecca contro il proprio corpo. O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio e che non appartiene a voi stessi? » (I Cor 6,18-20).

Paolo VI – L’importanza della purezza per Paolo VI emerge chiaramente dall’enciclica, « Sacerdotalis Caelibatus », nella quale parlando del celibato dei sacerdoti, afferma che tale è la condizione che noi tutti avremo in Paradiso: « Il prezioso dono divino della perfetta continenza per il Regno dei Cieli costituisce un segno particolare dei beni celesti, annunzia la presenza sulla Terra degli ultimi tempi della salvezza con l’avvento di un mondo nuovo e anticipa in qualche modo la consumazione del regno, affermandone i valori supremi che un giorno rifulgeranno in tutti i figli di Dio. È perciò una testimonianza della necessaria tensione del popolo di Dio verso l’ultima meta del pellegrinaggio terrestre e incitamento per tutti a levare lo sguardo alle cose superne ».

Vescovo dell’Eucaristia – Per il Vescovo la purezza ha sempre rappresentato uno dei cardini della sua vita di uomo e sacerdote. Spesso ha evidenziato l’importanza di vivere la purezza dell’anima e del corpo per brillare immacolati come astri nel cielo, presentandoci con una veste candida di fronte agli occhi di Dio.

LA CARITÀ E L’AMORE

S. Giuseppe – L’amore di S. Giuseppe nei confronti della sua casta sposa Maria e verso suo Figlio Gesù emerge in ogni sua azione. Ci racconta la Madonna: « Giuseppe era felice di offrire i suoi sacrifici a Dio. Lo amava in modo straordinario. Il mio sposo era pieno di tenerezza e di amore ». La carità di Giuseppe ha raggiunto altezze vertiginose; quando ha lasciato Maria, che era ospite nella casa di Zaccaria ed Elisabetta, per fare ritorno a Nazaret, era lacerato perché sentiva la sofferenza del distacco dalla sua sposa, ma era felice, perché sapeva che la permanenza di Maria era un gesto di carità nei confronti della cugina Elisabetta, anche se nessuno comprese quel gesto. Il grande amore per Dio e la carità provocano invidie, gelosie, incomprensioni e calunnie da parte di chi non è unito al Signore.

S. Paolo – L’inno alla carità riassume il fervente amore che ha caratterizzato tutta la vita di S. Paolo: « Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli ma non avessi la carità sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità, non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità. Tutto crede, tutto spera, tutto sopporta ». (I Cor 13,1-7).

Paolo VI – Leggiamo nella biografia di Paolo VI: « Il desiderio primo era di servire e accontentare ogni persona che si rivolgesse a lui. Ricevendo sacerdoti e laici, la sua attenzione era tutta per loro, come se ciascuno fosse l’unico; così il tempo delle udienze si protraeva ben al di là del mezzogiorno, e spesso la preparazione di discorsi e omelie lo teneva impegnato per ore dopo la mezzanotte ». Tutta la vita di Paolo VI è stata caratterizzata dalla carità. Paolo VI faceva del bene ma non lo faceva sapere agli altri. Il suo segretario particolare ricorda: « L’arcivescovo di Milano ogni venerdì pomeriggio si recava in forma del tutto privata a far visita a infermi o poveri o handicappati: era l’incontro con Gesù nella persona umiliata e sofferente. Nessuno ne era al corrente: con l’autista io lo accompagnavo in poverissime case, talora in veri tuguri o in piccole baracche ».

Vescovo dell’Eucaristia – Il nostro Vescovo non si è mai risparmiato con nessuno e come il grande S. Paolo « si è fatto tutto a tutti per salvare a tutti i costi qualcuno », nonostante alcune volte la stanchezza e la sofferenza pesassero gravemente sul suo fisico molto provato. Egli non ha mai chiuso la porta a chi ha chiesto con sincerità il suo aiuto e si è fatto mangiare dalle anime come un buon pastore. La carità del Vescovo verso i sofferenti e gli ammalati è una perla incastonata nella sua vita di uomo e sacerdote: ha assistito sempre con amore la nostra sorella Marisa e la nonna Iolanda e ama in maniera particolare gli anziani perché sono « le perle di Dio », come li chiama la Madre dell’Eucaristia. I suoi anni di sacerdozio sono stati quarantuno anni di carità e amore verso tutti.

LA FIGURA DEL PADRE

S. Paolo – S. Paolo è stato un autentico padre spirituale per tutti i suoi figli che ha amato ed istruito per condurli alla santità e alla vita eterna: « Ben lo sapete, come fa un padre per i suoi figli, abbiamo esortato, incoraggiato e scongiurato ciascuno di voi a condurre una vita degna di Dio che vi ha chiamati al suo regno e alla sua gloria » (I Ts 2,11-12). Un compito importante di ogni pastore che vuole aiutare le anime a lui affidate è la correzione fraterna, che se fatta con amore e accettata con umiltà porta ad una vera crescita spirituale. « Perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza ». (II Cor 7,10). S. Paolo corregge le sue comunità quando si allontanano dai suoi insegnamenti, con l’autorità e l’amore di un padre. Egli soffre a causa delle mancanze dei suoi figli e teme che non accolgano la correzione e si allontanino dalla sua guida e quindi da Cristo; quando, però, si rende conto che il dolore dei suoi figli è fertile, perché li porta alla conversione, allora il suo cuore esplode di gioia per i frutti spirituali ottenuti e dimentica le sue sofferenze.

Paolo VI – Paolo VI, nell’enciclica « Sacerdotalis Caelibatus », ha evidenziato la figura del pastore come padre per i suoi figli spirituali: « Prima di essere superiori e giudici siate per i vostri sacerdoti maestri, padri, amici e fratelli buoni e misericordiosi, pronti a comprendere, a compatire, ad aiutare. Incoraggiate in tutti i modi i vostri sacerdoti a un’amicizia personale e a un’apertura confidente con voi, che non sopprima ma superi nella carità pastorale il rapporto di obbedienza giuridica, affinché la stessa obbedienza sia più volenterosa, leale e sicura.
Andate in cerca con ansia ed amore della pecorella smarrita per riportarla al caldo dell’ovile e tentate come Cristo, fino all’ultimo di richiamare l’amico infedele ».

Vescovo dell’Eucaristia – Queste parole ci richiamano alla mente quelle che il nostro Vescovo ha usato in uno degli incontri biblici: »Il sacerdote autentico che in se stesso si sforza di riproporre i sentimenti del Cristo è colui che si lascia completamente mangiare dalle anime che gli sono affidate. La responsabilità paterna non deve mai cessare, il vero educatore, colui che è il pastore, il padre della comunità che il Signore gli ha affidato deve, nella sua catechesi, negli incontri biblici, negli incontri privati, far sentire la forza dell’esortazione, dell’incoraggiamento, della spinta e dell’accompagnamento. Il padre accompagna i figli; il vero sacerdote, il vero vescovo accompagna le anime che gli sono affidate, le mette in guardia, fa l’impossibile perché queste non compiano determinati errori o ricadano in errori già commessi, ha l’ansia di impedire alle anime che segue di fare del male ».
Il Vescovo dell’Eucaristia è sempre stato un buon padre verso tutte le anime che gli sono state affidate; non ha esitato mai un attimo a cercare di riportare all’ovile le pecorelle smarrite e a fare la correzione fraterna quando è stato necessario. La sua paternità rifulge e brilla nel suo animo di uomo e sacerdote perché non si dà pace, finché anche uno solo dei suoi figli non è tornato alla casa del Padre.

L’ABBANDONO E LA SOFFERENZA

S. Giuseppe – S. Giuseppe si è abbandonato sempre a Dio anche quando si è sentito lacerato nell’anima e negli affetti e ha vissuto situazioni umanamente incomprensibili o drammatiche: la maternità di Maria, la fuga in Egitto e lo smarrimento di Gesù Bambino.
L’abbandono di S. Giuseppe a Dio è stato perfetto e convincente ed ha sempre tenuto presente le parole di Isaia: « Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri » (Is 55,8-9). Abbandonarsi a Dio provoca una profonda lacerazione interiore alleviata però dalla consapevolezza di fare la Sua volontà. Abbandonarsi a Dio significa dirgli « Sì » con il cuore e la volontà, anche se è forte la tentazione di dire « No ».

S. Paolo – Cristo, dopo essere asceso al Cielo, ha ordinato vescovo Paolo. L’apostolo ha accettato la missione alla quale il Signore l’ha chiamato e per fare la volontà di Dio si è trovato in situazioni difficili. Egli, infatti, ha dovuto affrontare l’ostilità di coloro che non si aprivano all’annuncio evangelico e cercavano di osteggiarlo nella sua predicazione. S. Paolo ha rivendicato con forza la propria qualifica di apostolo e a volte ha sentito prepotenti la depressione e lo scoraggiamento, ma si è sempre abbandonato a Dio, fino a donare la propria vita, purché i disegni divini si realizzassero. Consapevole della sua debolezza umana, ha ricevuto forza e vigore dalla grazia del Signore: « Mi vanterò quindi delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte ». (II Cor 12,10)

Vescovo dell’Eucaristia – Il nostro Vescovo, come S. Paolo, ha ricevuto l’ordinazione episcopale direttamente dal Signore: Dio ha detto: « Ti ordino vescovo » (Lettera di Dio, 27 giugno 1999) e ha posto il suo sigillo su questa ordinazione con il miracolo eucaristico dell’11 giugno 2000. Il Vescovo non è stato libero di accettare o rifiutare la pienezza del sacerdozio, ma si è abbandonato completamente ai disegni di Dio. Egli ha gioito per l’immenso dono ricevuto, ma ha anche tremato, prevedendo ulteriori calunnie ed ostilità che avrebbe dovuto affrontare. Ha scelto di seguire Dio con decisione e coraggio, ha abbracciato la croce e ha accettato il difficile compito di portare avanti la sua dura missione insieme con Marisa.
« Tutto posso in Colui che mi dà forza » questo hanno ripetuto insieme il Vescovo dell’Eucaristia e la vittima d’amore, senza perdere mai fiducia nella potenza di Dio.

LE LETTERE DI DIO: GLI INCORAGGIAMENTI AL VESCOVO DELL’EUCARISTIA

S. Giuseppe: « Mio caro vescovo, sono il tuo Giuseppe. Sono stato incaricato di dirti che dai tanta gioia a Dio Padre, a Dio Figlio, a Dio Spirito Santo con l’amore e con la tua sofferenza. A volte è difficile far comprendere alle persone ciò che dici, ma loro sanno che Gesù parla attraverso te. Mi dà gioia sapere che mi ami; io ti aiuto dall’alto del Cielo così come posso. Anch’io, come te, mi sono sentito l’ultimo, ma Dio mi ha collocato in alto, dopo Gesù e Maria ». (Lettera di Dio, 10 marzo 2002)

Madonna: « Ogni incontro biblico è grande; quello di giovedì scorso è stato grandissimo, bellissimo. Ciò che avete ascoltato non proveniva solo da Paolo, ma anche da Claudio, dal vostro vescovo. Paolo e Claudio. Di ogni parola della Sacra Scrittura ne ha fatto un poema. Il vescovo cerca di fare penetrare nel vostro cuore ciò che dice. Paolo è grande, ma anche il vostro Vescovo è grande ». (Lettera di Dio, 24 febbraio 2002)

Paolo VI: « Io sono il grande Paolo VI e amo S.E. Mons. Claudio Gatti per le parole che ha detto nei miei riguardi. Molti mi hanno calunniato, ma da quando il mio e vostro vescovo ha parlato di me: come sono, quanto ho sofferto e quanto bene ho fatto, oggi parlano bene di me e mi chiamano il Papa gigante. No, sono piccolo, ma sono vicino alla Madre dell’Eucaristia. Grazie, Eccellenza, per la parole dette, non lasciarti andare: tu non sai quante persone vicine mi hanno calunniato e diffamato ed ero Papa. Non abbandonare, sii forte e porta avanti questa missione. Nessun santo e nessun uomo della Terra ha sofferto come te, non lasciarti andare, non abbandonare, fa’ come dicono Gesù e la Madre dell’Eucaristia. Se ti lasci andare, tua sorella crolla e chi ti vuole bene crolla. Sono il Papa che ami tanto e ti aiuto e prego per te. Non c’è bisogno di essere dichiarati santi dalla Chiesa, per Dio e per la Madre dell’Eucaristia sono santo. (Lettera di Dio, 6 agosto 2003)

CONCLUSIONE

Gli insegnamenti del nostro Vescovo ordinato da Dio sono in perfetta sintonia con quelli di S. Paolo e di Paolo VI, egli si è sempre ispirato a loro e allo stile di vita del grande S. Giuseppe.
La figura di S. Giuseppe e quella del grande Papa Paolo VI sono state riscoperte oggi nella Chiesa grazie alle lettere di Dio e alle catechesi del nostro Vescovo.
Il Vescovo Claudio Gatti, nei suoi quarantuno anni di sacerdozio, ha sempre obbedito a Dio ed ha continuato a portare avanti il compito affidatogli dal Signore. La missione del Vescovo e della veggente ha dato molti buoni frutti, ma l’ultimo tratto di strada che deve essere ancora percorso è il più duro e difficile.
A noi, come comunità, viene chiesto molto, perché molto ci è stato dato. Impariamo innanzitutto ad amare dopodiché viene la preghiera, ma soprattutto, come ha detto il nostro Vescovo in un incontro biblico, dobbiamo diventare una santa comunità se vogliamo partecipare attivamente alla missione.
Coraggio, Eccellenza, per noi sei il Vescovo Ordinato da Dio, Vescovo dell’Eucaristia, il Vescovo dell’Amore.

L’INCARNAZIONE IN SAN PAOLO

dal sito:

http://host-lime.com/do/content_dett.asp?id=376&mnu=7&val=7
 
 L’INCARNAZIONE IN SAN PAOLO

“ Nato dalla stirpe di Davide secondo la carne ” ( Rom 1,3)
“Nato da donna, nato sotto la legge” ( Gal 4,4)

  Nel 1960 un piccolo libricino fece molto scalpore nel campo degli studi biblici. Il grande esegeta tedesco Joachim Jeremias affrontò da par suo Il problema del Gesù storico (questo è il titolo del libretto, tradotto e stampato in Italia nel 1964 a cura della Paideia di Brescia). Non è qui il momento per addentrarci in questo tema; a noi interessa riportare una delle sue affermazioni più perentorie e conosciute: “Non possiamo eliminare lo ‘scandalo’ dell’incarnazione” . E poco prima: “L’origine del cristianesimo non è il cherigma, non sono le esperienze pasquali dei discepoli, non è un’ idea del Cristo; l’origine del cristianesimo è un avvenimento storico, e precisamente la comparsa dell’uomo Gesù di Nazareth, il quale fu crocifisso da Ponzio Pilato, e il suo messaggio”. Sembra di leggere le catechesi recenti di Benedetto XVI; basta leggere le catechesi dedicate all’Apostolo Paolo e alle battute iniziali della prima Lettera Enciclica ( Deus caritas est ).
Anche Giovanni Paolo II , nel libro-intervista Varcare la soglia della speranza , ha trattato questo tema: “Poteva Dio andare oltre nella Sua condiscendenza, nel Suo avvicinamento all’uomo e alle di lui possibilità conoscitive? In verità sembra che sia andato lontano quanto era possibile. Oltre non sarebbe potuto andare. In un certo senso Dio è andato troppo lontano! Cristo non divenne forse «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,23)? Proprio perché chiamava Dio Suo Padre, perché Lo rivelava così apertamente in Se stesso, non poteva non suscitare l’impressione che fosse troppo… L’uomo ormai non era più in grado di sopportare tale vicinanza, e cominciarono le proteste. Questa grande protesta ha nomi precisi: prima si chiama Sinagoga , e poi Islam. Entrambi non possono accettare un Dio così umano. «Ciò non si addice a Dio» protestano. «Egli deve rimanere assolutamente trascendente, deve rimanere pura Maestà». Certo, Maestà piena di misericordia, ma non fino al punto di pagare le colpe della Propria creatura, i suoi peccati” [1] .
Il giovane Saulo arrivò a Gerusalemme per completare i suoi studi, alla scuola di Gamaliele I, probabilmente nel 15 d.C. Alcuni si chiedono se Saulo a Gerusalemme ha incontrato Gesù; la questione non ha molta importanza. Scrive acutamente Murphy O’ Connor : “E anche nel caso in cui avesse di fatto sentito parlare di Gesù, perché avrebbe dovuto perdere tempo a cercare e ascoltare qualcuno che andava scartato per tre buone ragioni? Gesù veniva dalla Galilea, non aveva i titoli per insegnare e, a quanto pare, credeva di essere il Messia” [2] . Saulo – continua Murphy O’ Connor – “cominciò a pensare seriamente a Gesù quando si scontrò con il cristianesimo” [3] . Saulo intuì che ciò che predicavano i cristiani – la salvezza non dipendeva più dall’osservanza della Legge, ma dalla fede in Gesù – era una pretesa assurda, inconcepibile, scandalosa, e per questo andava combattuta. Può Dio – il “Totalmente Altro” – “sporcarsi le mani” con la nostra umanità? Peggio ancora: può la salvezza venire da un “maledetto” che è stato crocifisso? Questo era veramente troppo! Pertanto “va da sé che Paolo il fariseo non credeva a una sola parola di quello che aveva sentito raccontare su Gesù. La sua risurrezione non poteva essere stata altro che un trucco, perché Dio non avrebbe mai ricompensato qualcuno che si poneva al di sopra della legge, come aveva fatto Gesù” [4] .
Poi è successo quello che sappiamo… Benedetto XIV, in una sua catechesi per l’Anno paolino, ha scritto: “San Paolo è stato trasformato non da un pensiero ma da un evento, dalla presenza irresistibile del Risorto… Solo l’avvenimento, l’incontro forte con Cristo, è la chiave per capire che cosa era successo” [5] . Incontro folgorante col Risorto e incontro con la Chiesa : deve farsi battezzare e vivere in comunione con gli apostoli. Così potrà scrivere ai Corinti: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici ( 1 Cor 15,3-5).
A Saulo – ormai diventato Paolo – interessa soprattutto l’annuncio che Gesù è il Cristo (l’ Unto, il Messia), Gesù è il Signore. Questo è l’asse portante delle sue lettere. I dati, per così dire biografici relativi a Gesù, sono ridotti all’osso. Tra l’altro, i versetti di Romani e Galati sono generici:
Rom 1,3 : “ Nato dalla stirpe di Davide secondo la carne ”.
Gal 4,4-5 : “ Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli .
Più circostanziati, invece, quelli della 1 Timoteo (accenno a Pilato) e 1 Corinti (accenno al tradimento):
1 Cor 11,23 : “ Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito prese del pane …”.
1 Tim 6,13 : “… e di Gesù Cristo che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato .
Il testo che si avvicina al celebre “ Et Verbum caro factum est ” di Giovanni 1,14 si trova nell’ inno stupendo della lettera ai Filippesi 2,6-11 . Questo pregevolissimo riassunto di cristologia – che probabilmente è di origine e uso liturgico anteriore alla lettera ai Filippesi – è collocato in un contesto di tenerezza. Ringraziando i fedeli per averlo soccorso con le loro offerte, Paolo li ricambia con auguri e raccomandazioni per la loro vita cristiana e la loro felicità. L’inno esalta il mistero di Gesù, Dio-Uomo. Le diverse tappe del mistero di Cristo storico, Dio e uomo nell’unità della sua persona – che Paolo non divide mai, sebbene ne distingua i diversi stadi di esistenza – sono celebrate in strofe distinte: la preesistenza divina (v. 6); l’abbassamento dell’incarnazione (v. 7); l’ abbassamento ulteriore della morte (v. 8); la glorificazione (v. 9); l’adorazione dell’universo (v. 10); il titolo nuovo (v. 11): Gesù Cristo è il Signore : è la professione di fede essenziale del cristianesimo! [6] . Ecco il testo:

Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.

In Fil 2,7 Paolo usa il verbo evke,nwsen ( ekénosen – il verbo kenóo ricorre solo 5 volte nel NT e solo nelle lettere paoline: Rm 4,14; 1 Cor 1,17; 9,15; 2 Cor 9,3; Fil 2,7); la Bibbia di Gerusalemme traduce in Fil 2,7 con « spogliò »; il significato è quello di svuotare , annientare. Gesù doveva diventare uno di noi per andare fino in fondo in questa follia dell’abbassamento. “Per riprendere la società umana in decomposizione, così come per una casa che crolla, bisogna scendere fino alle fondamenta, proprio in basso e solo dopo si potrà ricostruire a poco a poco l’edificio. Gesù è venuto a portare un nuovo ordine di comunione, alla luce e a immagine di Dio. Le società umane sono costruite su una gerarchia che scarta e disprezza chi è più in basso, i deboli e gli emarginati. Ecco perché Gesù si rivolge per primo a loro” [7] . È proprio questo scendere così in basso che è il vero «scandalo dell’incarnazione». Ma questa è la logica di Dio!

Note:

[1] GIOVANNI PAOLO II (con Vittorio Messori), Varcare la soglia della speranza , Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1994, p. 43.
[2] J . MURPHY O’ CONNOR, Paolo. Un uomo inquieto, un apostolo insuperabile , Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 2007, p. 30.
[3] Ibidem , p. 31.
[4] Ibidem , p. 39.
[5] Cit. nella rivista Paulus , Anno I – n. 4 Ottobre 2008, p. 1.
[6] Vedi anche Rm 10,9; 1 Cor 12,3; Col 2,6.
[7] J. VANIER, Lettera della tenerezza di Dio , Edizioni Dehoniane, Bologna 1995, p. 20. 
 

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