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PAOLO IL TEOLOGO – BY FRÉDÉRIC MANNS

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(mi sembra proprio di non aver messo questo studio di Padre Manns…eppure ho cercato tutto del docente)

PAOLO IL TEOLOGO

BY FRÉDÉRIC MANNS

(STUDIUM BIBLICUM FRANCISCANUM – JERUSALEM)

Un re di Francia incontra un giorno dei tagliatori di pietra in pieno lavoro. Alla domanda : Che cosa fate? il primo dice : Sire, io taglio delle pietre; il secondo dice : Sire, io riunisco delle pietre tagliate, ed il terzo : Sire, io costruisco una cattedrale.
All’inizio del terzo millennio la Chiesa sta scoprendo l’urgenza di una rinnovata evangelizzazione. Il santo Padre sollecita i cristiani a ritrovare lo slancio delle origini nei confronti del mondo contemporaneo. Chi ha incontrato il Signore Risorto non può tacere. « Guai a me se non predicassi il vangelo », esclamava in tal senso l’apostolo Paolo (1Cor 9,16). Il viaggio del santo Padre sulle orme di San Paolo in Grecia, Siria e Malta propone come modello di evangelizzatore Paolo di Tarso, uomo di una doppia cultura, che ha fatto l’esperienza del Risorto e che ha dedicato la vita a proclamare la sua certezza che Cristo è vivo. Vale la pena di riflettere sulle intuizioni e il pensiero teologico dell’apostolo delle genti.

Il corpo mistico
In mezzo ai messaggeri della Buona Novella, Paolo è colui che ha costruito la prima cattedrale del pensiero cristiano. Il rosone che rischiara e trasfigura tutto il suo edificio, è l’apparizione di Cristo resuscitato sulla via di Damasco. Questa esperienza, dura e beneficente alla fede, illumina Paolo malgrado la sua momentanea cecità. Strumento di prima scelta, illuminato dallo Spirito Santo, istruito dagli altri Apostoli, l’Apostolo trarrà le conseguenze da questo incontro insperato. Perseguitare i cristiani, era perseguitare Gesù stesso. In un lampo Paolo, l’intuitivo, ha compreso tutta la dottrina della Chiesa come corpo mistico di Cristo. Il Cristo è la testa del corpo ed i cristiani sono le membra del corpo.
Tra le verità che appaiono in rilievo nelle epistole che rischiarano la cattedrale di Paolo come delle vetrate, occorre indicare il primato di Cristo, la posizione essenziale della resurrezione, l’abolizione della legge mosaica, e la giustificazione per mezzo della fede in Gesù Cristo e l’intima unione di tutti i credenti nel Cristo e tra loro.
La dottrina del primato di Cristo era già stata celebrata nell’inno pre-paulino ai Colossesi. E’ nell’ordine della creazione e della ri-creazione che Cristo ha ottenuto il primato. Tutto è stato creato per lui ed in vista di lui. Per la sua resurrezione dai morti, egli è divenuto il primo-nato tra i morti.
Paolo prega assiduamente la Passione, al punto da poter dire che egli ostenta l’immagine di Gesù crocifisso davanti ai suoi ascoltatori (Gal 3,1). Ma egli non separa mai la resurrezione di Cristo dal suo sacrificio redentore. Egli amava ripetere le formule cherigmatiche che annunciavano la morte e la resurrezione di Gesù. Egli probabilmente non ha conosciuto Gesù durante la sua vita mortale (2 Cor 5,16), ma egli ha visto il Cristo resuscitato; l’apparizione sulla via di Damasco l’ha costituito autenticamente apostolo (1 Cor 9,1; 15,8) ed egli conserva sempre nel suo cuore l’ineffabile ricordo della manifestazione del Signore della Gloria (1 Cor 2,8). Egli si riferisce incessantemente alla resurrezione come all’avvenimento decisivo senza il quale la fede cristiana sarebbe vana e senza scopo (1 Cor 15,14-17). Egli vi vede la copia e la causa della resurrezione spirituale del cristiano ed il pegno della resurrezione corporale che coronerà all’ultimo giorno l’opera redentrice (Rm 6,4-11 ; Fil 3,10-11 ; 1 Cor 15,20-22).

La Parusia
Le lettere di Paolo sono degli scritti di circostanza. E’ per rispondere a concrete questioni pastorali che egli detta le sue lettere che firma tuttavia di sua mano. Nelle lettere ai Tessalonicesi Paolo affronta il problema del ritorno di Cristo o della parusia. Parusia significa presenza. Il termine era riservato alla visita dei grandi personaggi. Nel Nuovo Testamento, e particolarmente presso Paolo, egli designa cosi l’avvento glorioso di Cristo alla fine dei tempi (1 Ts 3,13 etc.; 2 Ts 2,1-8; 1 Cor 15,23). La cristianità primitiva viveva in un ardente desiderio di questo avvenimento. Nella liturgia eucaristica si acclamava il Cristo : Marana tha ! Vieni, Signore Gesù! Paolo condivideva questa preghiera e questo desiderio. La parusia segnerà il compimento della redenzione e l’instaurazione totale e definitiva del regno di Dio. La vittoria di Cristo sarà allora definitiva. Una presentazione mal compresa di questa speranza provocò a Tessalonica la convinzione di un ritorno prossimo del Salvatore, al punto che alcuni fedeli incrociavano le braccia e vivevano nell’ozio. L’attesa di Cristo era diventata un’attesa passiva. L’Apostolo rimprovera con forza i Tessalonicesi (1 Ts 4,11-12 e sopratutto 2 Ts 3,6-15). Parecchi in mezzo a loro erano morti dopo il loro ingresso al cristianesimo. Da cui l’inquietudine della comunità : questi morti potevano mancare la venuta del Signore ? Paolo si sente solidale con questa angoscia. La risposta che egli dà si può cosi riassumere : prima della venuta del Signore i morti risusciteranno. In seguito, noi i viventi che saremo ancora là, saremo portati sulle nubi per incontrare il Signore nei cieli. Cosi noi saremo per sempre con il Signore (1 Ts 4,15-17). Questa consolazione sembra insinuare che Paolo ha atteso l’avvento definitivo mentre era vivo. Ma non è per lui un motivo per non vivere che nell’attesa. Paolo predica la vigilanza. Si tratta di rivestire la corazza della fede e della carità, il casco della speranza. Nessuno sa il giorno nè l’ora : ragione di più per essere pronto.
Paolo insegna inoltre che la conversione dei pagani, poi quella degli Ebrei precederà la parusia (Rm 9-11), ciò che sembra suggerire un prolungato ritardo. Il Cristo deve presentare a suo Padre i frutti della sua vittoria. Fino a che tutti non sono entrati nell’unico battello, il ritorno di Cristo nella gloria è ritardato. Paolo insiste anche sulle lotte, le divisioni e le apostasie che precederanno il ritorno di Cristo (2 Ts 2,1-12), ma lo fa in termini oscuri, come in tutti i passaggi apocalittici del Nuovo Testamento. La Bibbia aveva intravisto prima della fine del mondo un ultimo sussulto del male (Ez 38-39) ; Dn 11,21-45). Paolo sottolinea due punti che a lui sembrano importanti. Il primo è che la morte introduce nella società di Cristo coloro la cui vita è stata conforme al Vangelo. Il secondo è che l’ultima generazione la quale sarà testimone della parusia avrà il privilegio di non passare attraverso la morte (1 Ts 4,15-18 ; 1 Cor 15,51-54); i corpi saranno trasformati in un batter d’occhio e resi simili ai corpi dei defunti ormai resuscitati. In breve, Paolo ricorda che il definitivo deve ancora venire. La prova ne è che il male e sempre misteriosamente presente ed attivo nel mondo. Ne deriva l’urgenza dell’annuncio della Parola e della conversione.

La giustificazione per mezzo della fede
Figlio di Farisei, Paolo credeva prima della sua conversione che l’osservanza della legge gli sarebbe valsa per essere considerato come giusto. Ed ecco che il Cristo resuscitato lo chiama gratuitamente. Il suo universo religioso crolla. Nelle lettere ai Galati ed ai Romani Paolo ha sviluppato la dottrina della giustificazione per mezzo della fede in Gesù, ad esclusione delle opere della legge mosaica. La fede non è una pratica intellettuale. Essa è la confessione della divinità di Cristo, un dono totale ed irrevocabile della sua persona a Colui nel quale egli riconosceva il Figlio di Dio. Che devo fare, Signore ? (At 22,10) : Paolo è tutto intero in questa risposta al Resuscitato. Una fede astratta, senza influenza sulla vita, è per lui inconcepibile. La fede che giustifica, è la fede operante per mezzo della carità (Gal 5,6) la fede accompagnata dalle buone opere che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo (Ef 2,8-10). Fiducia nella parola di Cristo, la fede comporta il pentirsi degli errori ed il proposito di cambiare la propria vita. Paolo non cessa d’insistere sulla fuga dal peccato, la morte dell’uomo vecchio che deve fare posto all’uomo nuovo (Rm 6,6; Ef 4,22-24), la pratica assidua di tutte le virtù unite dalla carità (1 Cor 13; Col 3,14). Il gesto decisivo della fede con tutto ciò che essa comporta germoglia alla domanda del battesimo ed a una radicale conversione che fa del cristiano una nuova creatura (Gal 6,15).

La fede e la Legge
La giustificazione per la fede in Cristo presuppone che le opere della Legge (Gal 2, 16) sono impotenti ad ottenere la giustificazione. Se l’osservanza della Legge mosaica poteva giustificare, si potrebbe concludere che Cristo è morto per niente (Gal 2,21) e che il sacrificio della croce è stato inutile, ciò che sarebbe una manifesta assurdità. La Legge è stata inchiodata alla croce da Cristo (Col 2,14) ; essa è ormai abolita e non poteva essere imposta ai convertiti. Nell’epistola ai Romani Paolo rintraccia la storia dell’umanità dopo Adamo (5,12) fino alla venuta di Cristo. Ebrei e pagani hanno dato scacco al piano di Dio. Tutti sono l’oggetto della collera di Dio e votati alla punizione. Nondimeno gli Ebrei avevano la Legge che doveva loro servire da guida. Quanto ai pagani, è la coscienza che era la legge iscritta nei loro cuori. Gli Ebrei si sono glorificati della loro relazione privilegiata con Dio grazie alla Legge. Essi hanno interpretato l’alleanza come un privilegio, in luogo di vederla come una missione. Di fatto la Legge fu per essi un’occasione di disobbedire (4,15). Neppure il pagano è stato fedele alla sua coscienza. Egli si è abbandonato al peccato (7,14). Ma, la giustizia di Dio si è manifestata senza la Legge. Al tempo della collera segue quello della giustizia. Dio fa misericordia a riguardo di tutti per pura grazia. Su questo fondamento è costruito l’uomo nuovo. Egli è fedele grazie allo Spirito (8,12). Non vi è pió differenza tra Ebrei e pagani che erano sottomessi senza distinzione al peccato e che sono discolpati in virtù della redenzione (3,24). Paolo dimostra con molta abilità che Abramo è stato giustificato per la sua fede alla promessa divina di una posterità innumerevole e non per la Legge mosaica, posteriore di numerosi secoli (Gal 3,6-9 ; 16-18), nè ugualmente per la circoncisione, ma per la fede (Rm 4,1-12). Il cristiano a sua volta è giustificato attraverso la sua fede in Gesù che ha il medesimo oggetto di quella di Abramo, a conoscere le promesse divine realizzate per mezzo di Cristo (Rm 4,16-25). E’ dunque per mezzo della fede che Dio giustifica, tanto prima della promulgazione della Legge mosaica quanto dopo la sua abolizione : da Mosè a Gesù Cristo, quando la Legge era in vigore, essa non concorreva alla discolpa presso i santi dell’Antico Testamento che per il motivo che la fede si univa alle promesse, come per Abramo. Le opere della Legge non si sono mai potute giustificare per se stesse. Se fosse stato diversamente, il carattere gratuito e trascendente dell’ordine soprannaturale sarebbe compromesso. L’uomo non è discolpato dalle sue opere; la fede stessa è un dono di Dio. In nessun modo l’uomo puo glorificarsi come se egli fosse l’autore della sua salvezza (Gal 5,5-6; 1 Cor 1,28-31; Rm 3,27-28 ; Ef 2,8-10). E’ umilmente che egli deve accogliere il dono della salvezza.
Il ragionamento di Paolo prendeva di mira insieme alcuni convertiti i quali pensavano che la Legge rimaneva tuttora in vigore e gli Ebrei che pretendevano di osservare con le loro sole forze la Legge e le tradizioni che i maestri vi avevano aggiunto e poneva fine ad un vicolo cieco. La legge non giustificava senza la fede.

Il corpo mistico di Cristo
Sulla via di Damasco Paolo ha compreso che il Cristo ed i cristiani sono un tutt’uno. Nella prima lettera ai Corinti egli sviluppa questo pensiero. Egli aveva dovuto intervenire a proposito di divisioni in seno alla comunità. Delle divisioni si erano manifestate anche nelle assemblee liturgiche. Per di più, nelle comunità, dei gruppi di credenti si proclamavano di Paolo, altri d’Apollo, altri ancora di Cefa. Paolo combatte questa sapienza umana. Nelle scuole filosofiche, i maestri arruolavano i discepoli. Se la stessa divisione si produceva nella Chiesa, essa sarebbe votata a sbriciolarsi in differenti gruppuscoli. Il cristianesimo non è una filosofia, un prodotto del genio umano. Il messaggio del Vangelo è stato accolto non dai filosofi, ma dai poveri e dai piccoli. Il Regno è promesso ai poveri, ai dolci ed ai misericordiosi. La sapienza di Dio è follia agli occhi degli uomini.
La doppia formazione di Paolo gli tornava utile. Paolo ha dovuto affrontare la mentalità ellenistica in ciò che concerne i corpi. Per i Greci il corpo è trascurabile, esso è un ostacolo alla realizzazione totale del destino umano. Esso è la tomba dell’anima. Sôma, Sêma (corpo, tomba), ripetevano i Greci. Per la Bibbia il corpo è una creatura di Dio. L’uomo è un corpo vivente. Perfino il corpo è chiamato ad essere glorificato. Paolo deve difendere la dignità del corpo. Egli non tollera il ricorso alle prostitute (6,12-20) e scomunica l’incestuoso che vive con la donna di suo padre (5,1-13). E’ la dignità del corpo che lo esige : il corpo, è il tempio dello Spirito e il dovere del cristiano e di servirsene per offrire a Dio il culto della sua fedeltà. Il corpo e chiamato a resuscitare, perché la resurrezione di Cristo primo nato di tra i morti, significa che egli trae tutta l’umanità dalla morte alla vita. Definendo il corpo come tempio dello Spirito, Paolo riprendeva una antica tradizione ebraica la quale sottolineava che tutti gli elementi presenti nel Tempio di Gerusalemme trovavano il loro corrispondente nel corpo umano e nel cosmo. Vi sono dunque tre templi dove l’uomo può incontrare Dio.

L’agape
La mentalità greca favoriva la conoscenza. Apollo è il dio delle belle arti e del chiarore. Paolo ricorda ai Corinti che la scienza deve essere al servizio della carità. La comunità si costruisce grazie ai doni spirituali di cui Dio la gratifica. Questi carismi sono diversi, ma essi devono servire all’edificazione del corpo di Cristo che è la Chiesa. Questi doni provengono dallo Spirito. Vi è un solo e medesimo Spirito che opera nella Chiesa e che distribuisce i suoi doni come egli crede. Paolo riprende allora dai retori romani il confronto del corpo – il midrash ebraico lo conosce ugualmente : allo stesso modo come il corpo è un tutto unico avente più membra, e che tutte le membra non formano che un solo corpo, cosi è di Cristo. E’ in un solo Spirito che noi siamo stati battezzati per non formare che un corpo : Ebrei o Greci, schiavi o uomini liberi. Paolo ripeterà spesso che non vi è più né Ebreo né Greco, né schiavo né uomo libero, né uomo né donna. Nel Cristo tutti noi non formano che un solo corpo. Per comprendere questa insistenza occorre ricordarsi che nella preghiera del mattino l’Ebreo recitava una tripla benedizione : « Io ti benedico per non avermi creato pagano, ma Ebreo, per avermi creato libero e non schiavo ; uomo e non donna ». Dopo la resurrezione di Cristo questa formula e desueta agli occhi di Paolo.
In mezzo ai più nobili doni, tutti devono cedere il passo all’amore (1 Cor 13,13). E’ ancora il l’amore-dono che permette ai cristiani di partecipare degnamente al culto eucaristico. Creando delle differenze tra loro nella mancanza di compartecipazione i cristiani offendono la carità fraterna indissociabile dal Banchetto nuziale di Cristo.

Continuità dei due testamenti
San Paolo è il teologo della continuità del piano divino della redenzione che appare da una parte nell’unità dei due Testamenti, dall’altra nell’identità fondamentale tra lo stato del cristiano discolpato quaggiù e lo stato glorioso che gli è promesso.
L’Antico Testamento, che si è compiuto nel Nuovo (Rm 1,2; 3,21), ha un carattere tipologico e profetico : è uno dei punti sui quali Paolo è stato profondamente illuminato dallo Spirito. Il Cristo è il si per eccellenza : tutte le promesse fatte da Dio ad Israele hanno trovato in lui la loro realizzazione (2 Cor 1,19-20). Paolo cita nominatamente l’Antico Testamento più di duecento volte, ed un rapido colpo d’occhio su una traduzione delle epistole permette di rendersi conto come al di fuori delle citazioni esplicite le reminiscenze sono continue, conformemente all’uso dei rabbini di ricorrere ai testi biblici per sostenere i loro ragionamenti. Le citazioni sono fatte più spesso secondo la versione greca dei Settanta, comune agli Ebrei ed ai cristiani della Diaspora, la maggior parte dei convertiti non conosceva l’ebraico. Accade che le citazioni siano approssimative e fatte a memoria e che esse siano delle semplici illustrazioni del pensiero per un riferimento alla Scrittura. Qualche volta lo stesso Paolo si avvicina alle tradizioni targumiche lette alla sinagoga. Qualche volta il ragionamento di Paolo non corrisponde alla nostra logica. Cosi la diffusione rapida del Vangelo e sottolineata nell’epistola ai Romani, 10, 18 con un versetto del salmo dove si tratta del linguaggio silenzioso degli astri percepito dovunque. Questo accomodamento non è un argomento scritturistico, si tratta di una semplice forma letteraria corrente presso gli Ebrei. Ma Paolo cita anche delle vere profezie, per esempio quando dichiara che il Cristo è morto per i nostri peccati e che egli è stato resuscitato conformemente alle Scritture (1 Cor 15,3-4) e cita sovente la Bibbia in senso letterale, come Osea 2,25, in Rm 9,25-26. 
D’altra parte Paolo dà al testo una completezza di significato che l’autore sacro non aveva senza dubbio intravisto, ma che era voluta da Dio e che egli riconosce alla luce della rivelazione evangelica. E’ alla luce della Resurrezione che la Scrittura trova il suo vero significato. La giustificazione per mezzo della fede in Ab 2,4 significa direttamente che la fede alle promesse divine sarà ricompensata con la fine della prigionia in Babilonia. Paolo vede in questa liberazione storica l’annuncio della vera liberazione, la salvezza messianica che sarà liberazione dal peccato e sorgente della vera vita del profeta : Il giusto vivrà per la fede è approfondita in una linea che non la deforma, perché si tratta di fiducia nella parola di Dio (Gal 3,11; Rm 1,17), rivelazione ancora frammentaria ai tempi del profeta e completata da Cristo (Eb 1,2). Paolo rinforza questo argomento con il salmo 142,2 ove si dice che nessuno è giusto davanti a Dio (Gal 2,16). Egli applica al caso degli Ebrei che attendono dalla Legge la loro discolpa l’affermazione senza restrizione del salmo ed egli si ritiene incaricato a dichiarare che nessuno è giustificato per mezzo delle opere della Legge, ciò che è inoltre stabilito per delle altre ragioni nei versetti che seguono (2,17). Alcuni ragionamenti scritturistici di Paolo non cessano di meravigliare il lettore moderno. Quando si ricordi la formazione rabbinica di Paolo, si comprendono meglio i suoi metodi di lettura ed il suo approccio al testo ispirato che deve parlare ancora al giorno d’oggi.

Tipologia
Ai piedi di Gamaliele, Paolo aveva appreso a leggere le Scritture. Ma il Cristo Resuscitato si era manifestato a lui come colui che ha compiuto le Scritture. La lettura midrashica doveva cedere il passo alla lettura cristologica. Negli avvenimenti dell’Antico Testamento Paolo vede il carattere, la preparazione di quelli del Nuovo. La tradizione giovannea applica a Cristo gli episodi del serpente di bronzo (Gv 3,14), della manna (Gv 6, 32-33.58), dell’acqua viva (Gv 7,37-38), del buon pastore (Gv 10,11). I Sinottici usano lo stesso procedimento : il salmo 22 è applicato a Cristo durante la sua Passione (Mt 27,46); Gesù è il vero sposo e la vera vigna (Mc 2,19-20 ; Mt 22,1-14 ; Mc 12,1-9 ; Gv 15,1-8), la pietra angolare (Mc 12,10-11). La prima lettera di Pietro (2, 22-25) e l’autore dell’Apocalisse sottintendono la medesima dottrina. Paolo pone in principio che la Legge è l’ombra delle cose a venire (Col 2,17) e ne fa numerose applicazioni : Adamo è il tipo o figura di Cristo (Rm 5,12), la giustificazione di Abramo per mezzo della fede prefigura quella dei cristiani (Rm 4, 17.23) ; il Cristo è il vero agnello pasquale (1 Cor 5,7) ; l’antica alleanza annuncia la nuova conclusa nel sangue di Cristo (1 Cor 11,25), la manna del deserto e l’acqua sgorgata dalla roccia simbolizzano i sacramenti cristiani (1 Cor 10,1-6) e la punizione degli Israeliti privati dall’entrare nella terra promessa a causa della loro indocilità deve far temere ai cristiani la collera divina se essi seguono questo esempio (1 Cor 10,6-11) ; l’unione dell’uomo e della donna deve prendere esempio da quella di Cristo e della Chiesa (Ef 5,22-33) ; l’antico Israele, discendenza carnale di Abramo, prefigura l’Israele nuovo, secondo lo spirito (Gal 3,7-9.26), l’Israele di Dio (Gal 6,16) che non è più limitato ad un solo popolo, ma abbraccia tutta l’umanità (Gal 3,26-28).

Conversione
Paolo esamina cosi il significato profondo dell’Antico Testamento. A Qumran gli Esseni avevano già paragonato le Scritture al pozzo d’acque vive dato al popolo nel deserto. I rabbini compararono incessantemente la Legge all’acqua. Tuttavia le Scritture sono orientate verso il Cristo. Dimenticare questo orientamento messianico, è far prova di cecità. Il velo che era sul volto d’Israele nella lettura dell’Antico Testamento cade definitivamente quando ci si converte al Signore (2 Cor 3,13-16). Questo ragionamento, senza dubbio valevole solamente per chi riconosce il carattere ispirato e profetico della Scrittura, porta una conferma alle altre prove della fede. Eccezionalmente Paolo lo usa nell’allegoria di Sara e di Agar (Gal 4,21-31) con una sottigliezza degna dei metodi rabbinici. Vi è dunque tutta una gamma nell’utilizzazione della Scrittura da parte di Paolo; ogni citazione deve essere pesata con cura onde evitare di maggiorare o minimizzare l’insegnamento dell’Apostolo.

Continuità della vita di grazia e della vita eterna
L’unità e la continuità dei due Testamenti hanno per complemento e coronamento la continuità tra la vita della grazia quaggiù e la vita eterna.
Il dono dello Spirito Santo fa del cristiano il figlio del Padre celeste ed il fratello e coerede del Figlio (Gal 4,6-7; Rm 8,16-17.29). Il cristiano diviene figlio nel Figlio. Egli è trasformato fino al profondo del suo essere e posto in un nuovo stato che egli può perdere per il peccato, ma che non differisce dalla vita eterna che nel grado e non in natura. Le lettere di Paolo ritornano in diversi modi su questo aspetto del mistero redentore. Il cristiano vive nel tempo e nell’eternità; gli ultimi tempi sono iniziati per lui. La parusia, presenza velata di Cristo nei cuori (Ef 3,17), è l’inizio della sua parusia finale nella gloria; nostra vita, nascosta ora in Dio con il Cristo, si schiuderà con lui nella gloria al momento del suo ritorno nella Gloria (Col 3, 3-4). La celebrazione eucaristica, nel corso della quale i cristiani annunciano il ritorno di Cristo, è il legame per eccellenza tra questi due avvenimenti (1 Cor 11-26). I pegni e le primizie dello Spirito che noi possediamo ora (2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14; Rm 8,23) garantiscono il dono totale. Noi viviamo della vita di Cristo (Gal 2,20). Il regno di Dio è incominciato, attendendo di divenire completo e definitivo (1 Cor 15,24-28). Dio ci chiama al suo Regno ed alla sua gloria (1 Ts 2,12) e noi vi siamo ora introdotti strappandoci alla potenza delle tenebre (Col 1,13). Paolo riprende la definizione della Pasqua ebraica per parlare della Pasqua definitiva. E’ nella speranza che noi saremo stati salvati (Rm 8,24). Tuttavia la nostra salvezza e parzialmente acquisita, noi siamo nei giorni della salvezza (2 Cor 6,2).
La liberazione dal peccato e dalla morte è iniziata; si tratta di rimanere fedeli. Il cristiano non è destinato alla collera, ma all’ottenimento della salvezza per mezzo di Gesù (1 Ts 5,9). Egli è salvato dalla bontà di Dio mediante la fede (Ef 2,8). Tempi ed eternità si compenetrano. Benché vivente sulla terra il cristiano è già cittadino dei cieli (Fil 3,20). Paolo rivolta in tutti i significati questo pensiero che caratterizza la speranza cristiana : esso non può sbagliare (Rm 5,5). Un’inadempienza ed un insuccesso non sono possibili. La connessione costante delle due prospettive temporale ed eterna che si frammischiano può a prima vista sembrare oscura. La giustapposizione dei due orizzonti era già conosciuta nel pensiero apocalittico.

Vista d’insieme sul piano redentore
La dottrina della redenzione della salvezza traspare dappertutto nelle lettere di Paolo. Le sue grandi articolazioni sono facili da cogliere, sopratutto nell’epistola ai Romani. Altrove esse sono più diffuse. Nulla di strano che Pietro abbia avuto difficoltà a seguire il pensiero di Paolo. Quest’ultimo è molto meno occupato a dare un insegnamento sistematico che a rispondere alle questioni concrete delle comunità cristiane. Dei casi delicati di coscienza si presentano in alcune comunità. Inoltre dei dottori di menzogne cercano di dividere il gregge di Cristo. Le eresie nascenti, in particolare quelle dei giudaizzanti che preconizzavano un ritorno all’osservanza della Legge ebraica, hanno avuto tuttavia una fortunata influenza : esse hanno portato Paolo ad approfondire la sua dottrina, a formularla in maniera più precisa, più completa.
Paolo parla del suo Vangelo (Gal 1,11; Rm 2,16). Attraverso quello, egli intende meditare il mistero della redenzione universale, mistero di Cristo che associa coloro che credono in lui alla sua morte ed alla sua resurrezione.
L’umanità ha fatto l’esperienza del peccato. Nessuno penserà di negarla. Lo spettacolo di Atene riempita di idoli aveva indignato Paolo (At 17,16). Nell’epistola ai Romani (1,18-3,20)) è redatta una tavola della corruzione del mondo pagano e dell’infedeltà d’Israele, che pone gli Ebrei in situazione cosi spiacevole come i pagani. Il regno del peccato e della morte risale alla disobbedienza di Adamo che ha fatto perdere all’umanità l’amicizia divina ed ha scatenato le passioni malvagi. Gli uomini sono sprofondati nella rivolta contro Dio. Il mondo pagano non ha saputo riconoscere il Creatore nelle sue opere. Israele, benché favorita dalle rivelazioni divine, si è dimostrata indocile ed ha violato i precetti della Legge. La Legge non le ha dato la forza di vivere il messaggio rivelato.
Dio aveva, nella sua misericordia, promesso per mezzo dei profeti un Messia discendente da Davide che ridarà i sei oggetti perduti a causa del peccato di Adamo e che concluderà la nuova alleanza con tutta l’umanità. Quando i tempi furono compiuti, Dio a inviato il suo unico Figlio, preesistente, creatore ed eterno come lui. Nato dalla discendenza di Davide, secondo la carne, il Figlio di Dio ha rivestito una natura umana soggetta alla sofferenza ed alla morte. Nel suo amore per gli uomini, egli si è fatto obbediente fino alla morte in croce, divenendo secondo una volontà eterna del Padre mezzo d’espiazione per gli uomini. La sua obbedienza ha riparato le disobbedienze di Adamo. Il nuovo Adamo crea cosi una nuova umanità. Per la fede in lui i peccatori sono giustificati ; la solidarietà in Gesù Cristo è più forte che la solidarietà in Adamo. Per manifestare l’efficacia del sacrificio di Cristo, Dio l’ha sovranamente esaltato con la resurrezione e l’ascensione. Glorificato alla destra del Padre, Gesù ha ricevuto il titolo di Signore. Come redentore egli riconcilia gli uomini con Dio. Tale è il messaggio della redenzione.

La redenzione
E’ il sangue di Cristo che redime l’uomo peccatore (1 Cor 6,20 ; 7,23). Ma Dio che ci ha redenti senza di noi, non ci salva senza chiederci il nostro libero consenso; questa soluzione è degna di Dio e dell’uomo. La risposta alla chiamata di Dio è data dalla fede che è accettazione per mezzo dell’intelligenza del messaggio cristiano e consacrazione vitale del credente al Salvatore nel suo essere e nella sua vita. La fede è essa stessa un dono di Dio. Dio non la rifiuta agli uomini di buona volontà. L’adesione a Cristo porta il convertito a chiedere il battesimo, che significa una nuova nascita, il perdono del peccato ed il dono della vita soprannaturale (Rm 6,3-11) che lo fa morire, lo seppellisce e lo risuscita spiritualmente con il Cristo. Egli muore al peccato e vive d’ora innanzi per Dio nel Cristo. Per non decadere dal suo stato di giustificato, il cristiano deve lottare contro le tendenze malvagi che sussistono in lui. Paolo conosce l’antropologia delle due tendenze che sono presenti nel cuore dell’uomo. La vita diventa cosi una battaglia spirituale. Per riportare la vittoria il cristiano e armato con il dono dello Spirito che lo fortifica per crocifiggere la carne, per vivere nella pratica della carità e di tutte le virtù, per riprodurre in se l’immagine del Cristo, al fine d’essere trasformato in questa stessa immagine (2 Cor 3,8). Lo Spirito lo illumina, l’ispira, gli dà gli aiuti indispensabili per vivere veramente da figlio del Padre celeste, da fratello di Cristo, da membro del suo corpo e da tempio dello Spirito. L’Eucaristia che fa memoria del sacrificio redentore è il mezzo privilegiato di trasmettere ed accogliere la vita divina.

La Chiesa
Depositaria dell’insegnamento di Cristo e degli apostoli, essa è guardiana della fedeltà alle esigenze della vita cristiana. Membro di questo grande corpo (Col 1, 24 : Ef 1,22-23), il cristiano non è isolato. Egli è sostenuto dalla preghiera, gli esempi ed i sacrifici dei suoi fratelli; egli sa che tutte le sue azioni contribuiscono all’edificazione del corpo di Cristo. Nella posizione in cui Dio l’ha chiamato, verginità o matrimonio, si ricorda che egli ha carico dei suoi fratelli, unito a loro dal legame dell’Eucaristia. Lavorando alla salvezza di tutti nello stesso tempo che sua, egli cammina con amore verso la vita gloriosa promessa. Nella speranza del ritorno di Cristo, egli collabora alla venuta del Regno. 

Né Ebreo né pagano 
Tutti gli uomini sono invitati a superare il nazionalismo ed a realizzare che non vi sia più né Ebreo né pagano, né schiavo né uomo libero. Se Israele nella sua grande maggiorità ha tenuto una benda sugli occhi, un giorno verrà in cui riconoscerà in Gesù di Nazaret il Messia annunciato dalle Scritture. La sua incredulità ha portato la benedizione sui pagani; ma le promesse divine non saranno messe in scacco. Il popolo eletto rimane amato da Dio per merito dei Padri e sarà salvato a sua volta. 
Un terribile dramma si giocò in effetti dopo la caduta del primo uomo. Il Cristo ha vinto Satana sulla croce. Ma i nemici di Cristo e del Vangelo non hanno perduto tutta la loro virulenza e la battaglia continua. Il mistero d’iniquità, l’uomo del peccato che si sostituisce a Dio, sono sempre in azione. Delle apostasie affliggono la Chiesa. Tutti i cristiani sono attori in questo dramma e sono invitati a perseverare fino alla fine. Coloro che rimarranno fedeli saranno per sempre con il Cristo quando la morte verrà a porre un termine al loro soggiorno sulla terra. La battaglia proseguirà fino al giorno conosciuto soltanto da Dio quando il Salvatore discenderà dal cielo, annienterà l’Empio con il soffio della sua bocca ed il fulgore del suo avvento (2 Ts 2,1-12). Distruggendo la morte stessa, Gesù resusciterà per l’azione dello Spirito Santo, coloro che si sono addormentati; allora egli rimetterà il Regno nelle mani di suo Padre, i corpi mistici avranno raggiunto la loro statura perfetta e Dio sarà ormai tutto in tutti (1 Cor 1,24-28). 
Paolo insiste molto sulla libertà del cristiano. Da sottile dialettico egli afferma che tutto appartiene al cristiano, ma il cristiano appartiene a Cristo ed il Cristo appartiene a Dio. Tutto ciò che tiene conto di questo orientamento finale è lecito. « Ama e fai ciò che vuoi », dirà sant’Agostino.
Paolo ed i suoi discepoli non furono dei teorici né degli speculativi. Prima di tutto essi furono dei pastori, sacerdoti ad illuminare il popolo di Dio. La loro teologia inizia da una vita spirituale profonda che fa di loro degli innati ottimisti. Sicuri dell’amore divino e della vittoria di Cristo sulla morte, essi avanzano in mezzo alle difficoltà. La croce e le prove non furono loro risparmiate. Ma unendo le loro sofferenze a quelle di Cristo essi completano nei loro corpi ciò che manca alla passione di Cristo (Col 1,24). In effetti, il Cristo è in agonia fino alla fine dei tempi.

Paolo filosofo nascosto – Giuseppe Barbaglio – Di Gianfranco Ravasi

http://www.giuseppebarbaglio.it/

RELIGIONE

Un saggio sul pensiero dell’Apostolo: per capirlo non resta che affidarsi alle sue «Lettere»: più che sistematicità si scoprirà una coerenza nella interpretazione del Vangelo

PAOLO FILOSOFO NASCOSTO

Gramsci l’aveva sbrigativamente definito «il Lenin del cristianesimo» e Nietzsche un «disevangelista». Nel suo discorso emerge la prospettiva di un cambio di mentalità

Di Gianfranco Ravasi

Chi prende in mano il volume di Giuseppe Barbaglio può forse credere di essere davanti all’ennesimo profilo della teologia di Paolo sul modello, per esempio, del sostanzioso e importante saggio dell’inglese James D. G. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, tradotto da Paideia nel 1999. Il titolo e il programma dell’opera subito ci fanno capire che c’è qualcosa di diverso, anche perché lo stesso esegeta aveva già pubblicato una Teologia di Paolo, riedita dalle Dehoniane nel 2001. Il suo progetto non è quello di identificare a livello sincronico il piano teologico dell’Apostolo, isolandone il fulcro portante (Cristologia? Giustificazione per la fede? Mistica? Mistero pasquale? Tensione apocalittica verso il trionfo finale divino?…), ma di inseguire il suo « pensare » elaborato attraverso un processo molto fluido, diacronico, non costretto nello stampo freddo di un sistema né confezionato in un atélier teologico asettico ma sollecitato dalle urgenze e dalle istanze del ministero missionario e pastorale. La « vulgata » inconsciamente prevalente anche in molti cristiani è, infatti, quella di un Paolo freddo ideologo, «padre del sottile Agostino, dell’arido Tommaso d’Aquino, del tetro calvinista, del bisbetico giansenista», del tutto alieno da quel Gesù che è «padre di tutti coloro che cercano nei sogni dell’ideale il riposo delle anime loro», come scriveva enfaticamente Ernest Renan nel suo Saint Paul (1869). Nietzsche l’aveva poi bollato come un « disangelista », ossia l’antitesi di un « evangelista », Albert Schweitzer (sì, il famoso dottor Schweitzer era un teologo prima di essere un filantropo) lo esaltava come «il santo patrono di coloro che pensano» e Gramsci l’aveva sbrigativamente denominato «il Lenin del cristianesimo»! In realtà, Paolo era stato innanzitutto un pastore, un annunziatore e un testimone, anche se spesso i suoi testi erano rimasti quasi esclusivo appannaggio di teologi. Ebbene, Barbaglio vorrebbe cercare di individuare la vera qualità di questo particolare pensatore. È indubbio che quello paolino sia un pensiero teologico che ha un apriori che lo precede e una fonte che lo alimenta: la sua è una razionalità tutta interna alla stanza della fede cristiana, spesso ribadita da quel « sappiamo » che connota la tradizione della fede ancorata alla rivelazione divina. Ma quel pensiero, che pure è nutrito dell’eredità biblica e della stessa cultura grecoromana, secondo Barbaglio non è formulato attraverso un disegno previo e una trattazione conseguente bensì fiorisce attraverso un genere di sua natura « occasionale » come quello epistolare. Si ha, così, un pensare provocato dagli interlocutori (emblematici sono i capitoli 6 e 8 della Prima Lettera ai Corinzi) che diventa provocatorio nei loro confronti, interagendo con le loro istanze ma rappresentando anche quelle dell’Apostolo stesso. Egli, infatti, «intende suscitare in loro un cambiamento di mente e di vita e lo fa con la pienezza della sua autorità di apostolo e di padre della comunità, ma anche affidandosi alle risorse dell’argomentazione e alla funzione illuminante della ragione». Alle spalle di Paolo non c’è, dunque, un progetto antecedente e coerente. Su questa convinzione Barbaglio è radicale e indubbiamente solleciterà reazioni da parte di molti colleghi che coi loro saggi hanno spesso asserito il contrario (ritrovando, per esempio, sotteso alla Lettera ai Romani il nucleo preliminare dell’ideologia paolina). «La teologia di Paolo – scrive, invece, Barbaglio – è la teologia delle sue lettere. Un pensiero teologico dell’apostolo altro da quello presente nelle sue lettere è pura congettura soggettiva, in ogni modo per noi zona oscura e inattingibile». È così che il procedimento adottato dalla riflessione paolina e dalla relativa analisi di Barbaglio non si àncora a un disegno predeterminato ma a una prospettiva ermeneutica: «Il fattore di unità della riflessione di Paolo è piuttosto formale: consiste nel suo metodo di far teologia, nel processo di pensare Dio e Cristo; egli rilegge e ridefinisce i punti nodali della credenza primitiva cristiana, il vangelo nelle sue diverse valenze… Il suo è sempre unitariamente un pensare ermeneutico, teso a comprendere la ricchezze nascoste nel credo protocristiano… La coerenza del pensatore Paolo è di carattere ermeneutico: egli fa emergere le implicazioni dell’eschaton che si è fatto storia in Gesù morto e risorto». Con questa scelta metodologica Barbaglio procede all’identificazione del diagramma teologico in divenire dell’Apostolo, affidandosi obbligatoriamente a due traiettorie estrinseche ormai codificate, anche se non prive di qualche esitazione in sede storico-critica, quelle della selezione delle lettere direttamente paoline (escludendo quelle di « scuola ») e della loro sequenza cronologica. È ovviamente questa la sezione più sostanziosa dell’opera, articolata in dieci tappe che partono dal «vangelo della gratuita elezione divina» (1 Tessalonicesi 1-3) e avanzano attraverso le varie fasi in cui quel vangelo si ramifica e si anima: la croce di Cristo (1 Corinzi 1-4), la libertà dei gentili (Galati), la rivelazione della giustizia divina, la giustificazione e la vita nuova, la fedeltà di Dio a Israele (Romani), la morte e risurrezione di Cristo come primizia (1 Corinzi 15), la vita nello Spirito per approdare alla figura stessa dell’apostolo delineata in relazione al vangelo (2 Corinzi). La lettura di questa pagine, sempre costruite su un’esegesi fine e spesso originale del testo paolino, rivelano in modo inequivocabile la lunga e amorosa assuefazione dell’autore all’epistolario paolino, confermata per altro dalla sua bibliografia. Si ha, così, la possibilità di inseguire un pensiero affascinante nonostante i sentieri di altura che propone e le non poche asprezze e asperità. Naturalmente su alcune opzioni interpretative o sulla ricostruzione evolutiva del pensiero paolino potrà accendersi la discussione tra gli esegeti. Alla fine l’impressione che si ricava è piuttosto paradossale: pur scegliendo di essere un teologo occasionale, epistolare, pastorale, Paolo si rivela un pensatore coerente e capace di delineare un quadro teologico armonico. Certo, decisiva è stata la roccia su cui si è fondato, quella del vangelo di Cristo che lo precede, come consequenziale e cruciale è stata la prospettiva ermeneutica da lui adottata. Tuttavia si ha anche la sensazione di essere in presenza di un pensatore che sapeva tenere ben stretto il filo del suo pensiero, senza perdere di vista da dove era salpato e la meta verso la quale sarebbe approdato. L’opera di Barbaglio segna, comunque, con la sua tesi originale (e tutt’altro che peregrina) e col suo meticoloso vaglio testuale una tappa importante e per certi versi imprescindibile negli studi paolini contemporanei.


Giuseppe Barbaglio
Il pensare dell’apostolo Paolo

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – GIUSEPPE BARBAGLIO (1990)

http://www.finesettimana.org/pmwiki/?n=Db.Sintesi?num=57

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO
VERBANIA PALLANZA, 13-14 GENNAIO 1990

LE DOMANDE DELL’UOMO TRA NATURA E STORIA E LE RISPOSTE IN PAOLO

Il problema essenziale è il rapporto tra noi e il mondo. Il mondo è natura, ma anche storia e gli attori della storia sono gli uomini. Mentre la natura è il regno della necessità, la storia è il regno della libertà.
C’è però anche la cultura che sta tra natura e storia: l’uomo , collocandosi nella natura e nella storia, produce le istituzioni del suo vivere (familiari e sociali), modi di pensare e di essere. Quale senso ha la nostra vita, la nostra storia, la nostra natura, dato che apparteniamo ad entrambe? Gestiamo la storia ma apparteniamo anche alla natura. Mentre gli animali sono totalmente assorbiti nella natura l’uomo, oltre che nella natura, ha una presenza significativa nella storia.
Lo gnosticismo ha posto il problema con tre interrogativi fondamentali: donde veniamo? chi siamo? dove andiamo? E’ un problema ineludibile per l’uomo di ogni generazione che pensa e riflette, a differenza degli animali. La ricerca di risposte rispecchia situazioni specifiche. Noi ci poniamo le stesse domande degli gnostici, ma in situazioni nuove e perciò dobbiamo cercare nuove risposte adeguate alla situazione in cui viviamo. C’è un problema ecologico che riguarda tutti, c’è la novità del dialogo tra le religioni, c’è la presenza di movimenti pacifisti, c’è la crescente disparità di ricchezze nel mondo, c’è una sfrenata ricerca del profitto che mette il silenziatore alle grandi domande di senso.
Cercheremo di trovare delle risposte in Paolo, delle risposte certamente datate. Anche Paolo, come del resto anche Gesù e i profeti, non sfuggiva al criterio della storicità.
Paolo è una voce che, pur essendo datata come Cristo e i profeti, noi riconosciamo come espressiva della fede cristiana. Ci indica un cammino consono alla fede cristiana anche se in una cultura particolare.

1 Corinzi 8,4-6: un solo Dio e Signore
E’ un testo molto significativo che Paolo trae dalla tradizione e lo fa suo, rielaborandolo, per esprimere la fede nei suo tratti essenziali: la fede creazionistica e la fede soteriologica della salvezza. Dice Paolo a proposito delle carni immolate agli dei pagani, che la tradizione giudaica vietava di mangiare non solo nei luoghi di culto dove si sacrificavano gli animali ma anche quando venivano vendute al mercato.
« Quanto poi al cibarsi delle carni immolate agli idoli sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo (l’idolo è una nullità), e non c’è dio se non uno solo. Infatti anche se ci sono dei cosiddetti dei sia in cielo sia in terra, come di fatto ci sono molti dei e signori… » Sembra una contraddizione, m a prosegue: « per noi invece c’è un solo Dio, il Padre,
dal quale tutto (la totalità del mondo) viene e noi esistiamo per lui,
e c’è un solo Signore, Gesù Cristo,
mediante il quale tutto è, e noi siamo mediante lui ».
Paolo dice che se vogliamo considerare la situazione concreta guardandoci intorno, vediamo che molti sono gli dei, molti i signori. A quel tempo, ma non solo a quel tempo, c’era uno spreco di dei e signori. L’imperatore era Dio, Cesare Augusto era un titolo divino, Adriano si faceva lodare come il salvatore del mondo, gli dei orientali erano « signori », gli eroi erano i figli di Dio.
Anche il mondo di oggi è pieno di dei e signori, perché è pieno di servi. Se non ci fossero i servi non ci sarebbero i signori. Sono i servi che creano l’altro come signore di se stessi. « ma per noi », per le nostre soggettività, dice Paolo, « non ci sono dei e signori perché c’è un solo Dio, il Padre, e un solo Signore, Gesù Cristo » . E’ un credo costruito su di un motivo creazionale.

Colossesi 1,15-20
E’ un testo straordinariamente bello. E’ da notare che questi testi della chiesa primitiva, giunti a noi attraverso la testimonianza di Paolo e della sua scuola, usano un poco la enfasi, esprimono la lode, sono poetici. Non c’è grande precisazione teologica, e molti termini esprimono l’emozione dei credenti che professano in quel modo la loro fede. Non bisogna insistere molto sui particolari.
« Gesù Cristo – dice Colossesi – è l’immagine e l’icona del Dio invisibile ».
Paolo rilegge l’affermazione creazionale dell’uomo a immagine di Dio in senso cristologico, « primogenito di ogni creatura ». C’è un rapporto molto stretto tra Gesù e la creazione in Paolo. « Poiché in lui sono state create tutte le cose, sia quelle che stanno nei cieli che sulla terra, sia quelle visibili che quelle invisibili, sia i troni, sia le signorie, sia i principati, si le potestà ». Si tratta del quadro cosmologico di allora, soprattutto degli ambienti dell’Asia Minore legati ad una pregnosi, in cui tra Dio e l’umanità c’erano esseri intermedi che dominavano la storia, gli eoni. In questa concezione si dice che Cristo ha vinto gli eoni e quindi ogni dominatore è messo fuori gioco.
« Tutte le cose sono state create » Si tratta di un perfetto che indica qualcosa che è avvenuto e che perdura, cioè tutto è stato creato dal primo giorno e resta creato.
« Egli è prima di tutte le cose e la totalità delle cose ha consistenza in lui; Lui è la testa del corpo della chiesa, lui che è l’arché, il principio, il prototipo di ogni creazione e di ogni risurrezione, affinché abbia il primato in tutte le cose, poiché in lui piacque a Dio di fare abitare tutta la pienezza e mediante lui riconciliare tutte le cose, facendo pace mediante il sangue della sua croce e mediante lui sia le cose che ci sono sulla terra, come quelle che sono nel cielo ».
Il motivo centrale è la correlazione tra la totalità e l’unità di Gesù. Tutto è mediante lui, verso lui e consistente in lui; le preposizioni « en », « dia », « eis » stanno ad indicare un rapporto molto forte di comunità essenziale tra l’universo e l’unità singolare, che è Gesù. Tutto (ta panta) è stato creato e tutto è stato riconciliato. Il beneficiario della riconciliazione è lo stesso di quella della creazione, la totalità della realtà, noi e il mondo

2Corinzi 5,17 e Galati 6,15
I due testi sono carichi di significati.
Dice 2Corinzi 5,17:
« Cosicché se uno è in Cristo è una creatura nuova di zecca ». Si usa l’aggettivo « kainé » che a differenza di « neos » indica novità qualitativa, non ripetitiva.
Il tema della creatura nuova ha una lunga storia alle spalle. E’ presente nel Deuteroisaia e in Isaia: l’escatologia è una proiezione nel futuro della creazione. L’originalità in Paolo sta nel dire che la « creatura nuova » si realizza nella storia se uno è in Cristo. Non c’è « verranno i cieli e terra nuova », ma la « creatura nuova » è già qui.
Paolo, così diverso da Gesù, in questa intuizione profondissima è suo discepolo contro ogni concezione apocalittica.
Due sono i motivi presenti in questi testi: la dimensione cristologica della creazione e la dimensione escatologica della creatura nuova. Tutto, l’uomo e il mondo, è stato creato, è creatura (ktisis) di fronte al creante (ktisas). La Bibbia offre qui una prima fondamentale risposta alle domande su chi siamo, donde veniamo e dove andiamo.
Il rapporto tra la totalità come creatura e il creante è un rapporto strutturale. Non può esistere creatura senza creante. Non è un rapporto che è stato all’inizio per poi interrompersi, ma persiste. Noi siamo stati, siamo e saremo creatura di fronte al creante. E’ un rapporto costitutivo del nostro essere nei confronti di Dio e di Dio nei nostri confronti. Ci definiamo, gli uni e gli altri, su questa linea della creazione.

divinizzazione dell’uomo e del mondo
Questo sta ad indicare che l’uomo (e il mondo) non è un assoluto, non è Dio di se stesso. Fa parte della comprensione essenziale dell’uomo la coscienza della creaturalità propria e del mondo. Quindi fa parte della coscienza umana il processo di sdivinizzazione dell’uomo e del mondo. Non c’è nessun dio e nessun signore a questo mondo perché non ci deve essere nessun servo a questo mondo. Nessuno a questo mondo può essere l’oggetto davanti al quale piegare le ginocchia e levare l’incenso, invocare la clemenza, dipendere schiavisticamente. Non c’è nessun padre da scegliere a questo mondo, perché c’è un solo Dio, il Padre.
L’unica categoria che definisce l’uomo nel suo essere profondo rispetto a Dio è la fraternità, la sorellanza. Non c’è nessun padre nel senso signorile.
Ancora, il nostro essere creatura di fonte al creatore vuol dire che noi e il mondo siamo stati voluti, fatti da Dio creante, che ha comunicato la sua vita, il suo Spirito. I racconti della creazione in Genesi ci dicono che Dio ha soffiato nei viventi il suo Spirito. La categoria del dono libero è essenziale per capire il senso della totalità di fronte a Dio. Dio creatore non ha nessuna gelosia, nessuna competizione, nessuna rivalità nei nostri confronti e quindi nessuna violenza, dato che la violenza nasce dalla rivalità. Dio è gratuitamente comunicativo, comunica il suo Spirito, la sua vita senza la logica commerciale del do ut des. Dio dà perché è così per nativa esigenza del suo comunicare. Quello che è suo viene condiviso. Il problema della creazione è il problema della condivisione da parte di Dio al mondo e a noi. Dio non vuole godere da solo della sua vita, ma vuole condividerla con gli uomini, con gli animali, con il mondo in generale. La dinamica della creazione è la dinamica della condivisione. Non è un dono mosso da calcoli o da condizionamenti.

un dono di Dio irrevocabile
Procedendo poi su questo motivo di fondo della totalità che è creatura di fronte a Dio che è creatore, capiamo che noi siamo stati voluti e fatti una volta per tutti senza pentimento. E’ vero che c’è nella bibbia il racconto del pentimento di Dio per avere fatto il mondo e dell’invio del diluvio, ma il mondo è poi salvato, e l’arcobaleno diventa il segno dell’alleanza cosmica con Dio che si impegna a non distruggere mai più la vita. Il dono di Dio, la condivisione di Dio è irrevocabile. Se Dio revocasse questa sua comunicazione e donazione cesserebbe di essere quello che è, il creante (ktisas). Nonostante tutto permane la fedeltà di Dio a questo mondo, l’unico creato e voluto da Dio. Dio non ha alternative: si è definito liberamente ma irrevocabilmente creante (ktisas) di questa creatura (ktisis). L’errore della corrente apocalittica è stato quello di ammettere la possibilità di fare un altro mondo. La dimensione di fondo della apocalittica, espressa nel IV libro (apocrifo) di Esdra, si esprime nella creazione di un secondo mondo, perché il primo è riuscito male. Invece non c’è un’altra umanità, alla quale Dio si è legato liberamente, ma indissolubilmente. L’incarnazione è nella logica della creazione, è pensabile solo all’interno della creazione: se questo mondo non fosse il mondo di Dio, perché Dio avrebbe dovuto venire a questo mondo, avrebbe dovuto prendersene cura, volerne la salvezza? A questa domanda non poteva rispondere Marcione che aveva diviso la creazione dalla salvezza operata da Cristo. E’ il tallone di Achille di Marcione. C’è un mondo solo che Dio ha voluto e che ha fatto e che resta il suo mondo: questo.

alterità Dio mondo
Altra dimensione importante è che Dio creatore è altro da noi creature, è diverso. Il mondo è non Dio, e Dio è non mondo. Questa alterità tra Dio e il mondo è un elemento caratteristico della fede creatrice contro ogni tipo di immanentismo, che attenua i confini tra Dio umanità e mondo. La concezione creazionistica invece traccia una linea assolutamente invalicabile tra Dio e il mondo. Il mondo in quanto « ktisis » di fronte al « ktisas » è altro da Dio e vive nella sua mondanità, nella sua profanità, non è mescolato al divino. Al contrario della mitologia pagana in la mescolanza è dominante. Proprio della visione biblica è la separatezza: il mondo è diverso da Dio e Dio è diverso dal mondo.
Ora la concezione di alterità rende possibile la relazione, perché la relazione esiste tra due diversità, tra due altri. Se c’è mescolanza non c’è relazione, ma confusione. Il concetto di persona rinvia ad una soggettività come individualità assolutamente irripetibile.
E’ molto importante questa visione perché ci sollecita ad assumerci la piena responsabilità delle realtà mondane, senza cercare responsabili divini: Dio non manda e non toglie la malattia, la guerra non è un castigo di Dio o la pace un premio. La procreazione è una realtà puramente mondana, come la realtà sessuale. L’autorità tra gli uomini non viene da Dio, ma è una scelta operata da persone che delegano a qualcuno un potere per alcuni scopi. Così la famiglia, la società, gli eventi storici. Il Dio creatore non è un soggetto storico, mondano, Dio è altro. Potremmo dire che Dio è la fonte della vita ma non agisce come soggetto magari più grande, più potente, come siamo portati ad immaginarlo.
I cristiani a Roma erano tacciati di essere atei perché avevano ripulito il mondo di tutti gli dei, di tutti i signori di cui il mondo politeistico era pieno.

l’uomo interlocutore rischioso di Dio
C’è quindi una autonomia dell’umanità e del mondo da Dio, un’autonomia propria delle creature di fronte al creatore, però la creatura, che é il risultato del movimento di comunicazione, di partecipazione, di condivisione, è interlocutrice libera di Dio; noi siamo soggettività.
La differenza tra l’uomo e la natura è che la natura è determinata, mentre l’uomo è una possibilità di essere, è storia. La natura è dato, ma la storia è da farsi. L’uomo, attraverso le sue scelte, è possibilità di essere, ma anche possibilità di autodistruzione. Dio e noi siamo in dialogo, ma un dialogo altamente rischioso.
Dio ha di fronte una soggettività, che può scegliere liberamente, anche di dire di no. Il Dio creatore è un Dio audace e avventuroso che accetta di avere di fronte a sé uno che ha mille volti, e possibilità. Dio entra in un gioco pericoloso, rischioso. Tutto questo è stato percepito dal salmo 8 in cui si dice: « hai fatto l’uomo di poco inferiore ad un dio ». Nella creazione Dio ha di fronte a sé un altra soggettività, che si definisce nelle scelte sue libere, di fronte alla quale può solo proporsi, non imporsi. Questo Dio avventuroso si autolimita; si è imposto alla natura, ma non all’uomo, che si definisce per conto proprio. Dio rischia sempre di essere messo in scacco nel suo progetto, perché ha un progetto con l’uomo, al quale si limita a proporlo e le cui risposte sono quanto mai avventurose. E’ un Dio che per il suo progetto non minaccia, non terrorizza, non punisce il dialogante.

il Dio bifronte nella Bibbia
Il limite del discorso biblico è proprio quello di avere mantenuto la faccia del Dio punitore, presente negli stereotipi religiosi di tutti i tempi. In un libro del 1920 circa, Rudolf Otto, un filosofo della religione, intitolato « Il sacro », afferma che lo schema abituale di visione del divino negli uomini di tutti i tempi è costruito su una immagine religiosa del « mysterium » di Dio, della realtà nascosta di Dio, che ha due facce. C’è il « mysterium fascinans » – che affascina con la sua bontà, la sua generosità, con l’essere fonte di vita, di perdono, di grazia, di salvezza, un Dio benefico – e c’è l’altra faccia del « mysterium tremendum », del nume tremendo, terribile. L’uomo ha sempre vissuto il divino – il dio monoteistico e le divinità – con questa griglia interpretativa, come « mysterium tremendum » e come « mysterium fascinans ». Anche nella bibbia questo appare con molta chiarezza (sto scrivendo un un libro su questo Dio come Giano bifronte).
Il Dio della Bibbia paga un alto prezzo a questo stereotipo religioso della duplice faccia. C’è un testo del Deuteroisaia che dice: « io sono colui che dà la vita, io sono colui che dà la morte ». Dio nella sua faccia benefica dà la vita, però ha anche l’altra faccia tremenda della morte. Le due facce sono state unite per cui il Dio che dà la vita poi domanda conto dell’uso che noi abbiamo fatto, e minaccia la punizione nel caso facciamo un uso distorto o cattivo. E’ una faccia violenta.
Siamo in contrasto con la logica creazionistica per la quale Dio partecipa la vita senza merito nostro, per sua nativa spinta. Dio si propone all’uomo indeterminato che ha davanti, a questo dialogante così inafferrabile, senza proclamare minacce, senza spargere terrore, senza comminare punizioni. Non è un Dio violento. Con la nostra risposta negativa siamo noi che ci creiamo la morte con le nostre mani. L’uomo si gioca la vita e la morte. Se dice di no a Dio non è che Dio gli manda la morte; la morte è una realtà mondana, nostra, solo la vita è il dono di Dio. Dio viene escluso o può essere escluso da noi, che siamo un dialogante capriccioso, ma mai Dio può escludere noi che lo escludiamo perché è donazione, comunicazione, soffio di vita: non si riprende per punizione il soffio di vita. Dobbiamo assumere il dato primordiale della fede creazionale come elemento assolutamente caratterizzante e non introdurre elementi religionistici estranei che offuscano, stravolgono la faccia partecipativa. Dio è tutto in questo darsi e non c’è in lui alcun pentimento, alcun riprendersi i doni, perché è sempre « ktisas ».

il mondo è donato da Dio nella sua materialità: oltre il dualismo
Da questi testi paolini si coglie un altro importante elemento: il mondo è « ktisis », donato da Dio, anche nella sua materialità, nella sua naturalità, è da accettare con gioia, con gratitudine, da godere anche, da custodire con cura e rispetto. La fede creazionistica esclude ogni concezione dualistico-spiritualistica. La visione dualistica ha contaminato il mondo del passato ed ammorba ancora oggi le coscienze nella tradizione cattolica. Secondo questa concezione la realtà – « ta panta » – viene suddivisa in realtà spirituale e in realtà materiale. La realtà spirituale, l’uomo nella sua coscienza e nella sua anima immortale, è positiva e tutto il resto è realtà negativa.
Il dualismo spiritualistico, che rifiuta come male tutto ciò che non è spirituale, che non è immateriale, è un fenomeno postbiblico. Nella Bibbia infatti si dice che il Verbo si è incarnato, si è fatto « sarx », (Giovanni). « Sarx » è la materialità, la naturalità. Noi dobbiamo ricuperare le radici bibliche. Se la tradizione cristiana cattolica ha accolto la visione dualistico-spiritualista dell’ambiente circostante è stata infedele alle sue origini. C’è da ricuperare, attraverso la fede creazionistica, questo aspetto gioioso per cui le persone godono di questo mondo che è creatura, è dono, senza per questo negare l’infiltrazione del male, il peccato. E’ strano che nella nostra tradizione cattolica si siano accolti aspetti profondamente infedeli alla visione biblica. Per esempio, la verginità di Maria nella Bibbia non ha una connotazione antisessuale ma è un modo per esprimere la fede nel figlio di Dio, che esiste solo in Matteo e in Luca, ma non in Paolo e in Giovanni. E’ in funzione della figliolanza divina che nasce la credenza nel concepimento verginale di Gesù. In questa maniera si vuole affermare che Gesù è il figlio di Dio, il dono di Dio.

la creazione in prospettiva cristologica
Paolo caratterizza la creazione in senso cristologico, inserendo fin dalle origini Gesù Cristo nel rapporto tra « ktisis » e « ktisas », tra creatura e creante, con diverse formule: in Cristo, mediante Cristo, verso Cristo; sono modi per indicare la mediazione di Gesù Cristo nella creazione. Il rapporto « ktisis »- »ktisas » non è più un rapporto diretto, ma mediato da un terzo, Gesù di Nazareth. Dire che tutta la creazione è avvenuta in Cristo, mediante Cristo ed è finalizzata a Cristo, vuol dire che Gesù costituisce il senso di tutto. Uscendo dalle formule che riecheggiano il discorso della causalità – la causalità strumentale o efficiente, la causalità formale, finale – potremmo dire che Gesù Cristo è il senso del mondo, di « ta panta », ed è impressionante che sia una persona individuo che dà senso alla totalità. Potremmo dire che Gesù è la chiave di lettura di « ta panta », è il centro aggregante per cui « ta panta » non è un insieme di cose, ma è un’unità unificata da lui. Gesù è la luce rivelante il senso della totalità, è il traguardo verso cui corre la totalità, è la forza traente: sono tutti modi per dire che Gesù di Nazereth, morto e risorto, é il senso del mondo.
Gesù, che è un uomo qualunque, un uomo debole, un uomo impotente, uno degli ultimi, uno dei vinti della storia, è il centro: lui, il crocifisso e il risorto. « Ta panta », il tutto, riflesso nell’uno Gesù di Nazareth. Però l’uno Gesù di Nazareth non è un individuo chiuso in sé, è il prototipo dell’umanità. Paolo questo l’ha visto chiaramente quando nel cap. 5,12 di Romani parla di Cristo come del secondo Adam, il secondo prototipo dell’umanità, oppure in 1 Corinti 15,20-29.45-49. L’uno Gesù non è separato dalla totalità dell’umanità, ma è il primo tipo e immagine nel quale c’è tutta l’umanità. La totalità trae senso dall’uomo qualunque, debole, fragile.

gli ultimi al centro della creazione e della storia
Il « ta panta » é fatto da Dio per gli ultimi, per i crocifissi, per i vinti: questo è il progetto di Dio creatore, un progetto che viene contestato dalla storia che mette in croce Gesù di Nazareth, che mette in croce gli ultimi, i deboli, gli impotenti. Il progetto di Dio viene contestato dagli uomini forti che creano la società dei violenti, dei privilegiati. Gesù di Nazareth crocifisso e risorto è segno di contraddizione nella storia: Dio ha risuscitato, rendendogli giustizia, colui che, rappresentativo degli ultimi, è stato messo in croce. In questo modo Gesù, benché l’umile, il debole, l’ultimo, il vinto, è il centro del creato.
Ecco allora la dialettica drammatica della storia: il progetto di Dio, che Dio può solo proporre e non imporre, di mettere Gesù al centro è rigettato dall’umanità, che rifiuta che gli ultimi siano al centro e li rimette al margine e crea la società dei forti, dei violenti, dei privilegiati; ma Dio risuscitando Gesù ricolloca al centro quelli che sono stati estromessi.
L’interpretazione che dà Paolo di Gesù come centro sconvolge il senso comune che attribuisce il centro ai violenti e ai potenti.
La crocifissione nasce dall’esperienza della violenza coalizzata. I violenti fanno solidarietà fra loro a danno dei deboli. Nei testi della passione si legge che tutti sono coalizzati: le autorità giudaiche di vertice, gli anziani, i sommi sacerdoti, Pilato, la folla stessa: si crea la società dei violenti che violenta l’indifeso che è Gesù. Ma Dio risuscita il debole, il violentato, il crocifisso. Dio ricolloca al centro quelli che sono stati discriminati, contestando la società dei violenti che occupa il centro della storia. Oggi nel dialogo fra le religioni si tende a sottacere che Gesù è il centro, però questo vuol dire non riconoscere che è il figlio di Dio e farlo diventare uno dei tanti profeti. Ma se lo confessiamo figlio di Dio, se per noi è l’unico Signore, come dice Paolo, non dobbiamo avere delle remore, ben sapendo che è al centro come il crocifisso, come il prototipo dei crocifissi. Si ribalta la logica dei forti e dei violenti che si coalizzano per espungere i deboli. Paolo dice che Gesù è l’Adam, ha senso per l’umanità, un senso che noi cogliamo nella fede. Siamo liberi di coglierlo o no, ma se è l’Adam vuol dire che è il prototipo di ogni uomo, sia esso indiano, cinese, africano, occidentale, orientale. Come questo debba essere interpretato secondo le varie culture è un altro discorso, ma non è che avendo delle difficoltà dobbiamo negare i punti di partenza che sono l’oggetto elementare della nostra fede.
Per noi c’è un solo Dio, il Padre, ed un solo Signore, Gesù Cristo. Si può rinunciare a credere in questo, ma è in gioco il centro della fede non un elemento periferico. Gesù è il centro non in quanto Gesù di Nazareth, ma in quanto morto e risorto. Dire il risorto vuol dire esattamente l’universalizzazione del senso che ha Gesù di Nazareth per tutta l’umanità. E’ certo incarnato nella cultura, paga un debito alla cultura, c’è un problema di superamento della cultura, ma proprio per questo diciamo che è al centro in quanto crocifisso e risorto. Se dicessimo infatti che è solo Gesù di Nazareth, il problema sarebbe complicato perché bisognerebbe mettere al centro anche la sua cultura. Se invece è Gesù morto e risorto, risorto vuol dire la capacità di Gesù di essere il simbolo di tutta l’umanità al centro della storia come essere debole, fragile, secondo il progetto di Dio.

animati dallo Spirito del risorto
Paolo dice inoltre che noi siamo « ktisis kainé » – nuova creatura – se siamo in Cristo, cioè se siamo animati dallo Spirito del risorto, se siamo investiti dalle forze nuove di questo Spirito vivificante.
Spirito vivificante non vuol dire qualcosa che è immateriale nei confronti di ciò che è materiale, ma qualcosa che è vita nei confronti di ciò che è morte. L’antitesi è tra vita e morte, non tra immaterialità e materialità. Lo Spirito del risorto, con il suo dinamismo, viene donato a tutti e da questo punto di vista Gesù è simbolo per tutta l’umanità. Lo Spirito non è monopolio di alcuni gruppi o di alcune culture. Su questo ha visto molto bene Giovanni quando dice: « lo Spirito soffia dove vuole », come il vento, giocando sul doppio significato di « pneuma » e « ruah » in ebraico. Lo Spirito non ha confini. Cristo è universalizzabile, è simbolo di tutta l’umanità in quanto dona il suo Spirito a tutti gli uomini. Tutti gli uomini ricevono lo Spirito se sono in Cristo.
Il dinamismo delle scelte allora diventa dinamismo dell’agape, dell’amore oblativo, comunicativo, costruttivo.
Da questo punto di vista (Galati 5,16-25, Romani 8,1-17) la nuova creatura nasce là dove c’è l’uomo « pneumatikos », animato dallo « pneuma », spirituale, non nel senso di uomo dedito alla vita del pensiero, immateriale, ma dedito ad una vita umana condotta secondo il dinamismo dello Spirito che è alternativo al dinamismo della « sarx », all’egocentrismo che induce a costruirsi un mondo chiuso in se stesso, un microcosmo senza porte e senza finestre, autosufficiente. La creazione nuova, dice Paolo, è già presente dove l’uomo si lascia animare dal dinamismo dello Spirito che è donato a tutti. L’uomo può rifiutare lo Spirito, contrastandolo, facendosi guidare dall’altro dinamismo che è dentro di noi, il dinamismo della « sarx ». La nuova creazione a livello personale vuol dire l’uomo che vive eticamente non guidato da leggi esterne, da norme, da comandamenti – questa è la grande rivoluzione di Paolo – ma guidato dallo Spirito che è dentro di noi, dal dinamismo dell’agape. Docilità al dinamismo dello Spirito: questa è la spiritualità. In Matteo la spiritualità non ha questo senso, è semplicemente una vita condotta nell’obbedienza alla legge di Dio che è manifestata attraverso Cristo. Paolo ha sostituito ad una guida esterna dell’uomo – le leggi, le norme, le autorità, le parole – il dinamismo interno donato dallo Spirito di Cristo.
« Vi dico però, – scrive Paolo Galati 5,l6 – camminate (agite) nello Spirito e in questo modo voi non porterete a compimento le cupidigia della carne ». La « sarx » per Paolo è l’uomo che vive nella cupidigia (epitsumìa) delle cose, del possedere per sé, nello strappare agli altri, nelle gelosie, nelle invidie. Già nella tradizione biblica e giudaica del tempo c’era l’equiparazione tra peccato e cupidigia. « La « sarx » nelle sue cupidigie si oppone allo Spirito e lo Spirito ha impulsi contrari alla carne. Queste cose sono antitetiche le une alle altre, affinché voi non facciate quello che desiderate fare nella cupidigia. Se voi vi lasciate condurre dallo Spirito non siete sotto la legge ».
La nuova creatura, resa possibile dal dono del risorto e che si realizza alla condizione di lasciarsi guidare dallo Spirito, manifesta la presenza dell’escatologia. Non c’è da una lato la vecchia creazione vigente e dall’altro la nuova creazione che verrà, ma già esiste la « kainé ktisis ». E’ la nuova e originale concezione che Cristo e poi Paolo hanno portato: la fine è dentro la storia, il traguardo è già dentro il cammino, l’oggi è pieno delle forze vivificanti del mondo ultimo, futuro. Sullo sfondo c’è la concezione del mondo creato che si è alienato negando la propria creaturalità, seguendo i percorsi della « sarx ». Il mondo creato alienato è ora in via di riscatto. La nuova « ktisis », creazione, è condizionata: si rende presente se e nella misura in cui siete in Cristo, in cui vi lasciate guidare dallo Spirito, in cui contrastate il dinamismo della carne. Il riscatto è soltanto incominciato, la sua realizzazione piena è oggetto di speranza; ma ciò che noi attendiamo per il futuro già lo possiamo anticipare e vivere nell’oggi se siamo in Cristo. La svolta è già avvenuta nel dono dello Spirito che dà il principio del nuovo mondo. Importante è che questo principio attivo e creativo abbia spazio, non sia contrastato, negato, soffocato. Il futuro, la nuova creazione, è una possibilità aperta che possiamo realizzare attraverso la solidarietà con Cristo risorto, sia pure incoativamente e precariamente perché permane il peso di quell’altro dinamismo.
L’AT era approdato, attraverso il filone profetico che inventa l’escatologia – il salto di qualità nella storia – alla soluzione apocalittica: Dio ha fatto due mondi perché questo mondo si è corrotto a tal punto da essere irrecuperabile e quindi destinato alla distruzione. Alla fine sarà sostituito, verrà gettato come una zavorra e scenderà dal cielo un nuovo mondo bello e fatto. In queste nuova scialuppa che verrà data all’umanità entreranno quelli che sono fedeli alla legge mentre gli altri saranno estromessi una volta per sempre. Gesù e Paolo non hanno accolto questa visione apocalittica, perché non ammettono il principio dei due mondi creati. Questo mondo è l’oggetto di tutte le loro speranze però non rimandate al futuro: la svolta ha inizio nella risurrezione di Cristo in cui è dato il principio del nuovo mondo. Questa situazione dialettica di storia ed escatologia, di presente e futuro ultimo, di fine e cammino, è la soluzione cristiana. Il rapporto tra creazione ed escatologia si colloca dentro questa concezione: non sono due realtà separate, ma l’escatologia è dentro la creazione.
E’ l’escatologia di questo mondo, di questa storia, e non di un altro mondo, di un’altra storia. Questa è la risposta fornita da Paolo alle domande iniziali su chi siamo? donde veniamo? dove andiamo?

1 Tessalonicesi 4,13-18: una vita nella speranza
In 1Tessalonicesi 4,13-18 Paolo dice che la vita cristiana è una vita nella speranza e in essa non deve aver spazio la tristezza di fronte alla morte, l’ombra sinistra della morte che aleggia sulla vita come ultima parola sull’esistenza. Il fondamento della speranza è la risurrezione di Cristo, una speranza che poggia sulla fede.
Paolo fa una distinzione tra quei credenti che sono vivi alla venuta di Cristo (riteneva prossima la fine del mondo) che non passeranno attraverso la morte, ma entreranno nel mondo nuovo per rapimento sull’immagine di Elia o del patriarca Enoch che sono stati rapiti da Dio, e i credenti che sono già morti, che saranno risuscitati. Però sia i rapiti che i risuscitati andranno incontro a Cristo, per essere sempre con lui. Il traguardo della speranza, il traguardo finale dell’esistenza cristiana, già iniziato, consiste nella comunione indefettibile con il Signore Gesù oltre la morte o la fine dell’uomo.

1 Corinzi 7,29-31: il tempo si è contratto
C’è un altro testo caratteristico in 1 Corinzi 7,29-31 in cui Paolo fa una raccomandazione: « Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto conciso, dunque quelli che hanno mogli siano come se non le avessero, e quelli che piangono come se non piangessero, e quelli che godono come se non godessero, e quelli che acquistano come se non possedessero, e quelli che usufruiscono del mondo come se non ne usassero appieno; perché sta passando la figura di questo mondo ».
E’ da rimarcare questa concezione del tempo: « il tempo si è fatto conciso ». Nel mondo greco il tempo era considerato come un fiume che fluisce lentamente e indefinitamente, che va e ritorna. Per Paolo invece il tempo si è rattrappito, si è fatto una breve linea segnata dal passare di questo mondo sulla scena. Paolo pensa ancora alla fine imminente del mondo, la cui caducità viene vissuta in modo altamente drammatico e anche illusorio. In questa precarietà il nostro esistere, le nostre esperienze fondamentali non devono essere assolutizzate: bisogna viverle « os me », « come se ». Non sono cose indifferenti, ma sono esperienze da relativizzare. Gli stoici proclamavano l’epateia, l’essere emotivamente indifferenti di fronte alla realtà. Paolo dice che le esperienze umane non sono il tutto, non sono un assoluto. Questo mondo non è qualcosa di permanente ed eterno e pertanto le esperienze umane di questo mondo risentono della transitorietà. Sullo sfondo di questa visione c’è una certa escatologia e una conseguente etica.

1 Corinzi 15: Cristo primizia e risuscitatore
E’ la trattazione più completa e più profonda della escatologia in Paolo. Paolo parte dalla risurrezione di Cristo per fondare la speranza nella risurrezione nostra. Dice: se Cristo è risuscitato vuol dire che anche noi risusciteremo. In 1 Tessalonicesi si limitava a dire che se Cristo è risuscitato anche noi risusciteremo, senza approfondire le motivazioni. Nella prima lettera ai Corinzi invece Paolo riesce a trovare la spiegazione profonda. Cristo non è risuscitato come caso unico, ma come « aparché », come primizia. E’ un termine che ha una tradizione alle spalle: « aparché » erano i primi covoni raccolti che dovevano essere offerti al tempio come riconoscimento del dono di Dio.
Inoltre Paolo aggiunge un’altra formula: Cristo è risuscitato come nuovo Adam, come prototipo di una nuova umanità di risorti. Come il primo Adamo era il prototipo della prima umanità, Cristo è il prototipo, principio attivo della nuova umanità. E’ risuscitato come risuscitatore di altri. Paolo dice alla fine del cap. 8 « è il figlio in mezzo a tanti fratelli ». Questo è il disegno di Dio: Cristo centro della storia con tanti fratelli intorno, che siamo noi. La seconda cosa da notare in questo testo è la risurrezione dei corpi su cui Paolo insiste molto. A Corinto dicevano che noi siamo già risuscitati nella nostra anima, erano degli spiritualisti; Paolo invece dice che la risurrezione riguarda i corpi. Per corpo Paolo intende non la parte materiale, ma la struttura basica dell’uomo, per cui se c’è il corpo c’è l’uomo e se non c’è il corpo non c’è l’uomo. Questa struttura basica è una struttura relazionale, è la relazionalità verso Dio, verso gli altri e verso il mondo; se togliamo una di queste relazionalità non c’è l’uomo. La risurrezione coglie l’uomo in questa sua triplice relazionalità. Questa relazionalità ontologica, dice Paolo, noi la possiamo vivere esistenzialmente in termini negativi o in termini positivi. Posso viverla in termini negativi negando la mia creaturalità, considerando gli altri i miei schiavetti o assumendo un atteggiamento idolatrico o rapace nei confronti del mondo. In questo modo, vivendo in modo egocentrico la triplice relazionalità, per Paolo divento carnale (negando che Dio sia il nostro Dio, che gli altri siano i nostri fratelli, negando che il mondo sia l’habitat dell’uomo).
Per Paolo la risurrezione dei corpi è la trasformazione piena di questa triplice relazionalità vissuta in modo positivo, secondo il dinamismo dello Spirito per cui l’uomo accoglie Dio come il Padre suo, gli altri come suoi fratelli ed il mondo come l’habitat suo e di tutta la famiglia umana. Questa triplice relazionalità vissuta positivamente fa sì che il corpo sia pneumatico, spirituale, animato totalmente dallo Spirito, secondo il dinamismo dell’agape. Questa spiritualizzazione già è cominciata, dice Paolo: se voi vi fate condurre dallo Spirito non vivete più secondo la carne, siete i figli di Dio, vivete in Cristo. La speranza non riguarda qualcosa di totalmente nuovo, non si riferisce ad una realtà assolutamente assente dalla storia, ma tende alla pienezza di una realtà già iniziata nella storia. La pneumatizzazione della triplice realtà, che é al presente ancora precaria perché il dinamismo della carne continua ad agire e c’è un ritorno del passato dentro di noi, sarà piena con la risurrezione.
La spiritualizzazione del soma umano è data dallo Spirito vivificante di Cristo, a immagine di Cristo, l’uomo pienamente trasformato dallo Spirito. Cristo è il primo risuscitato, che ci risuscita a sua immagine.

Filippesi 3, 20-21: a immagine del suo corpo glorioso
Dice: « La nostra cittadinanza (politeuma) è nei cieli da cui aspettiamo che venga il Salvatore nostro Gesù Cristo », ‘cieli’ è il simbolo del mondo trasfigurato pienamente dallo Spirito « il quale trasfigurerà il nostro misero corpo a immagine del suo corpo glorioso ». La nostra triplice relazionalità che già é stata investita dalle forze dello Spirito sarà totalmente investita dallo Spirito di Cristo il quale ci trasfigurerà, opererà la metamorfosi piena in modo che il nostro corpo sia glorioso, investito dello splendore divino dei risorti ad immagine sua.

Romani 8,12-25: anche la natura partecipa della risurrezione
Il testo più nuovo da questo punto di vista è Romani 8,18-25. Già parlando della risurrezione dei corpi Paolo introduce anche la natura, il mondo, dentro il processo di trasformazione perché una delle tre relazioni è verso il mondo. Però in questo testo  »ktisis » (creazione) è solo il mondo creato naturale, a differenza del mondo umano. Dice: quello che è avvenuto avviene e avverrà di noi, passato presente e futuro, è avvenuto avviene e avverrà per la natura. Paolo mette in parallelismo la nostra vicenda di soggetti storici con la natura. E’ interessante la solidarietà tra il mondo umano ed il mondo inanimato ed animale.
Al presente, dice Paolo, noi gemiamo e viviamo una esperienza dolorosa e drammatica, viviamo la durezza del cammino umano nella storia; anche il mondo inanimato geme nella sofferenza. Noi gemiamo ed il mondo geme. Nel futuro noi aspettiamo il riscatto dei figli di Dio, la risurrezione, la pneumatizzazione piena o anche la glorificazione (nei testi biblici, gloria – « doxa » in greco e « kabòd » in ebraico – non è mai l’onore, come per noi, ma esprime lo splendore della presenza di Dio). Similmente la natura dovrà essere glorificata e liberata per partecipare della libertà dei figli di Dio. Nel passato condividiamo il peccato, la corruzione nostra e del mondo. La creazione segue il destino dell’uomo. La storia della salvezza coglie direttamente l’uomo e coglie la natura per partecipazione all’uomo.

dalla fede sgorga la speranza nella trasformazione dell’umanità e del mondo
Primo punto importante di questi testi è la connessione tra speranza e fede, la speranza nasce dalla fede nella risurrezione di Cristo e noi risorgeremo per influsso suo e ad immagine sua.
Secondo: la speranza riguarda la sorte di questa umanità e di questo mondo, non ci sarà sostituzione ma trasfigurazione, assumerà una nuova forma restando se stessa. I cieli nuovi e la terra nuova di cui parla Isaia sono questi cieli, questa terra, ma in una nuova forma; il futuro riguarda i nostri corpi attuali, non corpi nuovi creati ad hoc. Questo è importante perché la speranza non ci fa uscire da questo mondo, ma si tratta di essere attivi nella trasformazione di questo mondo.
Terzo: il futuro finale già è iniziato; la comunione indefettibile è già nella comunione non ancora salda con Cristo. Il riscatto futuro già è iniziato.
Il mondo sta partorendo nei dolori, nei contrasti, nelle contraddizioni della storia, nella crocifissione dell’esistenza. I dolori ci sono, ma sono i dolori di una nuova vita. La nuova nascita è già iniziata perché sono iniziate le doglie. La storia e l’escatologia sono mescolate, le forze del nuovo mondo sono già presenti, ma sono ancora in lotta con le forze del vecchio mondo, con la « sarx ». La nuova nascita avviene nella minaccia di impedire l’uscita del nuovo: non si tratta di un pacifico possesso. Questo nostro presente ha già in parte la configurazione del futuro; nel deserto sono già germinate le nuove pianticelle, in attesa della piena fioritura.

un mondo da non adorare
Questo è importante anche per i rapporti tra storia ed escatologia, e non solo tra creazione ed escatologia. Paolo, anche se non aveva i nostri problemi, è interessato alla natura. Nel mondo di allora era molto presente una tendenza alla divinizzazione della natura e delle sue forze. Le religioni immanentistiche divinizzano la natura, le sue forze vitalistiche, oppure le forze astrali. L’imperatore Amenofi IV in Egitto aveva sostituito la religione ufficiale del dio Amon con quella del dio Aton, il disco solare. Invece la concezione creazionistica della Bibbia e di Paolo è contro la divinizzazione della natura che non è la grande madre da adorare. Chi ha una concezione divinizzata della natura, ritiene che la natura non possa essere violata. Sarebbe empio trasformare la natura, intervenire nei suoi sacri meccanismi.
Chi divinizza la natura ha un atteggiamento idolatrico nei suoi confronti ed adora le cose, divenendone schiavo. Invece, chi ha una concezione creazionistica si serve delle cose. Paolo dice: « tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio ».

un mondo di cui godere con gratitudine
La concezione creazionistica è anche contro il disprezzo spiritualistico-dualistico della natura e delle cose. Lo spiritualismo era presente oltre che nella filosofia greca, in tutto lo gnosticismo. Nello gnosticismo l’uomo era visto come una scintilla divina, che per un caso drammatico è caduta dagli altissimi cieli in questo mondo. L’uomo è quindi una scintilla divina rivestita della corazza materiale, che nell’assumere la mondanità non ricorda più la sua origine divina e si ritiene una cosa del mondo. Non ha più coscienza di sé, è totalmente alienata, si ritiene parte di questo mondo opaco. Ma ecco che viene, dagli spazi celesti, il logos, anch’esso scintilla divina, che assume il corpo come un vestito puramente esterno, per non dar troppo nell’occhio. Viene a ricordare alle scintille smemorate ed alienate la loro origine divina. Esse riacquistano la coscienza di sé e si liberano dalle corazze materiali con la « gnosi ». Questa coscienza di sé provoca un grande desiderio della morte come liberazione non solo interiore ma anche esteriore, al fine di potersi ricongiungere al grande fuoco divino. In questa concezione il mondo è visto come un carcere, che rende abietto e alienato l’uomo.
La concezione creazionistica invece è contro ogni visione dualistica e quindi la natura è « ktisis », è creatura, è dono, è grazia da accogliere, da godere, da usare con gratitudine dice Paolo nella 1 Corinzi 10,25-26 o in Romani 14,6. Questo uso deve essere fatto senza assolutizzazioni, con un distacco interiore, come se non ne usassimo. Da questo punto di vista si può inserire il discorso dell’uso corretto della natura, delle forze, delle energie, senza abusarne.

un mondo da condividere
Una terza considerazione: questo uso della natura, secondo la visione biblica e paolina, non solo deve avvenire all’insegna della parsimonia, ma soprattutto secondo la logica della condivisione. La preoccupazione dominante della visione biblica è la giustizia. A questo proposito Paolo si esprime in 1 Corinzi 11. Nella comunità si riunivano per la cena del Signore, al termine della quale si celebrava l’eucarestia. L’eucarestia era il punto terminale di un pranzo comune che era segno della commensalità, della solidarietà fra i credenti. Ci si riuniva intorno ad una tavola imbandita da chi aveva cibi e bevande. A Corinto la maggioranza erano schiavi, nullatenenti, oltre a scaricatori di porto, e a artigiani. Succedeva che i più ricchi, giunti con le loro provviste, mangiavano tra loro, bevevano e si ubriacavano, mentre i poveracci, impegnati nel lavoro, giungevano alla fine. Tutti insieme quindi celebravano l’eucarestia. Paolo dice che alcuni erano rimpinzati ed ubriachi e gli altri non avevano niente, ma questo afferma « non è celebrare il pranzo del Signore perché non fate il pranzo comune, anzi la vostra celebrazione è una condanna per voi ». Paolo dice che l’eucarestia è espressione della commensalità, dell’essere insieme alla stessa tavola sia con quelli che la imbandiscono perché hanno da portare cibi e bevande, sia con quelli che non hanno niente da portare se non lo stomaco da riempire. Questo è l’aspetto maggiormente sottolineato in tutta la Bibbia, tutta pervasa dalla sete di giustizia e quindi dalla logica della condivisione.
Il movimento ecologista dovrebbe essere molto attento oltre che ad un uso corretto, non rapace dei beni, ad un uso condiviso, perché ancor prima dell’uso rapace c’è il problema dell’uso ingiusto e discriminante. Oltre l’uso opulento dei saccheggiatori c’è la rapacità solo per sé sulla pelle degli altri. Paolo sottolinea il tema della commensalità, della partecipazione, come aveva fatto Gesù con i suoi discepoli alla vigilia della morte nel segno della commensalità umana.

una natura coinvolta nella storia della salvezza
Un quarto filone di riflessione riguarda la natura in quanto coinvolta nella storia dell’uomo nel bene e nel male, perché la natura è una dimensione essenziale dell’uomo. L’essere dell’uomo al mondo caratterizza la storia della salvezza. Il mondo senza l’uomo non è immaginabile come non è immaginabile nella concezione creazionistica l’uomo senza il mondo. La natura non è soggetto della storia della salvezza, dato che l’unico soggetto è l’uomo, ma se l’uomo ha una dimensione mondana, la natura viene coinvolta in questa storia, sia nel bene che nel male. E’ coinvolta nel male quando la relazione uomo natura si concretizza in un atteggiamento di idolatria o di disprezzo o di rapina o di possesso esclusivo del mondo. E’ coinvolta nel bene quando la relazione uomo natura avviene nella logia del rispetto e della condivisione.

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO (Ortodossia)

 http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/peccorpaolo.htm

 Giovanni S. Romanidis

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO

La traduzione è tratta da:
St. Vladimir’s Seminary Quaterly,
vol. IV, nn. 1-2, 1955-1956.

Indice
    Introduzione
  La Creazione decaduta
  La giustizia di Dio e la Legge
  Il destino dell’uomo e l’antropologia
  Il destino dell’uomo
  L’antropologia di san Paolo
   Osservazioni sintetiche
  Conclusioni

Introduzione
 Riguardo la dottrina del peccato originale com’è contenuta nell’Antico Testamento e chiarita dall’unica Rivelazione di Cristo nel Nuovo Testamento, nel cristianesimo occidentale, specialmente in quello fondato sullo sviluppo dei presupposti scolastici, continua a regnare una grande confusione che, negli ultimi secoli, sembra aver guadagnato molto terreno nelle problematiche teologiche dell’Oriente ortodosso. In alcune scuole questo problema è stato rivestito di un’aurea di mistificante vaghezza a tal punto che perfino alcuni teologi ortodossi sembrano accettare la dottrina sul peccato originale vedendola semplicemente come un grande e profondo mistero di fede (cfr. Androutsos, Dogmatike, pp. 161-162). Quest’atteggiamento è divenuto certamente paradossale, particolarmente da quando tali cristiani, che non possono definire il nemico dell’umanità [il Demonio], sono gli stessi che affermano illogicamente che in Cristo esiste la remissione di questo misterioso peccato originale. È sicuramente un’opinione molto distante rispetto alla certezza con la quale san Paolo ha affermato che noi “non ignoriamo i pensieri” (noemata) del Demonio (II Cor 2, 11).
Se si mantiene vigorosamente e con fermezza che Gesù Cristo è l’unico Salvatore ad aver portato la salvezza in un mondo bisognoso d’essere salvato, si deve evidentemente sapere che è la natura del bisogno ad aver procurato tale salvezza (Sant’Atanasio, De incarnatione verbi Dei, 4). Sarebbe davvero sciocco esercitare dottori e infermieri a guarire malattie se nel mondo non esistesse alcuna malattia. Analogamente un salvatore che proclama di salvare delle persone che non hanno alcun bisogno di salvezza, è un salvatore soltanto per se stesso.
Indubbiamente una delle cause più importanti dell’eresia sta nel fallimento a capire l’esatta natura della situazione umana descritta nell’Antico e nel Nuovo Testamento per la quale gli eventi storici della nascita, degli insegnamenti, della morte e risurrezione e della seconda venuta di Cristo, rappresentano l’unico rimedio. Il fallimento di tale comprensione implica automaticamente la distorta comprensione di quanto Cristo ha fatto e continua a fare per noi e della nostra conseguente relazione con Lui all’interno del Regno di salvezza. L’importanza d’una definizione corretta sul peccato originale e sulle sue conseguenze non può mai essere esagerata. Qualsiasi tentativo di minimizzarla o di alterare il suo significato comporta automaticamente un indebolimento e, parimenti, un completo malinteso sulla natura della Chiesa, dei sacramenti e del destino umano.
In ogni indagine che voglia approfondire il pensiero di san Paolo e degli altri agiografi apostolici può esserci la tentazione d’esaminare i loro scritti con definiti presupposti, benché molto spesso inconsci, contrari alle testimonianze bibliche. Se ci si accosta alla testimonianza biblica, all’opera di Cristo e alla vita della comunità primitiva con predeterminate nozioni metafisiche riguardo alla struttura morale di quello che i più definiscono “mondo naturale” e, di conseguenza, con idee fisse riguardo al destino umano e alle necessità dell’individuo e dell’umanità in genere, dalla vita e dalla fede della Chiesa antica, si coglieranno indubbiamente solo gli aspetti che si adattano bene al proprio quadro di riferimento. Allora, se si desidera mantenere costantemente autentica la propria interpretazione delle Sacre Scritture, si dovrà necessariamente procedere a spiegare esaurientemente ogni elemento estraneo ai concetti biblici e, quindi, secondario e superficiale, intendendolo semplicemente come il prodotto d’alcuni malintesi sulla dottrina di certi Apostoli, d’un gruppo di Padri, o di tutta la Chiesa primitiva in genere.
Un approccio appropriato all’insegnamento neotestamentario di san Paolo riguardo il peccato originale non può essere trattato in modo fazioso. È incorretto, per esempio, sottolineare eccessivamente la frase di Romani 5, 12 “eph’ho pantes hemarton” per provare che esiste un certo sistema di pensiero riguardo alla legge morale e alla colpa senza prima stabilire il peso delle convinzioni di san Paolo riguardo ai poteri di Satana e alla vera situazione, non solo dell’uomo, ma di tutta la creazione. Sbaglia pure chi tratta il problema della remissione del peccato originale inserendo il pensiero di san Paolo in una struttura antropologica dualistica ignorando, al contempo, i fondamenti ebraici dell’antropologia paolina. Similmente, un tentativo d’interpretare la dottrina biblica della caduta nei termini d’una filosofia edonistica sulla felicità è già condannata al fallimento per il suo rifiuto di riconoscere non solo l’anormalità ma, cosa più importante, le conseguenze della morte e della corruzione.
Un approccio corretto alla dottrina paolina sul peccato originale deve prendere in considerazione la comprensione di san Paolo:
    1) sullo stato decaduto della creazione, inclusi i poteri di Satana, la morte e la corruzione;
    2) sulla giustizia di Dio e la legge e, infine,
    3) sull’antropologia e il destino dell’uomo e della creazione.
Con ciò non si vuole suggerire che nel presente studio ciascun tema sarà trattato dettagliatamente. Tali temi, piuttosto, saranno affrontati solo alla luce del problema principale del peccato originale e della sua trasmissione secondo san Paolo.

La Creazione decaduta
 San Paolo afferma energicamente che tutte le cose create da Dio sono buone (I Tim 4,4). Allo stesso tempo, insiste sul fatto che non solo l’uomo (Rom 5, 12) ma pure tutta la creazione è decaduta (Rom 8, 20). Sia l’uomo che la creazione attendono la redenzione finale (Rom 8, 21-23). Così, nonostante il fatto che tutte le cose create da Dio siano buone, il Diavolo diviene temporaneamente (I Cor 15, 26) “dio di questo secolo” (II Cor 4, 3). Un basilare presupposto di san Paolo è che, sebbene il mondo è stato creato da Dio come una realtà buona, esso si trova ancora sotto il potere di Satana. Il Demonio, comunque, non ha alcun ruolo assoluto poiché Dio non ha abbandonato la Sua creazione (Rom 1, 20).
Secondo san Paolo, la creazione non è quanto Dio intendeva fosse “poiché la creatura è soggetta alla vanità non per volontà propria ma per causa di chi l’ha assoggettata” (Rom 8, 20) Perciò la cattiveria può esistere, almeno temporaneamente, come un elemento parassita a fianco o all’interno di quanto Dio ha creato originalmente come buono. Un ottimo esempio di ciò è colui che vorrebbe fare il bene secondo l’“uomo interiore” ma ne è impossibilitato per l’insito potere del peccato nella carne (Rom 7, 15-25). Benché la realtà creata sia buona e venga ancora mantenuta e governata da Dio, la creazione per se stessa è lontana dalla normalità o dalla naturalità se, per “normale”, intendiamo la natura secondo l’originale e finale destino della creazione. Colui che governa questo mondo, contrariamente al fatto che Dio sostiene ancora la creazione e conserva per se un resto di essa (Rom 11, 5), è il Demonio (II Cor 4, 3).
Cercare di rinvenire in san Paolo una certa filosofia naturale con un universo equilibrato da fisse e inerenti leggi ragionevoli secondo le quali l’uomo può vivere serenamente ed essere felice, significa fare violenza alla fede dell’apostolo. Per san Paolo non esiste alcun mondo naturale con un sistema inerente di leggi morali, poiché tutta la creazione è stata sottoposta alla vanità e al cattivo dominio di Satana subendo il potere della morte e della corruzione (I Cor 15, 56). Per questa ragione tutti gli uomini sono divenuti peccatori (Rom 3, 9-12; 5, 19). Non esiste alcun uomo che non sia peccatore semplicemente perché vive secondo la legge della ragione o la norma mosaica (Rom 5, 13). La possibilità di vivere secondo la legge universale implica pure la possibilità d’essere senza peccato. Tuttavia, per san Paolo, questo è un mito poiché Satana non rispetta le leggi della ragione che fanno vivere rettamente (II Cor 4, 3; 11, 14; Ef 6, 11-17; II Tess 2, 8) e ha sotto la sua influenza tutti gli uomini che nascono sotto il potere della morte e della corruzione (Rom 8, 24).
Che sia creduto o meno, il presente, reale ed attivo potere di Satana dovrebbe provocare il teologo biblista. Egli non può ignorare l’importanza attribuita da san Paolo al potere demoniaco. Facendo diversamente non si comprende per nulla il problema del peccato originale e della sua trasmissione e si finisce pure per equivocare il pensiero degli scrittori del Nuovo Testamento e la fede di tutta la Chiesa antica. Riguardo al potere di Satana per opera del quale viene introdotto il peccato nella vita d’ogni uomo, sant’Agostino, per combattere il pelagianesimo, ha chiaramente mal interpretato san Paolo. Il potere di Satana, la morte e la corruzione dallo sfondo teologico dov’erano posti sono stati collocati in primo piano per rispondere alla controversia sul problema della colpa personale nella trasmissione del peccato originale. In tal modo, san’Agostino ha introdotto un falso approccio filosofico-moralistico che è estraneo al pensiero di san Paolo (Col 2, 8 ) e che non è stato accettato dalla tradizione patristica orientale (Cfr. San Cirillo d’Alessandria, Migne, PG, t. 74, c. 788-789).
Per san Paolo Satana non è semplicemente un potere negativo nell’universo. È una realtà personale con volontà (II Tim 2, 26), pensieri (II Cor 2, 11) e metodi falsi (I Tim 2, 14; 4, 14; II Tim 2, 26; II Cor 11, 14; 4, 3; 2, 11; 11, 3), contro il quale i cristiani devono intraprendere un’intensa battaglia (Ef. 6, 11-17) poiché possono essere ancora tentati da lui (I Cor 7, 5; II Cor 2, 11; 11, 3; Ef 4, 27; I Tes 3, 5; I Tim 3, 6; 3, 7; 4, 1; 5, 14). Egli è dinamicamente attivo (II Cor 11, 14; 4, 3; Ef 2, 2; 6, 11-17; I Tess 2, 18; 3, 5; II Tess 2, 9; I Tim 2, 14; 3, 7; II Tim 2, 25-26) e combatte per la distruzione della creazione senza attendere con semplice passività in uno spazio circoscritto per accogliere coloro che decidono razionalmente di non seguire Dio e le leggi morali inerenti ad un universo naturale. Satana è pure capace trasformare se stesso in angelo di luce (II Cor 11, 15). Ha a sua disposizione miracolosi poteri di perversione (II Tess 2, 9) e ha per collaboratori eserciti di poteri invisibili (Ef 6, 12; Col 2, 15). Egli è “il bene di questo secolo” (II Cor 4, 4), colui che ha ingannato la prima donna (II Cor 11, 3; I Tim 2, 14). È lui che ha condotto l’uomo (Ibid.) e tutta la creazione nel sentiero della morte e della corruzione (Rom 8, 19-22).
Il potere della morte e della corruzione, secondo Paolo, non è negativo ma, al contrario, positivamente attivo. “Il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56) che, a sua volta, fa regnare la morte (Rom 5, 21). Non solo l’uomo ma tutta la creazione è stata assoggettata alla tirannia del suo potere (Rom 8, 21) e ora attende la redenzione. Perciò la creazione stessa sarà consegnata dalla schiavitù della corruzione (Rom 8, 20). Assieme con la distruzione finale di tutti i nemici di Dio, la morte – l’ultima e probabilmente la maggior nemica – sarà distrutta (I Cor 15, 24-26). Allora la morte sarà inghiottita dalla vittoria (I Cor 15, 54). Per san Paolo la distruzione della morte è parallela alla distruzione del Demonio e delle sue forze. La salvezza dalla prima significa la salvezza dagli altri (Col 2, 13-15; I Cor 15, 24-27; 15, 54-57).
È ovvio che le espressioni paoline riguardanti la creazione decaduta, Satana e la morte non offrono alcuno spazio a qualsiasi tipo di dualismo metafisico o a qualsiasi divisione mentale con la quale si farebbe di questo mondo un dominio intermedio quasi esso fosse, per l’uomo, una pietra di guado tra la presenza di Dio e il regno di Satana. L’idea di tre piani nella storia in cui Dio con i suoi seguaci e gli angeli occuperebbero quello superiore, il Demonio la base e l’uomo nella sua carne il piano intermedio, non trova alcun posto nella teologia paolina. Per Paolo tutte le tre realtà si compenetrano. Non esiste alcun mondo intermedio e neutro dove l’uomo possa vivere secondo la legge naturale ed essere giudicato per ricevere la felicità alla presenza di Dio o per meritare il tormento in abissi tenebrosi. Al contrario, tutta la creazione è dominio di Dio ed Egli non può essere contaminato dal male. Tuttavia, nel suo dominio esistono altre volontà che Egli ha creato le quali possono scegliere sia il Regno di Dio sia il regno della morte e della distruzione.
Contrariamente al fatto che la creazione di Dio è essenzialmente buona, il Demonio ha contemporaneamente e parassitariamente trasformato questa stessa creazione in un temporaneo regno per se stesso (II Cor 4, 3; Gal 1, 4; Ef 6, 12). Il Demonio, la morte e il peccato stanno regnando in questo mondo, non in un altro. Il regno delle tenebre e quello della luce si stanno facendo guerra nel medesimo luogo. Per questa sola ragione l’unica vittoria possibile sul Diavolo è la risurrezione dalla morte (I Cor 15, 1 e ss.). Non esiste alcuna fuga dal campo di battaglia. L’unica scelta possibile per ogni uomo è combattere attivamente il Demonio condividendo la vittoria di Cristo, o accettare le falsità del Diavolo volendo credere che tutto va bene ed è tutto normale (Rom 12, 2; I Cor 2, 12; 11, 32; II Cor 4, 3; Col 2, 20; II Tess 2, 9; II Tim 4, 10; Col 2, 8; I Cor 5, 10).

La giustizia di Dio e la Legge
 Secondo quant’è stato detto, per san Paolo la creazione decaduta ha una natura non duplice. Ne consegue che non esiste alcun sistema morale di leggi inerenti ad un universo normale e naturale. Perciò quello che l’uomo accetta come giusto e buono, partendo dalle sue osservazioni sulle relazioni umane nella società e nella natura, non può essere confuso con la giustizia di Dio. La giustizia di Dio è stata rivelata unicamente e pienamente solo in Cristo (Rom 1, 17; 3, 21-26). Nessun uomo ha il diritto di sostituire la propria concezione della giustizia a quella divina (Rom 10, 2-4; Fil 3, 8).
La giustizia di Dio, com’è rivelata in Cristo, non opera secondo un’obiettiva regola di condotta (Rom 3, 20; 5, 15 ss.; 9, 32) ma, piuttosto, secondo le relazioni personali di fede e d’amore (Rom 9, 30; 10, 10; I Cor 13, 1; 14, 1; I Tim 5, 8). “La legge non è fatta per il giusto ma per gli ingiusti e i disobbedienti, per gli empi e i peccatori…” (I Tim 1, 9-10). La legge non è un male ma un beneficio (I Tim 1, 18) pure spirituale (Rom 7, 14). Tuttavia non è abbastanza perché possiede una natura temporanea e pedagogica (Gal 3, 24). Essa dev’essere adempiuta in Cristo (Gal 5, 13) e superata con un amore personale secondo l’immagine dell’amore di Dio rivelato in Cristo stesso (Rom 8, 29; 15, 1-3; 15, 7; I Cor 2, 16; 10, 33; 13, 1 ss.; 15, 49; II Cor 3, 13; Gal 4, 19; Ef 4, 13; 5, 1; 5, 25; Fil 2, 5; Col 3, 10; I Tes 1, 6). La fede e l’amore in Cristo devono essere personali. Per questa ragione la fede senza l’amore è vuota. “Se avessi tutta la fede, sì da trasportare le montagne, e poi mancassi d’amore non sarei nulla” (I Cor 13, 2). Similmente gli atti di fede privi d’amore non sono d’alcun profitto. “Se pure disperdessi, a favore dei poveri, quanto possiedo e dessi il mio corpo per essere arso, ma non avessi l’amore, non ne avrei alcun giovamento” (I Cor 13, 3).
Non esiste possibilità di vita, seguendo delle regole oggettive. Se, seguendo la legge, vi fosse stata qualche possibilità non ci sarebbe stato bisogno della redenzione in Cristo. “La rettitudine sarebbe stata data nella legge” (Gal 3, 21) “Se fosse stata data una legge che avesse il potere di vivificare” (Ibid.). allora non sarebbe stata data ad Abramo la promessa della salvezza ma direttamente la salvezza stessa (Gal 3, 18). La vita non esiste dove sussiste la legge. La vita è, piuttosto, l’essenza di Dio “l’unico che possiede l’immortalità” (I Tim 6, 16). Perciò solo Dio può dare vita e lo fa liberamente secondo la propria volontà (Rom 9, 16), alla sua maniera e al tempo che sceglie come più opportuno (Rom 3, 26; Ef 2, 4-6; I Tim 6, 15).
D’altra parte, è un grave errore attribuire alla giustizia di Dio la responsabilità della morte e della corruzione. In nessun luogo Paolo attribuisce a Dio l’inizio di questi eventi. Al contrario, la natura è stata sottoposta alla vanità e alla corruzione dal Diavolo (II Cor 11, 13; I Tim 2, 14) che, attraverso il peccato e la morte del primo uomo, si è inserito parassitariamente nella creazione della quale faceva già parte anche se, ancora, non ne era il tiranno. Per Paolo la trasgressione del primo uomo ha aperto la via all’ingresso della morte nel mondo (Rom 5, 12); tuttavia questa nemica (I Cor 15, 26) non è certamente il frutto perfetto di Dio. Né può la morte di Adamo, o quella di ciascun uomo, essere considerata la conseguenza d’una decisione punitiva da parte di Dio (San Gregorio Palamas, Kephalia Physica, 52, Migne, PG t. 150-A). San Paolo non suggerisce mai una simile idea!
Per giungere ai presupposti basilari del pensiero biblico è necessario abbandonare ogni schema giuridico di giustizia umana con il quale si attribuisce la punizione o la ricompensa secondo le oggettive regole della moralità. Avvicinandosi al problema del peccato originale con uno schema così ingenuo si dovrà credere che ogni lettore attribuisca ad una penalità comune un’offesa comune ragion per cui tutti condividono la colpa di Adamo (F. Prat, La Theologie de saint Paul, Paris 1924, t. c. pp. 67-68). Questo, però, significa ignorare la vera natura della giustizia divina e negare il potere reale del Diavolo.
Le relazioni che esistono tra Dio, l’uomo e il Diavolo non seguono leggi e regolamenti ma si accordano alla libertà personale. Il fatto che esistano leggi che proibiscono l’uccisione non determina l’impossibilità che tale evento non possa accadere una volta e neppure centinaia di migliaia di volte. Se l’uomo può trascurare l’osservanza di regole e disposizioni di buona condotta, sicuramente non ci si può attendere dal Diavolo l’osservanza di tali regole, visto che quest’ultimo può aiutare l’uomo a prescinderne. La versione paolina del Demonio non coincide certo con quella di chi rispetta semplicemente delle leggi naturali ed esegue la volontà di Dio per sottrarsi alla punizione delle anime in inferno. Ben al contrario, il Demonio combatte Dio attivamente attraverso metodi in cui impiega la maggior falsità possibile cercando di distruggere le opere di Dio con tutta l’astuzia e il potere in suo possesso (Rom 8, 20; I Cor 10, 10; II Cor 2, 11; 4, 3; 11, 3; 11, 14; Ef 2, 1-3; 6, 11-17; I Tess 2, 18; 3, 5; II Tes 2, 9; I Tim 2, 14; 5, 14; II Tim 2, 26). Così la salvezza per l’uomo e la creazione non può venire da un semplice atto di perdono su qualche giuridica imputazione di peccato, né può provenire dal pagamento di qualche soddisfazione al Diavolo (Origene) o a Dio (Roma). La salvezza può provenire solo dalla distruzione del Demonio e del suo potere (Col 2, 15; I Cor 15, 24-26; 15, 53-57; Rom 8, 21).
Secondo san Paolo, è Dio stesso che ha distrutto “i principati e le potenze” inchiodando gli scritti dei decreti che erano contro di noi sulla croce di Cristo (Col 2, 14-15) “poiché è stato Dio che in Cristo ha riconciliato a se gli uomini non imputando loro le mancanze commesse” (II Cor 5, 19). Benché fossimo peccatori, Dio non s’è rivolto contro di noi, ma ha proclamato la sua giustizia a coloro che credono in Cristo (Rom 3, 20-27). La giustizia di Dio non è accordata a quegli uomini che producono opere dalla legge (Rom 10, 3; Fil 3, 8). Per san Paolo la giustizia e l’amore di Dio non sono separati dall’inosservanza di qualche dottrina giuridica d’espiazione. La giustizia di Dio e l’amore di Dio, come sono stati rivelati in Cristo, sono la stessa cosa. Così, nella lettera ai Romani (3, 21-26) l’espressione “amore di Dio” potrebbe essere molto facilmente sostituita da “giustizia di Dio”.
È interessante notare che ogni volta in cui san Paolo parla della collera di Dio si riferisce sempre a quella che è rivelata a coloro che sono divenuti disperatamente schiavi, per loro propria scelta, alla carne e al Diavolo (Rom 1, 18 ss.). Benché la creazione sia tenuta prigioniera nella corruzione, coloro che vivono senza la legge, adorando e vivendo erroneamente, sono senza scusa poiché “le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità” (Rom 1, 20); “perciò Dio li abbandonò nelle concupiscenze dei loro cuori lasciando ch’essi disonorassero sconciamente i loro corpi a vicenda…” (Rom 1, 24). E ancora: “Dio li abbandonò a sentimenti reprobi” (Rom 1, 28). Tutto ciò non significa che Dio ha fatto divenire questi uomini quel che essi sono, quanto piuttosto che li ha abbandonati nello smarrimento totale della corruzione e del potere del Diavolo. Bisogna interpretare così anche altri simili passi (Ad es. Rom 9, 14-18; 11, 8).
L’abbandono di Dio di un popolo già indurito nel proprio cuore contro le opere divine non è ristretto ai gentili ma riguarda pure i giudei (Rom 9, 6). “Poiché, davanti a Dio, non sono giusti coloro che sentono parlare della legge ma saranno salvati solo quelli che la praticheranno” (Rom 2, 13). “Coloro che hanno peccato nella legge saranno giudicati dalla legge” (Rom 2, 12). I gentili, comunque, pur non essendo sotto la legge mosaica non sono scusati dalla responsabilità del peccato personale poiché essi “non avendo la legge sono legge a se stessi; essi mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza e i loro pensieri per cui vicendevolmente ora s’accusano, ora si difendono” (Rom 2, 14-15). All’ultimo giudizio tutti gli uomini, sotto la legge o meno, udenti o meno, saranno giudicati da Cristo secondo il vangelo predicato da Paolo (Rom 2, 16) e non secondo un sistema di leggi naturali. Pure attraverso le invisibili realtà divine – “le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità” – non esiste alcuna cosa simile ad un corpo di leggi morali inerenti nell’universo. I gentili che “non hanno la legge” ma che “fanno per natura le cose contenute nella legge” non rispettano un sistema naturale di leggi universali. Essi, piuttosto, “mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza”. Anche qui si può vedere la concezione paolina delle relazioni personali tra Dio e l’uomo. “Dio stesso le ha manifestate in loro” (Rom 1, 19) ed è Dio che sta ancora parlando all’uomo decaduto al di fuori della legge, attraverso la sua coscienza e nel suo cuore il quale, per Paolo, è il centro dei pensieri umani (Rom 1, 21; I Cor 4, 5 14-25; Ef 1, 17) e, nei membri del corpo di Cristo (Ef 3, 17), il luogo in cui abita lo stesso Cristo e lo Spirito Santo (II Cor 1, 22; Gal 4, 6).

Il destino dell’uomo e l’antropologia
 Prima d’iniziare il tentativo di determinare il significato del peccato originale, come già precedentemente precisato, è necessario osservare la concezione di Paolo sul destino dell’uomo e la sua antropologia.

Il destino dell’uomo
 Sarebbe un controsenso cercare di leggere nella teologia di Paolo una concezione del destino umano che accoglie come normalità le aspirazioni e i desideri di quello che qualcuno chiamerebbe l’“uomo naturale”. Per l’uomo naturale è normale cercare la sicurezza e la felicità nell’acquisizione e nel possesso di beni oggettivi. I teologi scolastici occidentali hanno spesso utilizzato queste tendenze dell’uomo naturale come prova che, alla fine, l’uomo cerca istintivamente l’Assoluto, possedendo il quale raggiunge l’unico stato in cui è possibile una completa felicità visto che in tale stato è impossibile desiderare qualcosa di più e non esiste nulla di meglio. Questo tipo d’approccio edonistico sul destino umano è ovviamente possibile solo per coloro che ritengono la morte e la corruzione una realtà normale o, al più, la conseguenza d’una decisione punitiva di Dio. In tal maniera costoro accettano che Dio sia la principale causa della morte finendo per attribuirgli realmente il peccato e i poteri della corruzione. Dio stesso diverrebbe sorgente del peccato e del male.
Per san Paolo non esiste alcuna realtà come normale in coloro che non sono posti in Cristo. Il destino dell’uomo e della creazione non può essere dedotto da osservazioni sulla vita dell’uomo e della creazione decaduta. In nessun passo Paolo incoraggia il cristiano a vivere una vita di sicurezza e di felicità secondo lo stile di questo mondo. Al contrario chiama il cristiano a morire a questo mondo e al corpo del peccato (Rom 8, 10; 8, 13; II Cor 4, 10-11; 6, 4-10; Col 2, 11-12; 2, 20; 3, 3; II Tes 1, 4-5) e, pure, a soffrire per il vangelo secondo la forza di Dio (II Tim 1, 8; 2, 3-6; 6, 4-5). Paolo asserisce che “quanti vorranno vivere piamente in Cristo saranno perseguitati” (II Tim 3, 12). È certamente un linguaggio forte per chi cerca sicurezza e felicità (I Tim 6, 7-9). Non è possibile supporre che, per Paolo, le sofferenze senza amore siano considerate dei mezzi per raggiungere il proprio destino. Tale prospettiva sarebbe quella di chi punta al pagamento del proprio lavoro e non di chi ha relazioni personali di fede e d’amore (I Cor 13, 3).
San Paolo non crede che il destino umano consista semplicemente nel conformarsi a delle norme e delle regole naturali che rimangono apparentemente immutate dall’inizio del tempo. La relazione tra la volontà divina e quella umana non comporta né una sottomissione giuridica né una sottomissione edonistica (come insegnano sant’Agostino e i teologi scolastici) ma piuttosto una relazione d’amore personale. San Paolo asserisce che “siamo collaboratori di Dio” (I Cor 3, 9). La nostra relazione d’amore con Dio è tale che, in Cristo, non esiste alcun bisogno della legge. “Se vi lasciate condurre dallo Spirito non siete più sotto la legge” (Gal 5, 18). I membri del corpo di Cristo non sono chiamati ad un livello di vita nel quale si eseguono impersonali ordinanze. Viene loro richiesto di vivere secondo l’amore di Cristo rivelato in Cristo stesso con il quale non c’è bisogno di legge alcuna poiché, tale amore, non cerca il proprio tornaconto (I Cor 13, 4) ma vuole donarsi ad immagine dell’amore divino (Fil 2, 5-8).
L’amore e la giustizia di Dio sono state rivelate una volta per tutte in Cristo (Rom 3, 21-28) attraverso la distruzione del Demonio (Col 2, 15) e la liberazione dell’uomo dal corpo di morte e di peccato (Rom 8, 24; 66) in modo tale che l’uomo può ora divenire imitatore dello stesso Dio (Ef 5, 1) il quale ci ha predestinati a divenire “conformi all’immagine del proprio Figlio” (Rom 8, 29) che in nulla cercò di piacere a se stesso ma soffrì per gli altri (Rom 15, 1-3). Cristo morì in modo che coloro che continuavano a vivere non vivessero per loro stessi (II Cor 5, 15), ma divenissero uomini perfetti, “nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4, 13). I cristiani non vivono più secondo i riferimenti di questo mondo (Col 2, 20), pur vivendo in questo mondo, ma hanno assunto la stessa mentalità di Cristo (I Cor 2, 16; Fil 2, 5-8) cosicché in Cristo essi possono divenire perfetti (Col 1, 28). L’uomo non ama più sua moglie seguendo i modelli di questo mondo ma deve amare sua moglie esattamente “come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). Il destino dell’uomo non è la felicità e l’autosoddisfacimento (Fil 2, 20) quanto piuttosto la perfezione in Cristo. L’uomo deve divenire perfetto come sono perfetti Dio (Ef 5, 1) e Cristo (Rom 8, 29; I Cor 10, 33; 15, 49; II Cor 3, 13; Gal 4, 19; Ef 4, 13; 5, 25; Fil 2, 5-8; Col 1, 28; 3, 10). Simile perfezione può essere assunta solo attraverso il personalistico potere dell’amore divino ed altruistico (I Cor 13, 2-3), “che è vincolo della perfezione” (Col 3, 14). Quest’amore non dev’essere confuso con quello dell’uomo decaduto che cerca il proprio tornaconto (Fil 2, 20). L’amore in Cristo non cerca il proprio interesse ma quello degli altri (Rom 14, 7; 15, 1-3; I Cor 10, 24; 10, 29; 11, 1; 12, 25-26; 13, 1 ss.; II Cor 5, 14-15; Gal 5, 13; 6, 1; Ef 4, 2; Fil 2, 4; I Tess 5, 11).
Divenire perfetti ad immagine di Cristo non si restringe al regno d’amore ma è inseparabile parte e forma la salvezza di tutto l’uomo come della creazione. Il corpo umile dell’uomo sarà trasformato per divenire “conforme” al “corpo glorioso” (Fil 3, 21) di Cristo. L’uomo è destinato a divenire, come Cristo, perfetto pure nel corpo. “Colui che risuscitò Gesù Cristo dai morti, farà rivivere anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che risiede in voi” (Rom 8, 11).
San Paolo afferma che la morte è il nemico (I Cor 15, 26) venuto nel mondo e riguarda tutti gli uomini a causa del peccato d’un solo uomo (Rom 5, 12). La sottomissione alla corruzione non riguarda solo l’umanità ma tutta la creazione (Rom 8, 20-21). Tale realtà, sotto il potere del Diavolo e della morte, è stata evidentemente provvisoriamente frustrata rispetto al suo originale destino. Nelle asserzioni paoline relative al primo e al secondo Adamo è erroneo rinvenire l’idea che Adamo sarebbe morto anche se non avesse peccato. Questo, semplicemente perché il primo Adamo fu fatto (eis psychen zosan), espressione che nell’uso paolino e nel suo contesto significa chiaramente immortale (I Cor 15, 42-49). Adamo avrebbe potuto essere stato creato naturalmente mortale, ma se egli non avesse peccato non sussisterebbe ragione di credere che non sarebbe divenuto immortale per natura (Sant’Atanasio, De incarnatione Verbi Dei, 4-5). Ciò ha implicato certamente gli straordinari poteri che san Paolo attribuisce alla morte e alla corruzione.

L’antropologia di san Paolo
 Come abbiamo già detto, la legge, per san Paolo, non è solo buona (Rom 7, 12) ma pure spirituale (v. 14). Ciò è noto all’“uomo interiore” (Rom 7, 22). Tuttavia l’uomo anche se possiede la volontà per fare il bene secondo la legge, non può trovare la forza (Rom 7, 18) perché è “carnale e soggetto al peccato” (Rom 7, 14). Se egli stesso, secondo “l’uomo interiore”, vuole fare il bene e non può, non è molto distante da chi fa il male e ha il peccato dimorante in sé (Rom 7, 20). Così san Paolo si domanda: “Disgraziato che sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom 7, 24). Essere liberati da questo “corpo di morte” significa essere salvati dal potere del peccato dimorante nella carne. Così “la legge dello spirito di vita in Gesù Cristo mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 2).
È fuorviante cercare d’interpretare questa frase paolina (Rom 7, 13 ss.) secondo un’antropologia dualistica che riferirebbe il termine sarkikos solo agli appetiti più bassi del corpo e specialmente ai desideri sessuali ad esclusione dell’anima. Il termine sarkikos non viene utilizzato da san Paolo in tal senso. Altrove san Paolo ricorda alle persone sposate che essi non hanno autorità sui loro corpi e così non si devono privare gli uni agli altri, “salvo che, acconsentendo, per una volta diate voi stessi al digiuno e alla preghiera. Poi, però, siate come prima perché Satana non vi tenti a causa della vostra incontinenza” (I Cor 7, 4-5. Vedi anche Rom 15, 27). Ai corinti dichiara ch’essi sono una lettera non scritta con inchiostro “ma con lo spirito del Dio vivente, non in tavole di pietra ma nelle tavole di carne del cuore – en plaxi kardias sarkinais” (II Cor 3, 3). Cristo fu conosciuto secondo la carne (II Cor 5, 16) e “Dio fu manifestato nella carne” (I Tim 3, 16) San Paolo si chiede se, dopo aver piantato realtà spirituali tra i corinti, sia una grande cosa cogliere le sarkika (realtà materiali) (I Cor 9, 11). In nessuna parte Paolo usa l’aggettivo sarkikos per riferirsi esclusivamente alla sessualità o a quello che comunemente viene definito come desideri della carne contrari a quelli dell’anima.
Sembra che san Paolo attribuisca un potere positivo di peccato alla sarx come tale solo nell’epistola ai galati i quali, avendo iniziato nello Spirito, pensano d’essere divenuti perfetti nella carne (Gal 3, 3). Qui la sarx ha una volontà di desiderio contro il pneuma (Gal 5, 16-18). “Le opere della carne sono manifeste e sono le seguenti: fornicazione, impurità, dissolutezza, lussuria, idolatria, venefizi, inimicizie, discordie, gelosie, risentimenti, contese, divisioni, sette, invidie, omicidi, ubriachezze, gozzoviglie e altre simili cose” (Gal 5, 19-21). Molte di queste opere della carne (sarkos) hanno una partecipazione, e spesso un’iniziativa, molto attiva dell’intelletto, indicazione che in questo passo la sarx, per Paolo, è molto di più di quanto ammetterebbe una qualsiasi antropologia dualistica. In ogni evenienza, la carne come tale vista come una forza positiva di peccato basandosi sulla sopravvalutazione della lettera dove Paolo si infuria contro la leggerezza dei galati (Gal 3, 1), non può essere isolata da altri riferimenti in cui il peccato dimora parassitariamente nella carne (Rm 7, 17-18) e dove la carne stessa non solo non è cattiva (I Cor 9, 11; Rom 15, 27; II Cor 3, 3; 4, 11; 5, 16) ma è quella realtà nella quale si è manifestato lo stesso Dio (I Tim 3, 16). La carne in quanto tale non è cattiva ma si è molto indebolita a causa del peccato e dell’inimicizia dimoranti in essa (Rom 7, 17-18; Ef 2, 15).
Per comprendere l’antropologia paolina non bisogna riferirsi all’antropologia dualistica dei greci i quali hanno fatto una chiara distinzione tra l’anima e il corpo quanto, piuttosto, all’antropologia ebraica nella quale sarx e psyche (la carne e l’anima) denotano entrambe l’intera persona vivente e non soltanto una parte di essa (Tresmontant, Essai sur la pensée hebraique, Paris 1953, pp. 95-96). Così nell’Antico Testamento l’espressione pasa sarx (ogni carne) viene impiegata per indicare tutte le realtà viventi (Gen 6, 13-17; 7, 15-21; Sal 135, 25) tra le quali, a maggior ragione e particolarmente, l’uomo (Gen 6, 12; Is 40, 6; Ger 25, 31; 12, 12; Zac 2, 17). L’espressione pasa psyche (ogni anima), viene utilizzata nella stessa maniera (Gios 10, 28, 30, 32, 35, 37; Gen 1, 21, 24; 2, 7; 19; 9, 10, 12, 15; Lev 11, 10). Nel Nuovo Testamento entrambe le espressioni pasa sarx (Mat 24, 22; Mc 13, 10; Lc 3, 6; Rom 3, 20; I Cor 1, 23; Gal 11, 16) e pasa psyche (At 2, 43; 3, 23; Rom 2, 9; 13, 1) vengono usate in perfetto accordo con il contesto vetero testamentario.
Vediamo dunque, che per san Paolo, essere sarkikos (Rom 7, 14) e psychikos (I Cor 2, 14) significa esattamente la medesima cosa. “La carne e il sangue (sarx kai haima) non possono ereditare il regno di Dio” (I Cor 15, 50) poiché la corruzione non può ereditare l’incorruzione (Ibid.). Per tale ragione un soma psychikon è “seminato nella corruzione ma risuscitato nell’incorruzione; seminato nel disonore ma risuscitato nella gloria (I Cor 15, 42-49); seminato nella fragilità ma risuscitato nella forza”. “Viene seminato un soma psychikon e viene risorto un soma pneumatikon. Esiste un soma psychikon ed esiste un soma pneumatikon!” (I Cor 15, 44) Sia il sarkikon che lo psychikon sono dominati dalla morte e dalla corruzione e così non possono ereditare il regno di vita. Questo può riguardare solo il pneumatikon. “Non è precedente il pneumatikon. (l’elemento spirituale) bensì lo psychikon (quello animale). Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre, il secondo uomo, tratto dal cielo, è celeste” (I Cor 15, 46-47). Questo primo uomo diviene eis psychen zosan (un’anima vivente). Per Paolo ciò significa esattamente che diviene psychikon, e quindi soggetto alla corruzione (I Cor 15, 4) poiché “tratto dalla terra è terrestre…” (I Cor 15, 47). Tali espressioni non ammettono alcuna antropologia dualistica. Un soma psychikon “tratto dalla terra, terrestre o una psyche zosa “tratta dalla terra, terrestre” condurrebbero ad una grande confusione se li si collocasse in un contesto dove esiste un dualismo che pone una distinzione tra l’anima e il corpo, tra il basso e l’alto, tra il materiale e il puramente spirituale. D’altronde cosa dovrebbe essere una psyche zosa visto che proviene dalla terra ed è terrestre? Parlando della morte un dualista non potrebbe mai ammettere che un soma psychikon è seminato nella corruzione. Affermerebbe, semmai, che l’anima lascia il corpo il quale è l’unico ad essere seminato nella corruzione.
Né la psyche né il pneuma sono la parte intellettuale dell’uomo. Non abbiamo alcuna prova di ciò né citando I Cor 2, 11 (tis gar oiden anthropon ta tou anthropou ei me to pneuma tou anthropou to en auto?), né citando I Tes 5, 23 (Autos o Theos tea eirenes hagiasai hymas holoteleis, kai holokleron hymon to pneuma kai he psyche kai to soma amemptos en te parousia tou K. H. I. X. teretheie). Non si possono prendere queste espressioni isolandole dal resto degli scritti paolini per cercare di far parlare Paolo con un linguaggio dualistico tomista come fa, ad esempio, F. Prat ne La theologie de st. Paul, t. 2, pp. 62-63. Altrove, parlando contro la pratica di alcuni individui che pregano pubblicamente in lingue sconosciute, san Paolo dice: “Se io prego con un linguaggio sconosciuto prega il mio pneuma ma la mia mente rimane senza alcun frutto. Cos’ho, allora? Pregherò con il pneuma ma pregherò pure con la mente” Qui viene fatta un’acuta distinzione tra il pneuma e il nous (la mente) (I Cor 14, 14-15). Perciò per san Paolo il regno del pneuma non appartiene alla categoria della comprensione umana. È in un’altra dimensione.
Per esprimere l’idea d’intelletto o comprensione tutti i quattro evangelisti utilizzano la parola kardia (cuore) (Mat 13, 15; 15, 19; Mc 2, 6; 2, 8; 3, 5; 6, 52; 8, 17; Lc 2, 35; 24, 15; 24, 38; At 8, 22; 28, 27; Gv 12, 40). La parola nous (mente) è usata una volta sola da san Luca (Lc 24, 45). San Paolo, invece, utilizza entrambi i termini kardia (Rom 1, 21; 1, 24; 2, 5; 8, 27; 10, 1, 6, 8, 10; 16, 18; I Cor 4, 5; 7, 37; 14, 25; II Cor 3, 15; 4, 6; 9, 7; Ef 4, 18; 6, 22; Fil 4, 7; Col 2, 2; 3, 16; 4, 8; I Tes 2, 4; II Tes 2, 16; 3, 5; I Tim 1, 5; II Tim 2, 22) e nous (I Cor 14, 14-19; 2, 16; Rom 7, 23; 12, 2; Ef 4, 23; Tit 1, 15) per definire la facoltà dell’intelligenza. Il nous, comunque, non può essere ritenuto come se fosse le facoltà intellettuali di un’anima immateriale. Esso, piuttosto, è sinonimo di kardia che, a sua volta, è sinonimo di eso anthropon.
Lo Spirito Santo è inviato da Dio nel kardia (II Cor 1, 22; Gal 4, 6) o nell’eso anthropon (Ef 3, 16), e Cristo deve abitare nel kardia (Ef 3, 17). Il kardia e l’eso anthropon sono il luogo in cui dimora lo Spirito Santo. L’uomo si diletta nella legge di Dio secondo l’eso anthropon ma esiste un’altra legge nelle sue membra che muove guerra alla legge del nous (Rom 7, 22-23). Qui il nous è chiaramente sinonimo di eso anthropon che, a sua volta, è il kardia, luogo in cui abita lo Spirito Santo e Cristo (Ef 3, 16-17).
Camminare nella vanità del nous con la dianoia ottenebrata rimanendo, quindi, alienati dalla vita di Dio attraverso l’ignoranza, è un risultato de “l’indurimento del cuore – dia ten perosin tes kardias” (Ef 4, 17-18). Il cuore è la sede della libera volontà umana ed è qui che l’uomo viene accecato (Rom 1, 21) e indurito (Ef 4, 18) a causa della propria scelta o, viceversa, illuminato nella sua comprensione dalla speranza, dalla gloria e dalla forza in Cristo (Ef 1, 18-19). È nel cuore che vengono colti i segreti umani (I Cor 14, 25) ed è qui che Cristo “darà luce ai luoghi nascosti nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori” (I Cor 4, 5).
Sarebbe assurdo interpretare l’utilizzo delle espressioni paoline eso anthropon e nous secondo un’antropologia dualistica ignorando l’uso della parola kardia la quale è in perfetto accordo con gli scritti del Nuovo e dell’Antico Testamento. Usando le parole nous e eso anthropon, Paolo ha certamente introdotto una nuova terminologia estranea all’uso tradizionale ebraico ma non ha introdotto alcuna nuova antropologia basata sul dualismo ellenistico. San Paolo non si riferisce mai né alla psyche né al pneuma come ad una falcoltà dell’intelligenza umana. La sua antropologia è ebraica, non ellenistica.
Sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento si trova l’espressione to pneuma tes zoes (lo spirito di vita), mai to pneuma zon (lo spirito vivente) (Tresmontant, Op. cit., p. 110). Si trova pure psyche zosa (l’anima vivente), mai psyche tes zoes (l’anima di vita) (Ibid.). Il motivo è semplice: la psyche, o la sarx, vivono solo per partecipazione mentre il pneuma è esso stesso principio di vita, dono di Dio affidato all’uomo (Eccl 12, 7). Inoltre, il pneuma “è il solo a possedere l’immortalità” (I Tim 6, 16). Dio dona all’uomo la propria vita increata senza distruggere la libertà umana. In tal modo, la persona non è una forma intellettuale modellata secondo un’essenza predeterminata o secondo un’idea universale di uomo. Il destino della persona non è quello di conformarsi ad uno stato d’automatica contentezza di fronte a Dio dove, per la completa autosoddisfazione e felicità, la volontà umana sia divenuta sterile ed immobile (come, ad esempio, nell’insegnamento neoplatonico di sant’Agostino e, generalmente, nel concetto sull’umano destino da parte dei tomisti cattolico-romani). La personalità dell’uomo non consiste in un’anima immateriale ed intellettuale che ha vita in se stessa e utilizza il corpo semplicemente come luogo da abitare. La sarx o la psyche sono la totalità dell’uomo mentre il kardia è il centro dell’intelligenza. La volontà conserva un’integra indipendenza e può scegliere se indurirsi davanti alla verità o divenire interiormente ricettiva all’illuminazione divina. Il pneuma dell’uomo non è il centro della personalità umana, non è neppure la facoltà che regola le sue azioni quanto, piuttosto, la scintilla di vita divina donata all’uomo come proprio principio vitale. In tal modo, l’uomo può vivere secondo il pneuma tes zoes o secondo la legge della carne che significa morte e corruzione. La vera personalità dell’uomo, comunque, benché creata da Dio rimane al di fuori dell’essenza divina e mantiene una completa libertà. Questo significa che l’uomo può giungere a respingere l’atto creativo per il quale non è stato consultato, o ad accogliere l’amore creativo di Dio vivendo secondo il pneuma, datogli per tale scopo.
“I desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello spirito portano alla vita e alla pace” (Rom 8, 6) Coloro che vivono secondo la carne avranno la morte (Rom 8, 13). Coloro che mortificano i desideri della carne, attraverso lo spirito, avranno la vita (Ibid.). Lo spirito dell’uomo, privato dello Spirito vivificante di Dio, è particolarmente debole dinnanzi alla carne dominata dalla morte e dalla corruzione (Rom 8, 9): “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rom 7, 24). Ma “la legge del pneumatos tes zoes (dello Spirito che dà vita) in Gesù Cristo ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 2). Solo coloro il cui spirito è stato rinnovato (Rom 7, 6) dall’unione con lo Spirito di Dio (Rom 8, 9) possono combattere i desideri della carne. Solo coloro che hanno ricevuto lo Spirito di Dio ed ascoltato la Sua voce nella vita del corpo di Cristo sono abilitati a lottare contro il peccato. “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rom 8, 16).
Benché Dio abbia donato all’uomo il principio di vita (lo spirito), egli può ancora partecipare fragilmente alle opere della carne. Per tale ragione è necessario che i cristiani si guardino non solo dalla fragilità della carne ma pure da quella dello spirito (II Cor, 7, 1). Il battesimo, in cui avviene l’unione tra lo spirito dell’uomo e quello di Dio, non garantisce magicamente l’impossibilità di un’eventuale separazione. Divenire nuovamente schiavi alle opere della carne può seriamente comportare l’esclusione dal corpo di Cristo (Rom 11, 21; I Cor 5, 1-13; II Tes 3, 6; 3, 14; II Tim 3, 5). L’uomo riceve lo Spirito di Dio in modo che Cristo possa dimorare nel suo cuore (II Cor 1, 22; Gal 4, 6; Ef 3, 16-17). “Voi però non siete sotto il dominio della carne ma dello spirito dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi” (Rom 8, 9). Se lo Spirito di Dio dimora nel corpo dell’uomo significa pure che egli è membra del corpo di Cristo. Essere privati del primo significa essere esclusi dall’altro. È impossibile rimanere in comunione soltanto con una parte di Dio. La comunione con Cristo, attraverso lo Spirito, è la comunione con l’intera Divinità. Escludere una Persona significa escludere tutte le tre Persone.
“Le opere della carne sono manifeste…” (Gal 5, 19) “Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. Coloro che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio” (Rom 8, 7-8). Sono così, le persone schiavizzate al potere della morte e della corruzione nella carne. Esse devono essere salvate da “questo corpo di morte” (Rom 7, 13-25). D’altra parte coloro che sono stati seppelliti con Cristo attraverso il battesimo sono morti al corpo del peccato e vivono in Cristo (Rom 6, 1-14). Nessuno vive più secondo i desideri della carne ma secondo quelli dello Spirito. “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri” (Gal 5, 22-24).
È chiaro che, per san Paolo, l’unione dello spirito dell’uomo con lo Spirito di Dio nell’esistenza d’amore del corpo di Cristo è vita e salvezza. D’altra parte, vivere aderendo ai desideri della carne dominata dai poteri della morte e della corruzione significa morire: “i desideri della carne portano alla morte” (Rom 8, 6). San Paolo in tutte le sue epistole utilizza le categorie di vita e morte. Dio è vita mentre il Diavolo tiene le redini della morte e della corruzione. L’unità con Dio nello Spirito, attraverso il corpo di Cristo nella vita agapica, significa esistere veramente ricevendo salvezza e perfezione. La separazione dello spirito umano dalla vita divina nel corpo di Cristo comporta la schiavitù ai poteri della morte e della corruzione. Tali poteri sono adoperati dal Diavolo per distruggere le opere di Dio. La vita dello Spirito è unità e amore. La vita secondo la carne è disunione e dissoluzione nella morte e nella corruzione.
È assolutamente necessario afferrare il significato con il quale san Paolo utilizza i termini di sarx, psyche e pneuma per evitare la diffusa confusione dominante nel campo delle indagini sulla teologia paolina. San Paolo non parla mai in termini di anime razionali immateriali contrarie a dei corpi materiali. La sarx e la psyche sono sinonimi e formano, con il pneuma, l’intero uomo. Vivere secondo il pneuma non è seguire gl’istinti più bassi dell’uomo. Vivere secondo la sarx o psyche significa seguire la legge della morte contrariamente a chi, vivendo secondo lo spirito, vive la legge della vita e dell’amore.
Coloro che sono sarkikoi non possono vivere secondo il loro originario destino d’amore altruistico verso Dio e il prossimo, poiché sono dominati dal potere della morte e della corruzione. “Il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56). Il peccato ha regnato con la morte (Rom 5, 21). La morte è l’ultimo nemico ad essere distrutto (I Cor 15, 26). Tanto in quanto l’uomo vive secondo la legge della morte, nella carne, non può piacere a Dio (Rom 8, 8) poiché non vive secondo la legge della vita e dell’amore. “Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero” (Rom 8, 7). La liberazione dai poteri della morte e della corruzione è venuta da Dio che ha inviato il proprio Figlio “in una carne simile a quella del peccato” per liberare l’uomo “dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 1-11).
Ma benché la forza della morte e del peccato sia stata distrutta dalla morte e dalla risurrezione di Cristo, la partecipazione a questa vittoria può venire solo attraverso la morte a questo mondo con Cristo nell’acqua del battesimo (Rom 6, 1-14). È solo morendo nel battesimo e continuando a morire alla mentalità e ai costumi del mondo che i membri del corpo di Cristo divengono perfetti come Dio è perfetto.
L’importanza che san Paolo attribuisce al rifiuto della mentalità mondana per vivere secondo “lo spirito di vita” non può essere esagerata. Cercare di presentare la sua insistenza sul radicale rifiuto della mondanità in vista della salvezza come se fosse il prodotto d’un entusiasmo escatologico, significa smarrire completamente la vera base del messaggio neotestamentario. Se la distruzione del Diavolo, della morte e della corruzione ha significato la salvezza e l’unica condizione per vivere secondo l’originale destino dell’uomo, il significato d’essere passati dal regno della morte e delle sue conseguenze a quello della vita nella vittoria di Cristo sulla morte stessa, dev’essere considerato molto seriamente. Per Paolo passare dalla morte alla vita significa essere in comunione con la morte e la vita di Cristo nel battesimo vivendo continuamente nel corpo di Cristo. La nuova vita nel corpo di Cristo, comunque, dev’essere costantemente contraddistinta da un quotidiano morire alla mentalità di questo mondo, dominato dalla legge della morte e della corruzione e posto nelle mani dal Diavolo. La partecipazione alla vittoria sulla morte non deriva semplicemente dal possesso d’una magica fede e da un vago e generico sentimento d’amore verso l’umanità (Lutero). La totale appartenenza al corpo di Cristo può essere realizzata solo morendo nelle acque del battesimo con Cristo stesso e vivendo secondo la legge dello “spirito di vita”. I catecumeni e i penitenti hanno certamente la fede ma non sono ancora passati attraverso la morte del battesimo alla nuova vita. Non sono nella nuova vita neppure coloro che, dopo essere morti alla carne nel battesimo, non hanno perseverato permettendo, in tal modo, al potere della morte e della corruzione di prevalere sullo “spirito di vita”.
Riguardo all’insegnamento paolino concernente la morte battesimale alla mentalità mondana è interessante notare l’utilizzo che egli fa della parola soma per designare la comunione tra coloro che, in Cristo, costituiscono la Chiesa. Il termine soma in entrambi i Testamenti, a parte Paolo, è prevalentemente usato per designare una persona morta o un cadavere (Cfr. Mt 5, 29; 10, 28; 14, 12; 26, 12; 27, 52; 58, 59; Mc 14, 18; 15, 43; 15, 45; Lc 12, 4; 23, 52; 24, 3-23; Gv 2, 21; 19, 31, 38, 40; 20, 12; At 9, 40; I Pt 2, 24; Gd 9). Nell’Ultima Cena, nostro Signore ha utilizzato la parola soma per designare, molto probabilmente, il suo passaggio attraverso la morte. Analogamente ha utilizzato il termine haima per mostrare il suo ritorno alla vita poiché, nell’Antico Testamento, il sangue è un elemento designante la vita (Westcott, Commentary on the Epistle to Hebrews). In tal modo nell’Ultima Cena, come in ogni Eucarestia, c’è la proclamazione e la confessione della morte e della resurrezione di Cristo. Secondo i presupposti rinvenibili nei discorsi paolini riguardo alla morte battesimale, è possibilissimo descrivere la Chiesa come il soma di Cristo non solo per l’inabitazione di Cristo stesso e dello Spirito nei corpi dei cristiani ma pure perché tutti i membri di Cristo sono morti al corpo del peccato nelle acque battesimali. Prima di condividere la vita di Cristo è necessario divenire un vero soma liberato dal Diavolo morendo alla mentalità di questo mondo e vivendo secondo lo “spirito” (l’uso paolino del termine soma non è sempre consistente. Tuttavia non viene mai utilizzato in un contesto dualistico per distinguere il corpo dall’anima. Al contrario, Paolo usa frequentemente soma come sinonimo di sarx (I Cor 6, 16; 7, 34; 13, 3; 15, 35-58; II Cor 4, 10-11; Ef 1, 20-22; 2, 15; 5, 28 ss.; Col 1, 22-24). Se la sua antropologia fosse dualistica non sarebbe logico utilizzare il termine soma per designare la Chiesa e kephale tou somatos (capo del corpo) per designare Cristo. Sarebbe molto più normale denominare la Chiesa con il termine di corpo e presentare Cristo come l’anima di tale corpo).

Osservazioni sintetiche
 San Paolo non dice in alcun passo che l’intero genere umano è considerato colpevole del peccato di Adamo ed è stato quindi punito con la morte. La morte è una forza cattiva entrata nel mondo attraverso lo stesso peccato radicato nel mondo e regna nella creazione a causa di Satana. Per questa ragione, benché l’uomo possa conoscere le cose buone attraverso la legge scritta nel suo cuore e possa operare quant’è bene, ne è impedito a causa del peccato dimorante nella sua carne. Perciò non è lui che fa il male ma è il peccato che dimora in lui. A causa di questo peccato egli non può trovare la maniera per operare il bene. Deve quindi essere salvato da “questo corpo di morte” (Rom 7, 13-25). Solo in seguito può fare il bene. Cosa vuole dire Paolo attraverso queste affermazioni? Un’appropriata risposta può essere fondata solo quando si tiene in considerazione la dottrina paolina sul destino umano.
Se l’uomo fosse stato creato per una vita di completo amore altruista le sue azioni sarebbero state guidate sempre da un motivo esterno. Si sarebbero mosse sempre verso Dio e il prossimo, mai verso il soggetto agente. Così ci sarebbe stata una perfetta immagine e somiglianza di Dio. È ovvio che il potere della morte e della corruzione ha impossibilitato la persona a vivere una tale vita di perfezione. Il potere della morte nell’universo ha portato con sé la volontà dell’autoconservazione, la paura e l’inquietudine (Ebr 2, 14-15) che, a loro volta, sono la radice e la causa dell’autoasservimento, dell’egoismo, dell’odio, dell’invidia e d’altri simili sentimenti. Poiché l’uomo ha paura di divenire insignificante, si sforza continuamente mettendosi alla prova, davanti a se stesso e agli altri, per mostrare che vale qualcosa. Ha sete di complimenti e paura d’insulti. Cerca il proprio successo ed è geloso di quello degli altri. Gli piacciono le persone come lui e odia coloro che lo odiano. Egli cerca la sicurezza e la felicità nella ricchezza, insegue la gloria e i piaceri fisici e immagina che il suo destino consista nell’essere felice nel possesso della presenza di Dio. La fruizione egoistica di Dio viene immaginata a causa della sua introversa e individualistica personalità incline all’errore e all’egocentrico desiderio di soddisfazione e felicità ritenute come proprio normale destino. D’altra parte egli può divenire premuroso su vaghi principi ideologici d’amore verso l’umanità e continuare, poi, ad odiare i suoi vicini più prossimi. Queste sono le opere della carne delle quali san Paolo parla (Gal 5, 19-21). Sotto ogni azione di colui che il mondo conosce come “l’uomo normale”, esiste la ricerca della sicurezza e della felicità. Ma tali desideri non sono normali. Sono la conseguenza della perversione causata dalla morte e dalla corruzione, attraverso la quale il Diavolo invade tutta la creazione, dividendola e distruggendola. Questo potere è così grande che se l’uomo vuole vivere secondo il suo originale destino ne è impedito a causa del peccato che abita nella sua carne (Rom 7): “Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom 7, 24.).
Condividere l’amore di Dio, senza qualche concessione per se stessi, significa pure condividere la vita e la verità di Dio. L’amore, la vita e la verità in Dio sono una cosa sola e possono essere fondate solo in Lui. Allontanarsi dall’amore di Dio e del prossimo significa rompere la comunione con la vita e la verità divine, che non possono essere separate dal Suo amore. La rottura di questa comunione con Dio può essere consumata solo nella morte, poiché nulla di creato può continuare indefinitamente ad esistere per se stesso (Sant’Atanasio, Op. cit., 4-5). Così, a partire dalla trasgressione del primo uomo, il principio del “peccato (il Diavolo) è entrato nel mondo ed attraverso la morte il peccato, e così la morte ha raggiunto tutti gli uomini.” (Rom 5, 12). Non solo l’umanità ma tutta la creazione è stata soggetta alla morte e alla corruzione dal Diavolo (Rom 8, 20-22). Poiché l’uomo è parte inseparabile della creazione, mantiene con essa una continua comunione ed è collegato con la procreazione all’intero processo storico dell’umanità, la caduta della creazione attraverso un uomo coinvolge automaticamente tutti gli uomini nella caduta e nella corruzione. È attraverso la morte e la corruzione che tutta l’umanità e la creazione è tenuta prigioniera dal Diavolo venendo coinvolta nel peccato, perché è attraverso la morte che l’uomo decade dal suo originale destino che consisteva nell’amare Dio e il prossimo senza alcun egoismo. L’uomo non muore perché è colpevole per il peccato di Adamo (Cfr. San Giovanni Crisostomo, Migne, P.G. t. 60, col. 391-692; Theophylactos, Migne, P.G. t. 124, c. 404-405). Diviene peccatore [e quindi mortale] perché è assoggettato al potere del Diavolo attraverso la morte e le sue conseguenze (Cfr. Cirillo di Alessandria, Migne, P. G. t. 74, c. 781-785 e specialmente c. 788-789; Teodoreto di Ciro, Migne, P.G. t. 66, c. 800).
San Paolo dice chiaramente che “il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56), che “il peccato ha regnato nella morte” (Rom 5, 21) e che la morte è “l’ultimo nemico ad essere distrutto” (I Cor 15, 26). Nelle sue epistole, è particolarmente ispirato quando parla della vittoria di Cristo sulla morte e la corruzione. Sarebbe veramente illogico cercare d’interpretare il pensiero paolino attraverso i presupposti:
    1) che la morte è normale o che, al più,
    2) è la conseguenza d’una decisione giuridica divina di punire l’intera umanità per un peccato;
    3) che la felicità è l’ultimo destino dell’uomo e che
    4) l’anima è immateriale, naturalmente immortale e direttamente creata e concepita da Dio. Perciò essa sarebbe normale e scevra da difetti (scolasticismo romano).
La dottrina paolina dell’uomo sull’incapacità a fare il bene che la persona è in grado di riconoscere secondo l’“uomo interiore”, può essere capita solo se si prende seriamente in considerazione il potere della morte e della corruzione nella carne, che rende impossibile all’uomo una vita secondo il proprio destino originale.
Il problema moralistico esposto da sant’Agostino riguardo la trasmissione della morte ai discendenti di Adamo come punizione per una trasgressione originale è estraneo al pensiero paolino. La morte di ciascun uomo non può essere considerata la conseguenza d’una colpa personale. San Paolo non pensa come un filosofo moralista che cerca la causa della caduta dell’umanità e della creazione nella rottura di oggettive regole di buon comportamento, rottura che esige la punizione di un Dio la cui giustizia è ad immagine della giustizia di questo mondo. Paolo pensa chiaramente alla caduta nei termini di una guerra personale tra Dio e Satana, nella quale Satana non è obbligato a seguire alcuna sorta di regole morali se può essergli di vantaggio. È per questa ragione che san Paolo può affermare che il serpente “ha ingannato Eva” (II Cor 11, 3) e che “non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione” (I Tim 2, 14). L’uomo non è stato punito da Dio, ma reso prigioniero dal Diavolo.
Questa interpretazione è promossa dalla chiara insistenza paolina che “fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo” (Rom 5, 13-14). È chiaro che Paolo nega qualche cosa come una colpa generale personale per il peccato di Adamo. Il peccato rimase comunque nel mondo, visto che la morte ha regnato pure su quelli che non avevano peccato oltre che in Adamo che aveva peccato. Qui il peccato significa evidentemente la persona di Satana, che ha regnato nel mondo attraverso la morte pure prima dell’arrivo della legge. Questa è la sola possibile interpretazione del presente passo, poiché tale spiegazione è chiaramente sostenuta altrove negli insegnamenti paolini a proposito dei poteri straordinari del Diavolo, specialmente in Romani 8, 19-21. Le asserzioni di san Paolo dovrebbero essere prese molto letteralmente quando afferma che l’ultimo nemico ad essere distrutto sarà la morte (I Cor 15, 26) e che “il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56).
Da quanto è stato osservato la famosa espressione eph’ho pantes hemarton (Rom 5, 12) può essere sicuramente interpretata in riferimento al termine thanatos che la precede il quale è l’unica parola che si adatta al significato del testo. Riferire eph’ho ad Adamo è impossibile sia grammaticamente che esegeticamente. Simile interpretazione fu inizialmente introdotta da Origene che la assunse, evidentemente, poiché aveva determinati presupposti mentali: credeva nella preesistenza di tutte le anime. Per tale motivo Origene avrebbe facilmente affermato che tutte le anime hanno peccato in Adamo. L’interpretazione di eph’ho come “perché” fu introdotta in Oriente per la prima volta da Fozio (Amphilochia, heroteseis, 84, Migne, P.G. t. 101, c. 553-556). Egli affermò che in tal passo esistono due prevalenti interpretazioni – Adamo e thanatos –. Fozio, tuttavia, propendeva per dioti (perché) fondando le sue argomentazioni su un’errata interpretazione di II Cor 5, 4 dove, anche qui, ritenteva eph’ho con il senso di dioti. Tuttavia, in questo passo, è veramente chiaro che eph’ho si riferisce a skensi (eph’ho skenei ou thelomen ekdysasthai). Fozio cerca d’interpretare san Paolo in un contesto di leggi morali naturali e perciò cerca di giustificare la morte di tutti gli uomini a causa d’una colpa personale. Afferma, quindi, che tutti gli uomini muoiono perché seguono i passi di Adamo (Ecumenius, extracts from Photius, Migne, P.G. t. 118, c. 418). In ogni evenienza né lui né i Padri orientali accettano l’insegnamento secondo il quale tutti gli uomini sono colpevoli per il peccato adamitico.
Anche con le sole considerazioni grammaticali non è possibile interpretare eph’ho con riferimento ad altra parola oltre che a thanatos. In ogni epoca la costruzione grammaticale della preposizione epi col dativo usata da Paolo, è sempre stata impiegata come pronome relativo per modificare il nome (Rom 9, 33; 10, 19; 15, 12; II Cor 5, 4; Rom 6, 21) o la frase (Fil 4, 10) precedenti. Fare un’eccezione in Romani 5, 12 ritenendo che san Paolo utilizzi un’errata espressione greca per intendere “perché” significa non considerare questa realtà. L’interpretazione corretta di tale passo, sia grammaticamente che esegeticamente, può essere ottenuta solo quando eph’ho è colto per modificare thanatos – kai houtos eis pantas anthropous ho thanatos dielthen eph’ho (thanato) pantes hemarton – “poiché della quale” (morte), o “sulla base della quale” (morte), o “per la qual (morte) ognuno ha peccato”. Satana, essendo lui stesso principio del peccato, attraverso la morte e la corruzione coinvolge tutta l’umanità e la creazione nel peccato e nella morte. Così, essere sotto il potere della morte, secondo Paolo, significa essere peccatore e schiavo del Diavolo, per l’incapacità della carne a vivere secondo la legge di Dio, cioè secondo un amore altruista.
La teoria della trasmissione del peccato originale e della colpa non è sicuramente fondata in san Paolo, che non può essere interpretato né in termini giuridicisti né in termini dualisti i quali operano una distinzione tra una dimensione materiale e una seconda dimensione ritenuta pura e spirituale, parte intellettuale dell’uomo. Non bisogna meravigliarsi se alcuni studiosi biblici sono impotenti quando non possono trovare nell’Antico Testamento qualche chiaro appiglio per sostenere quella che pretendono essere la dottrina paolina sul peccato originale nei termini di una colpa morale e di una punizione (Cfr. Lagrange, Epitre aux Romains, p. 117-118; Sanday and Headlam, Romans, p. 136-137). Identica perplessità viene espressa da molti moralistici studiosi occidentali quando approfondiscono il pensiero dei Padri orientali (A. Gaudel, Peché Originel in “Dictionaire de Theologie Catholique”, t. XII, prèmiere partie). Di conseguenza, sant’Agostino è popolarmente ritenuto il primo e l’unico antico Padre ad avere capito la teologia di san Paolo. Ma ciò è chiaramente un mito dal quale sia i protestanti che i cattolico-romani hanno bisogno d’essere liberati.
Solo quando si capisce il significato della morte e le sue conseguenze si può capire la vita della Chiesa antica e, specialmente, il suo atteggiamento verso il martirio. Essendo già morti al mondo nel battesimo e avendo nascosto la loro vita con Cristo in Dio (Col 3, 3), i cristiani non potevano esitare di fronte alla morte. Erano già morti ma vivevano ancora in Cristo. Avere paura della morte significava essere ancora sotto il potere del Diavolo (II Tim 1, 7): “In Dio non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di forza, d’amore e di saggezza”. Cercando di convincere i cristiani di Roma a non impedire il loro martirio, sant’Ignazio scrive: “Il principe di questo mondo vorrebbe rassegnarmi ad allontanarmi corrompendo la mia disposizione verso Dio. Perciò nessuno di voi che è in Roma lo aiuti” (San’Ignazio, Epistola ai Romani c. 7). La controversia ciprianense sul rinnegamento di Cristo durante i periodi di persecuzione è stata violenta, proprio perché la Chiesa capiva che era una contraddizione morire nel battesimo e poi negare Cristo per paura della morte e della tortura. I canoni della Chiesa, benché oggi generalmente non vengano considerati per illuminare la comprensione dell’intima fede nella Chiesa antica, sono ancora molto severi verso coloro che rigettano la fede per paura della morte (Canone 10°, primo Concilio Ecumenico; 62° Canone apostolico; 1° Canone, Concilio di Angyra, 313-314; 1° Canone, Pietro d’Alessandria). Un tale atteggiamento verso la morte non è il prodotto d’una frenesia escatologica e d’un entusiasmo, quanto piuttosto d’un chiaro riconoscimento di ciò che il Diavolo è, di ciò che i suoi pensieri sono (II Cor 2, 11), di ciò che sono i suoi poteri sopra l’umanità e la creazione e di come vengano distrutti attraverso il battesimo e la mistagogica vita nel corpo di Cristo che è la Chiesa. Oscar Cullman si è seriamente sbagliato quando ha cercato di far dire agli agiografi neotestamentari che Satana e i demoni sono stati privati del loro potere e che ora “leur puissance n’est qu’apparente” (O. Cullman, Christ et le temps, p. 142). Il maggior potere del Diavolo è la morte, che sarà distrutta solo nel corpo di Cristo, dove il fedele è impegnato continuamente nella lotta contro Satana sforzandosi di praticare un amore altruista. Questo combattimento contro il Diavolo e lo sforzo per praticare un amore altruista è concentrato nella vita eucaristica sociale della comunità locale. “Poiché quando vi riunite frequentemente epi to auto (nello stesso luogo) i poteri di Satana sono distrutti. La distruzione alla quale egli tiene è impedita dall’unità della vostra fede” (San’Ignazio, Epistola agli Efesini, c. 13). Allora, se qualcuno non sente la chiamata dello Spirito in sé per la vita sociale dell’amore altruista nell’assemblea eucaristica, è evidentemente sotto l’influsso del Diavolo. “Colui che non si riunisce con la Chiesa ha, con ciò, manifestato il suo orgoglio e condannato se stesso…” (Ibid. c. 5). Il mondo al di fuori della vita sociale d’amore nei sacramenti, è ancora sotto il potere delle conseguenze della morte e, perciò, è schiavo del Diavolo. Il Diavolo è stato già sconfitto dal momento in cui il suo potere è stato distrutto dalla nascita, vita, morte e risurrezione di Cristo. Questa sconfitta continua solo nel resto di coloro che sono stati salvati prima e dopo Cristo. Sia coloro che sono stati salvati prima di Cristo che coloro che sono stati salvati dopo di Lui lo debbono alla Sua morte e risurrezione. Essi fanno parte della Nuova Gerusalemme. Contro questa Chiesa il Diavolo non può prevalere e, per questo fatto, è già stato sconfitto. Tuttavia il suo potere al di fuori di coloro che sono stati salvati rimane lo stesso (Ef 2, 12; 6, 11-12; II Tes 2, 8-12). Satana è ancora “il dio di questo mondo” (II Cor 4, 4) ed è per questa ragione che i cristiani devono vivere come se non vivessero nel mondo (Col 2, 20-23).

Conclusioni
 Lo studioso biblico non potrà mai essere obiettivo se il suo esame teologico viene influenzato o diretto da determinati pregiudizi filosofici. La moderna scuola di critica biblica lavora chiaramente in una falsa direzione quando vuole giungere all’essenziale forma originale del kerygma rimanendo all’ocuro dell’essenza vetero e neotestamentaria riguardo allo stato decaduto dell’umanità e della creazione, specialmente quando trascura gli insegnamenti sulla natura di Dio e su quella di Satana. Così nelle tendenze anti-liberali del moderno protestantesimo, viene accolto il metodo di critica biblica e, allo stesso tempo, si cerca di salvare quello che si ritiene essere l’essenziale messaggio degli evangelisti. D’altronde gli studiosi di questa scuola in tutto il loro metodo pseudo scientifico di ricerca, mancano di giungere alle mie identiche conclusioni perché rifiutano ostinatamente di considerare seriamente la dottrina biblica su Satana, sulla morte e la corruzione. Per questa ragione la questione se il corpo di Cristo è risuscitato realmente o no, non viene ritenuta importante (cfr. E. Brunner, Il Mediatore). Quello che per loro è importante è la fede in Cristo quale unico salvatore della storia anche se, molto probabilmente, Egli non è storicamente risorto. Come si salva e da cosa vengono salvati gli uomini è, presumibilmente, una questione secondaria.
È chiaro che per san Paolo la risurrezione fisica di Cristo significa la distruzione del Diavolo, della morte e della corruzione. Cristo è la primizia dei risorti (I Cor 15, 23). Se non esiste alcuna risurrezione non ci può essere assolutamente salvezza (I Cor 15, 12-19). Solo una vera risurrezione può distruggere il potere di Satana dal momento che la morte è una conseguenza dell’interruzione della comunione con la vita e l’amore di Dio e, quindi, è la consegna dell’uomo e della creazione al Diavolo. È impreciso e poco profondo cercare di fare passare per biblica l’idea che la questione sulla reale risurrezione fisica è di secondaria importanza. Al centro del pensiero biblico e patristico esiste chiaramente una cristologia nella quale si considera un’unione reale con Dio condizionata dalla dottrina biblica su Satana, sulla morte, sulla corruzione e sul destino umano. Satana governa materialmente e psichicamente attraverso la morte. Anche la sua sconfitta deve dunque essere materiale e fisica. La restaurazione della comunione non deve coinvolgere solo l’atteggiamento mentale ma, cosa ben più importante, deve passare attraverso la creazione della quale l’uomo è parte inseparabile. Senza una chiara comprensione della dottrina biblica su Satana e sul suo potere è impossibile capire la vita sacramentale del corpo di Cristo. Proprio per questo la dottrina dei Padri riguardo la cristologia e la Trinità diviene un’insignificante speculazione affidata agli specialisti scolastici. Sia gli scolastici cattolico-romani che i protestanti sono innegabilmente eretici nelle loro dottrine sulla grazia e sull’ecclesiologia semplicemente perché non vedono che la salvezza è unicamente l’unione dell’uomo con la vita di Dio nel corpo di Cristo dove il Diavolo viene ontologicamente e realmente distrutto nella vita agapica. Al di fuori della vita d’unità con Cristo nei sacramenti e nell’unione agapica non esiste alcuna salvezza, poiché il Diavolo domina ancora il mondo attraverso le conseguenze della morte e della corruzione. Le organizzazioni extra-sacramentali come il papato non possono essere viste come l’essenza del cristianesimo perché giacciono chiaramente sotto l’influenza di convenienze mondane e non hanno come loro unico scopo una vita d’amore altruista. Nel cristianesimo occidentale i dogmi della Chiesa sono divenuti oggetto d’esercizi “logico-ginnici” nelle classi di filosofia. La cosiddetta ragione naturale umana fa da base alla teologia rivelata. Gli insegnamenti della Chiesa riguardo alla Santa Trinità, alla cristologia e alla Grazia non sono accolti per quello che sono: espressione della continua ed esistenziale esperienza del corpo di Cristo che vive della stessa vita trinitaria attraverso la natura umana del Salvatore nella cui carne è stato distrutto il Diavolo e contro il cui corpo (la Chiesa) le porte della morte (Ade) non possono prevalere.
Oggi la missione della teologia ortodossa consiste nel portare un risveglio all’interno del cristianesimo occidentale. Per fare efficaciemente ciò il cristiano ortodosso deve riscoprire le proprie tradizioni e cessare, una volta per tutte, di assumere le corrodenti infiltrazioni della confusione teologica occidentale nella teologia ortodossa. È solo ritornando alla comprensione biblica di Satana e del destino umano che i sacramenti della Chiesa possono nuovamente divenire la fonte e la forza della teologia ortodossa. Il nemico della vita e dell’amore può essere distrutto solo quando i cristiani possono confidenzialmente affermare: “Non siamo all’oscuro dei suoi pensieri” (II Cor 2, 11). Una teologia che non può definire con esattezza i metodi e le falsità del Diavolo è chiaramente eretica perché è già stata ingannata dal Diavolo stesso. È per questa ragione che i Padri potrebbero asserire che quell’eresia è un prodotto del Demonio.

PAOLO, APOSTOLO (Analisi della storia e del pensiero di Paolo)

PAOLO, APOSTOLO

(ho perduto,  stupidamente, l’indirizzo web, perchè era una pagina word, scusate voi e chi l’ha postata -  è una analisi della storia e del pensiero  di Paolo, non mi sembra di averlo messo, ma oramai l’elenco dei post è talamente lungo che vado a memoria)

Grande apostolo e missionario, le cui lettere costituiscono una buona parte del Nuovo Testamento. Nato a Tarso, gli fu imposto il nome di Saulo e fu educato a Gerusalemme dal rabbino Gamaliele. Saulo apparteneva alla setta dei Farisei, tenaci oppositori del cristianesimo. Mentre si recava a Damasco ad arrestare alcuni cristiani, Saulo vide una luce folgorante e udì una voce che gli diceva:
 «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?».
Accecato dalla luce, Saulo fu condotto a Damasco, dove Anania gli restituì la vista. Dopo essere stato battezzato, Saulo cominciò subito a predicare la nuova fede «dimostrando che Gesù è il Cristo». I Giudei di Damasco ordirono un complotto per ucciderlo, per cui Saulo fu costretto a fuggire di notte a Gerusalemme. Qui i discepoli lo ricevettero con paura e diffidenza, fino a quando Barnaba non lo presentò agli apostoli narrando la sua conversione. Alcuni anni più tardi Barnaba andò a cercare Saulo per portarlo con sé ad Antiochia di Siria. Questa Chiesa poi inviò Barnaba e Saulo a predicare il Vangelo in Asia Minore. Dopo la visita a Cipro Saulo si chiamerà sempre Paolo (la forma in greco del suo nome ebraico). Ritornati ad Antiochia, riferirono alla comunità tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto la porta della fede ai pagani. Paolo in particolare fece capire ai cristiani giudei di Gerusalemme che Gesù era venuto per salvare tutti, non solo gli Ebrei. Nel suo secondo viaggio missionario fu accompagnato da Sila. A Listra si unì a loro un giovane di nome Timoteo e assieme partirono per la Grecia da Troade, dove furono raggiunti da Luca. Fondarono una nuova Chiesa a Filippi; qui Paolo e Sila furono bastonati e messi in prigione. Dopo il loro rilascio viaggiarono attraverso la Grecia; Paolo predicò ad Atene e si fermò a Corinto per diciotto mesi. Paolo poi tornò a Gerusalemme portando con sé la colletta per i poveri che aveva raccolto dai cristiani della Grecia e dell’Asia Minore. Paolo stette un po’ di tempo in Siria prima di partire di nuovo per Efeso, dove lavorò e predicò per quasi tre anni prima di partire per il suo terzo viaggio rivisitando Corinto, la Grecia, l’Asia Minore, per poi far ritorno a Gerusalemme. Poco dopo il suo ritorno a Gerusalemme Paolo fu di nuovo arrestato e mandato a Cesarea per il processo. Dopo due anni di custodia cautelare, Paolo si appellò a Cesare avvalendosi del suo diritto di essere processato a Roma. Durante il viaggio per mare la nave fece naufragio al largo di Malta senza perdita di vite umane. Giunto sano e salvo a Roma, vi fu tenuto agli arresti domiciliari per due anni. Probabilmente il processo si concluse con l’assoluzione, ma in seguito fu nuovamente arrestato e poi condannato a morte dall’imperatore Nerone attorno al 67 d.C.
IL CONVERTITO DI CRISTO
Non si ha nessuna sicurezza che Saulo-Paolo abbia avuto rapporti diretti con Gesù, la cui attività a Gerusalemme può essere coincisa con gli anni della presenza di Paolo nella città santa. La frase che si legge in 2Cor 5,16, «Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così», non autorizza alcuna conclusione sicura. Certo è che l’attaccamento appassionato alle tradizioni ebraiche e la focosità del carattere fecero di lui, in perfetta buona fede, un temibile avversario della chiesa nascente (cfr. At 7,58; At 8,1-3; At 9,1s, ecc.). Dopo l’uccisione di Stefano, a cui prese parte, At 8,1, Saulo si recò a Damasco per dare la caccia ai cristiani, ma mentre stava raggiungendo la città e già vedeva approssimarsi l’oasi e le mura fu atterrato da un’apparizione folgorante di Cristo. L’avvenimento è narrato tre volte negli Atti degli Apostoli, perché segna una tappa fondamentale nella storia della chiesa, e trova ripetute allusioni nelle lettere. Rievocandolo nel corso della vita, Paolo ne parlerà come di una nascita violenta (cfr. 1Cor 15,8) e gli sembrerà di essere stato «afferrato» o più letteralmente «catturato» da Cristo, Fil 3,12, «consacrato» o «segregato» in vista del vangelo di Dio, Rm 1,1. Il fatto, avvenuto verso l’anno 35 dell’èra cristiana, mutò radicalmente il corso della sua vita (cfr. Gal 1,11-16; Fil 3,7ss). Ricevuti il battesimo e l’iniziazione cristiana tramite Anania, un ebreo-cristiano di Damasco, At 9,19, si ritirò per qualche tempo nella solitudine dell’Arabia, Gal 1,17, e quindi ritornò a Damasco, dandosi con zelo a propagare il vangelo tra i suoi antichi correligionari, i quali non tardarono a dichiararlo apostata e a chiederne la vita. Sfuggendo alle loro insidie, si recò a Gerusalemme sotto la garanzia di Bàrnaba, un giudeo-cristiano influente di origine levitica, At 9,23ss, a «prendere contatti con Cefa», Gal 1,18. Ma per sottrarsi all’ostilità montante contro di lui accettò il consiglio di tornare a Tarso, sua città natale, At 9,29. Fu proprio in questi giorni di Gerusalemme che, mentre si trovava a pregare nel tempio, gli apparve di nuovo Gesù e gli fece intendere che la sua missione si sarebbe dovuta indirizzare verso le genti, At 22,17-21. Si noti che anche per Paolo, come già per Pietro nel battesimo di Cornelio, si attribuisce a un esplicito ordine divino il varcare le barriere del popolo ebraico nell’annuncio messianico. Nasce allora in lui la coscienza di essere il continuatore, per la sua parte, di quel misterioso «Servo di Jhwh» che è descritto nel libro di Isaia (cfr. Is 42,1-4; Is 49,1-6; Is 50,4-9; Is 52,13 – Is 53,12) e che i cristiani interpretano come figura di Cristo e della chiesa.
Il periodo trascorso da Paolo a Tarso ci rimane oscuro e durò forse da quattro a cinque anni. Paolo vi esercitò senza dubbio il mestiere di «fabbricante di tende», ma non lo si può immaginare inattivo nell’impegno di annunciare il Cristo. E’ pensabile che in questo periodo sia maturata la sua riflessione sul mistero di Gesù, che venne a prendere per lui il posto che prima occupava la Tôrah, la legge, nella sua mente e nel suo cuore di fariseo: la legge era la luce, sapienza, giustificazione e salvezza, la legge era il vanto e il sostegno di ogni israelita. Ora Paolo acquisisce la coscienza che la legge era stata soltanto un pedagogo, un maestro che formava ed educava mediante precetti. Data a Mosè nell’alleanza del Sinai, era stata scolpita su tavole di pietra e rimaneva quindi esterna all’uomo, che la interiorizzava mediante lo studio e l’osservanza rigorosa. Nella nuova alleanza invece, avvenuta con la morte e la risurrezione di Gesù, Dio stesso infonde una «legge nuova» nel cuore donando il suo Spirito (Ger 31,33; Ez 36,26). Si tratta di un dono che l’uomo deve accogliere mediante la fede; resta però sempre un’attività di Dio che agisce nell’uomo che si apre a lui. Per questo san Paolo dirà:
 «Vivo, però non più io, ma vive in me Cristo», Gal 2,20.
Cristo è il fine della legge, in lui si trovano la nuova alleanza e la nuova creazione; lui e nessun altro è il mediatore della salvezza e della giustificazione, la quale avviene per la fede senza che siano più necessarie le opere prescritte dalla legge, ed è dono dello Spirito; e il tutto è da Dio, il quale adempie in Cristo la promessa fatta ad Abramo e riconcilia a sé tutte le cose (cfr. 2Cor 5,18-19).
Questo, in parole povere, è il nucleo del pensiero di san Paolo quale dev’essersi chiarito e articolato nei primi anni dopo la conversione e a contatto delle prime esperienze missionarie. La grande avventura apostolica che seguirà non farà che trarne le conseguenze.
PROFILO FISICO E SPIRITUALE
La personalità di Paolo è una delle più ricche e complesse che si conoscano. Abbiamo la fortuna di possedere, negli scritti da lui dettati, le annotazioni autobiografiche, le introspezioni spirituali che rappresentano la prima grande espressione della letteratura psicologica. Da questo punto di vista la seconda lettera ai Corinzi va annoverata tra le opere letterarie più significative dell’umanità. Per trovare qualcosa di simile, bisogna leggere l’Apologia di Socrate di Platone o il Discorso per la corona di Demostene. Ma Socrate e Demostene, pur nella loro rispettiva grandezza, appartengono a un mondo antico, si inquadrano in una pólis e in una visione del mondo che è diventata estranea all’uomo contemporaneo. Paolo appartiene a un tipo nuovo di umanità, è il primo moderno tra gli antichi, anche se rivela connessioni evidenti con la sua età e cultura.
Alla base della sua personalità si trova un fisico d’eccezione, duro, tenace, resistente alla fatica fisica e spirituale. Senza questa solidità corporea e psichica Paolo non sarebbe stato in grado di effettuare le prestazioni che gli sono attribuite. Già il mestiere di tessitore manuale e fabbricante di tende cilicie evoca un ambiente di robustezza ruvida e aspra. Gli interminabili viaggi per mare e per terra, in regioni montuose e desertiche, i naufragi, le percosse e le fustigazioni subìte, i disagi e le privazioni di ogni genere, gli eccessi di temperatura rigida e torrida del Mediterraneo orientale e del suo entroterra, aggiunti alle fatiche della predicazione e del lavoro quotidiano, le preoccupazioni spirituali per le comunità nascenti, l’assillo degli ostacoli frapposti ad ogni passo sul suo cammino dagli avversari, avrebbero facilmente avuto ragione di una costituzione fragile e nevrotica. Se si considera poi che la maggior parte degli scritti di Paolo, i più ampi e i più impegnativi, come la prima e la seconda lettera ai Corinzi, la lettera ai Galati e quella ai Romani si collocano tutti negli anni 56-67, anni burrascosi e difficili per ciò che accadde a Corinto, a Efeso e in Macedonia e mise a dura prova la resistenza fisica e spirituale dell’Apostolo, si potrà valutare quale fosse la tempra, la tenacia e la lucidità di questo «strumento scelto» di Cristo, At 9,15.
E tuttavia è quasi un luogo comune attribuire a Paolo una malattia cronica, spesso di ordine fisico, talora, con insinuazioni non serene, di ordine psichico. Ma l’ipotesi di un’affezione cronica si regge in piedi a fatica. Di un’infermità nella carne egli parla in Gal 4,13ss come di un incidente che lo costrinse a prolungare il soggiorno in Galazia, ma dalla costatazione che i Galati «si sarebbero strappati anche gli occhi» per darli a lui, Gal 4,15, non si può certo dedurre che egli fosse malato agli occhi. Più discussa e problematica è la rivelazione che egli stesso fa del:
 «pungiglione nella carne, un emissario di Satana che lo schiaffeggia perché non insuperbisca», 2Cor 12,7.
Molte ipotesi sono state proposte per individuare la natura di questo morbo misterioso: malattia cronica, febbri malariche, epilessia… Ma fra tutte le opinioni, tenuto conto del linguaggio immaginoso con il quale l’Apostolo si esprime, sembra probabile ravvisare in questo aculeo che lo affligge, lo tiene a capo chino e gli impedisce di cantare il peana della vittoria, l’ostilità degli Ebrei, suoi «fratelli secondo la carne», Rm 9,3, che lo punge e l’affligge fino alla disperazione, fino a fargli nascere il desiderio di offrirsi in sacrificio per loro, Rm 9,2-3. Questo assillo spirituale e fisico costituisce lo sfondo dei cc. 9-11 della lettera ai Romani, dove egli affronta con larghezza di vedute il doloroso mistero del suo popolo. Tutto sommato, in un uomo così provato e temprato da fatiche, paragonabili soltanto nell’antichità a quelle di Alessandro Magno o di Giulio Cesare, difficilmente si può ammettere una malattia cronica di carattere fisico o di natura nervosa. Su questo fisico saldo e tenace s’innesta un carattere indomabile, risentito e volitivo. L’arco delle sue oscillazioni è larghissimo, va dalla tenerezza affettuosa e delicata alle impennate più indignate e implacabili. Ai Corinzi, dopo un’appassionata autoconfessione, scrive:
 «La nostra bocca vi ha parlato apertamente e il nostro cuore si è dilatato per voi, o Corinzi. Non siete davvero allo stretto in noi: è nei vostri cuori che state allo stretto. Rendeteci il contraccambio. Parlo come ai figli, dilatate il cuore anche voi!», 2Cor 6,11-13.
E ai Tessalonicesi, ricordando i giorni del primo incontro e dell’evangelizzazione: «Siamo stati affabili con voi; come una madre che cura premurosamente i suoi figli, così noi, desiderandovi ardentemente, eravamo disposti a comunicarvi non soltanto il vangelo di Dio ma la nostra stessa vita, tanto ci eravate diventati cari», 1Ts 2,7-8. La lettera ai Romani contiene una lunga sequenza di saluti a uomini e donne, conoscenti e amici dell’Apostolo, la quale è un modello di calore epistolare:
 «Salutate Prisca e Aquila… Salutate Epeneto… salutate la carissima Pèrside… Salutatevi reciprocamente col bacio santo», Rm 16,3-16.
Ma quest’uomo tenerissimo e affabile è capace di assumere i toni più duri quando ne va di mezzo la fede o la purezza del vangelo: «Siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza – scrive ai Corinzi –. Guardare le cose in faccia: se alcuno ha la persuasione di appartenere a Cristo, si ricordi che, se lui è di Cristo, lo siamo anche noi… Per non sembrare di volervi spaventare con le lettere! Perché « le lettere, si dice, sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa »… Sappia costui che quali siamo a parole per lettera, assenti, tali saremo anche a fatti, di presenza», 2Cor 10,6-11. E ai Filippesi: «Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi dai falsi circoncisi», Fil 3,2; cfr. Gal 5,12. E ai Galati:
 «Ma se noi o un angelo disceso dal cielo annunciasse a voi un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia votato alla maledizione divina. Come ho detto prima, anche in questo momento ripeto: se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che voi riceveste, sia votato alla maledizione divina», Gal 1,8-9.
Tra questi due estremi della dolcezza e della rudezza si distende la gamma della psicologia di Paolo: è ironico e veemente, sa ferire e medicare, umiliare e infondere coraggio; fiero della propria autonomia e sufficienza, ama l’autosufficienza dello stoico, la parre^sía e la franchezza di linguaggio del cinico, disdegna gli artifici della forma letteraria, coltiva l’amicizia, sa tacere, sopportare, accettare con gioia, e fa uso spontaneo di figure poetiche e retoriche; è un uomo di azione dal temperamento virile e concreto, ma al tempo stesso è un mistico, un contemplativo che cerca e trova nella preghiera la fonte e l’energia dell’azione. Tutti i momenti più drammatici della sua vita, le scelte decisive per l’azione sono precedute da uno stato di incontro mistico con il Signore: così a Gerusalemme agli inizi della missione, At 22,17-18, a Troade prima della partenza per la Grecia, At 16,9, a Corinto dopo i primi insuccessi, At 18,9, durante il naufragio sulla via di Roma, At 27,23.
Alcuni tratti lo caratterizzano nettamente: è un introverso, per il quale la vera realtà è quella interiore, umana, spirituale: non si trova mai in tutto il suo epistolario uno sguardo sulla natura, alla maniera dei vangeli; trae di preferenza le immagini dal mondo umano (nascita, morte, soldati, stadio, schiavi, padroni, ecc.) e le poche volte che tenta di usare immagini della natura, come l’innesto dell’ulivo, nel cui mondo viveva, lo fa in maniera cerebrale, invertendo i termini del paragone (cfr. Rm 11,17ss). Paolo non ha quel che una volta si soleva chiamare «il senso della natura», bensì il senso dell’uomo e dei fatti sociali. Il suo mondo è la città. Mentre Gesù parlava del seme, del lievito, del fico, dei fiori, degli uccelli, del pastore, della vite, ecc., Paolo si serve di un registro espressivo di natura cittadina: lo stadio, la vita militare, gli schiavi, il tribunale, il teatro, il commercio, la costruzione delle case e così via, sono i suoi termini di riferimento. Altri elementi caratterizzanti sono l’entusiasmo, la gioia, la commozione interiore; il vangelo vissuto e sperimentato sprigiona la sua potenza attraverso la sua persona facendone un autore di comunicazione, uno stimolatore e maieuta efficace di decisione. Il contagio che sprizza dal suo parlare e dal suo atteggiamento modellato su Cristo passa e diventa creativo negli ascoltatori attraverso il canale dell’amore e della dedizione che lo lega intimamente a loro.
 «Ricordate che come un padre fa con ciascuno dei suoi figli, vi abbiamo esortato individualmente, incoraggiandovi e scongiurandovi a camminare in maniera degna di Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria», 1Ts 2,11-12.
Paolo fu essenzialmente un operatore della parola. Si incontrano e si fondono in lui due grandi civiltà della parola, quella greca e quella rabbinica ebraica. Ma egli sperimenta la presenza di un elemento imponderabile e misterioso nella parola del vangelo, la presenza di una potenza e virtù divina (dynamis, enérgheia), le quali manifestano la loro efficacia operativa nei segni verbali adottati dalla predicazione. Scrive ai Tessalonicesi rievocando la sua predicazione in mezzo a loro:
 «Il nostro vangelo non è giunto fra voi soltanto a parole, ma anche con potenza, con effusione dello Spirito Santo e con piena convinzione… E voi siete diventati imitatori nostri e del Signore, accogliendo la parola in mezzo a molta tribolazione con la gioia dello Spirito Santo», 1Ts 1,4-5.
Per essere efficace la parola si coniuga in lui con l’esempio e raggiunge i destinatari sulla via dell’amore. «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo – scrive ai Corinzi – ma non certo molti padri, io vi ho generato in Cristo Gesù mediante il vangelo. Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori… come io lo sono di Cristo», 1Cor 4,15-16; 11,1.
LETTERE PAOLINE
Le lettere giunte a noi con il nome di Paolo da sole basterebbero a collocarlo tra i grandi scrittori dell’antichità. Più che la quantità colpisce l’acutezza del pensiero e l’immediatezza esistenziale. Sono nate a servizio della missione e come sua integrazione.
 SAN PAOLO, L’AUTORE DELLE LETTERE 
Grande apostolo e missionario, le cui lettere costituiscono una buona parte del Nuovo Testamento. Nato a Tarso, gli fu imposto il nome di Saulo e fu educato a Gerusalemme dal rabbino Gamaliele…
«Un frammento di missione» le ha chiamate W. Wrede, e ben si addice loro la definizione che ne dà lo scrittore greco Demetrio, probabilmente contemporaneo di Paolo, chiamandole «l’altra parte del dialogo» già instaurato con i destinatari. Tredici lettere recano nell’indirizzo il nome di Paolo, e una quattordicesima, la lettera agli Ebrei, gli è stata attribuita fin dal II secolo, pur non essendo scritta da lui, anche se l’autore discretamente si mette nei suoi panni (cfr. Eb 13,23-25). Delle tredici lettere, sette sono ritenute da tutti autentiche (1 Tessalonicesi, 1-2 Corinzi, Galati, Romani, Filippesi, Filemone); apparse tra gli anni 50 e 60, esse sono gli scritti più antichi del cristianesimo. Nelle altre lettere la maggioranza dei critici è incline a ravvisare la mano di qualche discepolo, se non addirittura la pseudoepigrafia secondo un’usanza in voga in quei secoli. Vengono raccolte in determinati gruppi: sono dette «lettere principali» le quattro più ampie (Romani, 1-2 Corinzi, Galati), «lettere della prigionia» quelle che, secondo la loro stessa testimonianza, sono state scritte in prigione (Filippesi, Efesini, Colossesi, Filemone, 2 Timoteo), e poiché le lettere a Tito e Timoteo si caratterizzano come un gruppo a sé, e trattano argomenti attinenti alla pratica, vengono denominate «lettere pastorali».
INTRODUZIONE ALLE LETTERE
Le lettere giunte a noi con il nome di Paolo da sole basterebbero a collocarlo tra i grandi scrittori dell’antichità. Più che la quantità colpisce l’acutezza del pensiero e l’immediatezza esistenziale. Sono nate a servizio della missione e come sua integrazione. «Un frammento di missione» le ha chiamate W. Wrede, e ben si addice loro la definizione che ne dà lo scrittore greco Demetrio, probabilmente contemporaneo di Paolo, chiamandole «l’altra parte del dialogo» già instaurato con i destinatari. Tredici lettere recano nell’indirizzo il nome di Paolo, e una quattordicesima, la lettera agli Ebrei, gli è stata attribuita fin dal II secolo, pur non essendo scritta da lui, anche se l’autore discretamente si mette nei suoi panni (cfr. Eb 13,23-25). Delle tredici lettere, sette sono ritenute da tutti autentiche (1 Tessalonicesi, 1-2 Corinzi, Galati, Romani, Filippesi, Filemone); apparse tra gli anni 50 e 60, esse sono gli scritti più antichi del cristianesimo. Nelle altre lettere la maggioranza dei critici è incline a ravvisare la mano di qualche discepolo, se non addirittura la pseudoepigrafia secondo un’usanza in voga in quei secoli. Vengono raccolte in determinati gruppi: sono dette «lettere principali» le quattro più ampie (Romani, 1-2 Corinzi, Galati), «lettere della prigionia» quelle che, secondo la loro stessa testimonianza, sono state scritte in prigione (Filippesi, Efesini, Colossesi, Filemone, 2 Timoteo), e poiché le lettere a Tito e Timoteo si caratterizzano come un gruppo a sé, e trattano argomenti attinenti alla pratica, vengono denominate «lettere pastorali».
Dopo A. Deissmann, che le ha messe a confronto con la grande quantità di lettere papiracee scoperte in Egitto, si pone la questione se siano lettere reali oppure «epistole», cioè lettere fittizie, come per esempio quella di Orazio Ad Pisones, De arte poetica. La lettera serve al dialogo di uomini a distanza, l’epistola è un’esercitazione letteraria, destinata al gran pubblico.
Ora non c’è dubbio che in Paolo si tratta di lettere vere e proprie, che si rivolgono a un destinatario preciso e non a un pubblico generico, sono dovute a determinate ragioni, affrontano questioni che riguardano situazioni concrete, contengono comunicazioni e saluti personali. Ma anche quando tratta argomenti di attualità, egli li investe con argomentazioni teologiche. Inoltre le sue lettere contengono vere e proprie sezioni dottrinali che vanno al di là delle questioni contingenti: così 1Ts 4,13ss, dove dal caso concreto dei Tessalonicesi passa a trattare dell’escatologia cristiana; lo stesso in 1Cor cc. 10; 13-15, ove la situazione della comunità dà spunto a considerazioni teologico-pastorali sulla situazione «esodica» della vita cristiana, sul primato della carità (agápe^) e sulla speranza della risurrezione. Le lettere ai Galati e ai Romani sono trattazioni teologiche, ma conservano il carattere di vere lettere alle rispettive comunità. Lettere occasionali dunque, nate dalle esigenze della missione, ma nel contempo lettere pastorali e apostoliche destinate a costruire le comunità. Il loro modulo espositivo è ampiamente dialogico; spesso egli fa esporre obiezioni da un presunto interlocutore o gli rivolge domande retoriche per aver modo di presentare la risposta (cfr. Rm 2,1.21; 1Cor 15,29-35). E’ lo stile classico della diatriba, in uso nella tradizione e nella prassi pedagogica cinico-stoica contemporanea. Colpisce a prima vista l’uso frequente delle antitesi e delle contrapposizioni (luce-tenebre, morte-vita, schiavitù-libertà, peccato-giustizia, perdizione-salvezza, carne-spirito, debolezza-forza, vecchio-nuovo, ecc.), indice di una personalità vivace, operativa e senza mezzi termini.
Risulta con sicurezza che le comunità leggevano le lettere (cfr. 1Ts 5,27) e se le passavano le une con le altre (cfr. Col 4,16). Ci si domanda se qualcuna sia andata perduta; in 1Cor 5,9 Paolo cita una precedente missiva che non ci è rimasta. Lo stesso si deve dire della cosiddetta «lettera delle lacrime», citata in 2Cor 2,4; ma vi sono motivi di ritenere che alcune lettere da noi possedute contengano e fondano insieme più lettere o frammenti di lettere; in particolare la seconda lettera ai Corinzi viene ritenuta da alcuni, non senza fondamento, una compilazione di vari scritti più brevi inviati alla stessa comunità. Una raccolta degli scritti di Paolo deve essere cominciata assai presto. La seconda lettera di Pietro attesta l’esistenza, verso la fine del I secolo, di un corpus di lettere paoline, che viene paragonato alle altre Scritture sacre (quelle ebraiche, fatte proprie dai cristiani); di esse si dice che bisogna interpretarle correttamente, per non essere indotti nell’errore: «Reputate un’occasione di salvezza la longanimità del Signore nostro, come anche vi scrisse il nostro amato fratello Paolo, secondo la sapienza che gli era stata data: come in tutte quelle lettere in cui parla di questi argomenti, ci sono dei punti difficili a capire, che persone incompetenti e leggère stravolgono, al pari delle altre parti della Scrittura, a propria rovina», 2Pt 3,15-16. Chi abbia promosso tale raccolta, a quali lettere si estendesse e quali scopi perseguisse non è dato saperlo. Verso la metà del II secolo Marcione definì di propria iniziativa un catalogo di sacre Scritture, con dieci lettere di san Paolo, escluse le pastorali a Timoteo e a Tito.
Il Papiro 46, del 200 circa, riporta ancora dieci lettere, inclusa quella agli Ebrei, escluse quella a Filemone e le pastorali. Il cosiddetto Canone o Frammento muratoriano, databile intorno al 180 d.C., cataloga tredici lettere, esclusa quella agli Ebrei. I martiri di Scillium (180 d.C.), interrogati dal proconsole Saturnino circa gli scritti che portano con sé, rispondono: «Libri e le lettere di Paolo, uomo giusto». Non è dato conoscere il numero delle lettere. Ma tutte le lettere di Paolo, fatta eccezione per il breve biglietto a Filemone, si trovano citate in Ireneo di Lione, verso la fine del II secolo: ciò fa supporre che già allora circolasse una raccolta delle lettere dell’Apostolo. Qui però si entra nella storia del canone (cfr. sopra, introduzione al Nuovo Testamento).
Gli autografi delle lettere, vergate certamente su papiro, sono andati irrimediabilmente perduti; si possiedono tuttavia oltre 5.000 copie manoscritte, un patrimonio eccezionalmente ricco. Spiccano tra esse dieci papiri del III secolo, frammentari, che precedono i grandi codici unciali completi, il Sinaitico e il Vaticano, del IV secolo. Il manoscritto più antico e autorevole è il già citato Papiro 46 della collezione Chester Beatty, databile al 200 circa, giunto a noi quasi completo.
IL METODO: APPROCCIO “SINCRONICO” E “DIACRONICO”
L’esegesi lontana dalla vita è vuota, d’altro canto una vita che andasse per conto suo, facendo a meno della Parola di Dio sarebbe una vita sbandata o sbandabile. Secondo l’edizione critica delle concordanze di Aland nel Nuovo Testamento il tesoro linguistico consta di 137.490 parole; la parte di Paolo consta di 32.342 parole. Il rapporto è del 23,5 %. Questo ci dice che dobbiamo considerare il fatto che Paolo usa dei termini in maniera ripetitiva e con una frequenza apprezzabile rispetto agli altri scrittori neotestamentari. Il 23,5 % è una percentuale un po’ bassa e non ha grande rilevanza, ma ci sono dei termini come  (eu’agghèlion, usato con una frequenza del 78,94%), i quali, pur non avendo un peso particolare, richiamano un’attenzione a questa insistenza del tutto particolare. Nel quadro teologico d’insieme del Paolinismo, si deve tener conto anche delle lettere pastorali, che posseggono materiale d’insieme. Soprattutto le lettere della prigionia, in particolare Colossesi ed Efesini, che si suppongono scritte da Paolo in carcere, danno un tocco teologico tutto particolare al messaggio paolino.
 ACCOGLIENZA
Come abbiamo visto parlando della fede l’accoglienza deve essere piena. Non solo l’uomo che crede deve accogliere tutto il Cristo che gli viene presentato, ma questa totalità deve essere lasciata penetrare in tutta la vita. Fin dall’inizio la fede non è un atto separato, scontato, ma è un’accoglienza che entra fino a riempire tutti gli spazi della vita: accoglienza totale, perché è assenza di limitazione all’accoglienza, e piena, perché questo contenuto tende a penetrare in tutti gli aspetti della vita.
La prima accoglienza del contenuto del vangelo è quella accoglienza che, nella prassi paolina, precedeva il battesimo; questa è la trafila che Paolo seguiva: parlando a dei Giudei presupponeva la credenza in Dio, parlando ai pagani il primo passaggio è quello di spostarsi dal livello di idolatria al livello di accettazione del Dio vivente; così Paolo si esprime in 1Ts:
  »[...] Siete passati dal servizio della divinità morta al servizio e all’adorazione del Dio vivente ».
Questo è il primo passo: Paolo infatti non annunciava Cristo come una voce nel deserto, ma prima a coloro che non ammettevano l’esistenza di Dio parlava loro della sua esistenza, come del resto fece Paolo sull’Areopago negli Atti degli Apostoli al capitolo 17 (Cf. At 17) ) , dove egli parlando a pagani parte dalla loro esperienza e li porta alla concezione di Dio e infine parla di Cristo. Quando c’è una accettazione piena di Dio egli parla subito di Cristo, che è considerato come un dono di Dio; una volta capito Cristo e il contenuto del mistero pasquale, c’è l’esplicitazione piena della fede, l’accettazione definitiva di questo contenuto del mistero pasquale di Cristo nella propria vita che è appunto l’apertura della fede; a questa poi segue il battesimo che fa scattare la giustificazione. Paolo in 1Cor 15,11, dove vengono rievocati i contenuti del mistero pasquale, dice:
  »[...] Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto « .
Accogliete questo annuncio in questi termini in cui ve lo abbiamo annunciato e presentato. La fede al secondo livello si può chiamare una assimilazione progressiva che tende a coprire tutta la vita, che si realizza quella pienezza scelta nella prima apertura della fede.
La prima apertura della fede, l’accoglienza dell’annuncio di Cristo morto e risorto è una accoglienza che va mantenuta continuamente, cioè è un’applicazione della morte e della
risurrezione di Cristo che tende a interessare tutti i dettagli della vita. È quello che Paolo esprime quando dice in Gal 2,20:
  »[...] Non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me. La vita che vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me ».
 GIUSTIFICAZIONE
Questo è un tema particolarmente delicato anche perché sia la Riforma che la Controriforma hanno preso come vessillo di espressione proprio la giustificazione, con alcuni abbagli storici ed esegetici piuttosto notevoli, sia da
parte cattolica che protestante. Questo movimento che ha ruotato attorno alla giustificazione ci fa capire l’importanza che ha questo tema in Paolo. Con il nostro metodo diamo subito un’occhiata alla terminologia:

Paolo    Nuovo Testamento
57   91 – 62,6%
2   2 – 100%
5   10 – 50%
27  39 69,2%

(qui non mi prende il testo greco perché l’hanno messo come immagine, si riferisce al termine sottostate)

Dikaiôsùnê, significa giustizia, ma noi la traduciamo anche giustificazione; è un tema che stando alla terminologia è caro a Paolo; dikàiôsis significa giustificazione in senso attivo, e abbiamo una prevalenza del 100%, ma data la presenza così esigua non possiamo dire che è sconvolgente. Lo stesso è per dikàiôma, atto giusto, perché abbiamo cinque presenze in Paolo sulle dieci complessive del Nuovo Testamento.Il verbo dikaiòô, giustificare, è presente questa volta più dei sostantivi. Questo per dire che troviamo in Paolo 91 ricorrenze di questo grappolo terminologico riferite alla giustificazione sulle 142 di tutto il Nuovo Testamento, la cui proporzione del 65% è notevolmente alta, e questo fa capire cheè un termine molto presente in Paolo: questo sempre come ipotesi di lavoro. Infatti sarebbe un grave errore metodologico se prendessimo queste statistiche come delle dimostrazioni, sono solo degli indizi. Di fronte a questa abbondanza di ricorrenze vediamo quali sono i significati di fondo da attribuirsi a giustificazione in senso attivo dikàiôsis, giustificazione come atto giusto dikàiôma e al verbo dikaiòô. C’è un significato di fondo? Questo tema è centrale ed è molto discusso, un po’ a causa della storia che lo ha molto sovraccaricato, un po’ dal modo originale e vario in cui Paolo lo ha usato. Ne tentiamo una spiegazione che capìta adeguatamente apre la porta a capire la portata di questo termine in Paolo e ci aiuta in concreto a capire e spiegare i singoli brani. La giustificazione in Paolo viene da un termine ebraico equivalente, sedakà che si traduce con giustificazione, e che ha un senso molto preciso. Sedakà è tipico dell’Antico Testamento ed indica un pareggio tra una misura e una realtà concreta che corrisponde alla misura. Quando tra la realtà concreta e una misura abbiamo una corrispondenza piena abbiamo una sedakà, giustificazione. Vediamo alcuni esempi. C’è una sedakà in senso fisico: se si comprano due misure di grano, di olio o di vino, se a queste misure corrisponde poi la realtà tangibile del grano, olio e vino che viene dato, allora abbiamo una sedakà; se comprando una bottiglia di vino di un litro, il suo contenuto è un litro di vino allora abbiamo una sedakà. C’è anche una sedakà a livello legale: la legge mi indica un comportamento da eseguire; la legge è una misura che indica una condotta; se tra questa formula e il comportamento di una persona c’è pareggio e rispondenza avremo allora la giustificazione in senso legale.C’è anche una giustificazione in senso religioso: per esempio lo Shemà Israel,
  »Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze » (Dt 6,5)
anche questa è una misura, cioè c’è una formula ideale e c’è una condotta che cerca di esprime e concretizzare questa formula; se nella condotta di una persona c’è un tentativo di attuazione di questa formula abbiamo un uomo giusto dal punto di vista religioso. L’uomo giusto in senso religioso, quindi, è colui che fa un certo pareggio fra certe formule di carattere religioso che indica un certo comportamento, e il comportamento storico spazio-temporale che ha quella persona. Lo stesso si può dire a livello umano più generale: c’è una formula che riguarda l’uomo così globale e quando l’uomo realizza in pieno questa formula c’è un pareggio; questa formula, è ciò che per Paolo significa essere uomo, e la prenderemo in considerazione tra poco. C’è una giustizia che riguarda Dio: quando si parla di un Dio giusto non si deve pensare ad un Dio che sta ad esigere i propri diritti; Dio non si colloca nello schema di giustizia commutativa che è uno schema validissimo nella comunità umana: io ho dei diritti e dei doveri, è dovere di tutti rispettare i diritti degli altri.
Ma quando si parla di Dio la giustizia commutativa non è valida perché Dio non ha un corpo e tutto quello che fa lo fa per amore, non per avere dall’uomo qualcosa in cambio: l’alleanza è una iniziativa di puro amore da parte di Dio. Anche Dio si può chiamare però in un certo senso Giusto, non nel senso che fa rispettare i suoi diritti, ma in un senso diverso.
Dio ha fatto delle promesse ad Abramo, e proprio questa promessa fatta comporterà una realizzazione concreta di quello che Dio ha detto. Dio è perfettamente coerente con l’impegno che ha preso: c’è quindi un certo pareggio in Dio tra quelle che sono le promesse che Dio ha fatto e la loro realizzazione, questa è la giustizia propria di Dio, la sua coerenza suprema.
La fedeltà di Dio nella storia della salvezza è quello che Paolo chiama la Giustizia di Dio.
Per quanto riguarda Paolo c’è da notare un aspetto che riguarda Dio e uno che riguarda l’uomo. In Rm 3,26 Paolo parla di Dio come giusto e giustificante,
 Dio lo ha prestabilito come sacrificio propiziatorio mediante la fede nel suo sangue, per dimostrare la sua giustizia, avendo usato tolleranza verso i peccati commessi in passato, al tempo della sua divina pazienza; e per dimostrare la sua giustizia nel tempo presente affinché egli sia giusto e giustifichi colui che ha fede in Gesù. Dio quindi è giusto, fa pareggio in pieno, ma Egli è anche capace di rendere l’uomo capace di fare questo pareggio: all’uomo che ha fede in Gesù. Guardiamo l’esegesi che sostanzialmente è condivisa da protestanti e cattolici, anche se con sfumature diverse: l’uomo ha una sua formula, Dio allora interviene donando il vangelo, chiedendo l’apertura della fede, se l’uomo accoglie il vangelo per mezzo della fede scatta nell’uomo la giustificazione: l’uomo viene battezzato, e gli viene data la possibilità di fare un pareggio pieno tra quella che è la sua formula di « essere uomo », il suo progetto, e la realtà concreta storica dell’uomo stesso; l’uomo può vivere concretamente secondo questo schema e la formula che lo riguarda.
 FEDE
La fede è la risposta all’annuncio del vangelo, l’apertura piena al progetto di Dio che viene presentato e focalizzato attraverso l’annuncio del vangelo. Mediante l’apertura della fede il cristiano accoglie il vangelo.

PAOLO  NUOVO TESTAMENTO
142 243   Percentuale 58,43%
54      241    Percentuale 22,40%

(anche in questo caso sono le varienti della parola sottostante)

La frequenza con cui Paolo usa pistis, fede è molto apprezzabile. Per Paolo c’è un interesse al concetto, all’interpretazione che viene espressa attraverso un sostantivo, più che attraverso il verbo che esprime lo svolgimento dell’azione. Per organizzare meglio il materiale paolino notiamo quattro livelli nei quali si può collocare tutto quello che Paolo ha detto sia a proposito della fede che del credere. Questa è una nostra schematizzazione che ci aiuta a capire meglio Paolo.
1) Adesione iniziale-battesimo;
2) assimilazione progressiva in tutta la vita;
3) espressione comunitaria;
4) spinta missionaria verso l’annunzio e la condivisione con
tutti.
Consideriamo prima un livello generale che sottostà a questi quattro livelli: la fede per Paolo è un’apertura al contenuto del vangelo. La persona viene interpellata dall’annuncio del vangelo « Cristo morto e risorto per… », un contenuto che tende a diventare transitivo, a entrare nella vita; se uno lo accoglie allora in lui si genera la fede, che è l’accoglienza piena e totale al vangelo. Questo concetto di fede ha i suoi antecedenti, già se ne parla nell’Antico Testamento, ma per Paolo fede non è solo apertura verso Dio, fiducia in Dio, proprio dell’Antico Testamento, ma per Paolo la fede è l’apertura radicale con la quale viene accolto e personalizzato in un secondo momento, nella persona a cui viene annunciato, il contenuto stesso del vangelo.
Questa accoglienza deve essere una apertura piena e radicale, richiede dall’uomo una scelta di volontà. Non si può accettare una parte dell’evento pasquale, non si può accettare il Cristo nella propria vita mettendo delle condizioni; un’accettazione limitante in partenza non è più fede, invece la fede vera e propria implica una totalità, implica che si accolga completamente tutto il Cristo che viene presentato dal vangelo. Questo è un punto importante che merita una sottolineatura.
Formula dell’uomo
La formula dell’uomo è possibile trovarla in Gn 2,26: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza » immagine e somiglianza sono sinonimi, ma non formano una tautologia (Proposizione nella quale il predicato ripete il concetto già espresso nel soggetto), ma l’immagine è la somma di quei tratti di Dio che l’uomo può realizzare, cioè l’intelligenza, l’amore, la bontà, la capacità creativa, e diventa somiglianza quando questa immagine si realizza davvero. L’uomo quindi a immagine di Dio è l’uomo progettato da Dio e come appare nella Genesi, la formula dell’uomo quindi è essere immagine di Dio nel senso appena citato, cioè di realizzazione dei valori di Dio, ciò che è specifico di Dio, perché Dio vuole l’uomo con questi elementi e costellazioni di valori che vengono comunicati e immessi nella formula uomo. A questo si può aggiungere, secondo Paolo e Giovanni, i tratti tipici di Dio nei tratti tipici di Cristo, perché Cristo è visto come la realizzazione piena a livello umano, concreto, dei valori propri di Dio. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice: « Chi vede me vede il Padre » e questa è una espressione che sicuramente Paolo condividerebbe. Non che ci sia una somiglianza a livello fisico, una banalizzazione grezza, del tutto aliena al testo, ma le scelte proprie di Gesù sono quelle anche del Padre. Chi capisce quello che fa Gesù, l’atteggiamento di Gesù, capisce le motivazioni, gli atteggiamenti e i grandi valori del Padre. In questo senso allora Gesù è immagine viva del Padre. Se questo è chiaro allora la formula tipica di uomo per Paolo è l’uomo a immagine di Dio, che esprime i tratti caratteristici di Dio, dei tratti visti concretamente in Cristo. Paolo poteva affermare: Cristo vive in me, perché sentiva in lui la forza purificatrice di Cristo e avvertiva in lui la spinta operativa propria della Risurrezione. Applicando queste esperienza di Paolo in generale all’uomo, quindi l’uomo per realizzarsi in quanto uomo deve esprimere i tratti tipici di Cristo stesso, gli atteggiamenti di Cristo. Non per nulla abbiamo per Paolo un primo Adamo e un ultimo Adamo, e non è un gioco di concetti: il primo Adamo è l’Adamo da cui tutti deriviamo; sulla stessa linea in cui portiamo i tratti tipici di Adamo siamo destinati a portare i tratti tipici di Cristo, infatti la linea uomo comincia con Adamo ma non termina con Adamo, ma in Cristo, per cui si ha un autentico uomo nella misura in cui emergono nell’ambito dell’uomo i tratti tipici e caratteristici di Cristo
Livelli della Fede
In Gal 2,20 Paolo dice:
  »Non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me. La vita che vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. »
Questa è una espressione un po’ paradossale di Paolo: vivo, cioè conduco una vita normale, ma Cristo vive in me, cioè non c’è una sostituzione di soggetto; Paolo non è eliminato da Cristo che gli nega la soggettività, ma egli dice che nella vita che egli vive normalmente emergono gli elementi tipici di Cristo, e questi elementi non sono presenti come un peso morto, ma elementi che conducono la sua vita. Il mistero pasquale anche per quanto riguarda la morte di Cristo, applicazione liberante e purificante del Cristo nella vita questo era funzionante anche per Paolo, in quanto non era perfetto e aveva bisogno di questa purificazione che produceva in lui l’applicazione della morte di Cristo. Lo stesso lo si può dire per l’aspetto della risurrezione nella sua vita: il Cristo che vive in Paolo è il Cristo che spinge a farsi tutto a tutto, che lo spinge a farsi donazione totale e completa.
Paolo dice di non condurre una vita da iniziato a un tipo di fede, ma attivamente gli dà la purificazione da quelle che sono le sue debolezze e gli dà questa capacità totale di amore, un amore che si perfeziona sempre più: è il Cristo che con le sue implicazioni proprie del mistero pasquale si fa sentire, è vivo in lui; la vita che Paolo vive nella carne, quindi a livello umano, ha una apertura verso l’alto, la vive nella fede, al secondo livello; questa sua vita è permanentemente aperta a accogliere il Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui. Questa apertura mantenuta per tutta la vita è la fede al secondo livello. La differenza con il primo livello è la continuità. C’è inoltre una fede al terzo livello: ci sono posizioni contrastanti tra i vari studiosi: Bultmann dice che di una fede al terzo livello bisogna parlare; di parere contrario invece è Konzelmann che nega questa possibilità. La fede al terzo livello è la fede propria dell’assemblea liturgica, è la fede della comunità del gruppo. In questi termini si comprende anche la perplessità di Konzelmann: infatti egli giustamente sottolineava che la fede è una scelta, una responsabilità della persona. Se in un gruppo di cento persone ce n’è una centunesima che non crede, non è che la fede del gruppo in qualche modo compensa la fede di questa persona che come individuo non crede! Egli sostiene infatti che la fede di gruppo stimola, aiuta, ma non sostituisce la decisione della fede che è pienamente e prettamente personale: è la persona che deve scegliere o negare questa apertura. Bultmann invece sostiene che quando varie persone che già credono si trovano insieme, unite nell’assemblea liturgica che era il tempo forte delle comunità primitive, questo fatto di trovarsi insieme fa scattare una nuova dimensione della fede, fa fare alla fede una specie di salto qualitativo: in questo senso il gruppo diventa protagonista di fede; c’è una fede di gruppo che non sostituisce la fede dei componenti, ma che supposta la fede già al primo o secondo livello dei componenti del gruppo, fa scattare un nuovo tipo di fede almeno nelle sue espressioni caratteristiche; è quel di più che accade quando ci troviamo insieme e ci comunichiamo certi valori, e questo avviene anche a livello puramente umano. Quando preghiamo insieme anche se preghiamo in silenzio, il fatto di pregare insieme dà alla preghiera una dimensione più forte; quando invece abbiamo uno scambio di inni, espressioni di fede, è chiaro che c’è un di più rispetto a quello che la persona aveva prima di entrare a far parte di questa riunione, a questa assemblea. Questo di più si trova espresso in alcune forme letterarie caratteristiche del Nuovo Testamento, come ad esempio il prologo del Vangelo di Giovanni che era, secondo un’opinione ancora prevalente, un inno alla Parola che veniva cantato nell’assemblea liturgica e che poi l’autore del quarto Vangelo ha ripreso e un po’ commentato, ma sulla linea dell’inno stesso; quest’inno veniva cantato dall’assemblea.
Un altro fatto evidente è al versetto Gv 1,14 si passa dal singolare di terza persona ad un plurale di prima persona:
  » E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità (…) Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia ».
Un altro fatto evidente è al versetto Gv 1,14 si passa dal singolare di terza persona ad un plurale di prima persona:
  »E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità (…) Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia ».
C’è una sottolineatura su un plurale « noi tutti », ma chi sono costoro? Il testo è stato rielaborato, e il noi è proprio dell’assemblea liturgica, è il noi dei singoli cristiani che si trovano a vivere insieme, è il noi della chiesa giovannea. Anche nel prologo della lettera agli Efesini c’è una benedizione tipica della liturgia sinagogale, in cui si esprime, dopo aver preso coscienza di quello che Dio dà, una specie di lode e benedizione di ritorno; è una specie di inno liturgico celebrativo. Lo stesso vale per le formule di fede diffuse nell’epistolario paolino, cioè dei piccoli « Credo » che l’assemblea esprime insieme. Bastano questi esempi. Troviamo in tutto il corpo paolino un’abbondanza rilevante di inni, a volte allo stato puro, altre volte rielaborati (è il caso dell’inno cristologico di Filippesi, formule di fede espressione della fede della comunità; tanto basta per dirci che nell’epistolario paolino è presente e in qualche maniera attiva il gruppo, il noi della comunità ecclesiale, al punto che c’è una certa pendolarità. Paolo quando scrive indirizza il suo scritto espressamente all’assemblea liturgica, e lo abbiamo visto nella prima Lettera ai Tessalonicesi (Cfr. 1 Ts 5, 27). Le sue lettere venivano lette nelle assemblee, ma non è presente solo un passaggio da Paolo all’assemblea liturgica, ma anche c’è un passaggio dall’assemblea liturgica a Paolo; nel senso che Paolo condivide l’esperienza dell’assemblea liturgica, la prende, la fa sua e quando nel caso di Fil 2 sembra riprendere un inno prepaolino, semplicemente Paolo riprende un inno dall’uso liturgico di una Chiesa che ha fondato lui e lo fa suo condividendo l’esperienza liturgica dell’assemblea e se ne arricchisce.
Questo è il terzo livello della fede in Paolo, cioè quando appare come soggetto della fede in Paolo non soltanto la singola persona, ma la singola persona accanto ad altre persone che già credono in un atteggiamento di condivisione e comunicazione. C’è un salto qualitativo, una esplosione nuova di contenuto che si esprime sia negli inni sia nelle cosiddette formule di fede. C’è un quarto livello di fede, che possiamo chiamare missionario: quando una comunità come quella di Antiochia, ha maturato la fede ai tre livelli appena descritti, avverte una comunicazione ulteriore, non solo uno scambio all’interno della comunità, ma una proposta a coloro che non hanno mai sentito parlare di questi valori. Si va a portare agli altri un contenuto di fede che già si possiede. Da questo possiamo vedere alcune caratteristiche importanti di questa comunicazione di fede: La fede deve essere annunciata, chi annuncerà il vangelo? dice Paolo. Anche l’annuncio del vangelo fatto dalla comunità e da Paolo è un esercizio della fede al quarto livello. Da questo si capisce una qualche configurazione della missione, cioè la missione non è propaganda, non è una specie di aggregazione fanatica, dobbiamo portare quanta più gente possibile, e neppure di una propaganda teolo-gica; la spinta per la missione è una spinta di condivisione e di amore: ho una ricchezza bellissima e non la voglio tenere per me e la comunico agli altri; lo stesso Paolo dice che l’amore di Cristo fa pressione in noi. La condivisione missionaria di Paolo la troviamo a partire da Atti degli Apostoli al capitolo 9 in poi: questa non è una biografia di Paolo, ma è una interpretazione, è la figura di Paolo vista come la punta di diamante della Chiesa missionaria in atteggiamento di missione.
 L’ARMATURA DI DIO (EFESINI 6, 10-18)
Analisi del testo lettera di San Paolo agli Efesini 6, 10-18
Qualcuno in passato riteneva e ritiene ancora oggi che il battesimo sia l’atto conclusivo della nostra conversione a Dio, ma questa è una pia illusione che dobbiamo togliere dalla nostra mente se vogliamo veramente seguire gli insegnamenti della Parola di Dio. Con il battesimo abbiamo soltanto iniziato un lungo percorso che si presenta in salita e pieno di difficoltà da superare giorno dopo giorno. Si tratta della nostra rigenerazione spirituale che ci consente di raggiungere la maturità e l’equilibrio richiesti da Dio. Mediante la fede e la conversione noi siamo stati chiamati fuori dalle tenebre del mondo per vivere nella piena luce del Signore. Come dice appunto l’apostolo Pietro nella sua prima lettera al cap. 2 v. 9:
 «Ma voi siete una stirpe eletta, un regale sacerdozio, una gente santa, un popolo acquistato per Dio, affinché proclamiate le meraviglie di colui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua mirabile luce».
Dio stesso ci inonda di grazia, ci ricopre d’amore, ci guida con saggezza assoluta per mezzo della sua santa Parola che ci trasforma mediante un profondo rinnovamento della nostra mente. Sempre l’apostolo Pietro paragona questo nostro sviluppo spirituale a quello del piccolo bambino appena nato che desidera succhiare dal seno materno quell’alimento che gli consentirà di crescere e di diventare una persona adulta e matura. In 1 Pt 2, 2 leggiamo infatti:
 «Come bambini appena nati, desiderate ardentemente il puro latte della parola, affinché per suo mezzo cresciate»
Alla fine di questa frase in molti manoscritti del testo greco originale troviamo una parola di cui alcuni traduttori non ha tenuto conto, ma che io ritengo della massima importanza per poter comprendere la natura di questa nostra crecita spirituale. Non si tratta quindi di una crescita fine a se stessa, ma di una crescita indispensabile per la nostra stessa salvezza. Si può quindi indubbiamente concludere che non ci potrà essere alcuna salvezza per coloro che non crescono spiritualmente. Crescere è dunque l’obiettivo primario del cristiano. Bisogna crescere per passare dallo stato di fanciullezza a quello della maturità e non essere più sballottati come onde del mare dai dubbi che spesso ci assalgono in maniera prepotente. Bisogna crescere per non trovarci inermi ed incapaci di reagire di fronte ai venti di false dottrine. Bisogna crescere soprattutto per essere capaci di affrontare e vincere con sacrificio e con lealtà l’aspro combattimento contro il male in tutte le sue forme. Molto spesso l’apostolo Paolo nei suoi scritti ricorre all’immagine del combattimento fisico o della competizione sportiva per sottolineare l’importanza e l’impegno che il cristiano deve usare nel campo spirituale. Con queste parole egli infatti esorta il giovane Timoteo:
 «Combatti il buon combattimento della fede, afferra la vita eterna . . . » (1 Tim 6, 12).
Anche scrivendo ai Corinzi egli usa lo stesso paragone della lotta e della competizione sportiva per sottolineare l’impegno della vita cristiana, come possiamo leggere in 1 Cor 9, 24-27. Possiamo affermare con certezza che Paolo ha messo in pratica nelle sua vita queste esortazioni. Indimenticabile è infatti in tutta la sua intensità il pensiero con il quale l’apostolo, ormai prossimo alla fine, riassume la sua esistenza al servizio del Signore: 2 Tim 4, 7-8. Nel testo di Efesini 6, 10-18 l’apostolo Paolo, riprendendo delle immagini già familiari al profeta Isaia (Is 11, 5; 59, 17) e ispirandosi forse al pretoriano romano che faceva la guardia a lui mentre era prigioniero, esorta i cristiani a rivestirsi della completa armatura di Dio, ossia a far proprie il complesso delle varie parti di questa armatura e delle armi da usare affinché il combattimento alla fine possa risultare vittorioso. Non dimentichiamoci che, scrivendo ai Colossesi, egli aveva detto che il sacrificio di Cristo poteva farci comparire dinanzi a Dio santi, irreprensibili e senza colpa soltanto se perseveriamo nella fede, «essendo fondati e fermi, senza essere smossi dalla speranza dell’evangelo» (Cl 1, 23). Questa fermezza noi la possiamo acquistare per mezzo dell’ armatura e delle armi che Dio stesso mette a nostra disposizione. Il nemico contro cui dobbiamo difenderci e usare le armi di Dio non può essere sottovalutato in quanto si tratta del diavolo stesso, di Satana, l’avversario e l’ideatore di ogni macchinazione perversa. Per ingannarci e sedurci egli è capace di trasformarsi persino in «angelo di Luce» (2 Cor 11, 14), di citare persino le Sacre Scritture torcendole con abilità a proprio vantaggio come ha fatto con Gesù stesso durante le tentazioni (Mt 4, 6). Egli, come principe delle potenze dell’aria, ha la capacità di spingerci verso la disubbidienza ed il peccato (Ef 2, 2). Carica di cupa tensione è l’immagine in cui Pietro lo dipinge come un leone ruggente che si aggira impaziente in cerca di prede da sbranare per soddisfare la sua spasmodica bramosia (1 Pt 5, 8). Il nostro combattimento quindi – come afferma Paolo – non è rivolto contro «carne e sangue», ossia non è contro l’uomo, contro gli elementi materiali, né ha nulla a che vedere con la violenza fisica, ma si indirizza contro le potenze spirituali della malvagità che si trovano nei luoghi celesti. I termini “principati”, “potestà” “dominatori di tenebre” e “spiriti malvagi” sono più o meno sinonimi e indicano la natura spirituale del nemico contro cui dobbiamo combattere. Nella storia del cristianesimo, spesso gli uomini, non tenendo conto di questa realtà, si sono macchiati di delitti atroci contro i propri fratelli ed hanno giustificato queste azioni delittuose definendole “guerre sante ” o “ santa inquisizione”. Ma tutti questi conflitti non avevano nulla a che fare con il conflitto spirituale di cui ci sta parlando Paolo. Questo conflitto spirituale non è neppure identificabile con magie varie, stregonerie, incantesimi, esorcismi, sortilegi, spiriti incarnati, fantasmi e cose simili che sono già condannate dal Signore per l’infondatezza assoluta dei loro presupposti. Satana è molto più astuto e le sue manifestazioni molto più pericolose delle superstizioni vuote e facilmente contestabili. La sede del combattimento è piuttosto la nostra coscienza, il nostro animo, la nostra volontà. È qui che si agitano le forze invisibili del male che cercano di prendere pian piano possesso di noi in modo da ferirci in maniera mortale. In Giacomo 1, 14-15 leggiamo:
 «Ciascuno invece è tentato quando è trascinato e adescato dalla propria concupiscenza. Poi, quando la concupiscenza ha concepito, partorisce il peccato e il peccato, quando è consumato, produce la morte».
È quindi estremamente importante farci trovare pronti per non soccombere, ma vincere questa decisiva battaglia. Come prima cosa occorre essere consapevoli dei nostri limiti e delle nostre debolezze. Confidando solo nelle nostre capacità di resistenza, finiremmo per essere miseramente sconfitti e non avremmo alcuna possibilità di farcela. Per questo motivo Paolo ci esorta a trovare la nostra forza e la nostra speranza nelle virtù e nella potenza del Signore, invitandoci a rivestire la completa armatura di Dio per essere capaci di sconfiggere il giorno cattivo della tentazione. L’apostolo Paolo ci dà un’assicurazione divina ben precisa che troviamo in 1 Cor 10, 13:
 « Nessuna tentazione vi ha finora colti se non umana; or Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita, affinché la possiate sostenere ».
Questa promessa è davvero rassicurante. Essa tuttavia ha bisogno di due elementi fondamentali per poter trovare piena attuazione: Il Primo e più importante elemento è quello realizzato da Dio con Cristo facendolo risorgere dalla morte (Ef 1, 20), Per mezzo di questo evento il Signore ha iniziato a demolire la potenza di Satana “legandolo” e limitandone quindi drasticamente i poteri e l’abilità di sedurre i deboli nella fede. L’altro elemento è quello che può realizzare l’uomo rimanendo strettamente legato al Signore come un tralcio alla vite per ricevere da Lui la linfa vitale (Gv 15, 1-5). Soltanto realizzando questa unione in maniera perfetta ed indissolubile l’uomo potrà affrontare e superare qualsiasi tentazione. Essere con Lui, essere in Lui significa percorrere la via dell’ubbidienza e combattere strenuamente per la fede che ci è stata tramandata una volta per sempre (Gd 3). In conclusione possiamo affermare che Paolo ci invita a rivestirci della completa armatura di Dio perché questo è il solo modo per evitare l’inganno e la seduzione del peccato. Le stesse raccomandazioni ci vengono rivolte con altre parole anche dall’apostolo Pietro in 2 Pt 1, 5-11 che potremo leggere e meditare nelle nostre case. Questa lotta che dobbiamo sostenere è una lotta interiore contro le tentazioni subdole e sottili di Satana che fa leva sui piccoli orgogli, sulle piccole debolezze sui momenti di incertezza e di scoraggiamento che ci assalgono, per sferrare il suo attacco finale e cercare di farci soccombere. Ma noi abbiamo la rassicurante promessa da parte di Dio che tali attacchi non potranno mai essere vincenti se affrontati con le Sue armi, poiché equipaggiati in maniera adeguata saremo in grado di affrontare con successo anche il combattimento più duro ed intenso. Le armi del Signore sono armi di luce (Rm 13, 12) capaci di donare al cristiano la certezza assoluta della vittoria finale. Infatti lo stesso apostolo Paolo in Rm 8, 37-39, così scrive: «Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori in virtù di colui che ci ha amati. Infatti io sono persuaso che né morte né vita né angeli né principati né potenze né cose presenti né cose future, né altezze, né profondità, né alcuna altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore».
 LE COSE DI LASSÙ
Analisi del testo della Lettera  ai Colossesi 3, 1-4
 «Se dunque siete risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù, dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Abbiate in mente le cose di lassù, non quelle che sono sulla terra, perché voi siete morti e la vita vostra è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, che è la nostra vita apparirà, allora anche voi apparirete con lui in gloria»
Ricollegandosi direttamente con quanto aveva già detto al cap. 2 ai vv. 12-13, in cui aveva parlato della sepoltura dell’uomo vecchio e peccatore e della sua risurrezione a nuova vita, nel battesimo, mediante la fede in Cristo, Paolo ora trae la necessaria conseguenza: «Se dunque siete risuscitati con Cristo», ora tutto il vostro interesse, la vostra attenzione, i vostri pensieri, i vostri desideri, le vostre aspirazioni, il vostro comportamento, l’intero vostro essere, anima spirito e corpo, non può essere rivolto che verso un’unica direzione: il cielo, e cioè «le cose di lassù» Anzi Paolo dice addirittura che non solo noi dobbiamo «cercare le cose di lassù», ma queste cose devono essere l’oggetto principale dei nostri pensieri: «abbiate in mente le cose di lassù». Non più le cose terrene, di questo mondo che passa, ma le cose che riguardano il cielo, il quale deve essere la meta verso la quale aspiriamo con tutte le nostre forze. Anche ai Filippesi Paolo scrive (Fl 3, 20) che la nostra cittadinanza non è in questo mondo, ma nei cieli ed è lì che dobbiamo assolutamente concentrare tutte le nostre aspirazioni. Pur vivendo in questa terra, noi qui siamo soltanto di passaggio, in quanto la nostra dimora definitiva sarà il cielo, ed è appunto per questa dimora definitiva dei cieli che noi dobbiamo prepararci. Paolo invitandoci a guardare verso il cielo, è in perfetta sintonia con Cristo, il quale a sua volta ci invita a riporre le nostre speranze non nelle cose effimere di questo mondo che procurano solo dolore e sofferenza, ma nei cieli dove il nostro tesoro sarà custodito senza deperire e senza procurarci inutili affanni. Rimangono infatti indelebilmente incise nei nostri cuori le sue famose parole:
 «Non vi fate tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri sfondano e rubano, anzi fatevi tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non sfondano e non rubano. Perché dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Mt 6, 19-21)
 «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte» (Mt 6, 33).
Tornando al nostro brano di Cl 3, Paolo ci vuole far comprendere che se la nostra vita cristiana inizia per noi con il sacrificio di Cristo, tale vita sarebbe imperfetta e del tutto inutile se non ci fosse poi il desiderio e l’impegno costante da parte nostra di guardare verso la meta finale che Gesù ha preparato per noi. Se viviamo in Cristo, al quale siamo stati uniti nel battesimo e mediante il quale abbiamo vinto il male e le forze della malvagità di questo mondo disubbidiente, allora dobbiamo indirizzare le nostre energie verso due impegni primari, ben precisi e tra loro collegati: Cercare le cose di lassù, avere in mente le cose di lassù. Cercare le cose di lassù. Gesù ha promesso: «Chi cerca trova» (Mt 7, 7-8). Una ricerca richiede implicitamente la volontà di raggiungere l’obbiettivo prefissato. L’obiettivo della ricerca delle cose di lassù ci viene agevolato in modo particolare dal fatto che noi siamo rinati a nuova vita mediante la fede nel sacrificio di Cristo. Chi è risuscitato dentro di sé col Signore, è già entrato nella nuova dimensione della salvezza che fra breve si compirà del tutto ed ha quindi un nuovo ed esclusivo centro di interesse, un diverso scopo da raggiungere in funzione del quale imposterà tutta la sua vita. Ne consegue che nella preghiera, nello studio della Parola di Dio, nei rapporti fraterni, nella predicazione del vangelo, nella santificazione personale, chi ama Dio, cercherà continuamente in Cristo la forza, lo spirito, l’esatta direzione, la più profonda comprensione, la coerenza che gli consentiranno di essere degni del cielo, cioè della nuova dimora che Dio ha preparato per i suoi figli. Viceversa chi non cerca non potrà mai trovare perché non si sforza neppure di porsi questo obiettivo. Da questa mancanza di ricerca e quindi di intenso desiderio per cose di lassù non può che derivarne rilassatezza, approssimazione, superficialità che spinge tanti cosiddetti “credenti” a vivere un cristianesimo da un punto di vista unicamente terreno, come se nulla fosse cambiato nella loro vita. Avere in mente le cose di lassù Quando uno vuole cercare qualcosa, prima di tutto deve averla presente dentro di sé, deve averla presente nella sua mente. Soltanto dopo averla presente nella sua mente, egli sentirà il desiderio di cercarla. Quando cerchiamo qualcosa vuol dire che dentro di noi è sorto un interesse per questa cosa. Per questo motivo, appunto, Paolo aggiunge: «Abbiate in mente le cose di lassù, non quelle che sono sulla terra» Gesù, che era un profondo conoscitore della natura umana, disse: «dov’è il vostro tesoro, lì sarà pure il vostro cuore» (Mt 6, 21). Siccome il cuore è la sede dei nostri pensieri e dei nostri interessi, è ovvio che se noi ci faremo un tesoro nei cieli, lì sarà pure il nostro cuore ed il nostro interesse. Chi trova i tesori di Cristo e se ne riveste, desidera immergere il proprio animo nelle cose di Dio, vuole averle nel proprio cuore continuamente come oggetti preziosi di valore incalcolabile, da custodire gelosamente. Ricordate le brevi parabole di Gesù sul tesoro nascosto e sulla perla trovata? Le troviamo in Mt 13, 44-46. Una volta trovato questo tesoro o questa perla, si vende ogni cosa e si acquista questo tesoro o questa perla preziosa. Ma perché dobbiamo cercare ed avere in mente le cose di lassù, piuttosto che le cose terrene? Paolo ce lo spiega al versetto 3: «perché siete morti e la vita vostra è nascosta in Cristo» Come un morto non può più essere coinvolto nelle cose di questa terra, così chi è morto con Cristo non può più vivere le cose delle terra alla maniera di quelli della terra. Contemplando il trono di Dio, ci si sottrae al pericolo di essere compromessi con le cose di questa terra. Il cristiano è uno che si separa dal mondo, ma non scappa fisicamente da questo mondo, non si sottrae ai suoi doveri isolandosi come un eremita. Vive in questo mondo, ma con quel necessario distacco che gli permette di vincere le avversità, i mali, di superare qualsiasi difficoltà perché ha lo sguardo rivolto con speranza verso orizzonti migliori. Si nutre della Parola di Dio, ma al tempo stesso condisce i cibi insipidi di questa terra con il sale della fede, della speranza e dell’amore. Pur vivendo in questa terra, pur soffrendo con pazienza i mali di questo mondo, è felice perché ha raggiunto la pace con Dio e quindi un armonioso equilibrio interiore. Visto dal di fuori questo modo di essere e di pensare potrebbe sembrare “pazzia”, come “pazzia” potrebbe sembrare il messaggio della croce che il cristiano predica e vive. Anche se il mondo non se ne rende conto, perché non lo sa e non lo vede, colui che vive una nuova vita in Cristo possiede dentro di sé la pienezza di ogni cosa. La realtà profonda dell’animo di colui che si è affidato a Cristo appare però come velata, nascosta al mondo, proprio come nascosta e velata era la pienezza della sapienza di Dio che si era incarnata in Gesù, e moltissimi non se ne accorsero e moltissimi ancora oggi continuano a non accorgersene. Il cristiano può sembrare un fallito, uno che non sa vivere secondo le regole del gioco, imposte dal principe di questo mondo; uno che ha riposto ogni sua fiducia ed ogni sua speranza in una persona finita miseramente sulla croce. Ma il percorso quotidiano del vero credente è invece intimamente illuminato da una luce così intensa e divina che egli stesso a volte non se ne rende pienamente conto. Basta pensare che ogni credente è grande per Dio. Ricordate cosa disse Gesù di Giovanni Battista?
 «In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto mai nessuno più grande di Giovanni Battista; ma il minimo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11, 11).
Il minimo nel regno dei cieli, il più umile, il più piccolo, il piu’ trascurabile agli occhi del mondo, è invece agli occhi di Dio addirittura più grande di Giovanni Battista. Per questo motivo il vero credente deve porre la massima attenzione nel proprio cammino, deve continuamente farsi guidare dal suo Signore ed essere costantemente a lui fedele anche nel piccole cose, per poter essere poi giudicato degno di ereditare le grandi cose di Dio. Tutto questo avrà naturalmente un coronamento finale: «Quando Cristo, che è la nostra vita, apparirà, allora anche voi apparirete con lui in gloria» Il ritorno di Cristo, la sua manifestazione finale, farà scomparire ogni velo residuo, porterà in piena luce tutto il bene e tutto il male. Allora chi si è davvero rivestito di Cristo brillerà come il sole della stessa luce divina di cui brillano gli angeli del cielo. Le sofferenze del cammino terreno, l’inimicizia, il disprezzo, l’indifferenza e lo scherno, apparteranno ad un lontano passato e si riveleranno delle piccole cose rispetto all’immensità della gloria di Dio di cui saremo investiti. Non ci sono parole umane adatte a descrivere questa gloria, ma Pietro ci dice che alla fine noi diventeremo nientemeno che partecipi della natura divina (2 Pt 1, 3-4). Cessando di essere ciò che siamo stati nel nostro passato di peccatori ed accettando di essere ciò che il Signore vuole che noi siamo, partecipiamo durante tutta la nostra vita alla morte ed alla resurrezione di Cristo, preparando l’ascensione alla gloria di Lassù. La stessa morte fisica non sarà più per noi un doloroso distacco, un salto nel buio, ma un glorioso ingresso in un mondo meraviglioso. Come scriveva Paolo ai Filippesi, Il cristiano è contento di rimanere in questa vita finché questa sua permanenza sarà utile alla propria e all’altrui salvezza, ma è contento anche e a maggior ragione di partire, perché è consapevole che la pienezza della comunione con il Signore si attuerà soltanto oltre la vita terrena. La propria vita terrena non la vive più per se stesso, ma per colui a cui ha deciso di appartenere mediante il battesimo. Se il cristiano ha costruito la sua vita terrena nell’amore di Dio e del prossimo, se si è costruito un tesoro nei cieli, egli potrà ora guardare con speranza e con serenità al suo viaggio verso l’eternità.
Il Progetto di Dio
Il termine progetto viene dal greco  , protìthémi, porre prima. In Paolo riscontriamo il termine  , progetto, sei volte sulle dodici totali del Nuovo Testamento; abbiamo inoltre  , protìthémi, che ricorre tre volte in Paolo sulle tre totali del Nuovo Testamento, quindi è un suo uso tipico che però fatto tre volte soltanto non è molto significativo. Considerando il sostantivo  sia il verbo  possiamo dire che l’idea che soggiace è molto cara in un certo senso a Paolo, nonostante l’esiguo uso di questi termini.  viene usato 6 volte:
 Rm 8,28:  » Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno »
 Rm 9,11: « … quando essi ancora non eran nati e nulla avevano fatto di bene o di male perché rimanesse fermo il disegno divino fondato sull’elezione non in base alle opere . .. « .
 Ef 1,11: « In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà »
 Ef 3,11: « … secondo il disegno eterno che ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore… « 
 2Tim 1,9: « Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia… ».
 2Tim 3,10: « Tu invece mi hai seguito da vicino nell’insegnamento, nella condotta, nei propositi, nella fede. nella magnani-mità, nell’amore del prossimo… « .
Il progetto, nei primi cinque casi, si riferisce al progetto di Dio; solo una volta Paolo lo usa per sé; è da notare che abbiamo fatto questa scelta con una certa disinvoltura.
Per quanto riguarda il verbo  viene usato in:
 Rm 1,13:  » Non voglio pertanto che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi… « 
 Rm 3,25:  » Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia ».
 Ef 1,9:  » … poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito… « .
 PROGETTO – PROGETTARE
Quando Paolo pensa a questo progetto-progettare, due volte lo riferisce a sé, le altre volte a Dio. Quando appunto parliamo di un progetto di Dio espresso con il sostantivo e con il verbo che abbiamo appena indicato, siamo abbastanza aderenti al testo paolino. Non ci occupiamo adesso del progetto di Paolo, ma cosa significa questo progettare da parte di Dio? Per rispondere alla domanda dobbiamo considerare come in Paolo si è formata l’idea che Dio ha un progetto e che Dio progetta. Paolo presenta un senso acuto di Dio, e questo si può vedere di più nella lettura delle sue lettere, infatti quando ne parla non riesce mai ad essere freddo o indifferente, si riscalda sempre: il tema « Dio » provoca una forte e irresistibile risonanza di Dio, un grande entusiasmo verso Dio. In Paolo c’è stata un’esperienza personale di Dio nell’ambiente giudaico di tendenza farisaica, che diverge da quella forma ipocrita che troviamo condannata nel Vangelo o in alcune lettere di Paolo, dove si parla della degenerazione del fariseismo; invece il fariseismo di cui parla Paolo è un movimento in cui si cerca di attualizzare il massimo possibile la Legge, il fariseo è il « separato » dalla massa per fare le cose religiose più in profondità. Paolo appartiene a quella corrente farisaica e viene educato secondo questa tendenza del giudaismo impegnato del tempo e non frammisto di ellenismo. Egli poteva frequentare, seppur nell’ambiente ellenistico di Tarso, la sinagoga e fare tutte le preghiere che un ebreo di quel tempo compiva, come lo sema Israel recitato tre volte al giorno. Questa educazione personale di Paolo avuta fin dalla sua prima giovinezza ha avuto una forte risonanza su di lui; anche l’esperienza di Gerusalemme ha aperto molto gli orizzonti di Paolo. Come carattere Paolo era particolarmente sensibile alla dimensione umana, quindi anche le cerimonie dell’acqua, della luce tutto ciò che si faceva nel tempio era per lui importante. Ciò è dimostrato dal fatto che anche quando la liturgia del tempio sarà superata e il tempio non avrà più quell’importanza avuta nell’Antico Testamento, Paolo rimarrà affezionato al tempio, al punto da essere catturato nel tempio e portato a Cesarea.Paolo è molto sensibile ai problemi umani; vissuto in un ambiente ebraico non è rimasto estraneo alla cultura ellenistica della sua città. Anche quando va ad Atene fa il giro della città e non rimane nel quartiere ebraico, ma va in giro trovando anche la statua « al dio ignoto ». Paolo non ha invece il senso della natura, nei suoi viaggi attraverso paesaggi meravigliosi non ne parla mai, e quando ne parla sbaglia e fa confusione; questo a differenza di Gesù che ha una grande sensibilità alla natura.
Allora per quanto riguarda l’idea del progetto di Dio, Paolo da una parte è come risucchiato dal senso acuto di Dio, ma dall’altra parte è attratto dalla dimensione dell’uomo, tutto ciò che attorno a lui gravita. Paolo sa che l’uomo è creato da Dio e sa che ci deve essere un rapporto; ma quale è questo rapporto? Paolo sperimenta anche una tensione tra l’elemento più verticale di Dio, e l’elemento orizzontale dell’esperienza dell’uomo e volendo metterle insieme ne scaturisce l’idea del progetto di Dio. L’uomo in tutte le sue iniziative è progettato da Dio: questo termine in Paolo ha una valenza tutta nuova. Paolo unisce questa esperienza acuta che ha di Dio e l’esperienza acuta che ha dell’uomo formulando questa idea: tutto ciò che fa l’uomo rientra in una progettazione che parte dalla trascendenza di Dio. Ma vediamo in che senso. Il progetto è un progetto a livello di Dio, nasce e si forma in Dio;  , protìthémi, porre prima, quel prima non ha un senso sulla linea dell’anticipo del tempo, ma equivale « al di sopra » di tutto. Tutto ciò che Dio fa riguarda sia l’uomo che il cosmo. Tale progetto onnicomprensivo, che ha l’uomo al centro, viene elaborato da Dio, che – dicevamo – è al di sopra di tutto. Ecco che Paolo esprime con  , questa realtà che coinvolge la trascendenza di Dio. Ad esempio Paolo dice: « Dio ha predestinato »; non è sulla linea temporale che si sta parlando, ma ciò vuol dire che tale progetto è nato nell’interiorità stessa di Dio. Ecco che è più opportuno parlare di progetto: è come l’artista che elabora dentro di sé quell’ispirazione che poi verrà alla luce nell’opera d’arte. Tale progetto viene anche rapportato a Cristo come inizio e come conclusione: ossia Dio – nell’elaborare tale progetto – guarda a Cristo come inizio, e nuovamente a lui come compimento. Tutta la realtà umana e cosmica, in qualche modo parte da Cristo e si conclude in Cristo. È una grande intuizione della teologia paolina.
Tutto converge in Cristo.
 UOMO E DIO
Nell’Antico e Nuovo Testamento c’è un senso molto chiaro di questa corrispondenza piena tra quello che Dio dice e quello che Dio fa. Non c’è una parola di Dio che cade a vuoto, una Parola di Dio, detta da Dio ha pienamente il suo effetto. Dio è anche giustificante, fa sì che l’uomo possa fare pareggio nel senso che anche l’uomo ha una sua formula, una sua misura, che configura quella che è la realtà propria dell’uomo; per la Bibbia ogni uomo sta sulla linea di Adamo, non ha senso senza un riferimento ad Adamo, e Cristo si colloca su questa scia. L’uomo, in quanto tale, per la Bibbia, è visto come discendente di Adamo; l’uomo quindi è uomo perché discendente da Adamo, ma anche perché è rapportato a Cristo: come l’uomo non avrebbe la sua identità senza Adamo, così non avrebbe la sua identità senza Cristo, che è l’ultimo Adamo. L’uomo è creato da Dio con questi punti luminosi emergenti di Dio, che a un certo punto si sviluppa e fiorisce in somiglianza. L’immagine è il seme e la somiglianza è la fioritura di questa immagine.
Nel Nuovo Testamento Cristo è la realizzazione concreta dell’uomo in quanto somigliante di Dio. Cristo entrando nella linea antropologica di Adamo porta nell’uomo la possibilità di poter realizzarsi a immagine e somiglianza di Dio. Potremmo concludere che la formula «uomo» è immagine e somiglianza di Dio realizzata concretamente nella forma di Cristo.
Questa immagine e somiglianza di Dio è un progetto che si realizza se c’è un pareggio tra l’uomo spazio-temporale, ossia in carne e ossa, che vive nella sua storia. L’uomo è pienamente se stesso quando concretamente realizza questi valori dell’immagine di Dio nella forma di Cristo, cioè fa pareggio con la sua formula, con la sua vera identità.
Perché si possa fare questa corrispondenza, bisogna che la realtà concreta dell’uomo corrisponda a questa formula.
Un primo approccio è abbastanza sconfortante per Paolo; nella lettera ai Romani, vedremo il quadro che traccerà dell’uomo lacunoso, peccatore, vuoto. Paolo nota che di questa formula che compete all’uomo, nell’uomo stesso ce n’è poca. L’uomo appare proprio al contrario dell’immagine di Dio: Paolo infatti dice in Rm 3:
  »(…) tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù ». (Cfr. Rm 3)
cioè sono privi della gloria, in quanto realtà-valore, perché a causa delle scelte sbagliate l’uomo si svuota e quindi questa immagine di Dio sembra non esserci niente. Dio vuole giustificare l’uomo, e allora il primo impegno che deve fare per giustificare l’uomo è liberare l’uomo, liberarlo da tutti i detriti e il materiale d’ingombro che l’uomo ha ricevuto dalle sue scelte sbagliate.
Per Paolo il peccato non è solo una scelta sbagliata dell’uomo, ma scava nell’uomo, è una lacuna di un sistema dell’uomo. Dio toglie queste rovine e abbiamo l’applicazione del mistero pasquale, della morte di Cristo che libera l’uomo della sua peccaminosità quasi sin dalla radice, soprattutto libera l’uomo dai risultati di queste scelte. L’immagine di Dio infatti non può essere importata su un uomo tutto carico di altri elementi.
Una volta che l’uomo è liberato è possibile delineare nell’uomo i tratti tipici dell’immagine di Dio nei tratti di Cristo, e abbiamo i vari aspetti indicati e sottolineati da Paolo: l’uomo diventa Figlio di Dio, grazie alla vitalità comunicata da Cristo risorto. Lo spirito che viene donato al cristiano, non è altro che la comunicazione della vitalità storica del Cristo risorto. Una volta che il Cristiano è davvero figlio, se è figlio possiede lo spirito perché la filiazione del cristiano è realizzata da questa comuni-cazione e partecipazione che Cristo fa al cristiano della
sua vitalità. Paolo dirà nella lettera ai Romani al capitolo 8:
  »Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio ».
L’uomo giustificato, allora è colui che si è aperto a quest’influsso di Dio giustificante donando il mistero pasquale, e la vitalità di Cristo risorto donata al cristiano produce in lui questa realtà di Figlio di Dio con la capacità di guidarsi, di fare nella sua vita le stesse scelte di Cristo. L’uomo giustificato è l’uomo cristificato, che comincia a fare nella sua vita le stesse scelte fondamentali di Cristo. Inoltre, la giustificazione è anche un sviluppo: possiamo dire che non siamo  dedikaiômènoi, ma  dikaioùmenoi; cioè con il primo si intenderebbe un’azione cominciata nel passato che continua nel presente e significa già giustificati; il secondo termine significa che è in sviluppo di giustificazione, l’azione è cominciata e sta sviluppandosi sempre di più, è la fede che permette l’accoglienza progressiva di quello che viene comunicato attraverso il vangelo.
 VANGELO
Etimologia: Vangelo (lieto annunzio), dal greco  lieto,  annunzio.
La terminologia con cui Paolo si esprime circa questo termine (Vangelo) può essere analizzata secondo questa statistica:
Paolo  Nuovo Testamento

60  76  Percentuale 78, 94 %
21      58  Percentuale 37, 5 %

 (anche qui sono le varianti del termine  εὐαγγέλιον)

Son nate pertanto varie ipotesi: tra le altre ne ricordiamo due:
1) Paolo è colui che ha coniato il termine  , riprendendolo dall’uso dell’Antico Testamento.
2) Paolo ha preso il termine  ad Antiochia, nel periodo che intercorre tra la sua vocazione (ca. 36 d.C.) e il suo primo viaggio missionario (ca. 46 d.C.). Antiochia era infatti una Chiesa vivace, dove per la prima volta i credenti in Cristo furono detti cristiani. Mettere qui un link col mio articolo su Antiochia
Vi è, nella statistica, una prevalenza del sostantivo  rispetto al verbo: è un indizio che ci può far capire che Paolo da buon intellettuale, fa una sintesi dei fatti e la esprime con il sostantivo  . Ecco che vangelo è la sintesi, per Paolo, di tutto ciò che ha osservato circa l’annuncio apostolico. Fondamentale è il contenuto espresso dal termine, infatti non è semplicemente lieto (  ), annunzio ( ) così come ci dice l’etimologia; ma è: Annuncio di Cristo morto e risorto per…; interpella l’uomo, raggiungendolo dov’è; L’uomo deve scegliere: si o no; Da questo dipende la sua situazione escatologica: salvezza – perdizione. È la somma di questi quattro punti che costituisce la lieta novella che Paolo annuncia.In primo luogo Paolo annuncia la morte e la risurrezione di Cristo, non semplicemente come evento, ma come fatto che libera, o salva dai peccati (ecc…). Sono eventi per, ossia in funzione di qualcos’altro. Gesù è veramente morto e risorto, ma non è questo il succo dell’annunzio: morte e risurrezione comunicano la vita divina all’uomo.Tale annuncio arriva all’uomo nel suo ambiente, ossia lo interpella personalmente; questi dovrà fare una scelta: si o no. Il sì è l’accoglienza della fede. Da tale risposta data al vangelo dipende tutto lo sviluppo ulteriore della persona: salvezza o perdizione. Ora, quindi, capiamo in che misura il Vangelo è lieto annuncio: solo nel caso in cui l’uomo lo accoglie e vi aderisce con la vita. Infine troviamo una certa tensione o bipolarità tra una certa trascendenza e immanenza del Vangelo. Paolo difatti dice che il vangelo è di Dio, ma dice anche « il mio vangelo ». Di chi è allora il vangelo, di Dio o di Paolo? Possiamo dire che è di entrambi: il vangelo di Dio viene personalizzato da Paolo ( Trascendenza  : di Dio, Personalizzazione  : di Paolo).

LA GRAZIA E LA GIUSTIFICAZIONE NEL PENSIERO DI SAN PAOLO

http://www.collationes.org/de-documenta-theologica/theologia-dogmatica/item/141-la-grazia-e-la-giustificazione-nel-pensiero-di-san-paolo-paul-ocallaghan

(oggi pomeriggio ho visto in televisione il discorso del Presidente al Parlamento, non avuto tempo per ricerche e considerazioni, questo testo che vi propongo io non l’ho ancora letto, lo farò stasera o domani, credo che l’autore sia dell’opus Dei, domani controllo…scelto in fretta ma con amore)

LA GRAZIA E LA GIUSTIFICAZIONE NEL PENSIERO DI SAN PAOLO

di  PAUL O’CALLAGHAN

[Paul O'Callaghan, La grazia e la giustificazione nel pensiero di San Paolo, en M. Sodi, P. O’Callaghan (eds.), Paolo di Tarso. Tra Kerygma, cultus e vita, LEV, Città del Vaticano 2009, pp. 103-116]

I. Contestualizzando la dottrina paolina: la grazia giustificante e le ‘buone opere’

La dottrina paolina sulla grazia si situa soprattutto all’interno del tentativo dell’Apostolo di evitare e superare l’umana tendenza — frutto del peccato — verso l’auto-giustificazione. Secondo gli scritti paolini, l’uomo è peccatore e creatura, e per questa ragione le sue opere sono in qualche modo disordinate in partenza. Perciò soltanto la divina misericordia, gratuitamente comunicata, può salvare l’uomo e dare valore alle sue opere. La grazia, in altre parole, si oppone alle buone opere quando queste vengono considerate e vissute come mezzo necessario per la salvezza, con cui l’uomo può presentarsi davanti a Dio ed esigere riconoscenza.
Paolo adopera il termine ‘grazia’ (cháris) un centinaio di volte. Lo fa sempre al singolare, per designare in genere il favore divino, e in modo specifico l’evento escatologico che ha avuto luogo in Gesù Cristo e che produce il rinnovamento interiore dell’uomo credente. La vita cristiana parte e si incentra sulla donazione di Dio agli uomini e solo secondariamente — come conseguenza, pur necessaria — sull’etica. Gli uomini sono peccatori e hanno bisogno di essere redenti da Gesù Cristo: “perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (Rm 3,23s.).
II. Il cammino della grazia: Gesù Cristo
La giustizia ha origine esclusivamente in Dio, secondo Paolo. Però l’unico cammino per raggiungerla è per la fede in Gesù Cristo.
Sono molti i testi che indicano questa dottrina. “Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio” (Rm 5,1-2). “Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono” (Rm 3,21s.). In Romani 4,24 ss., Paolo spiega che nell’Antico Testamento Abramo veniva giustificato non per mezzo delle sue opere, ma per la fede in Dio (cf. Gn 15,6) in base ad una promessa ancora non vista né verificata; il cristiano, similmente, è giustificato per mezzo della fede in Gesù Cristo.
Nel contempo, ciò che rende possibile la redenzione (o salvezza) per mezzo della grazia, è il fatto che tutti siamo stati creati in Cristo e a causa di Cristo, un tema ricorrente in Paolo (1 Cor 8,6; Col 1,15-20; Eb 1,2-3.10). In altre parole, Cristo viene a salvare un mondo già creato da Lui e indirizzato sin dall’inizio verso di Lui; la grazia, perciò, non è qualcosa di violento, di invadente, di artificialmente aggiuntivo; esiste ed agisce in continuità con il dono divino della creazione.
Bisogna aggiungere, però, che il Cristo non può essere considerato come un mero mezzo che rende disponibile la grazia, perché secondo gli scritti paolini il dono di Dio agli uomini è Gesù Cristo stesso. Vivere nella grazia vuole dire ‘essere (o vivere) in Gesù Cristo’. In un brano famoso della lettera ai Gàlati, Paolo dichiara che “sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Questa incorporazione o rivestimento di Cristo, secondo Paolo, ha luogo per mezzo del Battesimo con l’invio dello Spirito Santo. Siamo stati “battezzati in Cristo Gesù” (Rm 6,3). “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27; cf. 2 Cor 5,2; Ef 4,24).
III. Lo stato nuovo del cristiano
Il credente in Cristo, secondo san Paolo, vive in un nuovo stato. Il ‘vivere in Cristo’ non equivale ad una mera assimilazione dello stile di vita e l’esempio del Maestro (Fil 2,5), con un’imitazione, tramite le proprie forze, delle sue virtù e dei suoi atteggiamenti. La realtà è più forte: “Cristo vive in me” (Gal 2,20). Per questa ragione Paolo può dire: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Cor 12,9). Cristo si rende presente ed attivo nel cristiano, che perciò vive in Lui, con Lui, per Lui.[1] Paolo impiega una ricca varietà di espressioni, fortemente collegate tra di loro, per spiegare questa nuova vita che scaturisce dal Cristo e si fa sempre più presente nella vita del credente. Ne possiamo elencare sei.
1. In primo luogo, la ‘nuova creazione’.[2] La vita che risulta dal dono di Dio viene chiamata da Paolo una ‘nuova creazione’ (Gal 6,15).
Il ‘nuovo uomo’ è “creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,24). “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove” (2 Cor 5,17). L’opera di Dio nell’uomo è quella di essere “creati in Cristo Gesù per le opere buone” (Ef 2,10). L’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26) viene ‘ri-creato’ in Cristo secondo la sua immagine (Rm 8,29). Da una parte, questa spiegazione fa riferimento alla ‘creazione in Cristo’, già menzionata. La ‘nuova creazione’ quindi è qualcosa di più di una mera metafora. È una vera e propria opera di Dio, l’Unico Creatore. Dall’altra parte, il radicalismo di questa ‘nuova’ creazione ha come punto di arrivo la santità e quindi come punto di partenza il peccato, ovvero le ‘cose vecchie’.
2. La filiazione divina. Il risultato della vita di Cristo nel cristiano, della nuova creazione, è la filiazione divina, perché Cristo è il Figlio di Dio e la sua vita in noi ci rende figli del Padre. Paolo lascia intendere però che non si tratta di una filiazione naturale, originaria, ma del frutto della nuova creazione, come una seconda e successiva fase dell’esistenza umana. Per questo, adopera apertamente il termine ‘figli di adozione’ (Gal 4,6; Rm 5,15-16; Ef 1,3s.).[3] Nel contempo, è chiaro che la filiazione ricevuta per grazia produce una realtà non dissimile a quella di Cristo. Per questa ragione il cristiano, figlio di Dio, diventa co-erede con Lui (Rm 8,17). Cristo è la causa di questa vita filiale (Rm 8,29), che ci ha meritato sulla croce (Gal 4,5).
La realtà della filiazione divina viene resa presente nel credente, secondo Paolo, dallo Spirito Santo, in qualche modo sperimentato dai cristiani (Rm 8,14.16). Per mezzo dello Spirito possiamo chiamare Dio ‘Padre’ (Rm 8,15; Gal 4,6). Si può dire che l’agire dello Spirito, la nuova vita in Cristo e la filiazione divina interagiscono tra di loro nel modo seguente: Cristo Risorto, entrato nella pienezza della sua Filiazione, è Colui che invia lo Spirito, per trasformarci (Tit 3,6); a sua volta, lo Spirito ha il compito specifico di assimilare il cristiano a Cristo, affinché “Cristo sia formato in voi” (Gal 4,19); perciò si dice che nello Spirito possiamo gridare ‘Abbà, Padre’ (Rm 8,14-16). In poche parole: “Per mezzo di lui [Cristo] possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,18).
3. La presenza dello Spirito. Diverse volte Paolo parla della presenza dello Spirito nell’uomo come un aspetto specifico e qualificante della nuova vita. “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).
In effetti, lo Spirito viene inviato (Gal 4,6) e ‘concesso’ (Gal 3,5) al credente, ‘riversato’ (Tit 3,5) su di lui. Viene ad abitare in lui: “Lo Spirito di Dio abita in voi” (Rm 8,9). Dio abita in mezzo al Popolo dell’Antico Testamento come in un tempio.[4] In modo simile il tempio dello Spirito Santo è ora il credente cristiano. “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui” (1 Cor 3,16 s.). “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1 Cor 6,19). La presenza dello Spirito, in altre parole, consacra l’uomo a Dio, e costituisce un invito pressante a vivere una vita santa. Allo stesso tempo, dice Paolo, la presenza dello Spirito è soltanto un inizio, ‘le primizie’ (2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14; Rm 8,23). Cristo è la ‘pietra angolare’ perché l’edificio possa crescere bene, “per essere tempio santo nel Signore. In lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,21-2).
4. La liberazione dal male. Spesso Paolo parla della salvezza in Cristo come un’opera di liberazione e di redenzione.[5] “L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19-21).
L’agire dello Spirito raggiunge lo stesso effetto: “Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2 Cor 3,17). Anche nella lettera ai Gàlati, Paolo parla della “libertà che abbiamo in Cristo Gesù” (2,4). Di fronte a coloro che vogliono sottomettere i credenti alla schiavitù delle ‘opere della legge’, Paolo ricorda ai cristiani che “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Allo stesso tempo, insiste che questa nuova libertà non può mai offrire al credente il pretesto di peccare. “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne” (Gal 5,13).
Paolo, malgrado lo sfondo linguistico di tipo stoico che caratterizza i suoi scritti, non si interessa apertamente alla questione filosofica del libero arbitrio, cioè la capacità umana di scegliere tra diverse opzioni. Parla piuttosto della liberazione dell’uomo — che vive sotto la schiavitù del male/peccato, della legge, della morte, della concupiscenza, del fatalismo — che è il frutto della grazia divina. Consideriamo ora questi particolari della liberazione cristiana.
Prima di tutto, si tratta di una liberazione dal peccato, perché l’uomo, secondo Rm 7, ne è dominato, anche se è stato rigenerato dalla grazia di Cristo, secondo l’insegnamento delle grandi lettere paoline (Gal 5, Rm 8). Dovuto a questa liberazione possiamo trionfare sulla ‘carne’, sull’uomo vecchio, anche se sarà necessaria una battaglia che durerà fino alla morte (Col 3,5-9; Rm 6,12-23; 8,5-13; Ef 4,17s.). Si capisce comunque che non si tratta semplicemente di una lotta contro la mera debolezza della carne, ma una vera e propria lotta spirituale, contro le forze del male. “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).
Più complesso poi è la liberazione dalla legge di cui parla Paolo specialmente nella Lettera ai Gàlati (3,1-5,12). Certamente l’Apostolo non incoraggia i cristiani a trascurare il compimento della volontà di Dio. Anche la legge giudaica scritta (il Talmud) è una guida per la retta condotta. Tuttavia essa non è in grado di produrre la giustificazione dell’uomo. La legge non è fonte di peccato, non ne è l’equivalente, anche se può diventare uno strumento del peccato, perché rivela l’agire peccaminoso dell’uomo e perché l’uomo tende a vantarsi orgogliosamente delle opere compiute in conformità con la legge. Secondo l’Apostolo, la legge è il Pedagogo (Gal 3,24), in quanto preparazione per la venuta del Cristo. Con eccezionale insistenza Paolo insegna che il neo-converso dal paganesimo non ha più bisogno di aggrapparsi alla legge giudaica, ai riti, alle regole alimentari, alla circoncisione, ecc. Tuttavia, il cristiano è obbligato a vivere una vita santa, seguendo in tutto la volontà di Dio (Gal 5,1-6; Col 2,16-23). È lo Spirito Santo ad interiorizzare in ciascuno la volontà divina: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge” (Gal 5,22 s.); “ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la legge” (5,18).
L’uomo viene liberato anche dalla morte. Come nell’Antico Testamento (Gn 3,17-19; Sap 1,13 s.; 2,23), Paolo collega strettamente la morte con il peccato. “Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato” (Rm 5,12). E dopo: “Il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 6,23). In effetti, così come la morte è entrata nel mondo a causa del peccato, essa sarà superata nella risurrezione finale (1 Cor 15,3-58).

Inoltre, Paolo parla della liberazione dalla concupiscenza e dalla debolezza. Dio assiste l’uomo nella sua debolezza. Quando Paolo si lamenta della ‘spina nella sua carne’, il Signore gli risponde: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9). Per questo, conclude, “mi vanterò… ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (ibid). Lo spirito dell’uomo lo tira in su, la carne in giù. Però la grazia è più forte del peccato: “Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti” (Rm 5,15).

Infine, l’uomo viene liberato dal fatalismo, dalle oscure forze del male, e dai sofismi filosofici: “così anche noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo… Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, voi eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono. Ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire?” (Gal 4,3.8-9). “Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.” (Col 2,8).
5. Il perdono dei peccati (la giustificazione). Secondo san Paolo, il primo effetto o frutto della nuova vita in Cristo, dell’incorporazione a Lui, è il perdono dei peccati, ovvero la ‘giustificazione’. Si tratta di una questione molto sviluppata lungo le sue lettere, specialmente in Romani e Gàlati. Come abbiamo visto, la schiavitù da cui viene liberato l’uomo non era imposta dalla materia; neppure ha a che vedere con i semplici limiti della condizione creata. Quando parla dell’uomo e del cosmo Paolo non è dualista. Il punto di partenza per la giustificazione invece è il peccato, e perciò l’opera di rigenerazione, o ‘nuova creazione’, ha come primo effetto la salvezza, oppure il perdono dei peccati. Per questa ragione, in Rm 5,12 si insiste che “tutti hanno peccato”.
Paolo parla della ‘riconciliazione’ tra Dio e l’uomo (Col 1,20). Però si deve notare — anche se sembra qualcosa di ovvio — che non si tratta di una colpa simmetrica, perché soltanto l’uomo ha peccato. Perciò in realtà la riconciliazione è un’opera di misericordia divina, di pura grazia, di perdono gratuito. C’è una riconciliazione, certamente, però essa parte esclusivamente da Dio, l’unico offeso, che non può essere placato dall’abbondanza delle ‘opere’ umane. L’uomo non può prendere l’iniziativa né contribuire direttamente alla sua riconciliazione con Dio. Per questo Paolo insiste che “era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione” (2 Cor 5,19). Il testo dice letteralmente: ‘Dio era in Cristo riconciliando a sé il mondo’.
Quando Paolo afferma che Cristo in diversi modi ‘si fece peccato’, non si tratta ovviamente di peccati personali da Lui commessi. Piuttosto si deve dire che Cristo ha addossato su di sé il peccato dell’uomo, riconciliandolo con Dio nel modo più profondo possibile. “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (1 Cor 5,21). E altrove: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: ‘Maledetto chi è appeso al legno’” (Gal 3,13, citando Dt 27,26). Cristo non era il peccatore, però è stato lui a farsi volontariamente sacrificio e vittima per il peccato, e il sacrificio fu efficace dovuto alla sua completa innocenza. “Camminate nella carità”, si legge nella lettera agli Efesini, “nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato sé stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2). E nella lettera agli Ebrei, “una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli [Cristo] è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di sé stesso” (Eb 9,28).
Scrivendo ai cristiani di Corinto (2 Cor 5,19) Paolo dice che la riconciliazione con Dio implica che le colpe non vengano più ‘imputate’ all’uomo (cf. anche Rm 5,13). Testi di questo genere sono stati interpretati nella tradizione luterana come affermazioni di una giustificazione meramente estrinseca o forense del peccatore.[6] Ovvero, Dio semplicemente dichiarerebbe il peccatore perdonato in base al gesto sacrificale di Cristo. Cristo prende il nostro posto dinanzi al Padre, e viene castigato per noi. Infatti la parola biblica dikaioún, ‘giustificare’, vuole dire in aramaico ‘dichiarare giusto’. Nel Nuovo Testamento, però, la dichiarazione di innocenza esprime solo una parte del significato dell’espressione ‘giustificazione del peccatore’. Per questa precisa ragione si è inventato un neologismo cristiano in lingua latina, iustificatio, che vuole dire letteralmente ‘rendere giusto’.[7] Il peccatore infatti viene dichiarato giusto e perdonato, ma viene anche reso giusto. Con l’opera di Cristo si verifica qualcosa che va più in là dell’efficacia dei riti ebraici della purificazione, che esprimono una purezza perlopiù esteriore. Parlando del Battesimo, Paolo insiste: “siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!” (1 Cor 6,11).
6. L’impegno cristiano per la santità di vita. Il campo di prova per i cristiani giustificati e santificati è quello della santità di vita. Certo, gli uomini non si giustificano in base alle buone opere. Però le buone opere devono essere presenti nella vita del giustificato, come frutto e manifestazione della grazia. I cristiani vengono chiamati da Paolo più di trenta volte ‘i santi’,[8] quelli cioè che vivono una vita santa e virtuosa. La vita di Cristo presente in loro li spinge ad una vita virtuosa e a diffondere il bonus odor Christi, ‘il profumo di Cristo’ (2 Cor 2,15) verso le persone che hanno intorno a sé. Il peccato, invece, che non è in grado di produrre le opere buone, indica che la nuova vita non è presente ed attuante (Rm 1,29; Gal 5,18).
7. La grazia, perché? Dopo aver descritto, pur in modo succinto, la ricchissima dinamica della vita della grazia e della giustificazione negli scritti si san Paolo, bisogna chiedersi con quale finalità Dio ha voluto dare questo dono agli uomini che credono al suo Figlio fatto uomo? Perché si è ‘in grazia’, ‘in Cristo’? Perché si è destinati a vivere come figli di Dio, a ricevere il regno di Dio in eredità? Queste domande ci portano alle ultime due questioni attinenti alla teologia paolina della grazia: la finalità apostolica della vita dei credenti in Cristo, e il disegno divino di ‘ricapitolare tutte le cose in Cristo’.
IV. Vivendo in Cristo per comunicare la vita di Cristo agli uomini
Paolo parla della ‘grazia’ (cháris) come una realtà semplice, unica, che esprime e contiene il dono di Dio in Gesù Cristo agli uomini. Inoltre, parla della presenza nella vita della Chiesa dei carismi (charísmata), ovvero dei doni divini speciali che facilitano la comunicazione della Buona Novella all’umanità, rendendo possibile la missione universale della Chiesa. Detto diversamente, la grazia cristiana, pur destinata alla giustificazione del singolo, spinge ugualmente verso l’apostolato dei cristiani. Charitas Christi urget nos, ‘la carità di Cristo ci spinge’, dice Paolo (2 Cor 5,14).
1. L’Apostolo Paolo. Certamente Paolo applica questo principio in primo luogo a sé stesso, affermando che “mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). Egli si sente obbligato ad evangelizzare: “guai a me se non annuncio il Vangelo” (1 Cor 9,16; cf. Rm 1,5; 12,13; 15,15s). Bisogna notare che la grazia della conversione che Paolo ricevette sul cammino di Damasco non era semplicemente quella della conversione personale, ma proprio la conversione per una nuova ed universale missione.[9] Di Paolo Gesù disse ad Ananìa: “egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (At 9,15 s.). E nella lettera ai Gàlati, dice l’Apostolo: “ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1,15 s.). Questa grazia di Dio in Paolo divenne poi oltremodo feconda (2 Cor 12,5-10).
La contrapposizione paolina tra la fede e le opere, già accennata, fa riferimento a due questioni. Da una parte, alla vita personale in ogni credente: l’uomo non deve considerare le proprie opere in uno spirito di auto-compiacenza, ma sperare la salvezza solo da Dio in cui crede e da cui riceve la giustizia. Dall’altra parte, però, la contrapposizione tra fede e opere indica anche che i credenti non devono agire in modo tale da stabilire delle frontiere nei confronti della parola di Dio,[10] della forza salvifica che Dio ha spiegato in Gesù Cristo. La forza del Vangelo non richiede il compimento preciso e scrupoloso di una serie di regole o azioni di tipo istituzionale, ‘le opere della legge’. Detto diversamente, l’appartenenza meramente passiva alla Chiesa, come comunità salvata, non è sufficiente per assicurarsi la giustificazione individuale. È necessaria la fede, che apre l’uomo ai doni divini per sé ed anche per gli altri.
Quindi si possono fare due letture, complementari tra di loro, della contrapposizione paolina tra fede e opere: una lettura più individuale, che guarda alle opere dell’individuo di fronte a Dio e alla necessità della fede personale, la fiducia, l’umiltà; e una lettura più ecclesiale, o sociale, che guarda piuttosto all’appartenenza comune alla Chiesa, all’adesione alla sua dottrina e specificamente alla qualità intrinsecamente espansiva e contagiosa (missionaria) della fede.

2. L’apostolo cristiano. Ci si può chiedere, comunque, se questo forte legame, nella persona di Paolo, tra l’essere in Cristo e l’essere apostolo, come due aspetti inscindibili dalla sua personale vocazione, si verifichi anche nella vita degli altri cristiani. A questa domanda si può rispondere in un modo sostanzialmente positivo.[11] Tre osservazioni vanno comunque fatte.

In primo luogo, la forza e l’impegno della propria e intrasferibile vocazione come ‘apostolo delle genti’ sembra lasciare all’ombra l’apostolato degli altri cristiani, anche quello degli altri Apostoli (2 Cor 11,22-9). “Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue più di tutti voi” (1 Cor 14,18). “Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,10).
Poi, è chiaro che il singolare impegno apostolico di Paolo non costituisce una negazione dell’apostolato degli altri cristiani e neppure quello degli altri Apostoli. Come dimostrano le sue lettere, Paolo contava su molti collaboratori. Si parla dell’impegno missionario ad esempio di credenti come Priscilla e Aquila che per propria iniziativa istruivano il predicatore Apollo (At 18,26).
Infine, dal punto di vista più teologico, Paolo afferma lo stretto legame tra la grazia (la vita di Cristo nei cristiani) e i ‘carismi’, perché tutti e due hanno l’origine nello stesso Spirito e sono guidati dall’amore, ed indirizzati all’amore. “Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1 Cor 12,4-6). Non si può parlare, quindi, di carismi privati, ricevuti in beneficio proprio; sono tutti per il bene della Chiesa e tramite essa in favore dell’umanità. Lo spiega Paolo a lungo nella prima lettera ai Corinzi (12,7-11).
V. Predestinazione e ricapitolazione di tutte le cose in Cristo
Abbiamo appena visto che la grazia di Dio data agli uomini, la nuova vita in Cristo, ha una finalità intrinsecamente missionaria. A ciò si deve aggiungere però che la finalità ultima della grazia sta nella rivelazione definitiva del disegno di Dio in Cristo, ovvero la ricapitolazione di tutta la creazione in Cristo. Questo disegno, nascosto in Dio (il mystérion di cui si parla in Colossesi ed Efesini),[12] sarà rivelato senz’altro alla fine dei tempi, ma è stato rivelato già in Gesù Cristo, centro della storia della salvezza. Perciò, “quando tutto… sarà stato sottomesso [a Cristo], anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28). Consideriamo la questione in tre momenti.
Il primo momento. Il punto di partenza del disegno divino, secondo Paolo, è la predestinazione divina. La salvezza operata da Dio nel mondo trova sempre la sua radice nella predestinazione, fondata sul disegno originario di Dio. Egli parla dei cristiani predestinati “a conoscere la sua volontà” (At 22,14), “ad essere conforme all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29), “ad essere per lui [Dio] figli adottivi mediante Gesù Cristo” (Ef 1,5), “secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà” (Ef 1,11). È chiaro comunque che l’oggetto primordiale della predestinazione è Gesù Cristo in persona, il quale, secondo la prima lettera di Pietro, “fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi” (1 Pt 1,20). L’espressione più compiuta di questa dottrina si trova nel primo capitolo delle lettera agli Efesini.
“Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato… il disegno di ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra” (Ef 1,3-10).[13]
Sono quattro gli elementi principali di questo brano. (1) I cristiani sono stati ‘predestinati’, o ‘scelti’ in Cristo. (2) La finalità di questa predestinazione è quella di diventare ‘santi e immacolati’, ‘nella carità’, vivendo come ‘figli adottivi’. Tutto ciò (3) avviene ‘per opera di Gesù Cristo’, ovvero per la grazia ricevuta ‘nel suo Figlio’, e (4) perché ‘sia benedetto Dio’, ‘a lode e gloria della sua grazia’. Con molta frequenza infatti Paolo insiste che la contemplazione cristiana del graduale dispiegarsi di questo progetto si esprime in primo luogo nella necessità imperativa di lodare Dio, di ringraziarlo per i suoi doni,[14] appunto perché tutto sia ‘a gloria del nome di Gesù’.[15]
Il secondo aspetto. Se si parla di predestinazione e del progetto divino di portare tutto sotto il dominio effettivo di Dio in Cristo, ci si potrebbe chiedere se non si trovi un certo determinismo in partenza, basato sul disegno divino in cui tutto sia stato previamente deciso e preordinato? Già abbiamo visto che la libertà di cui parla Paolo non si identifica in primo luogo con il libero arbitrio, ovvero con l’autonoma autodeterminazione di ogni uomo, ma piuttosto con la liberazione dalla schiavitù del peccato. Inoltre, la riflessione di Paolo si deve comprendere alla luce del destino del Popolo Ebreo, oggetto della promessa divina (Rm 9-11), e non tanto degli individui umani. Paolo parla nella lettera ai Romani di Dio che sopporta “con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione” (Rm 9,22). E Dio agisce in questo modo “per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria” (Rm 9,23). Però ancora rimane aperta la domanda: non c’è nella forte dottrina paolina della predestinazione, dell’elezione, della vocazione, una certa insinuazione di predeterminismo? Si possono fare tre osservazioni.
Prima, quando Paolo parla di coloro che si perdono, sta pensando alla perdita della promessa da parte del popolo eletto affinché siano salvati i pagani. Non si tratta invece della perdita ‘sicura’ o necessaria di alcuni individui, prevista da tutta l’eternità, come se fosse il prezzo da pagare per ottenere la salvezza degli altri. Parlando del destino del popolo ebraico, Paolo dice che “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Poi, la predestinazione non implica un processo automatico di salvezza di alcuni individui; in ogni tappa del cammino del credente, la libera risposta dell’uomo viene suscitata: “quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati” (Rm 8,29s.). Terza, infine, la grazia data non è arbitraria nei suoi effetti, ma è destinata a superare il peccato e a portare l’uomo alla salvezza; l’uomo viene pienamente, spesso faticosamente, coinvolto in questo processo. Inoltre, nella lettera agli Efesini la predestinazione è sempre riferita a Cristo oppure, in Lui, alla collettività cristiana. Afferma spesso che Dio gli ha amato personalmente, gli ha salvato, chiamato, inviato. Però no dice mai che gli ha predestinato. L’oggetto della predestinazione è sempre Cristo, e in Lui il ‘noi’ (Ef 1,4-7).
Terzo ed ultimo aspetto. La ‘ricapitolazione’ di tutto in Cristo compromette l’intera creazione e non solo l’uomo, oppure la Chiesa. Con forza Paolo parla de “l’ardente aspettativa della creazione”, che “è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio… Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,19-23). Il capitolo centrale di questa ricapitolazione sarà la risurrezione corporale dei morti, promessa alla fine dei tempi (1 Cor 15). In quel momento, quando “il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28).

LA VITA OLTRE LA MORTE (sostanzialmente sul pensiero di Paolo…

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LA VITA OLTRE LA MORTE

(sostanzialmente sul pensiero di Paolo, propongo questa lettura in seguito ad un commento ricevuto su questo blog)

Il mese di novembre ci trova tutti con il cuore un po’ addolorato e triste, ripie­gato sul pensiero rivolto ai nostri cari di cui non godiamo più la presenza, dopo aver segnato col loro amore un tratto forse molto lungo della nostra vita. La nostra fede cristiana combatte con il pensiero umano di non vederli più. A volte siamo incerti su dove si possano trovare, quale sia la loro condizione, se possiamo vera­mente essere in comunione con loro al di là della barriera della morte, del tempo e dello spazio.
Sulla scia dell’Anno paolino che si è chiuso nello scorso mese di giugno vogliamo soffermarci su alcune pagine delle lettere di san Paolo per ricavarne alcuni spunti di riflessione sulla vita che attende i cristiani oltre la morte. Il gran­de apostolo vuol rafforzare nella fede le sue comunità, e così sarà anche per noi. San Paolo non descrive la condizione concreta nella quale si trovano i nostri morti, come non lo aveva fatto Gesù stesso, ma mostra una fede incrollabile nella risurrezione di Gesù che porta con sé la certezza che anche i nostri cari sono custoditi con amore fin d’ora dal Signore Risorto, in attesa del compimento glo­rioso di ogni cosa, uomini e creato insieme.
SAREMO SEMPRE CON IL SIGNORE
Nel 51 dopo Cristo, a pochi anni dalla morte e risurrezione di Gesù, Paolo scri­ve la Prima lettera ai Tessalonicesi (1Ts), il più antico scritto del Nuovo Testamento. La comunità di Tessalonica era fortemente preoccupata della sorte dei fratel­li cristiani che erano morti prima che il Signore Gesù Risorto fosse tornato nella sua gloria. La sua venuta era attesa da tutti, Paolo compreso, come una realtà molto vici­na. Inizialmente anche Paolo pensava proba­bilmente di parteciparvi ancora da vivo. In 1Ts 4,13-18 Paolo rassicura la comunità sul fatto che i viventi al momento della venuta di Gesù non avranno alcun vantaggio su coloro che si sono già « addormentati ». La loro situazione è diversa da coloro che sono ancora vivi, ma la loro condizione è uguale: sono « morti in Cristo » (v. 16). Appartenevano a Cristo in vita per mezzo del battesimo. Anche nella morte sono di Cristo, come sono di Cristo coloro che sono ancora in vita. La condizione cri­stiana è eguale per tutti. Tutti siamo proprietà di Cristo Risorto. I morti si sono « addormentati » in Cristo e al raduno universale forale, annunciato dalla tromba di Dio e alla voce dell’arcangelo, risorgeranno per primi. Il Signore stesso scenderà dal cielo e verrà incontro ad essi. Poi anche coloro che a quel momento si trove­ranno in vita saranno « rapiti insieme con loro nelle nubi, per l’incontro con il Signore nell’aria; e così saremo per sempre con il Signore ». San Paolo usa il lin­guaggio del suo tempo, chiamato apocalittico, per esprimere la certezza che tutti i cristiani saranno per sempre con il Signore Risorto, nel mondo di Dio (« nubi », « aria »). La comunità si ritroverà nuovamente riunita e tutti godranno della vita continua con Cristo (« saremo sempre con il Signore »). Questa deve essere la cer­tezza con cui i cristiani devono « confortarsi » vicendevolmente nella fede (1 Ts 4,18). Paolo non spiega come sarà concretamente la condizione dei corpi dei risorti. Tenterà di balbettare qualche cosa nelle sue lettere successive, soprattutto nella Prima e nella Seconda lettera ai Corinzi. Fin d’ora esprime però la sua cer­tezza incrollabile che coloro che sono vissuti e si sono addormentati in comunio­ne con Gesù morto e risorto parteci­peranno per sempre della sua vita di Figlio di Dio risorto dai morti.
Nella Seconda lettera ai Tessalonicesi (2Ts) si afferma però con forza che la venuta di Gesù Risorto non è imminente come alcuni pensavano, abbandonandosi all’ozio e a una vita sregolata. In 2Ts 2,1-12 Paolo afferma che il cammino sarà ancora lungo, segna­to dalla lotta contro colui che si contrappone a Dio e fomenta il male e l’apostasia dei credenti. L’annuncio del vangelo contrasterà l’opera del Maligno, che alla fine sarà distrutto dal soffio della parola che esce dalla bocca del Signore Gesù risorto. Ancora una volta Paolo afferma la certezza del destino vittorioso e positivo dell’avventura cristiana nella storia, anche se dovrà essere segnata dall’aspro combattimento con Colui che vuole allontanare i cristiani dal loro Signore. Cristo ha il potere sulla storia, e l’ultima parola non sarà quella del male, ma quella del Signore della vita.

I MORTI RISORGERANNO INCORRUTT1B1LI E NOI SAREMO TRASFORMATI

Il brano in cui Paolo si sofferma più a lungo sulla certezza della risurrezione e sul tentativo di illustrare la condizione dei cristiani risorti è rappresentato dal capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 15), scritta alla comunità di Corinto verso il 54-55 dopo Cristo. È un testo indubbiamente difficile nei suoi par­ticolari, ma è un brano nel quale Paolo afferma chiaramente due realtà importan­ti: la certezza della risurrezione di Gesù e la sorte gloriosa dei cristiani risorti.
Paolo è un convinto trasmettitore della tradizione ricevuta. Il vangelo, la buona notizia, consiste soprattutto nella morte di Gesù secondo il piano di Dio, la sua sepoltura, la sua risurrezione e la sua apparizione a moltissimi cristiani, nel cui lungo elenco c’è anche Paolo.
Paolo si meraviglia ed è esterrefatto che mentre la Chiesa annuncia con forza la risurrezione di Gesù, esperimentata da così tanti testimoni qualificati, alcuni della comunità, forse spinti da forze esterne, negano la risurrezione dei morti. Questo è un controsenso, perché le due realtà vanno insieme: la risurrezione di Gesù è fondamento della fede cristiana, e se lui non è risorto, allora sì che nean­che i cristiani risorgeranno ed è vano l’annuncio cristiano, vana la fede, falsi i testimoni dell’opera di Dio, immersi nei peccati i cristiani, perduti per sempre i loro morti. Se i cristiani hanno sperato in Cristo solo in questa vita, senza la spe­ranza nell’altra, sono da compiangere più di tutti gli uomini, che possono vivere spensierati e senza dover lottare e soffrire per una fede che non garantisce una vita oltre la morte. Ma come in Adamo tutti muoiono per la loro condizione umana, così anche nel Cristo tutti saranno vivificati. Cristo è molto superiore a chi rap­presenta l’umanità nella sua fragile consistenza. Gesù risorto è l’inizio, la primi­zia, di un raccolto abbondante della stessa qualità: i cristiani risorti per la sua potenza vivificante.
Cristo è davvero risorto dai morti, primizia di quelli che sono morti. Questo è l’annuncio gioioso, evangelico, trasmesso dagli apostoli. I morti « di Cristo », appartenenti a lui, risorgeranno alla sua venuta. Allora sarà la fine, il dominio pieno del Signore risorto su tutta la realtà, morte compresa. Tutto sarà sottoposto alla signo­ria di Gesù, ed egli consegnerà tutto il suo dominio al Padre che lo ha inviato nel mondo a riscat­tare gli uomini. Allora Dio sarà tutto in ogni cosa, pervaderà con la sua presenza vivificate e san­tificante ogni realtà, uomini e cose comprese.
Nella seconda parte del capi­tolo (1Cor 15,35-58) Paolo tenta di dire qualche cosa sulla condizione nella quale si trove­ranno i cristiani dopo la morte: « Come risorgono i morti? Con quale corpo vengono? » si domanda qualcuno. Paolo risponde illustrando la continuità ma anche la discontinuità tra la nostra condizione umana che viene sepolta al momento della morte e la modalità di vita glorio­sa, trasfigurata, con il Signore. Paolo si serve di immagini, di paragoni, di meta­fore, per far capire quello che probabilmente anche lui sente come qualcosa di impossibile da descrivere con parole umane. Nella creazione Dio ha dato diversi­tà di corpi agli uomini e alle cose, con diversità di gloria, cioè di partecipazione alla vita divina. Al momento della morte, nella terra viene come seminato un chic­co nudo, una vita umana fragile, mortale, corruttibile, fatta di terra, a immagine della prima umanità, chiamata Adam. Nella risurrezione ci sarà una fioritura di qualche cosa che è in continuità ma anche in discontinuità con quello che si è seminato. Si risorgerà nella gloria, nella forza, nell’incorruttibilità, si porterà l’immagine piena dell’Uomo che viene da Dio, dal cielo, Gesù che è già risorto. Egli sta ogni giorno imprimendo nel cristiano la sua immagine grazie al lavorio dello Spirito Santo. Alla sua venuta finale Gesù risorto darà la pienezza di vita a quelli che erano stati sepolti come discendenti di Adam, « un essere vivente », uomini segnati dalla naturalità fragile e corruttibile.
Nei vv. 51 e seguenti Paolo riconosce che è un « mistero », una rivelazione profetica del piano salvifico di Dio quello che sta per affermare. Noi erediteremo il regno di Dio, la vita divina non per le nostre forze e meriti umani, ma per grazia di Dio. Tutti coloro che al momento della venuta di Gesù risorto saranno morti risorgeranno, ma trasformati. Paolo usa un’altra metafora per indicare la trasfor­mazione: il nostro essere corruttibile sarà rivestito di incorruttibilità e di immortalità. La metafora del vestito, che Paolo userà anche in 2Cor, indica una trasformazione profonda dell’essere. Non ci sarà un semplice passaggio. Ci sarà una nuova creazione, in cui per grazia la morte sarà ingoiata nella vittoria dalla vita, e non pungerà più col suo pungiglione. Dio ci dà per grazia la vitto­ria per mezzo di Cristo Gesù. A Dio Padre deve andare il ringraziamento di tutti i cristiani (v. 57).
RIVESTITI DELLA DIMORA CELESTE
Paolo riprende la sua riflessione sulla certezza di una vita gloriosa dopo la morte nella Seconda Lettera ai Corinzi (2Cor) scritta verso il 56 dopo Cristo. Nel brano 2Cor 4,16 – 5,10 riprende con le immagini dell’abitazione celeste e del vestito rinnovato le riflessioni. Anche in questo brano Paolo non parla di anima separata dal corpo fisico. Noi viviamo in un corpo, cioè in un’esistenza umana completa ma fragile e corruttibile, da cui desideriamo andare in esilio per essere con il Signore. Noi non andiamo al Signore con la nostra pura anima ma con tutto noi stessi. Paolo chiama questa nuova realtà un essere rivestiti da una dimora celeste, una tenda non fatta da mani d’uo­mo, ma ricevuta da Dio, eterna, celeste. La realtà umana « è ingoiata dalla vita » (5,4). Dio ci ha plasmati proprio per que­sto, donandoci la caparra dello Spirito (5,5). Lo Spirito lavora a fondo nei cri­stiani, per imprimere giorno per giorno l’immagine di Gesù nella loro vita.
Quello che ci attende è una nuova creazione, che san Paolo esprime balbet­tando attraverso immagini e metafore. Anche se impossibile da descrivere a parole, la condizione di risorti è gloriosa e vivificata dallo Spirito di Gesù risorto. Mentre siamo vivi siamo in comunione con quelli che sono « morti nel Cristo », per la medesima condizione di cristiani sigillati col battesimo e la fede. Al momento della risurrezione sperimenteremo una trasformazione radicale della nostra esistenza, che però si pone in continuità trasfigurata con la nostra umanità segnata dalla fragilità sperimentata nella nostra vita quotidiana attuale.
Conquistati da Cristo, corriamo verso di lui per conquistarlo nella pienezza della risurrezione. « La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come sal­vatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per con­formarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose » (Fil 3,20-21). Questo scrive Paolo dalla prigione alla comunità dei Filippesi. Questa è pure la nostra fede, la nostra speranza certa e la nostra conso­lazione sicura. Per questo viviamo nella serenità cristiana anche il periodo che maggiormente ci ricorda i nostri cari che pensiamo già essere col Signore, sotto il suo potere di vita, di luce e di gioia. (p. Roberto Mela)

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