Archive pour la catégorie 'Paolo – approfondimenti di teologia'

DIO PADRE IN SAN PAOLO (in riferimento alla Immacolata Concezione di Maria)

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre3.rtf.html

(questo testo è in riferimento alla Immacolata Concezione di Maria, ho trovato questa breve passaggio:

« TESTIMONIANZA e SEGNO dell’AMORE GRATUITO del PADRE    L’Immacolata Concezione di Maria non è un fatto a sé stante, isolato dal piano divino della salvezza, ma al contrario rientra nel disegno salvifico di Dio, che prevede innanzitutto l’incarnazione redentrice di Cristo, grazie alla quale tutti sono gratuitamente salvati dall’amore di Dio, secondo quanto afferma S. Paolo: « Tutti… sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù ».    La liberazione dal peccato originale e la pienezza di grazia di cui è rivestita Maria, sin dal primo istante di vita, non sono frutto della sua fede o di qualche altro suo merito, ma solo dono gratuito di Dio. »)

DIO PADRE IN SAN PAOLO

ALBERTO PIOLA

Introduzione Affrontando il messaggio su Dio presente nella teologia di san Paolo, non solo andiamo a conoscere che cosa Gesù ci ha rivelato su Dio, suo e nostro Padre, ma vediamo anche una riflessione cristiana su Dio. Nelle sue lettere Paolo seppur non in modo sistematico visto il loro carattere occasionale spiega ai primi cristiani il nuovo concetto cristiano di Dio, inscindibilmente legato a quanto è successo nell’evento della vita, morte e risurrezione di Gesù.

Alla ricerca di Dio Essere cristiani secondo Paolo non significa essere delle persone che adorano Cristo come l’unico Dio: infatti, il rimando ultimo non è Gesù, ma il Padre; compito di Gesù è proprio quello di metterci in contatto con il Padre: 1 Timoteo 2,5-6 Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Il centro della predicazione di Paolo ha un carattere soteriologico: Dio ha salvato gli uomini per mezzo di Gesù Cristo morto e risorto. Quindi egli guarda innanzi tutto a ciò che Dio ha fatto e non tanto alla sua natura e al suo mistero. Ma da quello che Dio « fa » si può capire ciò che Dio « è ». Ma chi è questo Dio? È precisamente « il Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Romani 15,5). Per Paolo questo è il volto specifico della prima persona della Trinità ed è questa paternità che gli permette di annunciare la nuova immagine cristiana di Dio.   Paolo non parte dall’ateismo: per lui è scontata l’esistenza e la presenza di Dio: Romani 11,36 da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Sente Dio come presente e vicino a sé: egli sta « davanti » a Lui, lo loda e lo ringrazia; Romani 1,8 rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. È addirittura « il mio Dio »! e allora può arrivare a dire: 1 Corinzi 8,6 per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Tutto questo è possibile per Paolo perché ha capito di essere inserito in un progetto di Dio: Romani 8,28-30 noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Per Paolo allora « Dio non è soltanto prima dell’uomo, ma è prima nell’amore; ha amato gli uomini prima che essi potessero amarlo: li ha amati dall’eternità. Il Dio vicino è dunque il Dio che chiama e ama l’uomo dalla profondità infinita della sua eternità. Così è un Dio vicino e, nello stesso tempo, un Dio lontano ». Però, ci dice Paolo, questo Dio non è immediatamente raggiungibile: è necessaria nella vita dell’uomo la ricerca di Dio. Dio è più grande di noi: è uno ed unico; 1 Corinzi 8,4-6 noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c’è che un Dio solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dei sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Il netto rifiuto di altri idoli (cfr. l’ambiente pagano in cui Paolo annuncia il Vangelo) significa che per essere cristiani occorre fare il passaggio dagli idoli sempre possibili della nostra vita alla scelta dell’unico Dio; come hanno fatto i Tessalonicesi: vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero (1Tess 1,9). Ciononostante, non è facile per Paolo capire chi è questo Dio, i cui giudizi sono imperscrutabili (Romani 11,33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!). L’uomo non può capire da solo chi sia Dio: 1 Corinzi 2,10-11 lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ci sono delle strade umane per arrivare a Dio: la via della creazione: l’osservazione del mondo creato pone degli interrogativi per la sua grandezza e bellezza: Romani 1,20 dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. Quindi le creature rimandano al Creatore; ma per Paolo questa via è pericolosa: il mistero di Dio rimane comunque inaccessibile e c’è sempre il pericolo di divinizzare il creato. Infatti gli uomini sono caduti nell’idolatria: Romani 1,21-23 sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. L’uomo da solo non è quindi in grado di arrivare dalle creature al Creatore: 1 Corinzi 1,20-21 Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. le opere buone: sono senza dubbio l’espressione dei nostri sforzi di fedeltà alla legge del Signore e manifestano il nostro desiderio di essere fedeli a Lui. Però Paolo conosce l’orgogliosa consapevolezza che il popolo di Israele aveva del possesso della Legge e invita a non farsi illusioni: la sola osservanza della Legge non salva: Romani 9,30-32 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Non è quindi possibile giungere a Dio solo con una prestazione morale, perché Dio non si lascia ipotecare dai presunti meriti dell’uomo. In Paolo risulta così « chiaro che il Dio del Nuovo Testamento, essendo colui che si rivela mediante l’imprevedibile e scandalosa stoltezza della Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17-25), è per eccellenza il Dio della grazia (Ef 2,8), che preferisce i deboli, i peccatori, gli emarginati dalle religioni, i lontani. Egli è presente attivo là dove non lo si immaginerebbe: nel condannato e suppliziato Gesù di Nazareth. Egli perciò diventa, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata: un Dio così non si poteva trovare in base a semplici presupposti umani; un Dio così poteva soltanto rivelarsi di sua propria iniziativa ».

L’azione salvifica di Dio Padre Quindi il vero punto di partenza è che Dio si è rivelato in Gesù Cristo: il suo nome è proprio quello di essere il Padre di Gesù e in questo suo Figlio ci ha voluto salvare. Che Dio ci salvi è un’affermazione tanto scontata quanto problematica: l’uomo moderno sembra fare benissimo a meno di una salvezza, al limite può riconoscere la sua impotenza di fronte a certe situazioni. È nella vita, morte e risurrezione di Gesù che Dio si è rivelato come il Dio per noi: Romani 8,31-32 Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?. È proprio in Gesù che abbiamo potuto conoscere un amore insospettato: Romani 8,35-39 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

Ma che cosa vuol dire per Paolo che Dio è un Padre che ci salva? tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3,23): la condizione propria dell’uomo è quella del peccato: infatti tutti quanti commettiamo peccati e siamo all’interno di un mondo che porta con sé il peccato e la sua forza (cfr. i vari condizionamenti che subiamo verso il male). È la condizione dell’umanità in cui nasciamo: Romani 5,12 come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. È una condizione tragica, perché siamo lontani da Dio e siamo dominati dal potere del peccato; se infatti al di là di ingenue illusioni andiamo a vedere che cosa succede in noi quando siamo « abitati » dal peccato, ci rendiamo conto che se il circolo non viene spezzato facilmente siamo schiavi della logica del peccato che ci allontana da Dio rendendoci attraente il bene. Proprio per questa situazione Dio è venuto a salvarci in Gesù: Romani 5,17-19 se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà  vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.  Dio nel suo amore misericordioso giustifica i peccatori: questo Padre che ci è venuto a cercare non ha voluto che noi restassimo in questa condizione di peccato ma ha scelto di trasformarci e di renderci giusti. Tutti gli uomini sono sotto il giudizio e l’ira di Dio (cfr. Romani 1,18): ma ad essere annientato non è l’uomo peccatore, bensì il suo peccato; perché Dio, oltre ad essere giusto, è anche il Dio della tolleranza e della pazienza: Romani 2,1-11 Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c’è parzialità. Quell’uomo che era peccatore è ora reso giusto dall’amore di Dio in Cristo: Romani 5,8 Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. È questa la lieta notizia sul destino dell’uomo: 1 Tessalonicesi 5,9-10 Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Si tratta quindi di un Dio « giusto » e nello stesso tempo « giustificante », che ci rende giusti: Romani 3,24-26 tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù. Non possiamo giustificarci da soli: la Legge degli Ebrei non serve più, l’unica condizione per essere resi giusti da Dio nostro Padre è la fede nel suo Figlio Gesù. Noi oggi non abbiamo certo più i problemi dei primi cristiani che si sentivano ancora vincolati all’osservanza della Legge giudaica, ma possiamo avere la medesima tentazione di fondo: cavarcela da soli, essere giusti per le nostre forze. È troppo forte per Paolo il rischio di sentirci orgogliosamente salvati da soli; il vero modello del credente è Abramo con la sua fede: Romani 3,28; 4,1-3.18-22 Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia . Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia. Dio ci giustifica per mezzo della fede in Gesù Cristo: con il Cristo è cominciato il tempo ultimo della salvezza in cui Dio Padre ci ha detto e dato tutto nel suo Figlio Gesù. Egli è morto sulla croce « per noi », cioè a causa nostra e per i nostri peccati; ed è proprio lì che ci ha salvati, ci ha resi giusti liberandoci dalle colpe. Lui è il Risorto, colui che il Padre ha confermato dopo lo scacco supremo della morte: credere in Lui è ora per il cristiano il mezzo per salvarsi. Credere in Dio Padre si vedrà ora nel nostro rapporto personale di fede con il Figlio, perché tutta la nostra vita sia inserita nel Signore: Romani 14,7-8 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore. « In conclusione, il Dio che rivela san Paolo è il Dio Salvatore, cioè il Dio che, nel suo infinito amore per gli uomini peccatori, ha mandato nel mondo il suo Figlio Gesù, nato da donna, perché con la sua morte redimesse gli uomini e con la sua risurrezione desse la vita eterna a coloro che credono in lui e con la fede e la carità vivono in lui e per lui. Per san Paolo, Dio è il Dio di Abramo, di Mosè e dei Profeti; è il Dio della promessa fatta ad Abramo. Tuttavia la rivelazione che Gesù gli ha fatto di sé sulla via di Damasco ha trasformato la sua vita e la sua visione di Dio. Per lui ormai Dio è colui che salva gli uomini in Gesù Cristo. È il Dio per noi (Rm 8,31), il Dio che ci dà speranza, perché il suo amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5) ».

Alcuni spunti Il messaggio di Paolo su Dio Padre ci dà senza dubbio molti altri spunti oltre a quanto abbiamo già trovato nei Vangeli. Dio Padre è un Dio che va sempre cercato: c’è da preoccuparsi seriamente quando non siamo più capaci a cercare Dio o quando crediamo di saper già tutto di lui Può non esserci molto difficile lasciare aperta la domanda su Dio di fronte alle bellezze del creato o di fronte ai grandi perché della vita; ma l’atteggiamento della ricerca è ancora qualcosa di più: è un dinamismo attivo, è un desiderio. Come è accaduto a Paolo, così ognuno può avere la sua caduta lungo la strada di Damasco: e si scopre di non conoscere ancora il vero volto di Dio. L’esperienza personale di Paolo ci ha presentato un Dio presente e vicino, che lui chiama il « mio Dio »: è un punto di arrivo del cammino di fede, che deve partire dal riconoscimento della trascendenza di Dio (altrimenti diventa « l’amicone » che non mi mette più in discussione). Il Dio trascendente ed immanente è il Dio che vediamo nel Natale: l’Eterno sotto la figura di un piccolo bambino ma è proprio così che lo comprendiamo come il « Dio per noi », il Dio che sta dalla nostra parte, combatte la nostra stessa battaglia. Altrimenti che ce ne facciamo di un Dio che sta solo accanto a noi o sopra di noi?! Nel nostro cammino verso Dio Padre ci ha avvertiti Paolo corriamo il rischio di divinizzare il creato: logicamente non fa problema che il passaggio da fare è quello dalle creature al Creatore, ma praticamente è molto più difficile riuscire a dare sempre a tutto il giusto posto. Verificare ogni tanto il nostro rapporto con i beni creati non fa male: dov’è il nostro cuore?                             Nemmeno le « opere della Legge » servono per essere in comunione con il Padre: con Dio cioè non vale contrattare in base ai propri meriti. La logica commerciale può essere presente anche nel nostro rapporto con Dio, quando perdiamo la dimensione filiale; ovviamente i problemi nascono quando non siamo ripagati delle nostre prestazioni a Dio. Lasciarci salvare è terribilmente difficile: la passività arriva dopo una serie infinita di sforzi, e forse non ce la faremo mai ad essere totalmente ricettivi nei confronti di Dio. Intendere le nostre attività « solo » come risposta ad un dono richiede moltissima umiltà. Forse impariamo troppo poco dai nostri fallimenti E per lasciarci salvare occorre riconoscere il peccato che è noi: è un’altra dimensione della medesima realtà. Ma se continueremo a dire che tutto sommato siamo a posto così, che c’è in fondo chi è peggio di noi, molto difficilmente avremo bisogno di invocare Dio salvatore. Al limite potremo pretendere che ci ricompensi dei nostri successi e che nella sua bontà un po’ ingenua chiuda gli occhi sui nostri insuccessi. Credere in Dio è credere che Lui ci trasforma: può essere il messaggio finale che ci dona san Paolo; lui ha saputo cambiare la sua concezione di Dio e ha saputo lasciarci trasformare da Lui. Tutta la nostra vita cristiana è un cammino per lasciarci trasformare da Dio e per poter giungere a vivere con Lui per sempre. Allora Giobbe rispose al Signore e disse: Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (Gb 42,1-3.5-6). 

L’OBLIO DI PAOLO NEI PRIMI SECOLI

http://www.liturgiagiovane.it/new_lg/print_save.asp?nf=documenti/ARTICOLI/4070.htm&ns=4070 

L’OBLIO DI PAOLO NEI PRIMI SECOLI 

 Frainteso e respinto specie da giudeocristiani 
  
L’Apostolo delle genti, proprio perché si rivolse ai gentili e abbandonò la legge di Mosè, fu in vita attaccato violentemente e poi dimenticato, soprattutto dai cristiani provenienti dal giudaismo. Il relativo silenzio circa i suoi scritti presso alcuni autori della prima ora dipende anche dall’uso fatto della sua dottrina in ambienti gnostici. Differenze poi superate.                                     
         
Autore: Claudio Gianotto  
(Docente di storia del cristianesimo antico presso l’Università di Torino)
  
Tratto da: Vita Pastorale del 01/01/2006
 

Paolo dovette fronteggiare già durante la sua vita serie difficoltà, sia in riferimento alla sua rivendicazione di un’autorità apostolica, sia a proposito dei contenuti dell’Evangelo che annunciava (cf Gal 1). Analoghe difficoltà incontrò, dopo la sua morte, la ricezione dei suoi scritti; per tutto il secolo II, infatti, si registra, accanto a violente contestazioni del personaggio e della sua teologia, un rifiuto, o quantomeno un oblio, dei suoi scritti, che resta difficile da spiegare.
 
DATI GNOSTICI
 Una delle ipotesi cui volentieri si fa ricorso nel tentativo di trovare una motivazione per questo imbarazzante silenzio è suggerita da Tertulliano, il quale definisce Paolo come «haereticorum apostolus» (Adv. Marc. III, 5, 4). Sappiamo che, verso la metà del secolo II, Marcione, nel suo sforzo di identificare e fissare in modo preciso l’insegnamento di Gesù, operò una drastica selezione tra gli scritti attribuiti agli apostoli e destinati a far parte del Nuovo Testamento, accogliendo soltanto il vangelo di Luca (anche questo opportunamente epurato), alcune lettere di Paolo, ed escludendo tutto il resto.
 Sappiamo, inoltre, che Paolo godette di una certa fortuna presso i diversi gruppi gnostici del secolo II, che dimostrano di conoscerne gli scritti e li utilizzano nell’elaborazione delle loro complesse teologie. Questa situazione avrebbe condizionato gli altri autori cristiani, i quali, con il loro silenzio, manifesterebbero un atteggiamento, se non di vero e proprio rifiuto, almeno di sospetto nei confronti dell’Apostolo.
 Alla luce di un più attento esame delle fonti, questa ipotesi deve essere precisata e sfumata. In primo luogo, non si può dire che il silenzio su Paolo nei primi secoli sia generalizzato. Dimostrano di conoscere e di utilizzare le tradizioni paoline la Lettera ai Corinzi di Clemente di Roma; le lettere di Ignazio di Antiochia e di Policarpo di Smirne; la Lettera a Diogneto; l’Epistula apostolorum; gli Atti di Paolo e gli Atti di Pietro apocrifi. In molti scritti che tacciono di Paolo, il silenzio sembra potersi meglio spiegare sulla base di ragioni contingenti (problematiche affrontate, genere letterario utilizzato, ambiente d’origine, ecc.) piuttosto che in riferimento a un atteggiamento di sospetto o di consapevole rifiuto.
È questo, ad esempio, il caso della Didachè, che sceglie di affrontare il problema della legge nella prospettiva di Matteo piuttosto che in quella di Paolo; del Pastore di Erma, che, in forza della sua ispirazione profetica e della sua condizione di visionario, si rifiuta di richiamarsi a qualsiasi tradizione precedente; della Lettera dello Pseudo-Barnaba, il quale sviluppa la sua proposta di un’interpretazione non letterale, bensì allegorica e simbolica dei precetti della legge mosaica esclusivamente all’interno di un confronto con gli scritti dell’Antico Testamento; degli apologisti Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo, i quali in certa misura dimostrano di conoscere gli scritti di Paolo, benché non ne sviluppino le tematiche teologiche.
 Anche nel caso di autori come Papia di Gerapoli o Egesippo, la cui opera peraltro ci è giunta in modo solo frammentario, non si può parlare di un vero e proprio rifiuto di Paolo, ma piuttosto di scarso interesse per la forma di annuncio tipicamente paolina.
 
 DAI GIUDEOCRISTIANI
Un’aperta ostilità nei confronti di Paolo e un rifiuto radicale dei suoi scritti si registra invece, anche se in modo differenziato, negli ambienti giudeocristiani. Sappiamo che Paolo fu contestato, già durante il suo ministero pubblico, da esponenti e gruppi legati a Giacomo, fratello del Signore (cf Gal 2; At 15), i quali gli rimproveravano di insegnare «a tutti i giudei che sono tra i gentili ad allontanarsi da Mosè, dicendo loro di non far più circoncidere i loro figli e di non comportarsi più secondo i costumi tradizionali» (At 21,21). Il pericolo di un ritorno a un legalismo giudaizzante è segnalato negli ambienti legati alla missione di Paolo (cf Col 2, 16-19) e l’autore delle lettere pastorali si vede costretto a prendere posizione contro gente che viene dalla circoncisione (1Tm, 1,6-7; Tt 1,10).
 In alcuni casi, il perdurare del legame con il giudaismo produce atteggiamenti di esplicito rifiuto di Paolo, Ireneo, nella sua notizia sugli ebioniti, riferisce che costoro continuano a praticare la circoncisione e a vivere secondo gli usi e i costumi propri dei giudei, così come sono prescritti dalla legge; e inoltre attesta che «solo autem eo, quod est secundum Matthaeum, evangelio utuntur et apostolum Paulum recusant, apostatam eum legis dicentes» (Adversus haereses I, 26, 2). Accanto al gruppo degli ebioniti, Origene menziona anche gli elcasaiti come eretici che respingevano le lettere di Paolo. Epifanio, infine, spiega il rifiuto di Paolo da parte di questi gruppi facendo riferimento a due espressioni dell’Apostolo tratte da Gal 5,2.4.
 Ma l’opposizione più radicale a Paolo viene da un complesso di scritti noti sotto il nome di Pseudoclementine, in cui si sono raccolti, attraverso una lunga e complessa storia di trasmissione, materiali letterari di epoche diverse, i più antichi dei quali potrebbero risalire ai primi decenni del secolo III. La polemica contro Paolo e il paolinismo non vi è mai sviluppata in modo esplicito e aperto, ma più o meno velato. Il principale avversario che si oppone a Pietro e alla sua predicazione nelle Pseudoclementine è Simon Mago. Ora la descrizione di questo personaggio documentata da questo gruppo di scritti non trova rispondenza in nessuna delle presentazioni che la tradizione eresiologica ci ha lasciato di lui.
 Si tratta, quindi, con ogni verosimiglianza, di una costruzione letteraria che, utilizzando il testo di At 8,9-24 e le leggende su Simone diffuse in particolare in Siria e nelle regioni limitrofe, dà vita a un personaggio polivalente, dietro il quale si celano diversi obiettivi polemici, tra i quali i pensatori gnostici, Marcione e anche Paolo. A quest’ultimo allude Pietro quando, scrivendo a Giacomo, capo della Chiesa madre di Gerusalemme, gli segnala che alcuni gentili hanno respinto il suo insegnamento di fedeltà alla legge, preferendogli quello insensato dell’inimicus homo. (Ep. Petri 2, 3-4).
 Lo stesso epiteto riferito a Paolo ritorna in un passo dove si racconta del tentativo messo in atto da parte di Giacomo per convertire la gente di Gerusalemme, insieme con i sacerdoti del tempio, e indurli a farsi battezzare nel nome di Gesù; operazione che non riesce unicamente per l’intervento violento dell’inimicus homo, il quale arringa la folla, suscitando odio e risentimento nei confronti dei seguaci di Gesù e arriva addirittura ad alzare le mani su Giacomo, che viene scaraventato giù dalla scalinata del Tempio e quasi ne muore (Rec. I, 70-71).
 In questi ambienti giudeocristiani, la diffidenza e anche l’opposizione esplicita nei confronti del personaggio di Paolo e della sua teologia erano motivate dal fatto che l’Apostolo, identificando in Gesù Cristo il mediatore esclusivo della salvezza, metteva in discussione la validità e soprattutto la funzione salvifica della legge mosaica, nella quale essi continuavano a riconoscersi. I gruppi giudeocristiani sopravvivranno per diversi secoli soprattutto nelle regioni orientali dell’impero romano, ma saranno sempre più marginalizzati.
 In ogni caso, a partire dalla fine del secolo II, con Ireneo di Lione, l’eredità paolina, superate le diffidenze e le esitazioni, entrerà pienamente a far parte del patrimonio dottrinale della grande Chiesa.

L’OPERA RICONCILIATRICE DI CRISTO SECONDO SAN PAOLO

http://win.dehon.it/scj_dehon/cuore/articles/texts/artic_011_it.pdf
L’OPERA RICONCILIATRICE DI CRISTO SECONDO SAN PAOLO
Joseph Kuate, scj 
 
INTRODUZIONE
La storia della salvezza come quella dell'umanità e di ogni uomo è fatta di cadute e di rialzi, di fedeltà e d'infedeltà a Dio. L'argomento che tratteremo è l’opera della riconciliazione di Cristo secondo le epistole di San Paolo. È ad un esercizio teologico sul fronte dell’esegesi che ci consegneremo. Con questo lavoro vogliamo comprendere come San Paolo spiega il ruolo di Cristo nel ristabilimento della relazione tra l'uomo e Dio. Infatti, parlare della riconciliazione suppone che all’inizio ci sia stato rottura di relazione. Innanzitutto ci chiederemo in che ha consistito questa rottura. Quale è la sua causa e quali sono le sue conseguenze? Dopo avere risposto a quest'interrogazioni vedremo in che è consistita la riconciliazione del Cristo nella storia della salvezza e ciò che essa significa per noi oggi, secondo l'apostolo Paolo. 
 
1. LA ROTTURA DELL'UOMO CON DIO. 
“Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio" (Rm 3, 23). questa frase esprime la causa di un bisogno di riconciliazione. Abbiamo da un lato, il peccatore o l'umanità con il suo peccato e dall'altro, Dio che priva quest'umanità della sua grazia a causa del peccato. Il peccato è allora la causa della rottura. 
1.1. IL PECCATO, CAUSA DI ROTTURA DELL'UOMO CON DIO. 
Secondo Mgr Ndongmo, per Paolo, si tratta di due tipi di peccato: prima, il peccato 
originale causato dalla disobbedienza di Adamo a Dio che fa che ogni uomo nasca privato di 
grazia, con una natura propensa al male e portante in lui le ferite di questo peccato. "la colpa 
di un solo ha avuto per conseguenza la morte di molto..." "(Rm 5,.15)." ", il peccato è entrato 
nel mondo da uno solo uomo, Adamo. E il peccato ha potato con sé la morte. Di conseguenza 
la morte passa su tutti gli uomini perché tutti hanno peccato "(Rm 5, 12)." Il peccato designa 
in seguito in Paolo, il peccato attuale che proviene dall'antagonismo tra la legge e le tendenze 
egoiste della carne (Cf Rm 7.7-8) 
1.2. - conseguenze del peccato. 
Il peccato ha delle ripercussioni nocive non soltanto su Dio che viene offeso, ma anche e soprattutto sul peccatore stesso. 
1.1.2.- Le conseguenze del peccato su Dio. 
Il peccato ha attizzato la rabbia di Dio (Rm 1, 18). Dio ha abbandonato il peccatore alle passioni del suo cuore che lo portano a delle pratiche che lo deteriorano, in modo che degrada il suo corpo (Rm 1, 24). Conoscendo la sentenza che Dio dichiara suscettibile di morte il peccatore, l’empio continua ad agire male, non soltanto egli commette cattive azioni, ma anche approva coloro che le commettono (Rm 1, 23). E per questo che Dio lo priva della sua grazia (Rm 3, 2b). 1
 Cf Mgr DONGMO, A., Le Salut de Dieu selon Saint Paul, Edition Pauline, Montréal 1978, P. 52-54 2
 
1.2.2- Le conseguenze del peccato sull'uomo. 
Con il peccato l'uomo si pone come nemico di Dio e dei suoi simili. Infrange congiuntamente il doppio comandamento di Cristo: "amerai il Signore tuo Dio di tutto il cuore, di tutta l’anima e di tutta tua forza... amerai il tuo prossimo come te stesso” (Mc 12, 30-31). Con il peccato, l'uomo diviene idolatre (Rm 1, 23), bestemmiatore, empio (1 Tm 1, 
9), profanatore (2 Tm 3, 2), fiero, arrogante, fanfarone (Rm 1, 30). Tuttavia, le conseguenze del peccato d'uomo non ricadono soltanto sulla sua relazione con Dio, ma anche sulle sue relazioni con lui stesso e con i suoi simili. Il peccato rende l'uomo impudico (1 Cor.5, 9-11), adultero, dissoluto, perverso o omosessuale (1 Cor. 6,9) cupide, avaro, disoneste (1 Cor. 6.10) disobbedente ai genitori (2 Tm 3,2), parricida, matricida (1 Tm 1, 9), spietato, irato, maldicente, pettegolo, insolente, egoista, ingrato, trafficante d'uomo, incapace di amare… (Rm 1, 30). Così, il peccato dell'uomo comporta delle conseguenze sotto duplice aspetto: anzitutto, attizza la rabbia di Dio e lo porta a privare 
il peccatore della sua grazia, in seguito, deteriora l'uomo opponendolo a Dio ed i suoi simili. Infatti, richiede il ristabilimento dei legami tra l'uomo e Dio da un lato, l'uomo ed i suoi simili dall'altro: La riconciliazione portata da Cristo. Quale è il procedimento di questa riconciliazione secondo San Paolo ? Tale sarà l’oggetto della seconda parte. 
 
2. L’OPERA RICONCILIATRICE DI CRISTO. 
Questa opera per San Paolo è progressiva e passa attraverso tre tappe. Infatti, Dio agisce come un pedagogo. Si parla dell'economia di Dio nella storia della salvezza. Le tre tappe sono: la decisione di Dio, l'incarnazione di Cristo ed infine la sua morte ed la sua risurrezione. 
2.1- La decisione di Dio. 
È Dio che affida l'opera della riconciliazione a Cristo. "…Ma, quando fu giunto il tempo stabilito, Dio mandò suo figlio..." "(Gal 4,4). Allora è a partire da un piano stabilito da Dio, maturato dal suo amore e dalla sua misericordia (Tt 3,4-5), che Dio decide di mandare Cristo a riconciliare il mondo con lui. "(Il Padre del nostro signore Gesù) ci ha fatto 
conoscere il segreto progetto della sua volontà, quella che fin dal principio generosamente aveva deciso di realizzare per mezzo di Cristo." (Eph.1, 9-10). Questa intenzione è di riportare l'umanità decaduta a Dio in previsione della riconciliazione. 
2.2. - l'incarnazione del Cristo: prima tappa della riconciliazione. Per portare l'umanità decaduta a Dio per la riconciliazione, c’è stato bisogno che Cristo facesse una strada che i teologi chiamano la "kenosi". Si tratta dell'abbassamento di Cristo o della rinuncia alle sue prerogative divine. Anzi tutto, di condizione divino come è 
stato da allora sempre, Cristo si è annientato (Ph.2,6) prendendo la carne dell'uomo peccatore. "Dio mandò i suo figlio in una condizione simile a quella della nostra di uomini peccatori..." (Rm 8,3). “E nato da una donna, e fu sottoposto alla legge per liberare quelli che erano sotto la legge e farci figli di Dio..." "(Gal.4.4-5). Non soltanto Cristo ha preso la condizione di peccatore, ma anche, si umiliò prendendo la condizione dello schiavo," obbedendo fino alla morte e la morte della croce "(Eph 2, 7-8). Con l'incarnazione, Cristo riveste una doppia natura: la natura umana e la natura divina, con le quali serve di ravvicinamento tra Dio e 
3 l'uomo. È l'inizio dell’opera riconciliatrice di Dio. Il Verbo di Dio si è fatto uomo perché l'uomo diventasse figlio di Dio, dirà sant’Ireneo di Lione. Occorreva infatti che il mediatore di Dio e degli uomini, con la sua affinità con le due 
parti, le riportasse nell'amicizia e l'armonia... infatti, come potremmo noi, partecipare alla figliolanza adottiva, se non avessimo ricevuto la comunione con lui, mediante il figlio suo? Se il suo Verbo non fosse entrato in comunione con noi, diventando carne? Per questo appunto passò attraverso tutte le età restituendo a tutti, la comunione con Dio
2.3- Morte e risurrezione di Cristo, opera propriamente detta della riconciliazione. 
In molte religioni, la riconciliazione tra la divinità e gli uomini è realizzata attraverso un atto sacrificale. Si offre una vittima per ottenere il perdono di Dio o delle divinità nel caso del politeismo. La colpa merita la morte del peccatore, si supplica dunque le divinità di prendere gli animali al posto del fautore. Nella religione ebraica, sono gli agnelli che erano offerti in olocausto. Cristo si è offerto in olocausto come l'agnello, la vittima, per espiare il peccato dell'umanità e l’ha riscattata dalla maledizione che pesava su di lei. "Dio ha voluto essere pienamente presente in lui ( Cristo), e per mezzo di lui ha voluto fare amicizia con tutte le cose quelle della terra e con quelle del cielo; per mezzo della sua morte sulla croce Dio ha fatto pace con tutto". (Col 1,19-20). Risulta qui che l’opera di Cristo era di riconciliare 
tutti gli esseri con Dio, mediante il suo sangue versato sulla croce. La morte e la risurrezione di Cristo hanno dunque una portata non soltanto umana, ma anche cosmica. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza 21di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio "Rm 8, 19-21. Per la sua doppia natura, Cristo l’abbiamo detto, ha iniziato la riconciliazione. La completa pagando con il sangue della sua croce, il debito che pesava sull'umanità in particolare e l'universo in generale e gli impediva di fare la pace con Dio. 
 2.3.1-Senso della morte e della risurrezione del Cristo secondo San Paolo 
 "Noi crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù , Nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione."Rm 4, 24-25. Per Paolo, Cristo è morto per i nostri peccati. Nella sua passione e la sua morte, erano le nostre sofferenze che sopportava. “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede."Gal 3, 13-14." La morte di Cristo non servirebbe a nulla se fosse restato nella tomba. " “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e apparve a Cefa e quindi ai 
Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli. "1 Cor. 15, 4-5." La morte del Cristo è diventata salutare per noi. La croce si è trasformata dunque in oggetto di salvezza e ha cessato di essere oggetto di maledizione, poiché ha condotto alla risurrezione. Poiché il primo Adam ha introdotto la morte nel mondo con il suo peccato è stato necessario che Cristo, 
 SAN IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, Edizione Cantagalli, Siena 1957, P. 310
4 secondo Adam, passasse con la stessa morte per riscattarci dal peccato. La morte e la croce sono diventati per noi, cammini per la salvezza o la risurrezione. " 
Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù."Rm 6, 5-11." 
2.3.2- Gratuità dell'opera riconciliatrice di Cristo. Ci si potrebbe chiedere per quale vantaggio Dio ha fatto soffrire il suo figlio per noi peccatori. Per Paolo, è per pura bontà che Dio ha mandato il suo figlio e che ha sofferto per riconciliarci con lui e tra noi peccatori. Siamo stati giustificati o meglio riconciliati con Dio, non in virtù di qualunque opera buona che abbiamo potuto compiere, neppure la pratica della legge, ma gratuitamente. Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché 
giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna...." (Tt 3.4-5) L’opera della riconciliazione di Cristo è come dice Mgr Ndongmo, un atto di clemenza, di perdono immeritato che Dio accorda gratuitamente all'uomo peccatoreEravamo ancora peccatori ed attendevamo con pazienza la nostra condanna, quando Cristo ha fatto improvvisamente questa grazia di riscattarci: Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi 
ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. (Rm 5, 6-8). Dinanzi a tale opera grandiosa, quale deve essere il nostro atteggiamento? 
Cosa ci consiglia Paolo? 
2.3.3- Il nostro atteggiamento all'opera riconciliatrice di Cristo secondo Paolo. " Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. "(Rm 6,4). La coscienza che siamo morti e resuscitati in Cristo on il battesimo, deve stimolarci a condurre una nuova vita. Questa vita consiste a non vivere più sotto l'influenza del peccato per attizzare la rabbia di Dio. 
 Cf Mgr DONGMO, A., Op. cit., P.127-128
Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l'ira di Dio su coloro che disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. (Col 3, 5-10). La vita nuova non consiste soltanto nel respingere il peccato ma anche nell’avere le stesse disposizioni di Cristo. Si tratta di: - Restare allegri e di indirizzare preghiere a Dio incessantemente (1 Th 5, 16-17). Attraverso, la preghiera, lo Spirito di Gesù prega in noi e per noi e produce in noi le 
sensazioni di Gesù (Ph 2, 5-6) - Offrire sempre un culto spirituale a Dio ed evitare il conformismo al mondo 
presente: Vi esorto dunque, fratelli miei, con la misericordia di Dio, ad offrire le vostre persone in ostia viva, santa, piacevole a Dio: È il culto spiritoso che dovete rendere. E non modellatevi sul mondo presente, ma che il rinnovo del vostro giudizio vi trasformi e vi faccia distinguere quale è la volontà di Dio, cosa che è buono, cosa che gli soddisfa, cosa che è perfetta. (Rm 12, 1-2). - Vivere un amore di Dio che si diffonde nei nostri cuori con lo Spirito che ci fu dato 
al battesimo (Rm 5, 5), ma anche nell'amore dei fratelli mettendo ciascuno al servizio della carità i vari doni che abbiamo ricevuti dallo Spirito (1 cor l3)." - Rivestire le disposizioni del Cristo consiste nel diventare anche noi i servi della riconciliazione al suo seguito. "Infatti Dio senza tenere conto dei nostri peccati ha fatto di noi li agenti del messaggio della riconciliazione." (2 Cor.5.19). Dobbiamo seguendo il Cristo, proclamare la buona notizia della salvezza; che ormai tutti gli uomini possono ottenere il riscattato dei loro peccati, se hanno fede nella morte e la risurrezione di Cristo ed accettano di seguirlo.
CONCLUSIONE 
In definitiva, l’opera riconciliatrice del Cristo secondo San Paolo, è l'applicazione del disegno d'amore di Dio attraverso Cristo, che consiste nel riportare a Dio, l'umanità e l'universo decaduti a causa del peccato originale e del peccato attuale. Infatti, il peccato originale come il peccato attuale, priva il peccatore della grazia di Dio e si trova diviso tra il 
bene che vuole fare e non lo fa ed il male che odia ed lo fa al contrario (Rm 7, 14-26). Cristo, secondo Paolo è quello che restaura la grazia persa a causa del peccato: Innanzitutto con la sua incarnazione, avvicina Dio e l'uomo con la sua doppia natura, che serve così di mediazione. In seguito, con la sua passione, la sua morte e la sua risurrezione, riscatta 
l'umanità e la natura intera dalla dannazione che pesava su di loro dopo il peccato e dà loro la garanzia che sono riconciliate con Dio. Questa riconciliazione non è un fatto pontuale della storia. Si è realizzata con gli esseri che hanno vissuto prima di Cristo nel rispetto di Dio (Eph 4, 7-10) ed è sempre attuale. Cristo continua a riconciliare con Dio, coloro che nella fede accettano di essere immersi nella sua morte e la sua risurrezione attraverso il battesimo e con 
il fatto stesso accetta di condurre una nuova vita. Quelli, Dio li ricrea all'immagine del Cristo infondendo loro lo Spirito Santo, principio ispiratore di vita divina (1 Th 1,.18; Tt 3, 4 7), perché diventino a loro volta gli ambasciatori della riconciliazione.

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO (1)

 http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/peccorpaolo.htm

(è lungo e divido in due, credo che sia Ortodosso Greco)

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO (1)

Giovanni S. Romanidis

La traduzione è tratta da: St. Vladimir’s Seminary Quaterly,vol. IV, nn. 1-2, 1955-1956.

Indice

punto elenco Introduzione 
punto elenco La Creazione decaduta 
punto elenco La giustizia di Dio e la Legge
punto elenco Il destino dell’uomo e l’antropologiapunto elenco Il destino dell’uomo
punto elenco L’antropologia di san Paolo 
punto elenco Osservazioni sintetiche 
punto elenco Conclusioni   

Introduzione      
 Riguardo la dottrina del peccato originale com’è contenuta nell’Antico Testamento e chiarita dall’unica Rivelazione di Cristo nel Nuovo Testamento, nel cristianesimo occidentale, specialmente in quello fondato sullo sviluppo dei presupposti scolastici, continua a regnare una grande confusione che, negli ultimi secoli, sembra aver guadagnato molto terreno nelle problematiche teologiche dell’Oriente ortodosso. In alcune scuole questo problema è stato rivestito di un’aurea di mistificante vaghezza a tal punto che perfino alcuni teologi ortodossi sembrano accettare la dottrina sul peccato originale vedendola semplicemente come un grande e profondo mistero di fede (cfr. Androutsos, Dogmatike, pp. 161-162). Quest’atteggiamento è divenuto certamente paradossale, particolarmente da quando tali cristiani, che non possono definire il nemico dell’umanità [il Demonio], sono gli stessi che affermano illogicamente che in Cristo esiste la remissione di questo misterioso peccato originale. È sicuramente un’opinione molto distante rispetto alla certezza con la quale san Paolo ha affermato che noi “non ignoriamo i pensieri” (noemata) del Demonio (II Cor 2, 11).
Se si mantiene vigorosamente e con fermezza che Gesù Cristo è l’unico Salvatore ad aver portato la salvezza in un mondo bisognoso d’essere salvato, si deve evidentemente sapere che è la natura del bisogno ad aver procurato tale salvezza (Sant’Atanasio, De incarnatione verbi Dei, 4). Sarebbe davvero sciocco esercitare dottori e infermieri a guarire malattie se nel mondo non esistesse alcuna malattia. Analogamente un salvatore che proclama di salvare delle persone che non hanno alcun bisogno di salvezza, è un salvatore soltanto per se stesso.
Indubbiamente una delle cause più importanti dell’eresia sta nel fallimento a capire l’esatta natura della situazione umana descritta nell’Antico e nel Nuovo Testamento per la quale gli eventi storici della nascita, degli insegnamenti, della morte e risurrezione e della seconda venuta di Cristo, rappresentano l’unico rimedio. Il fallimento di tale comprensione implica automaticamente la distorta comprensione di quanto Cristo ha fatto e continua a fare per noi e della nostra conseguente relazione con Lui all’interno del Regno di salvezza. L’importanza d’una definizione corretta sul peccato originale e sulle sue conseguenze non può mai essere esagerata. Qualsiasi tentativo di minimizzarla o di alterare il suo significato comporta automaticamente un indebolimento e, parimenti, un completo malinteso sulla natura della Chiesa, dei sacramenti e del destino umano.
In ogni indagine che voglia approfondire il pensiero di san Paolo e degli altri agiografi apostolici può esserci la tentazione d’esaminare i loro scritti con definiti presupposti, benché molto spesso inconsci, contrari alle testimonianze bibliche. Se ci si accosta alla testimonianza biblica, all’opera di Cristo e alla vita della comunità primitiva con predeterminate nozioni metafisiche riguardo alla struttura morale di quello che i più definiscono “mondo naturale” e, di conseguenza, con idee fisse riguardo al destino umano e alle necessità dell’individuo e dell’umanità in genere, dalla vita e dalla fede della Chiesa antica, si coglieranno indubbiamente solo gli aspetti che si adattano bene al proprio quadro di riferimento. Allora, se si desidera mantenere costantemente autentica la propria interpretazione delle Sacre Scritture, si dovrà necessariamente procedere a spiegare esaurientemente ogni elemento estraneo ai concetti biblici e, quindi, secondario e superficiale, intendendolo semplicemente come il prodotto d’alcuni malintesi sulla dottrina di certi Apostoli, d’un gruppo di Padri, o di tutta la Chiesa primitiva in genere.
Un approccio appropriato all’insegnamento neotestamentario di san Paolo riguardo il peccato originale non può essere trattato in modo fazioso. È incorretto, per esempio, sottolineare eccessivamente la frase di Romani 5, 12 “eph’ho pantes hemarton” per provare che esiste un certo sistema di pensiero riguardo alla legge morale e alla colpa senza prima stabilire il peso delle convinzioni di san Paolo riguardo ai poteri di Satana e alla vera situazione, non solo dell’uomo, ma di tutta la creazione. Sbaglia pure chi tratta il problema della remissione del peccato originale inserendo il pensiero di san Paolo in una struttura antropologica dualistica ignorando, al contempo, i fondamenti ebraici dell’antropologia paolina. Similmente, un tentativo d’interpretare la dottrina biblica della caduta nei termini d’una filosofia edonistica sulla felicità è già condannata al fallimento per il suo rifiuto di riconoscere non solo l’anormalità ma, cosa più importante, le conseguenze della morte e della corruzione.
Un approccio corretto alla dottrina paolina sul peccato originale deve prendere in considerazione la comprensione di san Paolo:

    1) sullo stato decaduto della creazione, inclusi i poteri di Satana, la morte e la corruzione;
    2) sulla giustizia di Dio e la legge e, infine,
    3) sull’antropologia e il destino dell’uomo e della creazione.

Con ciò non si vuole suggerire che nel presente studio ciascun tema sarà trattato dettagliatamente. Tali temi, piuttosto, saranno affrontati solo alla luce del problema principale del peccato originale e della sua trasmissione secondo san Paolo.

La Creazione decaduta   
San Paolo afferma energicamente che tutte le cose create da Dio sono buone (I Tim 4,4). Allo stesso tempo, insiste sul fatto che non solo l’uomo (Rom 5, 12) ma pure tutta la creazione è decaduta (Rom 8, 20). Sia l’uomo che la creazione attendono la redenzione finale (Rom 8, 21-23). Così, nonostante il fatto che tutte le cose create da Dio siano buone, il Diavolo diviene temporaneamente (I Cor 15, 26) “dio di questo secolo” (II Cor 4, 3). Un basilare presupposto di san Paolo è che, sebbene il mondo è stato creato da Dio come una realtà buona, esso si trova ancora sotto il potere di Satana. Il Demonio, comunque, non ha alcun ruolo assoluto poiché Dio non ha abbandonato la Sua creazione (Rom 1, 20).       
Secondo san Paolo, la creazione non è quanto Dio intendeva fosse “poiché la creatura è soggetta alla vanità non per volontà propria ma per causa di chi l’ha assoggettata” (Rom 8, 20) Perciò la cattiveria può esistere, almeno temporaneamente, come un elemento parassita a fianco o all’interno di quanto Dio ha creato originalmente come buono. Un ottimo esempio di ciò è colui che vorrebbe fare il bene secondo l’“uomo interiore” ma ne è impossibilitato per l’insito potere del peccato nella carne (Rom 7, 15-25). Benché la realtà creata sia buona e venga ancora mantenuta e governata da Dio, la creazione per se stessa è lontana dalla normalità o dalla naturalità se, per “normale”, intendiamo la natura secondo l’originale e finale destino della creazione. Colui che governa questo mondo, contrariamente al fatto che Dio sostiene ancora la creazione e conserva per se un resto di essa (Rom 11, 5), è il Demonio (II Cor 4, 3).
Cercare di rinvenire in san Paolo una certa filosofia naturale con un universo equilibrato da fisse e inerenti leggi ragionevoli secondo le quali l’uomo può vivere serenamente ed essere felice, significa fare violenza alla fede dell’apostolo. Per san Paolo non esiste alcun mondo naturale con un sistema inerente di leggi morali, poiché tutta la creazione è stata sottoposta alla vanità e al cattivo dominio di Satana subendo il potere della morte e della corruzione (I Cor 15, 56). Per questa ragione tutti gli uomini sono divenuti peccatori (Rom 3, 9-12; 5, 19). Non esiste alcun uomo che non sia peccatore semplicemente perché vive secondo la legge della ragione o la norma mosaica (Rom 5, 13). La possibilità di vivere secondo la legge universale implica pure la possibilità d’essere senza peccato. Tuttavia, per san Paolo, questo è un mito poiché Satana non rispetta le leggi della ragione che fanno vivere rettamente (II Cor 4, 3; 11, 14; Ef 6, 11-17; II Tess 2, 8) e ha sotto la sua influenza tutti gli uomini che nascono sotto il potere della morte e della corruzione (Rom 8, 24).
Che sia creduto o meno, il presente, reale ed attivo potere di Satana dovrebbe provocare il teologo biblista. Egli non può ignorare l’importanza attribuita da san Paolo al potere demoniaco. Facendo diversamente non si comprende per nulla il problema del peccato originale e della sua trasmissione e si finisce pure per equivocare il pensiero degli scrittori del Nuovo Testamento e la fede di tutta la Chiesa antica. Riguardo al potere di Satana per opera del quale viene introdotto il peccato nella vita d’ogni uomo, sant’Agostino, per combattere il pelagianesimo, ha chiaramente mal interpretato san Paolo. Il potere di Satana, la morte e la corruzione dallo sfondo teologico dov’erano posti sono stati collocati in primo piano per rispondere alla controversia sul problema della colpa personale nella trasmissione del peccato originale. In tal modo, san’Agostino ha introdotto un falso approccio filosofico-moralistico che è estraneo al pensiero di san Paolo (Col 2, 8 ) e che non è stato accettato dalla tradizione patristica orientale (Cfr. San Cirillo d’Alessandria, Migne, PG, t. 74, c. 788-789).
Per san Paolo Satana non è semplicemente un potere negativo nell’universo. È una realtà personale con volontà (II Tim 2, 26), pensieri (II Cor 2, 11) e metodi falsi (I Tim 2, 14; 4, 14; II Tim 2, 26; II Cor 11, 14; 4, 3; 2, 11; 11, 3), contro il quale i cristiani devono intraprendere un’intensa battaglia (Ef. 6, 11-17) poiché possono essere ancora tentati da lui (I Cor 7, 5; II Cor 2, 11; 11, 3; Ef 4, 27; I Tes 3, 5; I Tim 3, 6; 3, 7; 4, 1; 5, 14). Egli è dinamicamente attivo (II Cor 11, 14; 4, 3; Ef 2, 2; 6, 11-17; I Tess 2, 18; 3, 5; II Tess 2, 9; I Tim 2, 14; 3, 7; II Tim 2, 25-26) e combatte per la distruzione della creazione senza attendere con semplice passività in uno spazio circoscritto per accogliere coloro che decidono razionalmente di non seguire Dio e le leggi morali inerenti ad un universo naturale. Satana è pure capace trasformare se stesso in angelo di luce (II Cor 11, 15). Ha a sua disposizione miracolosi poteri di perversione (II Tess 2, 9) e ha per collaboratori eserciti di poteri invisibili (Ef 6, 12; Col 2, 15). Egli è “il bene di questo secolo” (II Cor 4, 4), colui che ha ingannato la prima donna (II Cor 11, 3; I Tim 2, 14). È lui che ha condotto l’uomo (Ibid.) e tutta la creazione nel sentiero della morte e della corruzione (Rom 8, 19-22).
Il potere della morte e della corruzione, secondo Paolo, non è negativo ma, al contrario, positivamente attivo. “Il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56) che, a sua volta, fa regnare la morte (Rom 5, 21). Non solo l’uomo ma tutta la creazione è stata assoggettata alla tirannia del suo potere (Rom 8, 21) e ora attende la redenzione. Perciò la creazione stessa sarà consegnata dalla schiavitù della corruzione (Rom 8, 20). Assieme con la distruzione finale di tutti i nemici di Dio, la morte – l’ultima e probabilmente la maggior nemica – sarà distrutta (I Cor 15, 24-26). Allora la morte sarà inghiottita dalla vittoria (I Cor 15, 54). Per san Paolo la distruzione della morte è parallela alla distruzione del Demonio e delle sue forze. La salvezza dalla prima significa la salvezza dagli altri (Col 2, 13-15; I Cor 15, 24-27; 15, 54-57).
È ovvio che le espressioni paoline riguardanti la creazione decaduta, Satana e la morte non offrono alcuno spazio a qualsiasi tipo di dualismo metafisico o a qualsiasi divisione mentale con la quale si farebbe di questo mondo un dominio intermedio quasi esso fosse, per l’uomo, una pietra di guado tra la presenza di Dio e il regno di Satana. L’idea di tre piani nella storia in cui Dio con i suoi seguaci e gli angeli occuperebbero quello superiore, il Demonio la base e l’uomo nella sua carne il piano intermedio, non trova alcun posto nella teologia paolina. Per Paolo tutte le tre realtà si compenetrano. Non esiste alcun mondo intermedio e neutro dove l’uomo possa vivere secondo la legge naturale ed essere giudicato per ricevere la felicità alla presenza di Dio o per meritare il tormento in abissi tenebrosi. Al contrario, tutta la creazione è dominio di Dio ed Egli non può essere contaminato dal male. Tuttavia, nel suo dominio esistono altre volontà che Egli ha creato le quali possono scegliere sia il Regno di Dio sia il regno della morte e della distruzione.

Contrariamente al fatto che la creazione di Dio è essenzialmente buona, il Demonio ha contemporaneamente e parassitariamente trasformato questa stessa creazione in un temporaneo regno per se stesso (II Cor 4, 3; Gal 1, 4; Ef 6, 12). Il Demonio, la morte e il peccato stanno regnando in questo mondo, non in un altro. Il regno delle tenebre e quello della luce si stanno facendo guerra nel medesimo luogo. Per questa sola ragione l’unica vittoria possibile sul Diavolo è la risurrezione dalla morte (I Cor 15, 1 e ss.). Non esiste alcuna fuga dal campo di battaglia. L’unica scelta possibile per ogni uomo è combattere attivamente il Demonio condividendo la vittoria di Cristo, o accettare le falsità del Diavolo volendo credere che tutto va bene ed è tutto normale (Rom 12, 2; I Cor 2, 12; 11, 32; II Cor 4, 3; Col 2, 20; II Tess 2, 9; II Tim 4, 10; Col 2, 8; I Cor 5, 10).

La giustizia di Dio e la Legge
Secondo quant’è stato detto, per san Paolo la creazione decaduta ha una natura non duplice. Ne consegue che non esiste alcun sistema morale di leggi inerenti ad un universo normale e naturale. Perciò quello che l’uomo accetta come giusto e buono, partendo dalle sue osservazioni sulle relazioni umane nella società e nella natura, non può essere confuso con la giustizia di Dio. La giustizia di Dio è stata rivelata unicamente e pienamente solo in Cristo (Rom 1, 17; 3, 21-26). Nessun uomo ha il diritto di sostituire la propria concezione della giustizia a quella divina (Rom 10, 2-4; Fil 3, 8).
La giustizia di Dio, com’è rivelata in Cristo, non opera secondo un’obiettiva regola di condotta (Rom 3, 20; 5, 15 ss.; 9, 32) ma, piuttosto, secondo le relazioni personali di fede e d’amore (Rom 9, 30; 10, 10; I Cor 13, 1; 14, 1; I Tim 5, 8). “La legge non è fatta per il giusto ma per gli ingiusti e i disobbedienti, per gli empi e i peccatori…” (I Tim 1, 9-10). La legge non è un male ma un beneficio (I Tim 1, 18) pure spirituale (Rom 7, 14). Tuttavia non è abbastanza perché possiede una natura temporanea e pedagogica (Gal 3, 24). Essa dev’essere adempiuta in Cristo (Gal 5, 13) e superata con un amore personale secondo l’immagine dell’amore di Dio rivelato in Cristo stesso (Rom 8, 29; 15, 1-3; 15, 7; I Cor 2, 16; 10, 33; 13, 1 ss.; 15, 49; II Cor 3, 13; Gal 4, 19; Ef 4, 13; 5, 1; 5, 25; Fil 2, 5; Col 3, 10; I Tes 1, 6). La fede e l’amore in Cristo devono essere personali. Per questa ragione la fede senza l’amore è vuota. “Se avessi tutta la fede, sì da trasportare le montagne, e poi mancassi d’amore non sarei nulla” (I Cor 13, 2). Similmente gli atti di fede privi d’amore non sono d’alcun profitto. “Se pure disperdessi, a favore dei poveri, quanto possiedo e dessi il mio corpo per essere arso, ma non avessi l’amore, non ne avrei alcun giovamento” (I Cor 13, 3).
Non esiste possibilità di vita, seguendo delle regole oggettive. Se, seguendo la legge, vi fosse stata qualche possibilità non ci sarebbe stato bisogno della redenzione in Cristo. “La rettitudine sarebbe stata data nella legge” (Gal 3, 21) “Se fosse stata data una legge che avesse il potere di vivificare” (Ibid.). allora non sarebbe stata data ad Abramo la promessa della salvezza ma direttamente la salvezza stessa (Gal 3, 18). La vita non esiste dove sussiste la legge. La vita è, piuttosto, l’essenza di Dio “l’unico che possiede l’immortalità” (I Tim 6, 16). Perciò solo Dio può dare vita e lo fa liberamente secondo la propria volontà (Rom 9, 16), alla sua maniera e al tempo che sceglie come più opportuno (Rom 3, 26; Ef 2, 4-6; I Tim 6, 15).
D’altra parte, è un grave errore attribuire alla giustizia di Dio la responsabilità della morte e della corruzione. In nessun luogo Paolo attribuisce a Dio l’inizio di questi eventi. Al contrario, la natura è stata sottoposta alla vanità e alla corruzione dal Diavolo (II Cor 11, 13; I Tim 2, 14) che, attraverso il peccato e la morte del primo uomo, si è inserito parassitariamente nella creazione della quale faceva già parte anche se, ancora, non ne era il tiranno. Per Paolo la trasgressione del primo uomo ha aperto la via all’ingresso della morte nel mondo (Rom 5, 12); tuttavia questa nemica (I Cor 15, 26) non è certamente il frutto perfetto di Dio. Né può la morte di Adamo, o quella di ciascun uomo, essere considerata la conseguenza d’una decisione punitiva da parte di Dio (San Gregorio Palamas, Kephalia Physica, 52, Migne, PG t. 150-A). San Paolo non suggerisce mai una simile idea!
Per giungere ai presupposti basilari del pensiero biblico è necessario abbandonare ogni schema giuridico di giustizia umana con il quale si attribuisce la punizione o la ricompensa secondo le oggettive regole della moralità. Avvicinandosi al problema del peccato originale con uno schema così ingenuo si dovrà credere che ogni lettore attribuisca ad una penalità comune un’offesa comune ragion per cui tutti condividono la colpa di Adamo (F. Prat, La Theologie de saint Paul, Paris 1924, t. c. pp. 67-68). Questo, però, significa ignorare la vera natura della giustizia divina e negare il potere reale del Diavolo.
Le relazioni che esistono tra Dio, l’uomo e il Diavolo non seguono leggi e regolamenti ma si accordano alla libertà personale. Il fatto che esistano leggi che proibiscono l’uccisione non determina l’impossibilità che tale evento non possa accadere una volta e neppure centinaia di migliaia di volte. Se l’uomo può trascurare l’osservanza di regole e disposizioni di buona condotta, sicuramente non ci si può attendere dal Diavolo l’osservanza di tali regole, visto che quest’ultimo può aiutare l’uomo a prescinderne. La versione paolina del Demonio non coincide certo con quella di chi rispetta semplicemente delle leggi naturali ed esegue la volontà di Dio per sottrarsi alla punizione delle anime in inferno. Ben al contrario, il Demonio combatte Dio attivamente attraverso metodi in cui impiega la maggior falsità possibile cercando di distruggere le opere di Dio con tutta l’astuzia e il potere in suo possesso (Rom 8, 20; I Cor 10, 10; II Cor 2, 11; 4, 3; 11, 3; 11, 14; Ef 2, 1-3; 6, 11-17; I Tess 2, 18; 3, 5; II Tes 2, 9; I Tim 2, 14; 5, 14; II Tim 2, 26). Così la salvezza per l’uomo e la creazione non può venire da un semplice atto di perdono su qualche giuridica imputazione di peccato, né può provenire dal pagamento di qualche soddisfazione al Diavolo (Origene) o a Dio (Roma). La salvezza può provenire solo dalla distruzione del Demonio e del suo potere (Col 2, 15; I Cor 15, 24-26; 15, 53-57; Rom 8, 21).
Secondo san Paolo, è Dio stesso che ha distrutto “i principati e le potenze” inchiodando gli scritti dei decreti che erano contro di noi sulla croce di Cristo (Col 2, 14-15) “poiché è stato Dio che in Cristo ha riconciliato a se gli uomini non imputando loro le mancanze commesse” (II Cor 5, 19). Benché fossimo peccatori, Dio non s’è rivolto contro di noi, ma ha proclamato la sua giustizia a coloro che credono in Cristo (Rom 3, 20-27). La giustizia di Dio non è accordata a quegli uomini che producono opere dalla legge (Rom 10, 3; Fil 3, 8). Per san Paolo la giustizia e l’amore di Dio non sono separati dall’inosservanza di qualche dottrina giuridica d’espiazione. La giustizia di Dio e l’amore di Dio, come sono stati rivelati in Cristo, sono la stessa cosa. Così, nella lettera ai Romani (3, 21-26) l’espressione “amore di Dio” potrebbe essere molto facilmente sostituita da “giustizia di Dio”.
È interessante notare che ogni volta in cui san Paolo parla della collera di Dio si riferisce sempre a quella che è rivelata a coloro che sono divenuti disperatamente schiavi, per loro propria scelta, alla carne e al Diavolo (Rom 1, 18 ss.). Benché la creazione sia tenuta prigioniera nella corruzione, coloro che vivono senza la legge, adorando e vivendo erroneamente, sono senza scusa poiché “le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità” (Rom 1, 20); “perciò Dio li abbandonò nelle concupiscenze dei loro cuori lasciando ch’essi disonorassero sconciamente i loro corpi a vicenda…” (Rom 1, 24). E ancora: “Dio li abbandonò a sentimenti reprobi” (Rom 1, 28). Tutto ciò non significa che Dio ha fatto divenire questi uomini quel che essi sono, quanto piuttosto che li ha abbandonati nello smarrimento totale della corruzione e del potere del Diavolo. Bisogna interpretare così anche altri simili passi (Ad es. Rom 9, 14-18; 11, 8).
 L’abbandono di Dio di un popolo già indurito nel proprio cuore contro le opere divine non è ristretto ai gentili ma riguarda pure i giudei (Rom 9, 6). “Poiché, davanti a Dio, non sono giusti coloro che sentono parlare della legge ma saranno salvati solo quelli che la praticheranno” (Rom 2, 13). “Coloro che hanno peccato nella legge saranno giudicati dalla legge” (Rom 2, 12). I gentili, comunque, pur non essendo sotto la legge mosaica non sono scusati dalla responsabilità del peccato personale poiché essi “non avendo la legge sono legge a se stessi; essi mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza e i loro pensieri per cui vicendevolmente ora s’accusano, ora si difendono” (Rom 2, 14-15). All’ultimo giudizio tutti gli uomini, sotto la legge o meno, udenti o meno, saranno giudicati da Cristo secondo il vangelo predicato da Paolo (Rom 2, 16) e non secondo un sistema di leggi naturali. Pure attraverso le invisibili realtà divine – “le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità” – non esiste alcuna cosa simile ad un corpo di leggi morali inerenti nell’universo. I gentili che “non hanno la legge” ma che “fanno per natura le cose contenute nella legge” non rispettano un sistema naturale di leggi universali. Essi, piuttosto, “mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza”. Anche qui si può vedere la concezione paolina delle relazioni personali tra Dio e l’uomo. “Dio stesso le ha manifestate in loro” (Rom 1, 19) ed è Dio che sta ancora parlando all’uomo decaduto al di fuori della legge, attraverso la sua coscienza e nel suo cuore il quale, per Paolo, è il centro dei pensieri umani (Rom 1, 21; I Cor 4, 5 14-25; Ef 1, 17) e, nei membri del corpo di Cristo (Ef 3, 17), il luogo in cui abita lo stesso Cristo e lo Spirito Santo (II Cor 1, 22; Gal 4, 6).

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO (2)

 http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/peccorpaolo.htm

(è lungo e divido in due, credo che sia Ortodosso Greco)

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO (2)

Giovanni S. Romanidis

Il destino dell’uomo e l’antropologia

Prima d’iniziare il tentativo di determinare il significato del peccato originale, come già precedentemente precisato, è necessario osservare la concezione di Paolo sul destino dell’uomo e la sua antropologia.

Il destino dell’uomo 
Sarebbe un controsenso cercare di leggere nella teologia di Paolo una concezione del destino umano che accoglie come normalità le aspirazioni e i desideri di quello che qualcuno chiamerebbe l’“uomo naturale”. Per l’uomo naturale è normale cercare la sicurezza e la felicità nell’acquisizione e nel possesso di beni oggettivi. I teologi scolastici occidentali hanno spesso utilizzato queste tendenze dell’uomo naturale come prova che, alla fine, l’uomo cerca istintivamente l’Assoluto, possedendo il quale raggiunge l’unico stato in cui è possibile una completa felicità visto che in tale stato è impossibile desiderare qualcosa di più e non esiste nulla di meglio. Questo tipo d’approccio edonistico sul destino umano è ovviamente possibile solo per coloro che ritengono la morte e la corruzione una realtà normale o, al più, la conseguenza d’una decisione punitiva di Dio. In tal maniera costoro accettano che Dio sia la principale causa della morte finendo per attribuirgli realmente il peccato e i poteri della corruzione. Dio stesso diverrebbe sorgente del peccato e del male.
Per san Paolo non esiste alcuna realtà come normale in coloro che non sono posti in Cristo. Il destino dell’uomo e della creazione non può essere dedotto da osservazioni sulla vita dell’uomo e della creazione decaduta. In nessun passo Paolo incoraggia il cristiano a vivere una vita di sicurezza e di felicità secondo lo stile di questo mondo. Al contrario chiama il cristiano a morire a questo mondo e al corpo del peccato (Rom 8, 10; 8, 13; II Cor 4, 10-11; 6, 4-10; Col 2, 11-12; 2, 20; 3, 3; II Tes 1, 4-5) e, pure, a soffrire per il vangelo secondo la forza di Dio (II Tim 1, 8; 2, 3-6; 6, 4-5). Paolo asserisce che “quanti vorranno vivere piamente in Cristo saranno perseguitati” (II Tim 3, 12). È certamente un linguaggio forte per chi cerca sicurezza e felicità (I Tim 6, 7-9). Non è possibile supporre che, per Paolo, le sofferenze senza amore siano considerate dei mezzi per raggiungere il proprio destino. Tale prospettiva sarebbe quella di chi punta al pagamento del proprio lavoro e non di chi ha relazioni personali di fede e d’amore (I Cor 13, 3).
San Paolo non crede che il destino umano consista semplicemente nel conformarsi a delle norme e delle regole naturali che rimangono apparentemente immutate dall’inizio del tempo. La relazione tra la volontà divina e quella umana non comporta né una sottomissione giuridica né una sottomissione edonistica (come insegnano sant’Agostino e i teologi scolastici) ma piuttosto una relazione d’amore personale. San Paolo asserisce che “siamo collaboratori di Dio” (I Cor 3, 9). La nostra relazione d’amore con Dio è tale che, in Cristo, non esiste alcun bisogno della legge. “Se vi lasciate condurre dallo Spirito non siete più sotto la legge” (Gal 5, 18). I membri del corpo di Cristo non sono chiamati ad un livello di vita nel quale si eseguono impersonali ordinanze. Viene loro richiesto di vivere secondo l’amore di Cristo rivelato in Cristo stesso con il quale non c’è bisogno di legge alcuna poiché, tale amore, non cerca il proprio tornaconto (I Cor 13, 4) ma vuole donarsi ad immagine dell’amore divino (Fil 2, 5-8).
L’amore e la giustizia di Dio sono state rivelate una volta per tutte in Cristo (Rom 3, 21-28) attraverso la distruzione del Demonio (Col 2, 15) e la liberazione dell’uomo dal corpo di morte e di peccato (Rom 8, 24; 66) in modo tale che l’uomo può ora divenire imitatore dello stesso Dio (Ef 5, 1) il quale ci ha predestinati a divenire “conformi all’immagine del proprio Figlio” (Rom 8, 29) che in nulla cercò di piacere a se stesso ma soffrì per gli altri (Rom 15, 1-3). Cristo morì in modo che coloro che continuavano a vivere non vivessero per loro stessi (II Cor 5, 15), ma divenissero uomini perfetti, “nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4, 13). I cristiani non vivono più secondo i riferimenti di questo mondo (Col 2, 20), pur vivendo in questo mondo, ma hanno assunto la stessa mentalità di Cristo (I Cor 2, 16; Fil 2, 5-8) cosicché in Cristo essi possono divenire perfetti (Col 1, 28). L’uomo non ama più sua moglie seguendo i modelli di questo mondo ma deve amare sua moglie esattamente “come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). Il destino dell’uomo non è la felicità e l’autosoddisfacimento (Fil 2, 20) quanto piuttosto la perfezione in Cristo. L’uomo deve divenire perfetto come sono perfetti Dio (Ef 5, 1) e Cristo (Rom 8, 29; I Cor 10, 33; 15, 49; II Cor 3, 13; Gal 4, 19; Ef 4, 13; 5, 25; Fil 2, 5-8; Col 1, 28; 3, 10). Simile perfezione può essere assunta solo attraverso il personalistico potere dell’amore divino ed altruistico (I Cor 13, 2-3), “che è vincolo della perfezione” (Col 3, 14). Quest’amore non dev’essere confuso con quello dell’uomo decaduto che cerca il proprio tornaconto (Fil 2, 20). L’amore in Cristo non cerca il proprio interesse ma quello degli altri (Rom 14, 7; 15, 1-3; I Cor 10, 24; 10, 29; 11, 1; 12, 25-26; 13, 1 ss.; II Cor 5, 14-15; Gal 5, 13; 6, 1; Ef 4, 2; Fil 2, 4; I Tess 5, 11).
Divenire perfetti ad immagine di Cristo non si restringe al regno d’amore ma è inseparabile parte e forma la salvezza di tutto l’uomo come della creazione. Il corpo umile dell’uomo sarà trasformato per divenire “conforme” al “corpo glorioso” (Fil 3, 21) di Cristo. L’uomo è destinato a divenire, come Cristo, perfetto pure nel corpo. “Colui che risuscitò Gesù Cristo dai morti, farà rivivere anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che risiede in voi” (Rom 8, 11).
 San Paolo afferma che la morte è il nemico (I Cor 15, 26) venuto nel mondo e riguarda tutti gli uomini a causa del peccato d’un solo uomo (Rom 5, 12). La sottomissione alla corruzione non riguarda solo l’umanità ma tutta la creazione (Rom 8, 20-21). Tale realtà, sotto il potere del Diavolo e della morte, è stata evidentemente provvisoriamente frustrata rispetto al suo originale destino. Nelle asserzioni paoline relative al primo e al secondo Adamo è erroneo rinvenire l’idea che Adamo sarebbe morto anche se non avesse peccato. Questo, semplicemente perché il primo Adamo fu fatto (eis psychen zosan), espressione che nell’uso paolino e nel suo contesto significa chiaramente immortale (I Cor 15, 42-49). Adamo avrebbe potuto essere stato creato naturalmente mortale, ma se egli non avesse peccato non sussisterebbe ragione di credere che non sarebbe divenuto immortale per natura (Sant’Atanasio, De incarnatione Verbi Dei, 4-5). Ciò ha implicato certamente gli straordinari poteri che san Paolo attribuisce alla morte e alla corruzione.

L’antropologia di san Paolo
Come abbiamo già detto, la legge, per san Paolo, non è solo buona (Rom 7, 12) ma pure spirituale (v. 14). Ciò è noto all’“uomo interiore” (Rom 7, 22). Tuttavia l’uomo anche se possiede la volontà per fare il bene secondo la legge, non può trovare la forza (Rom 7, 18) perché è “carnale e soggetto al peccato” (Rom 7, 14). Se egli stesso, secondo “l’uomo interiore”, vuole fare il bene e non può, non è molto distante da chi fa il male e ha il peccato dimorante in sé (Rom 7, 20). Così san Paolo si domanda: “Disgraziato che sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom 7, 24). Essere liberati da questo “corpo di morte” significa essere salvati dal potere del peccato dimorante nella carne. Così “la legge dello spirito di vita in Gesù Cristo mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 2).
È fuorviante cercare d’interpretare questa frase paolina (Rom 7, 13 ss.) secondo un’antropologia dualistica che riferirebbe il termine sarkikos solo agli appetiti più bassi del corpo e specialmente ai desideri sessuali ad esclusione dell’anima. Il termine sarkikos non viene utilizzato da san Paolo in tal senso. Altrove san Paolo ricorda alle persone sposate che essi non hanno autorità sui loro corpi e così non si devono privare gli uni agli altri, “salvo che, acconsentendo, per una volta diate voi stessi al digiuno e alla preghiera. Poi, però, siate come prima perché Satana non vi tenti a causa della vostra incontinenza” (I Cor 7, 4-5. Vedi anche Rom 15, 27). Ai corinti dichiara ch’essi sono una lettera non scritta con inchiostro “ma con lo spirito del Dio vivente, non in tavole di pietra ma nelle tavole di carne del cuore – en plaxi kardias sarkinais” (II Cor 3, 3). Cristo fu conosciuto secondo la carne (II Cor 5, 16) e “Dio fu manifestato nella carne” (I Tim 3, 16) San Paolo si chiede se, dopo aver piantato realtà spirituali tra i corinti, sia una grande cosa cogliere le sarkika (realtà materiali) (I Cor 9, 11). In nessuna parte Paolo usa l’aggettivo sarkikos per riferirsi esclusivamente alla sessualità o a quello che comunemente viene definito come desideri della carne contrari a quelli dell’anima.
Sembra che san Paolo attribuisca un potere positivo di peccato alla sarx come tale solo nell’epistola ai galati i quali, avendo iniziato nello Spirito, pensano d’essere divenuti perfetti nella carne (Gal 3, 3). Qui la sarx ha una volontà di desiderio contro il pneuma (Gal 5, 16-18). “Le opere della carne sono manifeste e sono le seguenti: fornicazione, impurità, dissolutezza, lussuria, idolatria, venefizi, inimicizie, discordie, gelosie, risentimenti, contese, divisioni, sette, invidie, omicidi, ubriachezze, gozzoviglie e altre simili cose” (Gal 5, 19-21). Molte di queste opere della carne (sarkos) hanno una partecipazione, e spesso un’iniziativa, molto attiva dell’intelletto, indicazione che in questo passo la sarx, per Paolo, è molto di più di quanto ammetterebbe una qualsiasi antropologia dualistica. In ogni evenienza, la carne come tale vista come una forza positiva di peccato basandosi sulla sopravvalutazione della lettera dove Paolo si infuria contro la leggerezza dei galati (Gal 3, 1), non può essere isolata da altri riferimenti in cui il peccato dimora parassitariamente nella carne (Rm 7, 17-18) e dove la carne stessa non solo non è cattiva (I Cor 9, 11; Rom 15, 27; II Cor 3, 3; 4, 11; 5, 16) ma è quella realtà nella quale si è manifestato lo stesso Dio (I Tim 3, 16). La carne in quanto tale non è cattiva ma si è molto indebolita a causa del peccato e dell’inimicizia dimoranti in essa (Rom 7, 17-18; Ef 2, 15).
Per comprendere l’antropologia paolina non bisogna riferirsi all’antropologia dualistica dei greci i quali hanno fatto una chiara distinzione tra l’anima e il corpo quanto, piuttosto, all’antropologia ebraica nella quale sarx e psyche (la carne e l’anima) denotano entrambe l’intera persona vivente e non soltanto una parte di essa (Tresmontant, Essai sur la pensée hebraique, Paris 1953, pp. 95-96). Così nell’Antico Testamento l’espressione pasa sarx (ogni carne) viene impiegata per indicare tutte le realtà viventi (Gen 6, 13-17; 7, 15-21; Sal 135, 25) tra le quali, a maggior ragione e particolarmente, l’uomo (Gen 6, 12; Is 40, 6; Ger 25, 31; 12, 12; Zac 2, 17). L’espressione pasa psyche (ogni anima), viene utilizzata nella stessa maniera (Gios 10, 28, 30, 32, 35, 37; Gen 1, 21, 24; 2, 7; 19; 9, 10, 12, 15; Lev 11, 10). Nel Nuovo Testamento entrambe le espressioni pasa sarx (Mat 24, 22; Mc 13, 10; Lc 3, 6; Rom 3, 20; I Cor 1, 23; Gal 11, 16) e pasa psyche (At 2, 43; 3, 23; Rom 2, 9; 13, 1) vengono usate in perfetto accordo con il contesto vetero testamentario.
 Vediamo dunque, che per san Paolo, essere sarkikos (Rom 7, 14) e psychikos (I Cor 2, 14) significa esattamente la medesima cosa. “La carne e il sangue (sarx kai haima) non possono ereditare il regno di Dio” (I Cor 15, 50) poiché la corruzione non può ereditare l’incorruzione (Ibid.). Per tale ragione un soma psychikon è “seminato nella corruzione ma risuscitato nell’incorruzione; seminato nel disonore ma risuscitato nella gloria (I Cor 15, 42-49); seminato nella fragilità ma risuscitato nella forza”. “Viene seminato un soma psychikon e viene risorto un soma pneumatikon. Esiste un soma psychikon ed esiste un soma pneumatikon!” (I Cor 15, 44) Sia il sarkikon che lo psychikon sono dominati dalla morte e dalla corruzione e così non possono ereditare il regno di vita. Questo può riguardare solo il pneumatikon. “Non è precedente il pneumatikon. (l’elemento spirituale) bensì lo psychikon (quello animale). Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre, il secondo uomo, tratto dal cielo, è celeste” (I Cor 15, 46-47). Questo primo uomo diviene eis psychen zosan (un’anima vivente). Per Paolo ciò significa esattamente che diviene psychikon, e quindi soggetto alla corruzione (I Cor 15, 4) poiché “tratto dalla terra è terrestre…” (I Cor 15, 47). Tali espressioni non ammettono alcuna antropologia dualistica. Un soma psychikon “tratto dalla terra, terrestre o una psyche zosa “tratta dalla terra, terrestre” condurrebbero ad una grande confusione se li si collocasse in un contesto dove esiste un dualismo che pone una distinzione tra l’anima e il corpo, tra il basso e l’alto, tra il materiale e il puramente spirituale. D’altronde cosa dovrebbe essere una psyche zosa visto che proviene dalla terra ed è terrestre? Parlando della morte un dualista non potrebbe mai ammettere che un soma psychikon è seminato nella corruzione. Affermerebbe, semmai, che l’anima lascia il corpo il quale è l’unico ad essere seminato nella corruzione.
Né la psyche né il pneuma sono la parte intellettuale dell’uomo. Non abbiamo alcuna prova di ciò né citando I Cor 2, 11 (tis gar oiden anthropon ta tou anthropou ei me to pneuma tou anthropou to en auto?), né citando I Tes 5, 23 (Autos o Theos tea eirenes hagiasai hymas holoteleis, kai holokleron hymon to pneuma kai he psyche kai to soma amemptos en te parousia tou K. H. I. X. teretheie). Non si possono prendere queste espressioni isolandole dal resto degli scritti paolini per cercare di far parlare Paolo con un linguaggio dualistico tomista come fa, ad esempio, F. Prat ne La theologie de st. Paul, t. 2, pp. 62-63. Altrove, parlando contro la pratica di alcuni individui che pregano pubblicamente in lingue sconosciute, san Paolo dice: “Se io prego con un linguaggio sconosciuto prega il mio pneuma ma la mia mente rimane senza alcun frutto. Cos’ho, allora? Pregherò con il pneuma ma pregherò pure con la mente” Qui viene fatta un’acuta distinzione tra il pneuma e il nous (la mente) (I Cor 14, 14-15). Perciò per san Paolo il regno del pneuma non appartiene alla categoria della comprensione umana. È in un’altra dimensione.
Per esprimere l’idea d’intelletto o comprensione tutti i quattro evangelisti utilizzano la parola kardia (cuore) (Mat 13, 15; 15, 19; Mc 2, 6; 2, 8; 3, 5; 6, 52; 8, 17; Lc 2, 35; 24, 15; 24, 38; At 8, 22; 28, 27; Gv 12, 40). La parola nous (mente) è usata una volta sola da san Luca (Lc 24, 45). San Paolo, invece, utilizza entrambi i termini kardia (Rom 1, 21; 1, 24; 2, 5; 8, 27; 10, 1, 6, 8, 10; 16, 18; I Cor 4, 5; 7, 37; 14, 25; II Cor 3, 15; 4, 6; 9, 7; Ef 4, 18; 6, 22; Fil 4, 7; Col 2, 2; 3, 16; 4, 8; I Tes 2, 4; II Tes 2, 16; 3, 5; I Tim 1, 5; II Tim 2, 22) e nous (I Cor 14, 14-19; 2, 16; Rom 7, 23; 12, 2; Ef 4, 23; Tit 1, 15) per definire la facoltà dell’intelligenza. Il nous, comunque, non può essere ritenuto come se fosse le facoltà intellettuali di un’anima immateriale. Esso, piuttosto, è sinonimo di kardia che, a sua volta, è sinonimo di eso anthropon.
Lo Spirito Santo è inviato da Dio nel kardia (II Cor 1, 22; Gal 4, 6) o nell’eso anthropon (Ef 3, 16), e Cristo deve abitare nel kardia (Ef 3, 17). Il kardia e l’eso anthropon sono il luogo in cui dimora lo Spirito Santo. L’uomo si diletta nella legge di Dio secondo l’eso anthropon ma esiste un’altra legge nelle sue membra che muove guerra alla legge del nous (Rom 7, 22-23). Qui il nous è chiaramente sinonimo di eso anthropon che, a sua volta, è il kardia, luogo in cui abita lo Spirito Santo e Cristo (Ef 3, 16-17).                                      
Camminare nella vanità del nous con la dianoia ottenebrata rimanendo, quindi, alienati dalla vita di Dio attraverso l’ignoranza, è un risultato de “l’indurimento del cuore – dia ten perosin tes kardias” (Ef 4, 17-18). Il cuore è la sede della libera volontà umana ed è qui che l’uomo viene accecato (Rom 1, 21) e indurito (Ef 4, 18) a causa della propria scelta o, viceversa, illuminato nella sua comprensione dalla speranza, dalla gloria e dalla forza in Cristo (Ef 1, 18-19). È nel cuore che vengono colti i segreti umani (I Cor 14, 25) ed è qui che Cristo “darà luce ai luoghi nascosti nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori” (I Cor 4, 5).
Sarebbe assurdo interpretare l’utilizzo delle espressioni paoline eso anthropon e nous secondo un’antropologia dualistica ignorando l’uso della parola kardia la quale è in perfetto accordo con gli scritti del Nuovo e dell’Antico Testamento. Usando le parole nous e eso anthropon, Paolo ha certamente introdotto una nuova terminologia estranea all’uso tradizionale ebraico ma non ha introdotto alcuna nuova antropologia basata sul dualismo ellenistico. San Paolo non si riferisce mai né alla psyche né al pneuma come ad una falcoltà dell’intelligenza umana. La sua antropologia è ebraica, non ellenistica.
Sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento si trova l’espressione to pneuma tes zoes (lo spirito di vita), mai to pneuma zon (lo spirito vivente) (Tresmontant, Op. cit., p. 110). Si trova pure psyche zosa (l’anima vivente), mai psyche tes zoes (l’anima di vita) (Ibid.). Il motivo è semplice: la psyche, o la sarx, vivono solo per partecipazione mentre il pneuma è esso stesso principio di vita, dono di Dio affidato all’uomo (Eccl 12, 7). Inoltre, il pneuma “è il solo a possedere l’immortalità” (I Tim 6, 16). Dio dona all’uomo la propria vita increata senza distruggere la libertà umana. In tal modo, la persona non è una forma intellettuale modellata secondo un’essenza predeterminata o secondo un’idea universale di uomo. Il destino della persona non è quello di conformarsi ad uno stato d’automatica contentezza di fronte a Dio dove, per la completa autosoddisfazione e felicità, la volontà umana sia divenuta sterile ed immobile (come, ad esempio, nell’insegnamento neoplatonico di sant’Agostino e, generalmente, nel concetto sull’umano destino da parte dei tomisti cattolico-romani). La personalità dell’uomo non consiste in un’anima immateriale ed intellettuale che ha vita in se stessa e utilizza il corpo semplicemente come luogo da abitare. La sarx o la psyche sono la totalità dell’uomo mentre il kardia è il centro dell’intelligenza. La volontà conserva un’integra indipendenza e può scegliere se indurirsi davanti alla verità o divenire interiormente ricettiva all’illuminazione divina. Il pneuma dell’uomo non è il centro della personalità umana, non è neppure la facoltà che regola le sue azioni quanto, piuttosto, la scintilla di vita divina donata all’uomo come proprio principio vitale. In tal modo, l’uomo può vivere secondo il pneuma tes zoes o secondo la legge della carne che significa morte e corruzione. La vera personalità dell’uomo, comunque, benché creata da Dio rimane al di fuori dell’essenza divina e mantiene una completa libertà. Questo significa che l’uomo può giungere a respingere l’atto creativo per il quale non è stato consultato, o ad accogliere l’amore creativo di Dio vivendo secondo il pneuma, datogli per tale scopo.
“I desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello spirito portano alla vita e alla pace” (Rom 8, 6) Coloro che vivono secondo la carne avranno la morte (Rom 8, 13). Coloro che mortificano i desideri della carne, attraverso lo spirito, avranno la vita (Ibid.). Lo spirito dell’uomo, privato dello Spirito vivificante di Dio, è particolarmente debole dinnanzi alla carne dominata dalla morte e dalla corruzione (Rom 8, 9): “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rom 7, 24). Ma “la legge del pneumatos tes zoes (dello Spirito che dà vita) in Gesù Cristo ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 2). Solo coloro il cui spirito è stato rinnovato (Rom 7, 6) dall’unione con lo Spirito di Dio (Rom 8, 9) possono combattere i desideri della carne. Solo coloro che hanno ricevuto lo Spirito di Dio ed ascoltato la Sua voce nella vita del corpo di Cristo sono abilitati a lottare contro il peccato. “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rom 8, 16).
Benché Dio abbia donato all’uomo il principio di vita (lo spirito), egli può ancora partecipare fragilmente alle opere della carne. Per tale ragione è necessario che i cristiani si guardino non solo dalla fragilità della carne ma pure da quella dello spirito (II Cor, 7, 1). Il battesimo, in cui avviene l’unione tra lo spirito dell’uomo e quello di Dio, non garantisce magicamente l’impossibilità di un’eventuale separazione. Divenire nuovamente schiavi alle opere della carne può seriamente comportare l’esclusione dal corpo di Cristo (Rom 11, 21; I Cor 5, 1-13; II Tes 3, 6; 3, 14; II Tim 3, 5). L’uomo riceve lo Spirito di Dio in modo che Cristo possa dimorare nel suo cuore (II Cor 1, 22; Gal 4, 6; Ef 3, 16-17). “Voi però non siete sotto il dominio della carne ma dello spirito dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi” (Rom 8, 9). Se lo Spirito di Dio dimora nel corpo dell’uomo significa pure che egli è membra del corpo di Cristo. Essere privati del primo significa essere esclusi dall’altro. È impossibile rimanere in comunione soltanto con una parte di Dio. La comunione con Cristo, attraverso lo Spirito, è la comunione con l’intera Divinità. Escludere una Persona significa escludere tutte le tre Persone.
“Le opere della carne sono manifeste…” (Gal 5, 19) “Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. Coloro che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio” (Rom 8, 7-8). Sono così, le persone schiavizzate al potere della morte e della corruzione nella carne. Esse devono essere salvate da “questo corpo di morte” (Rom 7, 13-25). D’altra parte coloro che sono stati seppelliti con Cristo attraverso il battesimo sono morti al corpo del peccato e vivono in Cristo (Rom 6, 1-14). Nessuno vive più secondo i desideri della carne ma secondo quelli dello Spirito. “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri” (Gal 5, 22-24).
È chiaro che, per san Paolo, l’unione dello spirito dell’uomo con lo Spirito di Dio nell’esistenza d’amore del corpo di Cristo è vita e salvezza. D’altra parte, vivere aderendo ai desideri della carne dominata dai poteri della morte e della corruzione significa morire: “i desideri della carne portano alla morte” (Rom 8, 6). San Paolo in tutte le sue epistole utilizza le categorie di vita e morte. Dio è vita mentre il Diavolo tiene le redini della morte e della corruzione. L’unità con Dio nello Spirito, attraverso il corpo di Cristo nella vita agapica, significa esistere veramente ricevendo salvezza e perfezione. La separazione dello spirito umano dalla vita divina nel corpo di Cristo comporta la schiavitù ai poteri della morte e della corruzione. Tali poteri sono adoperati dal Diavolo per distruggere le opere di Dio. La vita dello Spirito è unità e amore. La vita secondo la carne è disunione e dissoluzione nella morte e nella corruzione.
È assolutamente necessario afferrare il significato con il quale san Paolo utilizza i termini di sarx, psyche e pneuma per evitare la diffusa confusione dominante nel campo delle indagini sulla teologia paolina. San Paolo non parla mai in termini di anime razionali immateriali contrarie a dei corpi materiali. La sarx e la psyche sono sinonimi e formano, con il pneuma, l’intero uomo. Vivere secondo il pneuma non è seguire gl’istinti più bassi dell’uomo. Vivere secondo la sarx o psyche significa seguire la legge della morte contrariamente a chi, vivendo secondo lo spirito, vive la legge della vita e dell’amore.
Coloro che sono sarkikoi non possono vivere secondo il loro originario destino d’amore altruistico verso Dio e il prossimo, poiché sono dominati dal potere della morte e della corruzione. “Il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56). Il peccato ha regnato con la morte (Rom 5, 21). La morte è l’ultimo nemico ad essere distrutto (I Cor 15, 26). Tanto in quanto l’uomo vive secondo la legge della morte, nella carne, non può piacere a Dio (Rom 8, 8) poiché non vive secondo la legge della vita e dell’amore. “Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero” (Rom 8, 7). La liberazione dai poteri della morte e della corruzione è venuta da Dio che ha inviato il proprio Figlio “in una carne simile a quella del peccato” per liberare l’uomo “dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 1-11).
Ma benché la forza della morte e del peccato sia stata distrutta dalla morte e dalla risurrezione di Cristo, la partecipazione a questa vittoria può venire solo attraverso la morte a questo mondo con Cristo nell’acqua del battesimo (Rom 6, 1-14). È solo morendo nel battesimo e continuando a morire alla mentalità e ai costumi del mondo che i membri del corpo di Cristo divengono perfetti come Dio è perfetto.
L’importanza che san Paolo attribuisce al rifiuto della mentalità mondana per vivere secondo “lo spirito di vita” non può essere esagerata. Cercare di presentare la sua insistenza sul radicale rifiuto della mondanità in vista della salvezza come se fosse il prodotto d’un entusiasmo escatologico, significa smarrire completamente la vera base del messaggio neotestamentario. Se la distruzione del Diavolo, della morte e della corruzione ha significato la salvezza e l’unica condizione per vivere secondo l’originale destino dell’uomo, il significato d’essere passati dal regno della morte e delle sue conseguenze a quello della vita nella vittoria di Cristo sulla morte stessa, dev’essere considerato molto seriamente. Per Paolo passare dalla morte alla vita significa essere in comunione con la morte e la vita di Cristo nel battesimo vivendo continuamente nel corpo di Cristo. La nuova vita nel corpo di Cristo, comunque, dev’essere costantemente contraddistinta da un quotidiano morire alla mentalità di questo mondo, dominato dalla legge della morte e della corruzione e posto nelle mani dal Diavolo. La partecipazione alla vittoria sulla morte non deriva semplicemente dal possesso d’una magica fede e da un vago e generico sentimento d’amore verso l’umanità (Lutero). La totale appartenenza al corpo di Cristo può essere realizzata solo morendo nelle acque del battesimo con Cristo stesso e vivendo secondo la legge dello “spirito di vita”. I catecumeni e i penitenti hanno certamente la fede ma non sono ancora passati attraverso la morte del battesimo alla nuova vita. Non sono nella nuova vita neppure coloro che, dopo essere morti alla carne nel battesimo, non hanno perseverato permettendo, in tal modo, al potere della morte e della corruzione di prevalere sullo “spirito di vita”.
Riguardo all’insegnamento paolino concernente la morte battesimale alla mentalità mondana è interessante notare l’utilizzo che egli fa della parola soma per designare la comunione tra coloro che, in Cristo, costituiscono la Chiesa. Il termine soma in entrambi i Testamenti, a parte Paolo, è prevalentemente usato per designare una persona morta o un cadavere (Cfr. Mt 5, 29; 10, 28; 14, 12; 26, 12; 27, 52; 58, 59; Mc 14, 18; 15, 43; 15, 45; Lc 12, 4; 23, 52; 24, 3-23; Gv 2, 21; 19, 31, 38, 40; 20, 12; At 9, 40; I Pt 2, 24; Gd 9). Nell’Ultima Cena, nostro Signore ha utilizzato la parola soma per designare, molto probabilmente, il suo passaggio attraverso la morte. Analogamente ha utilizzato il termine haima per mostrare il suo ritorno alla vita poiché, nell’Antico Testamento, il sangue è un elemento designante la vita (Westcott, Commentary on the Epistle to Hebrews). In tal modo nell’Ultima Cena, come in ogni Eucarestia, c’è la proclamazione e la confessione della morte e della resurrezione di Cristo. Secondo i presupposti rinvenibili nei discorsi paolini riguardo alla morte battesimale, è possibilissimo descrivere la Chiesa come il soma di Cristo non solo per l’inabitazione di Cristo stesso e dello Spirito nei corpi dei cristiani ma pure perché tutti i membri di Cristo sono morti al corpo del peccato nelle acque battesimali. Prima di condividere la vita di Cristo è necessario divenire un vero soma liberato dal Diavolo morendo alla mentalità di questo mondo e vivendo secondo lo “spirito” (l’uso paolino del termine soma non è sempre consistente. Tuttavia non viene mai utilizzato in un contesto dualistico per distinguere il corpo dall’anima. Al contrario, Paolo usa frequentemente soma come sinonimo di sarx (I Cor 6, 16; 7, 34; 13, 3; 15, 35-58; II Cor 4, 10-11; Ef 1, 20-22; 2, 15; 5, 28 ss.; Col 1, 22-24). Se la sua antropologia fosse dualistica non sarebbe logico utilizzare il termine soma per designare la Chiesa e kephale tou somatos (capo del corpo) per designare Cristo. Sarebbe molto più normale denominare la Chiesa con il termine di corpo e presentare Cristo come l’anima di tale corpo).

Osservazioni sintetiche
San Paolo non dice in alcun passo che l’intero genere umano è considerato colpevole del peccato di Adamo ed è stato quindi punito con la morte. La morte è una forza cattiva entrata nel mondo attraverso lo stesso peccato radicato nel mondo e regna nella creazione a causa di Satana. Per questa ragione, benché l’uomo possa conoscere le cose buone attraverso la legge scritta nel suo cuore e possa operare quant’è bene, ne è impedito a causa del peccato dimorante nella sua carne. Perciò non è lui che fa il male ma è il peccato che dimora in lui. A causa di questo peccato egli non può trovare la maniera per operare il bene. Deve quindi essere salvato da “questo corpo di morte” (Rom 7, 13-25). Solo in seguito può fare il bene. Cosa vuole dire Paolo attraverso queste affermazioni? Un’appropriata risposta può essere fondata solo quando si tiene in considerazione la dottrina paolina sul destino umano.
Se l’uomo fosse stato creato per una vita di completo amore altruista le sue azioni sarebbero state guidate sempre da un motivo esterno. Si sarebbero mosse sempre verso Dio e il prossimo, mai verso il soggetto agente. Così ci sarebbe stata una perfetta immagine e somiglianza di Dio. È ovvio che il potere della morte e della corruzione ha impossibilitato la persona a vivere una tale vita di perfezione. Il potere della morte nell’universo ha portato con sé la volontà dell’autoconservazione, la paura e l’inquietudine (Ebr 2, 14-15) che, a loro volta, sono la radice e la causa dell’autoasservimento, dell’egoismo, dell’odio, dell’invidia e d’altri simili sentimenti. Poiché l’uomo ha paura di divenire insignificante, si sforza continuamente mettendosi alla prova, davanti a se stesso e agli altri, per mostrare che vale qualcosa. Ha sete di complimenti e paura d’insulti. Cerca il proprio successo ed è geloso di quello degli altri. Gli piacciono le persone come lui e odia coloro che lo odiano. Egli cerca la sicurezza e la felicità nella ricchezza, insegue la gloria e i piaceri fisici e immagina che il suo destino consista nell’essere felice nel possesso della presenza di Dio. La fruizione egoistica di Dio viene immaginata a causa della sua introversa e individualistica personalità incline all’errore e all’egocentrico desiderio di soddisfazione e felicità ritenute come proprio normale destino. D’altra parte egli può divenire premuroso su vaghi principi ideologici d’amore verso l’umanità e continuare, poi, ad odiare i suoi vicini più prossimi. Queste sono le opere della carne delle quali san Paolo parla (Gal 5, 19-21). Sotto ogni azione di colui che il mondo conosce come “l’uomo normale”, esiste la ricerca della sicurezza e della felicità. Ma tali desideri non sono normali. Sono la conseguenza della perversione causata dalla morte e dalla corruzione, attraverso la quale il Diavolo invade tutta la creazione, dividendola e distruggendola. Questo potere è così grande che se l’uomo vuole vivere secondo il suo originale destino ne è impedito a causa del peccato che abita nella sua carne (Rom 7): “Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom 7, 24.).
Condividere l’amore di Dio, senza qualche concessione per se stessi, significa pure condividere la vita e la verità di Dio. L’amore, la vita e la verità in Dio sono una cosa sola e possono essere fondate solo in Lui. Allontanarsi dall’amore di Dio e del prossimo significa rompere la comunione con la vita e la verità divine, che non possono essere separate dal Suo amore. La rottura di questa comunione con Dio può essere consumata solo nella morte, poiché nulla di creato può continuare indefinitamente ad esistere per se stesso (Sant’Atanasio, Op. cit., 4-5). Così, a partire dalla trasgressione del primo uomo, il principio del “peccato (il Diavolo) è entrato nel mondo ed attraverso la morte il peccato, e così la morte ha raggiunto tutti gli uomini.” (Rom 5, 12). Non solo l’umanità ma tutta la creazione è stata soggetta alla morte e alla corruzione dal Diavolo (Rom 8, 20-22). Poiché l’uomo è parte inseparabile della creazione, mantiene con essa una continua comunione ed è collegato con la procreazione all’intero processo storico dell’umanità, la caduta della creazione attraverso un uomo coinvolge automaticamente tutti gli uomini nella caduta e nella corruzione. È attraverso la morte e la corruzione che tutta l’umanità e la creazione è tenuta prigioniera dal Diavolo venendo coinvolta nel peccato, perché è attraverso la morte che l’uomo decade dal suo originale destino che consisteva nell’amare Dio e il prossimo senza alcun egoismo. L’uomo non muore perché è colpevole per il peccato di Adamo (Cfr. San Giovanni Crisostomo, Migne, P.G. t. 60, col. 391-692; Theophylactos, Migne, P.G. t. 124, c. 404-405). Diviene peccatore [e quindi mortale] perché è assoggettato al potere del Diavolo attraverso la morte e le sue conseguenze (Cfr. Cirillo di Alessandria, Migne, P. G. t. 74, c. 781-785 e specialmente c. 788-789; Teodoreto di Ciro, Migne, P.G. t. 66, c. 800).
San Paolo dice chiaramente che “il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56), che “il peccato ha regnato nella morte” (Rom 5, 21) e che la morte è “l’ultimo nemico ad essere distrutto” (I Cor 15, 26). Nelle sue epistole, è particolarmente ispirato quando parla della vittoria di Cristo sulla morte e la corruzione. Sarebbe veramente illogico cercare d’interpretare il pensiero paolino attraverso i presupposti:

    1) che la morte è normale o che, al più,
    2) è la conseguenza d’una decisione giuridica divina di punire l’intera umanità per un peccato;
    3) che la felicità è l’ultimo destino dell’uomo e che
    4) l’anima è immateriale, naturalmente immortale e direttamente creata e concepita da Dio. Perciò essa sarebbe normale e scevra da difetti (scolasticismo romano).

La dottrina paolina dell’uomo sull’incapacità a fare il bene che la persona è in grado di riconoscere secondo l’“uomo interiore”, può essere capita solo se si prende seriamente in considerazione il potere della morte e della corruzione nella carne, che rende impossibile all’uomo una vita secondo il proprio destino originale.
Il problema moralistico esposto da sant’Agostino riguardo la trasmissione della morte ai discendenti di Adamo come punizione per una trasgressione originale è estraneo al pensiero paolino. La morte di ciascun uomo non può essere considerata la conseguenza d’una colpa personale. San Paolo non pensa come un filosofo moralista che cerca la causa della caduta dell’umanità e della creazione nella rottura di oggettive regole di buon comportamento, rottura che esige la punizione di un Dio la cui giustizia è ad immagine della giustizia di questo mondo. Paolo pensa chiaramente alla caduta nei termini di una guerra personale tra Dio e Satana, nella quale Satana non è obbligato a seguire alcuna sorta di regole morali se può essergli di vantaggio. È per questa ragione che san Paolo può affermare che il serpente “ha ingannato Eva” (II Cor 11, 3) e che “non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione” (I Tim 2, 14). L’uomo non è stato punito da Dio, ma reso prigioniero dal Diavolo.
Questa interpretazione è promossa dalla chiara insistenza paolina che “fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo” (Rom 5, 13-14). È chiaro che Paolo nega qualche cosa come una colpa generale personale per il peccato di Adamo. Il peccato rimase comunque nel mondo, visto che la morte ha regnato pure su quelli che non avevano peccato oltre che in Adamo che aveva peccato. Qui il peccato significa evidentemente la persona di Satana, che ha regnato nel mondo attraverso la morte pure prima dell’arrivo della legge. Questa è la sola possibile interpretazione del presente passo, poiché tale spiegazione è chiaramente sostenuta altrove negli insegnamenti paolini a proposito dei poteri straordinari del Diavolo, specialmente in Romani 8, 19-21. Le asserzioni di san Paolo dovrebbero essere prese molto letteralmente quando afferma che l’ultimo nemico ad essere distrutto sarà la morte (I Cor 15, 26) e che “il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56).
Da quanto è stato osservato la famosa espressione eph’ho pantes hemarton (Rom 5, 12) può essere sicuramente interpretata in riferimento al termine thanatos che la precede il quale è l’unica parola che si adatta al significato del testo. Riferire eph’ho ad Adamo è impossibile sia grammaticamente che esegeticamente. Simile interpretazione fu inizialmente introdotta da Origene che la assunse, evidentemente, poiché aveva determinati presupposti mentali: credeva nella preesistenza di tutte le anime. Per tale motivo Origene avrebbe facilmente affermato che tutte le anime hanno peccato in Adamo. L’interpretazione di eph’ho come “perché” fu introdotta in Oriente per la prima volta da Fozio (Amphilochia, heroteseis, 84, Migne, P.G. t. 101, c. 553-556). Egli affermò che in tal passo esistono due prevalenti interpretazioni – Adamo e thanatos –. Fozio, tuttavia, propendeva per dioti (perché) fondando le sue argomentazioni su un’errata interpretazione di II Cor 5, 4 dove, anche qui, ritenteva eph’ho con il senso di dioti. Tuttavia, in questo passo, è veramente chiaro che eph’ho si riferisce a skensi (eph’ho skenei ou thelomen ekdysasthai). Fozio cerca d’interpretare san Paolo in un contesto di leggi morali naturali e perciò cerca di giustificare la morte di tutti gli uomini a causa d’una colpa personale. Afferma, quindi, che tutti gli uomini muoiono perché seguono i passi di Adamo (Ecumenius, extracts from Photius, Migne, P.G. t. 118, c. 418). In ogni evenienza né lui né i Padri orientali accettano l’insegnamento secondo il quale tutti gli uomini sono colpevoli per il peccato adamitico.
Anche con le sole considerazioni grammaticali non è possibile interpretare eph’ho con riferimento ad altra parola oltre che a thanatos. In ogni epoca la costruzione grammaticale della preposizione epi col dativo usata da Paolo, è sempre stata impiegata come pronome relativo per modificare il nome (Rom 9, 33; 10, 19; 15, 12; II Cor 5, 4; Rom 6, 21) o la frase (Fil 4, 10) precedenti. Fare un’eccezione in Romani 5, 12 ritenendo che san Paolo utilizzi un’errata espressione greca per intendere “perché” significa non considerare questa realtà. L’interpretazione corretta di tale passo, sia grammaticamente che esegeticamente, può essere ottenuta solo quando eph’ho è colto per modificare thanatos – kai houtos eis pantas anthropous ho thanatos dielthen eph’ho (thanato) pantes hemarton – “poiché della quale” (morte), o “sulla base della quale” (morte), o “per la qual (morte) ognuno ha peccato”. Satana, essendo lui stesso principio del peccato, attraverso la morte e la corruzione coinvolge tutta l’umanità e la creazione nel peccato e nella morte. Così, essere sotto il potere della morte, secondo Paolo, significa essere peccatore e schiavo del Diavolo, per l’incapacità della carne a vivere secondo la legge di Dio, cioè secondo un amore altruista.
La teoria della trasmissione del peccato originale e della colpa non è sicuramente fondata in san Paolo, che non può essere interpretato né in termini giuridicisti né in termini dualisti i quali operano una distinzione tra una dimensione materiale e una seconda dimensione ritenuta pura e spirituale, parte intellettuale dell’uomo. Non bisogna meravigliarsi se alcuni studiosi biblici sono impotenti quando non possono trovare nell’Antico Testamento qualche chiaro appiglio per sostenere quella che pretendono essere la dottrina paolina sul peccato originale nei termini di una colpa morale e di una punizione (Cfr. Lagrange, Epitre aux Romains, p. 117-118; Sanday and Headlam, Romans, p. 136-137). Identica perplessità viene espressa da molti moralistici studiosi occidentali quando approfondiscono il pensiero dei Padri orientali (A. Gaudel, Peché Originel in “Dictionaire de Theologie Catholique”, t. XII, prèmiere partie). Di conseguenza, sant’Agostino è popolarmente ritenuto il primo e l’unico antico Padre ad avere capito la teologia di san Paolo. Ma ciò è chiaramente un mito dal quale sia i protestanti che i cattolico-romani hanno bisogno d’essere liberati.
Solo quando si capisce il significato della morte e le sue conseguenze si può capire la vita della Chiesa antica e, specialmente, il suo atteggiamento verso il martirio. Essendo già morti al mondo nel battesimo e avendo nascosto la loro vita con Cristo in Dio (Col 3, 3), i cristiani non potevano esitare di fronte alla morte. Erano già morti ma vivevano ancora in Cristo. Avere paura della morte significava essere ancora sotto il potere del Diavolo (II Tim 1, 7): “In Dio non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di forza, d’amore e di saggezza”. Cercando di convincere i cristiani di Roma a non impedire il loro martirio, sant’Ignazio scrive: “Il principe di questo mondo vorrebbe rassegnarmi ad allontanarmi corrompendo la mia disposizione verso Dio. Perciò nessuno di voi che è in Roma lo aiuti” (San’Ignazio, Epistola ai Romani c. 7). La controversia ciprianense sul rinnegamento di Cristo durante i periodi di persecuzione è stata violenta, proprio perché la Chiesa capiva che era una contraddizione morire nel battesimo e poi negare Cristo per paura della morte e della tortura. I canoni della Chiesa, benché oggi generalmente non vengano considerati per illuminare la comprensione dell’intima fede nella Chiesa antica, sono ancora molto severi verso coloro che rigettano la fede per paura della morte (Canone 10°, primo Concilio Ecumenico; 62° Canone apostolico; 1° Canone, Concilio di Angyra, 313-314; 1° Canone, Pietro d’Alessandria). Un tale atteggiamento verso la morte non è il prodotto d’una frenesia escatologica e d’un entusiasmo, quanto piuttosto d’un chiaro riconoscimento di ciò che il Diavolo è, di ciò che i suoi pensieri sono (II Cor 2, 11), di ciò che sono i suoi poteri sopra l’umanità e la creazione e di come vengano distrutti attraverso il battesimo e la mistagogica vita nel corpo di Cristo che è la Chiesa. Oscar Cullman si è seriamente sbagliato quando ha cercato di far dire agli agiografi neotestamentari che Satana e i demoni sono stati privati del loro potere e che ora “leur puissance n’est qu’apparente” (O. Cullman, Christ et le temps, p. 142). Il maggior potere del Diavolo è la morte, che sarà distrutta solo nel corpo di Cristo, dove il fedele è impegnato continuamente nella lotta contro Satana sforzandosi di praticare un amore altruista. Questo combattimento contro il Diavolo e lo sforzo per praticare un amore altruista è concentrato nella vita eucaristica sociale della comunità locale. “Poiché quando vi riunite frequentemente epi to auto (nello stesso luogo) i poteri di Satana sono distrutti. La distruzione alla quale egli tiene è impedita dall’unità della vostra fede” (San’Ignazio, Epistola agli Efesini, c. 13). Allora, se qualcuno non sente la chiamata dello Spirito in sé per la vita sociale dell’amore altruista nell’assemblea eucaristica, è evidentemente sotto l’influsso del Diavolo. “Colui che non si riunisce con la Chiesa ha, con ciò, manifestato il suo orgoglio e condannato se stesso…” (Ibid. c. 5). Il mondo al di fuori della vita sociale d’amore nei sacramenti, è ancora sotto il potere delle conseguenze della morte e, perciò, è schiavo del Diavolo. Il Diavolo è stato già sconfitto dal momento in cui il suo potere è stato distrutto dalla nascita, vita, morte e risurrezione di Cristo. Questa sconfitta continua solo nel resto di coloro che sono stati salvati prima e dopo Cristo. Sia coloro che sono stati salvati prima di Cristo che coloro che sono stati salvati dopo di Lui lo debbono alla Sua morte e risurrezione. Essi fanno parte della Nuova Gerusalemme. Contro questa Chiesa il Diavolo non può prevalere e, per questo fatto, è già stato sconfitto. Tuttavia il suo potere al di fuori di coloro che sono stati salvati rimane lo stesso (Ef 2, 12; 6, 11-12; II Tes 2, 8-12). Satana è ancora “il dio di questo mondo” (II Cor 4, 4) ed è per questa ragione che i cristiani devono vivere come se non vivessero nel mondo (Col 2, 20-23).                  

Conclusioni                                    
Lo studioso biblico non potrà mai essere obiettivo se il suo esame teologico viene influenzato o diretto da determinati pregiudizi filosofici. La moderna scuola di critica biblica lavora chiaramente in una falsa direzione quando vuole giungere all’essenziale forma originale del kerygma rimanendo all’ocuro dell’essenza vetero e neotestamentaria riguardo allo stato decaduto dell’umanità e della creazione, specialmente quando trascura gli insegnamenti sulla natura di Dio e su quella di Satana. Così nelle tendenze anti-liberali del moderno protestantesimo, viene accolto il metodo di critica biblica e, allo stesso tempo, si cerca di salvare quello che si ritiene essere l’essenziale messaggio degli evangelisti. D’altronde gli studiosi di questa scuola in tutto il loro metodo pseudo scientifico di ricerca, mancano di giungere alle mie identiche conclusioni perché rifiutano ostinatamente di considerare seriamente la dottrina biblica su Satana, sulla morte e la corruzione. Per questa ragione la questione se il corpo di Cristo è risuscitato realmente o no, non viene ritenuta importante (cfr. E. Brunner, Il Mediatore). Quello che per loro è importante è la fede in Cristo quale unico salvatore della storia anche se, molto probabilmente, Egli non è storicamente risorto. Come si salva e da cosa vengono salvati gli uomini è, presumibilmente, una questione secondaria.
È chiaro che per san Paolo la risurrezione fisica di Cristo significa la distruzione del Diavolo, della morte e della corruzione. Cristo è la primizia dei risorti (I Cor 15, 23). Se non esiste alcuna risurrezione non ci può essere assolutamente salvezza (I Cor 15, 12-19). Solo una vera risurrezione può distruggere il potere di Satana dal momento che la morte è una conseguenza dell’interruzione della comunione con la vita e l’amore di Dio e, quindi, è la consegna dell’uomo e della creazione al Diavolo. È impreciso e poco profondo cercare di fare passare per biblica l’idea che la questione sulla reale risurrezione fisica è di secondaria importanza. Al centro del pensiero biblico e patristico esiste chiaramente una cristologia nella quale si considera un’unione reale con Dio condizionata dalla dottrina biblica su Satana, sulla morte, sulla corruzione e sul destino umano. Satana governa materialmente e psichicamente attraverso la morte. Anche la sua sconfitta deve dunque essere materiale e fisica. La restaurazione della comunione non deve coinvolgere solo l’atteggiamento mentale ma, cosa ben più importante, deve passare attraverso la creazione della quale l’uomo è parte inseparabile. Senza una chiara comprensione della dottrina biblica su Satana e sul suo potere è impossibile capire la vita sacramentale del corpo di Cristo. Proprio per questo la dottrina dei Padri riguardo la cristologia e la Trinità diviene un’insignificante speculazione affidata agli specialisti scolastici. Sia gli scolastici cattolico-romani che i protestanti sono innegabilmente eretici nelle loro dottrine sulla grazia e sull’ecclesiologia semplicemente perché non vedono che la salvezza è unicamente l’unione dell’uomo con la vita di Dio nel corpo di Cristo dove il Diavolo viene ontologicamente e realmente distrutto nella vita agapica. Al di fuori della vita d’unità con Cristo nei sacramenti e nell’unione agapica non esiste alcuna salvezza, poiché il Diavolo domina ancora il mondo attraverso le conseguenze della morte e della corruzione. Le organizzazioni extra-sacramentali come il papato non possono essere viste come l’essenza del cristianesimo perché giacciono chiaramente sotto l’influenza di convenienze mondane e non hanno come loro unico scopo una vita d’amore altruista. Nel cristianesimo occidentale i dogmi della Chiesa sono divenuti oggetto d’esercizi “logico-ginnici” nelle classi di filosofia. La cosiddetta ragione naturale umana fa da base alla teologia rivelata. Gli insegnamenti della Chiesa riguardo alla Santa Trinità, alla cristologia e alla Grazia non sono accolti per quello che sono: espressione della continua ed esistenziale esperienza del corpo di Cristo che vive della stessa vita trinitaria attraverso la natura umana del Salvatore nella cui carne è stato distrutto il Diavolo e contro il cui corpo (la Chiesa) le porte della morte (Ade) non possono prevalere.
Oggi la missione della teologia ortodossa consiste nel portare un risveglio all’interno del cristianesimo occidentale. Per fare efficaciemente ciò il cristiano ortodosso deve riscoprire le proprie tradizioni e cessare, una volta per tutte, di assumere le corrodenti infiltrazioni della confusione teologica occidentale nella teologia ortodossa. È solo ritornando alla comprensione biblica di Satana e del destino umano che i sacramenti della Chiesa possono nuovamente divenire la fonte e la forza della teologia ortodossa. Il nemico della vita e dell’amore può essere distrutto solo quando i cristiani possono confidenzialmente affermare: “Non siamo all’oscuro dei suoi pensieri” (II Cor 2, 11). Una teologia che non può definire con esattezza i metodi e le falsità del Diavolo è chiaramente eretica perché è già stata ingannata dal Diavolo stesso. È per questa ragione che i Padri potrebbero asserire che quell’eresia è un prodotto del Demonio.

“SACERDOTI, FORGIATORI DI SANTI PER IL NUOVO MILLENNIO” SULLE ORME DELL’APOSTOLO PAOLO

 http://www.clerus.org/clerus/dati/2004-10/20-13/11MAIT.htm

CONGREGATIO PRO CLERICIS

Universalis Presbyterorum Conventus

“SACERDOTI, FORGIATORI DI SANTI PER IL NUOVO MILLENNIO” SULLE ORME DELL’APOSTOLO PAOLO 

 Santità cristocentrica del Sacerdote

  Mons. Juan Esquerda Bifet

Conferenza, Malta, 20 ottobre 2004

Indice:
Presentazione: Linea cristocentrica della santità del sacerdote, requisiti, possibilità e ministero.

Chiamati a essere trasparenza della vita e dei modi di tradurre in vita Cristo Buon Pastore
Chiamati a essere maestri e forgiatori di santi, innamorati di Cristo
Alcune osservazioni sulla santità sacerdotale all’inizio del terzo millennio

Linee conclusive

* * * *
Presentazione: Linea cristocentrica della santità del sacerdote, requisiti, possibilità e ministero.
             Il titolo della nostra riflessione (la santità cristologica del sacerdote) ci colloca in un’attitudine relazionale con Cristo Risorto, sempre presente nel nostro percorso storico ed ecclesiale. Quando diciamo “santità” ci riferiamo al desiderio profondo di Cristo di vedere in noi la sua espressione, il suo segno personale, la sua trasparenza: “Io sono glorificato in loro … Santificali nella verità: la tua Parola è verità … Per loro io santifico me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17, 10, 17, 19). La dimensione cristocentrica o cristologica è connaturale alla santità cristiana e sacerdotale.
            Essere sacerdote e, allo stesso tempo, non essere o non desiderare di essere santo, sarebbe una contraddizione teologica, dal momento che l’essere e l’operare sacerdotale, visti come partecipazione e prolungamento dell’essere e dell’operare di Cristo, comportano il tradurre in vita ciò che siamo e ciò che facciamo. Questa santità sacerdotale è possibile.[1]
            La “santità” fa riferimento alla realtà divina, perché soltanto Dio è il “tre volte Santo” (Is 6, 3), il Trascendente, il Dio Amore. Gesù è l’espressione personale del Padre (cf. Gv 14, 9). Noi cristiani siamo chiamati ad essere “espressione” di Cristo, “figli nel Figlio” (Ef 1, 5; cf. GS 22).
            Noi sacerdoti, ministri ordinati, siamo l’espressione o il segno personale e sacramentale di Gesù Sacerdote e Buon Pastore. La santità ha un senso “relazionale”, di appartenere affettivamente ed effettivamente a colui che è il Santo per eccellenza. Siamo “ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4, 1). Il sacerdote ministro è “uomo di Dio” (1 Tim 6, 11).
            La “santità” del sacerdote possiede, quindi, una dimensione cristocentrica o cristologica, e precisamente per questo possiede anche una dimensione trinitaria, pneumatologica, ecclesiologica e antropologica. La dimensione cristologica della santità sacerdotale è, di conseguenza, mariana, contemplativa e missionaria. Si tratta dunque di un cristocentrismo inclusivo, non esclusivo, dal momento che rimane aperto a tutte le dimensioni teologiche, pastorali e spirituali. Attraverso il “carattere” o grazia permanente dello Spirito Santo, ricevuto nel sacramento dell’Ordine, partecipiamo dell’unzione sacerdotale di Cristo (inviato dal Padre e dallo Spirito), prolunghiamo la sua stessa missione nella Chiesa e nel mondo e, conseguentemente, siamo chiamati a vivere in sintonia con gli stessi gesti di vita di Cristo.
            In questa prospettiva cristologica, parlare di santità non equivale, dunque, a parlare di un peso, bensì di una dichiarazione d’amore, sperimentata e accettata affettivamente e responsabilmente. Dobbiamo e possiamo essere santi e aiutare gli altri a essere santi, per ciò che siamo e per ciò che facciamo, vale a dire, attraverso la partecipazione alla consacrazione di Cristo e attraverso il prolungamento della sua stessa missione. Cristo ci ha scelti per una sua iniziativa d’amore (cf. Gv 15, 16) e, conseguentemente, ci ha resi in grado di rispondere in modo coerente a quello stesso amore. La nostra vita è chiamata alla santità ed è, allo stesso tempo, ministero di santità. Siamo forgiatori di santi.[2]
            Decidersi a essere “santi” non significa nulla di più che impegnarsi a essere coerenti con l’esigenza di una relazione personale con Cristo, che comprende il condividere la sua stessa vita, imitarla, trasformarsi in lui, farlo conoscere e amare. Questo equivale a “mantenere lo sguardo fisso in Cristo” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 5) per poter pensare, sentire, amare, operare come lui. “Il riferimento a Cristo, quindi, è la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali” (PDV 12). Questa santità è possibile.[3]

1.CHIAMATI A ESSERE TRASPARENZA DELLA VITA E DEI MODI DI TRADURRE IN VITA CRISTO BUON PASTORE
 La dimensione cristocentrica della santità sacerdotale ci colloca in una relazione profonda di amicizia con Cristo. Siamo stati chiamati per sua iniziativa (cf. Gv 15, 16). Egli ci ha chiamati uno ad uno, ci ha chiamati per “nome”, per poter partecipare del suo stesso essere Sacerdote-Vittima, Pastore, Sposo, Capo e Servo.[4]
Questa dimensione cristocentrica aiuta a entrare nella dinamica interna della propria identità: siamo chiamati a un incontro che si trasforma in relazione profonda, si concretizza in sequela per condividere il suo stesso stile di vita, si vive in fraternità (comunione) con gli altri chiamati e orienta l’intera esistenza alla missione. Quindi, in questa santità vanno inclusi tutti gli aspetti della vocazione: incontro, sequela, fraternità e missione evangelizzatrice.
            La dinamica relazionale si basa su una realtà ontologica: partecipiamo al suo essere (consacrazione), prolunghiamo il suo agire (missione) e viviamo in sintonia con i suoi stessi sentimenti e atteggiamenti, secondo l’espressione paolina: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 5).
            Senza il desiderio di corrispondere con la vita a questa relazione con Cristo non si potrebbe cogliere la dinamica apostolica e sacerdotale che include l’”incontro” e la “missione”. Egli ci ha chiamati per “stare con lui” e per inviarci a “predicare” (Mc 3, 14-15).
            Se si intende parlare dell’”identità” o della propria ragion d’essere, questo equivale a trovare il senso della propria esistenza vocazionale. È relativamente facile fare elucubrazioni sull’identità. Alla luce del Vangelo, tuttavia, appare chiaro che si tratta di tradurre in vita quel che siamo e facciamo: “Voi mi renderete testimonianza, poiché siete stati con me sin dal principio” (Gv 15, 27). Quando domandarono a Giovanni Battista della sua ”identità”, egli non cadde nella trappola di rispondere con elucubrazioni e teorie, ma indicò una persona che dava un senso alla sua esistenza e al suo agire: “Io sono la voce… Ma in mezzo a voi c’è qualcuno che voi non conoscete” (Gv 1, 23, 26).[5]
            Molti interrogativi cristiani che sembrano problematici cessano di esserlo quando si affrontano partendo da una “conoscenza di Cristo vissuta personalmente” (VS 88). Parlare di santità sacerdotale senza partire dalla propria esperienza di incontro e sequela di Cristo equivale a votarsi al fallimento o a discussioni sterili. La santità sacerdotale si coglie soltanto dalla persona di Cristo profondamente amata e vissuta: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14, 21).
            Da questa prospettiva di vita vissuta, che non esclude, anzi ha bisogno del sostegno della riflessione teologica sistematica, la parola “santità” passa ad essere una realtà di grazia che forma parte del processo di configurazione a Cristo. Quando qualcuno si sa amato da Cristo, lo vuole amare e farlo amare. Vale a dire, vuole abbandonarsi in modo totalitario al cammino di santità e di missione.[6]
            La decisione di essere “santi” è la risposta alla dichiarazione d’amore da parte di Cristo: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15, 9). Per discernere se qualcuno avanza decisamente in questo cammino di santità, possiamo andare a verificare tre punti forti: non sentirsi mai soli (cf. Mt 28, 20), non dubitare del suo amore (Gv 15, 9), non anteporre nulla a Cristo.[7]
            Le caratteristiche della nostra santità, nella sua dimensione cristocentrica o cristologica, ci parlano della relazione con ognuno dei titoli biblici di Cristo (che abbiamo ricordato pocanzi) e, conseguentemente, spingono il sacerdote a tradurre in vita i suoi ministeri come espressione della sua “carità pastorale”, il che equivale a mettere in pratica la stessa carità del Buon Pastore. In questo senso, il Concilio Vaticano II riassume la santità sacerdotale con questa prospettiva: “I presbiteri raggiungeranno la santità nel loro modo proprio se nello Spirito di Cristo eserciteranno le proprie funzioni con impegno sincero e instancabile” (PO 13).
            Si tratta di far vedere in trasparenza Cristo nel momento di annunciarlo e di celebrarlo, si tratta di esserne il prolungamento… L’intera azione pastorale è eminentemente cristologica e costituisce anche un’urgenza e una possibilità di essere santi. Annunciamo Cristo, lo rendiamo presente e lo comunichiamo agli altri, vivendo ciò che siamo e ciò che facciamo. La dimensione cristologica della santità sacerdotale segue, quindi, la linea profetica (annunciare Cristo), liturgica (rendere presente Cristo), diaconale (servire Cristo nei fratelli).
            Il modello apostolico dei Dodici rappresenta il punto di riferimento obbligato della santità sacerdotale, come qualcosa di specifico. È la “Vita Apostolica”, vale a dire, la sequela radicale di Cristo Buon Pastore, sull’esempio degli Apostoli. Noi che siamo successori degli Apostoli (benché in grado diverso) siamo chiamati a vivere questo riferimento evangelico.[8]
            La “Vita Apostolica” (“Apostolica Vivendi Forma”), che riassume lo stile di vita degli Apostoli, assume una forma concreta nella sequela evangelica (cf. Mt 19, 27), nella fraternità o vita comunitaria (cf. Lc 10, 2) e nella missione (cf. Gv 20, 21; Mt 28, 19-20).[9]
            Il cammino della santità sacerdotale si intraprende lasciandosi conquistare dall’amore di Cristo, sull’esempio di San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (…) vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20). Ed è questo stesso amore che conduce alla missione: “L’amore del Cristo ci spinge” (2 Cor 5, 14).
            Il cristocentrismo di San Paolo scaturisce dalla fede vissuta come incontro con Cristo, “il Figlio di Dio” (At 9, 20), “il Salvatore” (Tt 1, 3), che “è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4, 25). Cristo “vive” (At 25, 19) e dimora nel credente (cf. Fil 1, 31), comunicandogli la forza dello Spirito che lo rende figlio di Dio (cf. Gal 4, 4-7; Rm 8, 14-17). Per il battesimo, il cristiano viene configurato a Cristo (cf. Rm 6, 1-5). Paolo vive di questa fede. Sin dal suo incontro iniziale con il Signore, Paolo ha imparato che Cristo vive in tutto l’essere umano e, in maniera speciale, nella sua comunità ecclesiale, che egli descrive come “corpo” o espressione di Cristo (cf. 1 Cor 12, 26-27), “sposa” o consorte (cf. Ef 5, 25-27; 2 Cor 11, 2) e “madre” feconda di Cristo (cf. Gal 4, 19, 26).
            Le rinunce del sacerdote ci vengono presentate in forma sintetica nell’espressione di San Pietro: “Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mt 19, 27). La rinuncia totale non sarebbe possibile né avrebbe significato senza la “sequela” vissuta come incontro e amicizia. La “solitudine piena di Dio” (di cui parlava Paolo VI nell’enciclica Sacerdotalis coelibatus) è, per il sacerdote ministro, la riscoperta di una presenza e di un amore più bello e profondo: “Non aver paura … perché io sono con te” (At 18, 9-10).[10]
            Cristo ci porta nel suo cuore sin dal primo momento del suo essere uomo. Se il mistero dell’uomo si decifra soltanto nel mistero che è Cristo, ogni essere umano ha nella propria vita delle impronte del suo amore: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (GS 22). In questa prospettiva antropologico-cristiana, alla luce dell’Incarnazione, il sacerdote-ministro si sente interpellato da alcuni gesti di vita di Cristo, che amò “i suoi” (Gv 13, 1) e li presentò con affetto al cospetto del Padre: “coloro che tu mi hai dato” (Gv 17, 2 ss), “li hai amati come hai amato me” (Gv 17, 23).
            La chiamata apostolica (“vieni”, “seguimi”) comporta relazione, imitazione e configurazione a Cristo. Se qualcuno vuole essere conseguente con questo atteggiamento relazionale impegnato, che chiamiamo “santità” (come imitazione della carità del Buon Pastore e, in quanto tale, riflesso di Dio Amore), in tutte le circostanze della sua vita troverà tracce di una presenza che oltrepassa la sensazione di assenza: “Io sarò con voi” (Mt 28, 20). Il decreto Presbyterorum Ordinis ricorda questa presenza, che è fonte di santità e di gioia pasquale: “I presbiteri non devono perdere di vista che nel loro lavoro non sono mai soli” (PO 22).[11]
            La dimensione cristologica della santità è, per questo stesso fatto, dimensione eucaristica. “Siamo nati dall’Eucaristia … Il sacerdozio ministeriale ha la sua origine, vive, agisce e dà frutti «de Eucharistia» … Non c’è Eucaristia senza sacerdozio, come non esiste sacerdozio senza Eucaristia” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 2).[12]
            Per garantire la dimensione cristologica della santità sacerdotale è necessaria porla in relazione con la dimensione mariana. Cristo Sacerdote e Buon Pastore non è un’astrazione, ma è nato da Maria Vergine e ha associato quest’ultima alla sua opera redentrice. Maria, Madre di Cristo Sacerdote e Madre nostra, vede in ognuno di noi un “Gesù vivente” (secondo l’espressione di San Giovanni Eudes), vale a dire, con parole del Concilio, “strumenti vivi di Cristo Sacerdote” (PO 12) che vogliono vivere “in comunione di vita” con lei come il discepolo amato (cf. RMa 45, nota 130). Abbiamo bisogno di vivere la nostra dimensione sacerdotale cristologica “alla scuola di Maria Santissima” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 7).[13]
            La dimensione cristologica della santità sacerdotale include l’amore leale, sincero e incondizionato alla Chiesa. È, quindi, una dimensione ecclesiologica. L’Apostolo Paolo, nell’invitarci a configurarci a Cristo, ci esorta a vivere dei suoi stessi sentimenti (cf. Fil 2, 5) e delle sue stesse espressioni d’amore: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). “Per ogni missionario la fedeltà a Cristo non può essere sepa­rata dalla fedeltà alla sua Chiesa” (RMi 89).

2. CHIAMATI A ESSERE MAESTRI E FORGIATORI DI SANTI, INNAMORATI DI CRISTO
             La nostra chiamata alla santità include l’impegno ministeriale ad aiutare i fedeli a intraprendere il medesimo cammino di santificazione. Si tratta del “ministero e funzione di istruire, santificare e governare il popolo di Dio” (PO 7), in qualità di collaboratori dei vescovi. Per questo motivo, “la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità” (NMi 30). La dimensione cristocentrica della santità si concretizza necessariamente in dimensione ecclesiologica.
            In realtà, dalla santità dei sacerdoti dipende, in gran parte, la santità, il rinnovamento e la missionarietà dell’intera comunità ecclesiale. Ecco cosa dice in proposito il Concilio Vaticano II: “Perciò questo sacro Sinodo, per il raggiungimento dei suoi fini pastorali di rinnovamento interno della Chiesa, di diffusione del Vangelo in tutto il mondo e di dialogo con il mondo moderno, esorta vivamente tutti i sacerdoti ad impiegare i mezzi efficaci che la Chiesa ha raccomandato in modo da tendere a quella santità sempre maggiore che consentirà loro di divenire strumenti ogni giorno più validi al servizio di tutto il popolo di Dio” (PO 12).
            Tutta l’azione pastorale tende a costruire la comunità ecclesiale come riflesso della Trinità attraverso un processo di unificazione del cuore secondo l’amore, grazie al quale diventa possibile giungere ad essere “un cuor solo e un’anima sola” (At 4, 32). In questo modo si costruisce la Chiesa come “mistero”, vale a dire, come popolo “congregato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (LG 4). È un mistero di comunione missionaria: “La santità è apparsa più che mai la dimensione che meglio esprime il mistero della Chiesa. Messaggio eloquente che non ha bisogno di parole, essa rappresenta al vivo il volto di Cristo” (NMi 7).
            L’azione ministeriale profetica, liturgica e diaconale, oltre a essere il mezzo e il luogo privilegiato della propria santificazione, è la palestra per orientare l’intera comunità ecclesiale verso il cammino della santità. I ministeri sono servizi che costruiscono una scuola di santità e di comunione ecclesiale. Siamo chiamati ad essere forgiatori di santi.
            La nostra vita sacerdotale si può riassumere nell’azione ministeriale eucaristica: “Questo è il mio corpo (…) Questo è il mio sangue” (Mt 26, 26, 28). In quel momento agiamo in nome di Cristo e ci trasformiamo in lui. Tuttavia, quell’azione ministeriale eucaristica include l’annuncio (profetismo) e la comunione (diaconia). Inoltre, l’effetto delle parole del Signore non solo raggiunge il più profondo del nostro essere, trasformandolo, ma si trasmette anche a tutta la Chiesa e a tutta l’umanità.
            Alla luce di questo servizio ministeriale (in relazione con il corpo eucaristico e con il corpo mistico di Cristo), tutto può essere ridotto all’urgenza di essere santi e far santi gli altri, come conseguenza del mandato eucaristico: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19; 1 Cor 11, 24). Il compito è quello di annunciare, celebrare e comunicare Cristo. La trasformazione eucaristica del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo penetra l’essere e l’agire sacerdotale, per essere trasmessa alla Chiesa e all’intera umanità. L’incarico che Gesù dà ai sacerdoti colloca “il sigillo eucaristico sulla loro missione” (Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 3). Per mezzo dell’Eucaristia, siamo forgiatori di santi.[14]
            La dedizione apostolica di Paolo ha questa caratteristica di “completare” Cristo per amore alla sua Chiesa (cf. Col 1, 24) e di preoccuparsi “per tutte le Chiese” (2 Cor 11, 28). Nella dottrina paolina, la vocazione cristiana è elezione in Cristo (cf. Ef 1, 3) per essere “gloria” o espressione sua per mezzo di una vita santa (Ef 1, 4-9) impegnata nella missione di “ricapitolare tutte le cose in Cristo” (Ef 1, 10) e contrassegnata con “il suggello dello Spirito” (Ef 1, 13). È una vita unita all’oblazione di Cristo (cf. Fil 2, 5-11) per partecipare al sacrificio eucaristico che rende presente l’oblazione del Signore “finché egli venga” (cf. 1 Cor 11, 23-26). Paolo è forgiatore di santi (cf. Gal 4, 19).[15]
            Il significato sponsale del ministero mira a costruire la Chiesa santa, come sposa di Cristo, santificata dal suo amore sponsale: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5, 25-27).
            Santificare la comunità ecclesiale equivale a renderla missionaria e “madre”, vale a dire, strumento di vita in Cristo per gli altri. La Chiesa, quindi, “Mediante la carità, la preghiera, l’esempio e le opere di penitenza, la comunità ecclesiale esercita una vera azione materna nei confronti delle anime da avvicinare a Cristo” (PO 6).
            Se si annuncia la Parola, è per chiamare a un atteggiamento di ascolto, di conversione e di risposta generosa da parte dei credenti. La predicazione della Parola riunisce il popolo di Dio per edificarlo nella carità. Tramite questa predicazione, si mira a “invitare tutti insistentemente alla conversione e alla santità” (PO 4).
            La celebrazione dell’Eucaristia e dei sacramenti in generale, nell’ambito dell’anno liturgico, è una chiamata a tutti i fedeli per fare della loro vita un’oblazione in unione con Cristo: “Sono in tal modo invitati e indotti a offrire assieme a lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create” (PO 5).
            L’azione ministeriale che consiste nell’orientare, animare e sostenere la comunità, sempre in uno spirito di servizio, ha come obiettivo “che ciascuno dei fedeli sia condotto nello Spirito Santo a sviluppare la propria vocazione personale secondo il Vangelo, a praticare una carità sincera e attiva, ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati” (PO 6).
            Nei tre ministeri si tende a formare Cristo nei credenti, attraverso un processo di santificazione che è trasformazione di criteri, scala di valori e attitudini, al fine di relazionarsi con Cristo, imitarlo e trasformarsi in lui. Così riassume San Paolo la sua azione santificatrice: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!” (Gal 4, 19) “Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2 Cor 11, 2).
            Il nostro ministero consiste nell’essere “strumenti vivi di Cristo Sacerdote” (PO 12). Proprio per questo, siamo servitori di una Chiesa chiamata alla santità. Il Quinto Capitolo della Lumen gentium è un solco tracciato per l’itinerario della santificazione: esiste una chiamata universale della Chiesa alla santità (LG 39-42) che consiste nella “perfezione della carità” e che si realizza nella vita quotidiana secondo il proprio stato di vita, utilizzando i mezzi adeguati per conseguire questo obiettivo (LG cap. VI, nn. 39-42). In tal modo, quindi, “tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (LG 40).
            Il battesimo è, per sua stessa natura, una chiamata e una possibilità di santità: pensare, sentire, amare e operare come Cristo. “Il Battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l’inserimento in Cristo e l’inabitazione del suo Spirito” (NMi 31). L’impegno fondamentale di coloro che si battezzano consiste nella decisione di farsi santi per il cammino indicato nel Discorso della Montagna: « Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt 5, 48).
            L’esperienza del proprio incontro personale con Cristo e della sequela evangelica, secondo il percorso delle beatitudini, rappresenta la migliore preparazione per poter accompagnare altre persone lungo lo stesso cammino di santificazione che, come abbiamo indicato, è un cammino di rapporto con Cristo, imitazione e trasformazione in lui. Il sacerdote è maestro di contemplazione, di perfezione, di comunione e di missione.
            Il tema della santità sacerdotale nella sua dimensione cristocentrica appare in tutte le figure sacerdotale della storia. Quei santi sacerdoti furono maestri e modelli di santità sacerdotale e cristiana. Alcuni santi sacerdoti hanno lasciato degli scritti sulla vita e il ministero del sacerdote. Nella sua prima lettera del Giovedì Santo (1979), Giovanni Paolo II invita a ispirarsi alle figure sacerdotali della storia: “Sforzatevi di essere « artisti » della pastorale. Ce ne sono stati molti nella storia della Chiesa. Occorre elencarli? A ciascuno di noi parlano, ad esempio, san Vincenzo de’ Paoli, san Giovanni d’Avila, il santo Curato d’Ars, san Giovanni Bosco, il beato Massimiliano Kolbe, e tanti, tanti altri. Ognuno di loro era diverso dagli altri, era se stesso, era figlio dei suoi tempi ed era «aggiornato» rispetto ai suoi tempi. Ma questo «aggiornamento» di ciascuno era una risposta originale al Vangelo, una risposta necessaria proprio per quei tempi, era la risposta della santità e dello zelo”.[16]

3. ALCUNE OSSERVAZIONI SULLA SANTITÀ SACERDOTALE ALL’INIZIO DEL TERZO MILLENNIO
 La santità costituisce il “fondamento della programmazione pastorale che ci vide impegnati all’inizio del nuovo millennio” (NMi 31). Questa affermazione di Giovanni Paolo II costituisce una sfida per la vita e il ministero sacerdotale. Siamo chiamati a essere santi e a costruire comunità che siano scuole di santità e di comunione.
            In una società “iconica” che domanda dei segni, è necessario edificare una Chiesa che faccia trasparire le beatitudini come “autoritratto di Cristo” (VS 16). Effettivamente, “l’uomo contemporaneo crede più ai testi­moni che ai maestri… La testimonianza della vita cristiana è la prima e inso­stituibile forma della missione” (RMi 42). Coloro che oggi si sentono chiamati alla fede cristiana manifestano “il desiderio di trovare nella Chiesa stessa il Vangelo vissuto” (RMi 47).
            Urge, quindi, presentare la figura del sacerdote come espressione della vita del Buon Pastore. San Paolo si considerava “fragranza di Cristo” (2 Cor 2, 15). Il Signore ci descrive come sua “espressione” o sua “gloria”: “Sono stato glorificato in loro” (Gv 17, 10). La nostra identità sacerdotale consiste nell’essere “prolungamento visibile e segno sacramentale di Cristo” (PDV 16).[17]
             Non si tratta di un segno meramente esterno, bensì di una realtà ontologica (trasformazione in Cristo) che necessariamente deve manifestarsi sotto forma di testimonianza. Allo stesso tempo, questa realtà si traduce in vissuto personale e comunitario, per poter dire, come San Pietro il giorno di Pentecoste, con parole da lui ripetute in altri discorsi:  “Noi siamo testimoni” (At 2, 32; 3, 15; 5, 32; 10, 39). È, quindi, relazione, imitazione, trasformazione in Cristo, che si concretizza nel farlo trasparire in noi.
            Il mondo di oggi chiede testimoni dell’esperienza di Dio (cf. EN 76; RMi 91). Ogni apostolo, e in modo speciale il sacerdote, deve poter dire come San Giovanni: “Quel che abbiamo visto e udito, noi ve lo annunciamo” (1 Gv 1, 3). Lo Spirito Santo, ricevuto specialmente il giorno dell’ordinazione, rende capaci di trasmettere agli altri la propria esperienza di Gesù.[18]
            L’inizio del terzo millennio costituisce un invito pressante ad essere segni trasparenti ed efficaci del Buon Pastore. La Parola, l’Eucaristia, i sacramenti e l’azione pastorale ci plasmano come espressione di Cristo e come segni santificatori.
            Sulla base della mia esperienza di incontri sacerdotali in differenti latitudini e culture, sono giunto alla conclusione che, in questi primi anni del terzo millennio, può aver luogo un risorgimento sacerdotale, se si riscoprono gli enormi tesori dottrinali dei documenti conciliari e postconciliari (i quali, a loro volta, raccolgono una storia millenaria di grazia). Il giorno in cui ogni sacerdote novello avrà letto quei documenti e vi si sarà formato, ci sarà certamente un grande rinnovamento di vita e di vocazioni sacerdotali, per il fatto di aver riscoperto “un tesoro nascosto”, quale la “mistica” della propria spiritualità sacerdotale specifica.[19]
            Giovanni Paolo II chiede di elaborare un progetto di vita sacerdotale nel Presbiterio che abbracci tutti questi aspetti (cf. PDV 79). Solo essendo fedeli al processo di santità arriveremo ad essere sacerdoti per una nuova evangelizzazione (cf. PDV 2, 9-10, 17, 47, 51, 82. Direttorio 98).[20]
            Quando il Papa ricorda a noi sacerdoti le linee-guida della nostra santità, ci indica la relazione tra la consacrazione e la missione come binomio inseparabile: « La consacrazione è per la missione » (PDV 24).
            Si potrebbe parlare del “carisma” apostolico e sacerdotale di Giovanni Paolo II, che si concretizza nella dinamica evangelica: dall’incontro alla missione. Mi pare che questa sia la chiave per comprendere i suoi documenti, a partire dal primo momento del suo pontificato, quando disse: “Spalancate le porte a Cristo”. Le sue encicliche, esortazioni apostoliche, lettere del Giovedì Santo e messaggi mostrano l’armonia tra la consacrazione (vista come abbandono totalizzante ai piani di Dio) e la missione (come vicinanza all’uomo e alla realtà concreta). Questa dinamica però è relazionale: dall’incontro con Cristo si passa alla sequela di Cristo e all’annuncio di Cristo.[21]
            Le lettere del Giovedì Santo (dal 1979 al 2004) costituiscono un’eredità apostolica, una sorta di testamento sacerdotale di Giovanni Paolo II, che potrebbero essere riassunte nella litania rivolta a Cristo Sacerdote in cui si chiedono “Pastori secondo il suo Cuore” (Litania citata nella Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 7).
            Le cinque Esortazioni apostoliche postsinodali continentali rappresentano una chiamata alla santità che si concretizza in un processo di pastorale “inculturata” nelle varie circostanze storiche e geografiche. A questo compito di santificazione siamo chiamati specialmente noi sacerdoti. Per la prima volta nella storia, viene raccolto il contributo di tutte le Chiese in questa maniera così concreta, quale è la celebrazione dei Sinodi Episcopali (continentali) accompagnata dalle rispettive Esortazioni postsinodali.[22]
            Risulta particolarmente urgente, in queste Esortazioni continentali, la chiamata alla santità rivolta ai sacerdoti e alle persone consacrate: « In forza del sacramento dell’Ordine che li configura a Cristo Capo e Pastore, i Vescovi ed i sacerdoti devono conformare tutta la loro vita e la loro azione a Gesù » (Ecclesia in Europa 34).[23] « L’Europa ha sempre bisogno della santità, della profezia, dell’attività di evangelizzazione e di servizio delle persone consacrate » (ibid. 37).[24]
            La propria identità sacerdotale potrà essere compresa e assimilata se si vive come segno personale e sacramentale del Buon Pastore, riconoscendo che si possiede una spiritualità sacerdotale specifica entusiasmante. È la gioia di essere e sentirsi segno di Cristo, qui e ora, con il proprio Vescovo, con la propria Chiesa particolare, nel proprio Presbiterio, al servizio della Chiesa locale e universale, ispirandosi alle figure sacerdotali della storia e anche, quando qualcuno si sente chiamato, facendo riferimento a carismi particolari più concreti della vita religiosa o associativa.
            La diocesanità include tutta questa storia di grazia, che costituisce un patrimonio apostolico. Senza la relazione personale e comunitaria con Cristo Sacerdote e Buon Pastore, la spiritualità sacerdotale diocesana non troverebbe la propria pista d’atterraggio. Se è sacerdote, segno del Buon Pastore, nel qui e ora della propria Chiesa particolare, presieduta sempre da un successore degli Apostoli (in comunione con il Sommo Pontefice e il Collegio Episcopale) colui che concretizza per i suoi sacerdoti le linee evangeliche della sequela di Cristo.[25]
            Una linea caratteristica della spiritualità cristiana e sacerdotale all’inizio del terzo millennio è la speranza, che presuppone la fede e deve farsi concreta nella carità. Oggi è possibile essere santi e apostoli. È possibile evangelizzare nelle situazioni nuove, perché abbiamo grazie nuove. C’è però bisogno di apostoli rinnovati.[26]
            Nella spiritualità e santità sacerdotale, questo tono di speranza si traduce in “gioia pasquale” (PO 11). La vita dell’apostolo riflette la gioia pasquale, anche nei momenti di difficoltà, dando testimonianza della speranza cristiana: « Il missionario è l’uomo delle Beatitudini… Vivendo le Beatitudini, il missio­nario sperimenta e dimostra concretamente che il Regno di Dio è già venuto ed egli lo ha accolto. La caratteristica di ogni vita missionaria autentica è la gioia interiore che viene dalla fede » (RMi 91). È la gioia di far “passare” o di trasformare la sofferenza in amore di donazione, come eredità che ci ha lasciato Gesù nell’ultima cena (cf. Gv 15, 11; 17, 13).

LINEE CONCLUSIVE
             La santità sacerdotale è essenzialmente di dimensione cristologica e, per questo stesso motivo, si apre alle dimensioni trinitaria, pneumatologica, ecclesiologica e antropologica. Precisamente la carità pastorale, come imitazione della vita del Buon Pastore, ha questo orientamento nei confronti dei disegni del Padre (cf. Gv 10, 18) e ricalca le orme dell’azione dello Spirito Santo (cf. Lc 10, 1, 14, 18). « Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando » (At 10, 38).
            La consacrazione sacerdotale del ministro ordinato, in quanto partecipazione alla consacrazione sacerdotale di Cristo per prolungare la sua stessa missione, ha la sua radice nel mistero del Verbo incarnato: « Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo » (GS 22).
            Essendo segno personale e comunitario di Cristo Sacerdote e Buon Pastore, noi sacerdoti siamo espressione del suo amore nei confronti di tutti e di ognuno dei redenti. Il contatto del sacerdote con qualsiasi essere umano deve essere annuncio e testimonianza di questo amore, affinché tutti si sentano amati da Cristo e resi capaci di amare lui e, con lui, di amare tutti gli altri fratelli. La vita sacerdotale costituisce un invito missionario e basato sulla vita come espressione testimoniale di quell’annuncio: Dio ti ama, Cristo è venuto per te.
            La dimensione cristologica della santità sacerdotale fa ricordare la realtà del “martirio” come parte integrante del “kerigma” o primo annuncio. Siamo stati scelti per essere “testimoni” (“martiri”) di colui che è stato crocifisso ed è risorto: « Noi siamo testimoni » (At 2, 32), « e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui » (At 5, 32). Il ricordo della figura sacerdotale del martire San Massimiliano Kolbe indica questa linea di carità pastorale oblativa.[27]
            La « gioia pasquale » (PO 11) riassume bene tutti i contenuti della dimensione cristocentrica della santità sacerdotale. In realtà, è la gioia delle “beatitudini” e del “Magnificat”, per il fatto di sapersi amato da Cristo e reso capace di amarlo e farlo amare. È partecipazione alla gioia stessa di Cristo (cf. Lc 10, 21). È la gioia che ci ha lasciato il Signore come lascito (Gv 15, 11; 16, 22, 24; 17, 13). È la gioia che nasce dall’incontro permanente con lui. Quando, nel Cenacolo, gli Apostoli scelscero Mattia, fecero la sintesi di un percorso di vita sacerdotale e apostolica: un uomo che sarebbe stato insieme al Signore, per essere testimone gioioso della sua risurrezione (cf. At 1, 22). È la gioia di Paolo: « Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione » (2 Cor 7, 4).
 La dimensione cristocentrica o cristologica della santità sacerdotale si traduce in:
-        Dichiarazione reciproca di amore, come scelta e chiamata:
            « Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi; Rimanete nel mio amore » (Gv 15, 9); « io ho scelto voi » (Gv 15, 16); « vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2, 20).
- Relazione fatta di incontro, amicizia, intimità, contemplazione:
            « Si fermarono presso di lui » (Gv 1, 39); « ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare » (Mc 3, 14-15); « voi siete miei amici » (Gv 15, 14); « sarò con voi » (Mt 28, 20); « per me infatti il vivere è Cristo » (Fil 1, 21).
- Relazione di appartenenza:
            « Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13, 1); « Padre… coloro che mi hai dato, sono tuoi »… (Gv 17, 9 ss); « non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2, 20).
- Relazione di trasparenza e missione:
            « Voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio » (Gv 15, 27); « Egli (lo Spirito) mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà » (Gv 16, 14); « Padre… Io sono glorificato in loro » (Gv 17, 10); « Come il Padre ha mandato me, io mando voi » (Gv 20, 21)…; « l’amore del Cristo ci spinge » (2 Cor 5, 14).
Alla luce della presenza di Cristo Risorto, che continua ad accompagnare « i suoi » (Gv 13, 1), si giunge a comportamenti che potremmo chiamare di sapienza e di buon senso cristiano e sacerdotale, e che costituiscono il segnale per sapere se una persona sta percorrendo seriamente il cammino della santità nella dimensione cristologica. La traduzione in vita della nostra realtà di partecipazione all’essere di Cristo e di prolungamento della sua missione si potrebbe così esprimere in concreto:
-        Non dubitare dell’amore di Cristo:
Mons. Francesco Saverio Nguyen van Thuan, Arcivescovo di Saigón, rimase tredici anni nel carcere di quella città. I primi giorni della sua dura prigionia, sentendosi scoraggiato per la sua apparente inutilità, seppe discernere la voce del Signore nel proprio cuore: “Voglio te, non le tue cose”.[28]
-        Non sentirsi mai soli:
Mons. Tang, Vescovo di Cantón, trascorse 22 anni in carcere. Al suo arrivo a Roma gli venne chiesto di parlare delle sofferenze subite in quella solitudine. Quando gli domandarono che cosa lo avesse aiutato a perseverare, rispose: « Cristo non abbandona”.[29]
-        Non poter prescindere da lui:
Paolo, nel carcere di Roma: « Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato… Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza » (2 Tm 4, 16-17).
-        Non anteporre nulla a lui:
“Negli innamorati la ferita di uno è di entrambi, e i due hanno un medesimo sentimento” (San Giovanni della Croce, Cant. B, c. 30, n. 9).

            Il nostro modo di pregare si può realizzare soltanto con il « mantenere fisso lo sguardo su Cristo » (Lettera del Giovedì Santo 2004, n.5). Questo incontro quotidiano di vita concreta con Cristo, nell’Eucaristia, nella Scrittura e nei fratelli, dà senso alla vita sacerdotale; tuttavia, deve essere un incontro d’amore appassionato che deve convertirsi in annuncio appassionato. La nostra identità si dimostra nel vivere e far vivere la presenza di Cristo Risorto nella Chiesa e nel mondo. Si tratta di uno « stupore eucaristico » che suscita vocazioni sacerdotali (cf. Lettera del Giovedì Santo 2004, n. 5), perché allora i giovani in noi « intuiscono la chiamata di un amore più grande » (ibidem, n. 6).
            La relazione personale con Cristo, che è la sorgente della missione, si plasma « in comunione di vita » con Maria (cf. RMa 45, nota 130). È « comunione viva con Gesù attraverso il Cuore della sua Madre » (Rosarium Virginis Mariae 2). Nel cuore di Maria, Madre di Cristo Sacerdote e Madre nostra, si può udire l’eco di tutto il Vangelo (cf. Lc 2, 19, 51).[30]
            Maria ci accompagna in tutte le nostre celebrazioni eucaristiche e in tutto il nostro ministero. Ella continua ad essere il dono di Cristo a tutti i suoi fedeli e, in modo particolare, ai suoi ministri. « Vivere nell’Eucaristia il memoriale della morte di Cristo implica anche ricevere continuamente questo dono. Significa prendere con noi – sull’esempio di Giovanni – colei che ogni volta ci viene donata come Madre » (Ecclesia de Eucharistia, n. 57). Possiamo unirci ai “sentimenti di Maria” quando ella ascolta dalle nostre labbra le parole della consacrazione (« il mio corpo… il mio sangue ») (cf. ibid. n. 56).[31]
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[1] « Imitamini quod tractatis » (imita quello che fai) è l’espressione che ora si trova nel testo dell’allocuzione durante l’ordinazione presbiterale, quando il vescovo spiega “la funzione di santificare in nome di Cristo”. Secondo San Tommaso d’Aquino, “il Sacro Ordine presuppone la santità” (cf. II-II, q.189, a.1, ad 3), per poter servire degnamente il corpo eucaristico e il corpo mistico di Cristo (cf. Suppl. q.36, a.2, ad 1) e per guidare altri lungo il cammino della santità.
[2] Il “carattere” sacerdotale del sacramento dell’ordine esige santità, per il fatto di poter operare in nome di Cristo; la grazia sacramentale comunica la possibilità di essere santi, vale a dire, di essere coerenti con ciò che siamo e facciamo.
[3] Indichiamo alcuni studi sulla santità e sulla spiritualità sacerdotale: AA.VV., Espiritualidad sacerdotal, Congreso (Madrid, EDICE, 1989); C. BRUMEAU, Les éléments spécifiques de la vie spirituelle des prêtres d’après Vatican II: Le prêtre, hier, aujourd’hui, démain (Paris, Cerf, 1970) 196-205; J. CAPMANY, Apóstol y testigos, reflexiones sobre la espiritualidad y la misión sacerdotales (Barcelona, Santandreu, 1992); M. CAPRIOLI, Il sacerdozio. Teologia e spiritualità (Roma, Teresianum, 1992); J. ESQUERDA BIFET, Teología de la espiritualidad sacerdotal (Madrid, BAC, 1991); Idem, Signos del Buen Pastor, Espiritualidad y misión sacerdotal (Bogotá, CELAM, 2002); A. FAVALE, El ministerio presbiteral, aspectos doctrinales, pastorales y espirituales (Madrid, Soc. Educ. Atenas, 1989); G. GRESHAKE, Essere preti, Teologia e spiritualitá del ministero sacerdotale (Brescia, Queriniana, 1995); J.L. ILLANES, Espiritualidad y sacerdocio (Madrid, Rialp, 1999); D. TETTAMANZI, La vita spirituale del prete (Casale Monferrato, PIEMME, 2002); R. SPIAZZI, Sacerdozio e santità. Fondamenti teologici della spiritualità sacerdo­tale (Roma 1963); K. WOJTYLA, La sainteté sacerdotale comme carte d’identité: Seminarium (1978) 167-181; P. XARDEL, La flamme qui dévore le berger (Paris, Cerf, 1969).
[4] Sono i titoli biblici utilizzati e spiegati in PO nn.1-3 e PDV cap.II (cf. nn.20-22).
[5] AA.VV., Identità e missione del sacerdote (Roma, Città Nuova, 1994);  F. ARIZMENDI, Vale la pena ser hoy sacerdote? (México, Lib. Parroquial, 1988); M. THURIAN, L’identità del sacerdote (Casale Monferrato, PIEMME, 1993). Cf. gli altri saggi citati nella nota 4.
[6] Un bramino convertito (poi diventato sacerdote e missionario)mi descriveva la sua conversione ricordando la sua esperienza di incontro con Cristo. Visitando la cappella dell’Ospedale di cui era direttore, il suo sguardo si fermò sull’immagine del crocifisso e udì dentro di sé queste parole: “Mi ha amato”. Subito ne trasse questa conclusione: “Se lui mi ama, io voglio amarlo e farlo amare”…
[7] Cf. S. Benedetto, Regola, 4, 31; 72, 11.
[8] Pastores dabo vobis indica la « vita apostolica » come punto di riferimento della santità sacerdotale, sempre come imitazione della vita del Buon Pastore e secondo lo stile degli Apostoli (cf. PDV 15-16, 42, 60, etc.). Spiego questi contenuti e offro bibliografia, in: Spiritualità sacerdotale per una Chiesa missionaria (Roma, Urbaniana University Press, 1998) cap.V (Essere segno trasparente del Buon Pastore). Trad. in inglese: Priestly Spirituality and Mission (Roma, Pont. Univ. Urbaniana, 1995).
[9] Le linee di questa vita apostolica, eminentemente evangelica, potrebbero essere così riassunte: 1ª: Scelta, vocazione, per iniziativa di Cristo (cf. Mt 10,1ss; Lc 6, 12ss; Mc 3,13ss; Gv 13,18; 15,14ss). 2ª: « Sequela Christi » o sequela evangelica (cf. Mt 4,19ss; 19, 21-27; Mc 10,35ss); 3ª: Carità del Buon Pastore (cf. Gv 10; At 20,17ss; 1Pe 5,1ss), 4ª: Missione di totalitarietà e di universalismo (cf. Mt 28,18ss; Mc 16,15ss; At 1,8; Gv 20,21; PO 10). 5ª: Comunione fraterna (cf. Lc 10,1; Gv 13,34.35; 17,21-23). 6ª: Eucaristia, centro e sorgente dell’evangelizzazione (cf. Lc 22,19-20; 1Cor 11,23ss; Gv 6,35ss). 7ª: Sintonia con la preghiera sacerdotale di Cristo (cf. Gv 17; Mt 11,25ss; Lc 10,21ss). 8ª: Al servizio della Chiesa sposa (cf. 2Cor 11,2; Ef 5,25-27; Gv 17,23; 1Tim 4,14: « grazia » permanente). 9ª: Con Maria, « la Madre di Gesù » (cf. Gv 19,25-27; At 1,14; Gal 4,4-19).
[10] Varrebbe la pena riflettere sulla realtà della verginità di Maria e di Giuseppe, che permise loro di scoprire in Cristo una predilezione singolare nei loro confronti, aperta sempre all’intera umanità e a ogni essere umano in particolare, in maniera irripetibile. La vita sacerdotale centrata su Cristo si riassume nell’imitazione del suo sguardo sui fratelli, scoprendo in essi una storia d’amore sponsale ed eterno. Tutti occupiamo un luogo privilegiato nel Cuore di Cristo.
[11] Può essere applicata ad ogni apostolo, e specialmente a ogni sacerdote, quest’affermazione dell’enciclica missionaria di Giovanni Paolo II: « Proprio perché « inviato », il missionario spe­rimenta la presenza confortatrice di Cristo, che lo accompagna in ogni momento della sua vita… e lo aspetta nel cuore di ogni uomo » (RMi 88).
[12] La dimensione eucaristica della santità sacerdotale è oggetto di un altro contributo in questo Convegno Internazionale di Sacerdoti.
[13] Anche la dimensione mariana costituisce l’oggetto di un altro contributo nel presente Incontro Internazionale. Sulla spiritualità sacerdotale mariana, ho riassunto contenuti e bibliografia in: (Sacerdoti) Maria nella spiritualità sacerdotale: Nuovo Dizionario di Mariologia (Paoline 1985), 1237-1242.
[14] « In persona Christi vuol dire di più che «a nome», oppure «nelle veci» di Cristo. In persona: cioè nella specifica, sacramentale identificazione col sommo ed eterno Sacerdote » (enc. Ecclesia de Eucharistia n.29).
[15] Cf. F. PASTOR RAMOS, Pablo, un seducido por Cristo (Estella, Verbo Divino, 1993). Il tema paolino è stato trattato da un altro contributo in questo convegno sacerdotale.
[16] Giovanni Paolo II, Lettera del Giovedì Santo 1979, n. 6. Occorrerebbe diventare imbevuti degli scritti sacerdotali di tutta la storia, specialmente di epoca patristica: S. Ignazio d’Antiochia (Lettere), S. Giovanni Crisostomo (Libro sul sacerdozio), S. Ambrogio (De officiis ministrorum), S. Gregorio Magno (Regula Pastoralis), S. Isidoro di Siviglia (De ecclesiasticis officiis); nell’epoca di Trento: S. Giovanni d’Avila (Pratiche dei sacerdoti; Trattato sul sacerdozio), S. Carlo Borromeo, S. Giovanni di Ribera, ecc. Cf. figure e scrittori di ogni epoca storica in: Teologia della spiritualità sacerdotale, o.c., cap. IX (sintesi storica); Segni del Buon Pastore, o.c., cap. X (sintesi e sviluppo storico) (or. Spagnolo, trad. italiano, inglese).
[17] La parola “segno” si ripete con frequenza in PDV (cf. nn. 12,15-16,22,42-43,49). Ha la connotazione di “sacramentalità” nel contesto della Chiesa “sacramento”: segno trasparente e PORTADOR. Indica la trasparenza che riflette il proprio essere e il proprio stile di vita e che si converte in strumento efficace di santificazione e di evangelizzazione.
[18] « La missione della Chiesa, come quella di Gesù, è opera di Dio o – come spesso dice Lu­ca – opera delLo Spirito. Dopo la risurrezione e l’ascensione di Gesù gli Apostoli vivono un’espe­rienza forte che li trasforma: la Pentecoste. La ve­nuta dello Spirito Santo fa di essi dei testimoni e dei profeti (cf. At 1, 8; 2, 17-18), infondendo in loro una tranquilla audacia che li spinge a trasmet­tere agli altri la loro esperienza di Gesù e la spe­ranza che li anima » (RMi 24).
[19] Sono ancora pochi quelli che si ordinano sacerdoti avendo studiato (o letto) questi documenti. È necessario compiere una rilettura comparata di Presbyterorum Ordinis in relazione a Pastores dabo vobis e ad altri documenti (le Lettere del Giovedì Santo, il Direttorio, ecc.). Allora si scopre il proprio essere come partecipazione all’essere o consacrazione di Cristo (PO 1-3; PDV cap.II; Direttorio cap.I), per prolungare la sua stessa missione(PO 4-6; PDV cap.II, Direttorio cap.II), nella comunione ecclesiale che si concretizza anche nel proprio Presbiterio (PO 7-9; PDV 31, 74; Direttorio 25-28), che esige e rende possibile la santità sacerdotale come « carità pastorale » (PO 12-14; PDV cap.III; Direttorio 43-56), che si traduce nelle virtù del Buon Pastore (PO 15-17; PDV 27-30; Direttorio 57-67), senza dimenticare gli strumenti concreti e la formazione permanente (PO 18-21; PDV cap.VI; Direttorio cap.III). Occorre aggiungere l’esortazione apostolica Pastores gregis (2003), così come il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi (2004).
[20] Presento le motivazioni e le possibilità di questo progetto in: Ideario, objetivos y medios para un proyecto de vida sacerdotal en el Presbiterio: Sacrum Ministerium 1(1995) 175-186. Cf. inoltre: J.T. SANCHEZ, Los sacerdotes protagonistas de la Evangelización, in: (Pontificia Comisión para América Latina), Evangelizadores, Obispos, sacerdotes y diáconos, religiosos y religiosas, laicos (Lib. Edit. Vaticana 1996) 101-110. Una buona base per un progetto di vita nel Presbiterio: Proposta di vita spirituale per i presbiteri diocesani (Bologna, EDB, 2003).
[21] Ho studiato e riassunto i documenti del Papa, visti in questa prospettiva, in: El carisma misionero de Juan Pablo II: De la experiencia de encuentro con Cristo a la misión: Osservatore Romano (ed. sp.), 17.7.2001, pp.8-11; Juan Pablo II, el carisma del encuentro con Cristo para la Misión: Omnis Terra n.321 (2002) 234-248; Jean Paul II: le charisme de la rencontre avec le Christ pour la mission: Omnis Terra (fr.) n.383 (2002)234-248; John Paul II, the Charisma of the encounter with Christ for Mission: Omnis Terra (Ing.) n.328 (2002) 233-247.
[22] « Decisivi sono, quindi, la presenza e i segni della santità: essa è prerequisito essenziale per un’autentica evangelizzazione, capace di ridare speranza. Occorrono testimonianze forti, personali e comunitarie, di vita nuova in Cristo. Non basta, infatti, che la verità e la grazia siano offerte mediante la proclamazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti; è necessario che siano accolte e vissute in ogni circostanza concreta, nel modo di essere dei cristiani e delle comunità ecclesiali. Questa è una delle scommesse più grandi che attendono la Chiesa che è in Europa all’inizio del nuovo millennio » (Ecclesia in Europa 49). « Frutto della conversione operata dal Vangelo è la santità di tanti uomini e donne del nostro tempo. Non solo di quanti sono stati proclamati ufficialmente tali dalla Chiesa, ma anche di coloro che, con semplicità e nella quotidianità dell’esistenza, hanno dato testimonianza della loro fedeltà a Cristo » (ibidem, 14). Cf. citazioni simili in: Ecclesia in America 30-31 (vocazione universale alla santità, Gesù, l’unico cammino verso la santità); Ecclesia in Africa 136; Ecclesia in Oceania 30.
[23] Cf. anche: Ecclesia in America 39; Ecclesia in Africa 97-98; Ecclesia in Asia 43; Ecclesia in Oceania 49.
[24] Cf. anche: Ecclesia in America 43; Ecclesia in Africa 94; Ecclesia in Asia 44; Ecclesia in Oceania 51-52.
[25] Nell’esortazione apostolica postsinodale Pastores gregis si sottolinea la necessità che il vescovo si assuma le proprie responsabilità nel promuovere la spiritualità dei suoi sacerdoti; cf. in particolare nn. 47 e 48. Il Direttorio per il Ministero Pastorale dei Vescovi indica le medesime linee: nn. 75-83.
[26] Gli ultimi documenti di Giovanni Paolo II tracciano con decisione questa linea di speranza. Gli apostoli sono animati dalla speranza (cf. Nmi 24). È sufficiente leggere le Esortazioni Apostoliche postsinodali , che incoraggiano ad affrontare le nuove situazioni seguendo i segni positivi dell’azione provvidenziale di Dio. Anche in Novo Millennio ineunte, in cui si cerca di approfondire il mistero dell’Incarnazione come « segno di genuina speranza » (NMi 4). La storia di ogni credente è « una storia di vita, fatta di gioie, ansie, dolori; una storia incontrata da Cristo, e che nel dialogo con lui riprendeva il suo cammino di speranza » (NMi 8). « Ci anima la speranza di essere guidati dalla presenza del Risorto e dalla forza inesauribile del suo Spirito, capace di sorprese sempre nuove » (NMi 12). « Duc in altum! Andiamo avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull’aiuto di Cristo » (NMi 58).
[27] Un sacerdote martire della mia diocesi, Lleida, durante la persecuzione del 1936 in Spagna, dopo essere stato fucilato era ancora vivo  e recitava il Credo; quando l’aguzzino gli si avvicinò per finirlo con il colpo di grazia, domandò che gli lasciassero terminare la professione di fede…
[28] Cf. alcune delle sue testimonianze del tempo trascorso in carcere, in: Testimoni della speranza (Roma, Città Nuova, 2000). È lo stile di vita paolino: « Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? » (Rm 8,35).
[29] Santa Teresa invita a « portarle sempre con sé », perché « con un così buon amico presente, tutto si può sopportare » (Vita, 22,6).
[30] La preghiera sacerdotale di Gesù, pronunciata nell’ultima cena, può facilmente essere posta in relazione con il Cuore o l’interiorità di Maria, specialmente dal momento in cui ricevette l’incarico di essere nostra Madre (cf. Gv 19, 25-27: « ecco il tuo figlio »): « Io sono glorificato in loro… li hai amati come hai amato me… Io sono in essi » (Gv 17,10.23.26).
[31] Con il trascorrere degli anni del nostro sacerdozio potremmo avere la sensazione, alcune volte, di sentirci con le “mani vuote”; tuttavia, l’esempio di S. Teresa di Lisieux è entusiasmante, quando dice al Signore: “Poni le tue mani nelle mie e non saranno più vuote”. Da parte mia, debbo dire che nel corso dei miei 50 anni di sacerdozio (1954-2004) non mi sono mai pentito del mio primo incontro con Cristo, quando cominciai a sentire la vocazione al sacerdozio. La vita sacerdotale è sempre una storia di grazia e di misericordia. È una vita che si sforza di essere spesa con gioia, per amare Cristo e farlo amare. Talvolta, ho avuto l’impressione di essere “uno straccio” inutile. Ma l’incontro personale con Cristo, rinnovato quotidianamente nell’Eucaristia e nel suo Vangelo, mi ha fatto sentire nel cuore le sue parole incoraggianti: “Questo straccio è mio”, lavato con il mio sangue redentore (cf. Ap 7, 14).

L’OPERA RICONCILIATRICE DI CRISTO SECONDO SAN PAOLO

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L’OPERA RICONCILIATRICE DI CRISTO SECONDO SAN PAOLO

INTRODUZIONE
La storia della salvezza come quella dell’umanità e di ogni uomo è fatta di cadute e di rialzi, di fedeltà e d’infedeltà a Dio. L’argomento che tratteremo è l’opera della riconciliazione di Cristo secondo le epistole di San Paolo. È ad un esercizio teologico sul fronte dell’esegesi che ci consegneremo. Con questo lavoro vogliamo comprendere come San Paolo spiega il ruolo di Cristo nel ristabilimento della relazione tra l’uomo e Dio. Infatti, parlare della riconciliazione suppone che all’inizio ci sia stato rottura di relazione. Innanzitutto ci chiederemo in che ha consistito questa rottura. Quale è la sua causa e quali sono le sue conseguenze? Dopo avere risposto a quest’interrogazioni vedremo in che è consistita la riconciliazione del Cristo nella storia della salvezza e ciò che essa significa per noi oggi, secondo l’apostolo Paolo.

1. LA ROTTURA DELL’UOMO CON DIO.
“Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio » (Rm 3, 23). questa frase esprime la causa di un bisogno di riconciliazione. Abbiamo da un lato, il peccatore o l’umanità con il suo peccato e dall’altro, Dio che priva quest’umanità della sua grazia a causa del peccato. Il peccato è allora la causa della rottura. 
1.1. Il peccato, causa di rottura dell’uomo con Dio.
Secondo Mgr Ndongmo, per Paolo, si tratta di due tipi di peccato: prima, il peccato originale causato dalla disobbedienza di Adamo a Dio che fa che ogni uomo nasca privato di grazia, con una natura propensa al male e portante in lui le ferite di questo peccato. « la colpa di un solo ha avuto per conseguenza la morte di molto… » « (Rm 5,.15). » « , il peccato è entrato nel mondo da uno solo uomo, Adamo. E il peccato ha potato con sé la morte. Di conseguenza la morte passa su tutti gli uomini perché tutti hanno peccato « (Rm 5, 12). » Il peccato designa
in seguito in Paolo, il peccato attuale che proviene dall’antagonismo tra la legge e le tendenze egoiste della carne (Cf Rm 7.7-8)1.
 1.2. – conseguenze del peccato.
Il peccato ha delle ripercussioni nocive non soltanto su Dio che viene offeso, ma anche e soprattutto sul peccatore stesso. 
1.1.2.- Le conseguenze del peccato su Dio.
Il peccato ha attizzato la rabbia di Dio (Rm 1, 18). Dio ha abbandonato il peccatore alle passioni del suo cuore che lo portano a delle pratiche che lo deteriorano, in modo che degrada il suo corpo (Rm 1, 24). Conoscendo la sentenza che Dio dichiara suscettibile di morte il peccatore, l’empio continua ad agire male, non soltanto egli commette cattive azioni, ma anche approva coloro che le commettono (Rm 1, 23). E per questo che Dio lo priva della sua grazia (Rm 3, 2b).
1.2.2- Le conseguenze del peccato sull’uomo.
Con il peccato l’uomo si pone come nemico di Dio e dei suoi simili. Infrange congiuntamente il doppio comandamento di Cristo: « amerai il Signore tuo Dio di tutto il cuore, di tutta l’anima e di tutta tua forza… amerai il tuo prossimo come te stesso” (Mc 12, 30-31). Con il peccato, l’uomo diviene idolatre (Rm 1, 23), bestemmiatore, empio (1 Tm 1,
9), profanatore (2 Tm 3, 2), fiero, arrogante, fanfarone (Rm 1, 30). Tuttavia, le conseguenze del peccato d’uomo non ricadono soltanto sulla sua relazione con Dio, ma anche sulle sue relazioni con lui stesso e con i suoi simili. Il peccato rende l’uomo impudico (1 Cor.5, 9-11), adultero, dissoluto, perverso o omosessuale (1 Cor. 6,9) cupide, avaro, disoneste (1 Cor. 6.10) disobbedente ai genitori (2 Tm 3,2), parricida, matricida (1 Tm 1, 9), spietato, irato, maldicente, pettegolo, insolente, egoista, ingrato, trafficante d’uomo, incapace di amare… (Rm 1, 30). Così, il peccato dell’uomo comporta delle conseguenze sotto duplice aspetto: anzitutto, attizza la rabbia di Dio e lo porta a privare
il peccatore della sua grazia, in seguito, deteriora l’uomo opponendolo a Dio ed i suoi simili. Infatti, richiede il ristabilimento dei legami tra l’uomo e Dio da un lato, l’uomo ed i suoi simili dall’altro: La riconciliazione portata da Cristo. Quale è il procedimento di questa riconciliazione secondo San Paolo ? Tale sarà l’oggetto della seconda parte.

2. L’OPERA RICONCILIATRICE DI CRISTO.
Questa opera per San Paolo è progressiva e passa attraverso tre tappe. Infatti, Dio agisce come un pedagogo. Si parla dell’economia di Dio nella storia della salvezza. Le tre tappe sono: la decisione di Dio, l’incarnazione di Cristo ed infine la sua morte ed la sua risurrezione.
 2.1- La decisione di Dio.
È Dio che affida l’opera della riconciliazione a Cristo. « …Ma, quando fu giunto il tempo stabilito, Dio mandò suo figlio… » « (Gal 4,4). Allora è a partire da un piano stabilito da Dio, maturato dal suo amore e dalla sua misericordia (Tt 3,4-5), che Dio decide di mandare Cristo a riconciliare il mondo con lui. « (Il Padre del nostro signore Gesù) ci ha fatto
conoscere il segreto progetto della sua volontà, quella che fin dal principio generosamente aveva deciso di realizzare per mezzo di Cristo. » (Eph.1, 9-10). Questa intenzione è di riportare l’umanità decaduta a Dio in previsione della riconciliazione. 
2.2. – l’incarnazione del Cristo: prima tappa della riconciliazione. Per portare l’umanità decaduta a Dio per la riconciliazione, c’è stato bisogno che Cristo facesse una strada che i teologi chiamano la « kenosi ». Si tratta dell’abbassamento di Cristo o della rinuncia alle sue prerogative divine. Anzi tutto, di condizione divino come è
stato da allora sempre, Cristo si è annientato (Ph.2,6) prendendo la carne dell’uomo peccatore. « Dio mandò i suo figlio in una condizione simile a quella della nostra di uomini peccatori… » (Rm 8,3). “E nato da una donna, e fu sottoposto alla legge per liberare quelli che erano sotto la legge e farci figli di Dio… » « (Gal.4.4-5). Non soltanto Cristo ha preso la condizione di peccatore, ma anche, si umiliò prendendo la condizione dello schiavo, » obbedendo fino alla morte e la morte della croce « (Eph 2, 7-8). Con l’incarnazione, Cristo riveste una doppia natura: la natura umana e la natura divina, con le quali serve di ravvicinamento tra Dio e  3 l’uomo. È l’inizio dell’opera riconciliatrice di Dio. Il Verbo di Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse figlio di Dio, dirà sant’Ireneo di Lione. Occorreva infatti che il mediatore di Dio e degli uomini, con la sua affinità con le due parti, le riportasse nell’amicizia e l’armonia… infatti, come potremmo noi, partecipare alla figliolanza adottiva, se non avessimo ricevuto la comunione con lui, mediante il figlio suo? Se il suo Verbo non fosse entrato in comunione con noi, diventando carne? Per questo appunto passò attraverso tutte le età restituendo a tutti, la comunione con Dio2
2.3- Morte e risurrezione di Cristo, opera propriamente detta della riconciliazione. In molte religioni, la riconciliazione tra la divinità e gli uomini è realizzata attraverso un atto sacrificale. Si offre una vittima per ottenere il perdono di Dio o delle divinità nel caso del politeismo. La colpa merita la morte del peccatore, si supplica dunque le divinità di
prendere gli animali al posto del fautore. Nella religione ebraica, sono gli agnelli che erano offerti in olocausto. Cristo si è offerto in olocausto come l’agnello, la vittima, per espiare il peccato dell’umanità e l’ha riscattata dalla maledizione che pesava su di lei. « Dio ha voluto essere pienamente presente in lui ( Cristo), e per mezzo di lui ha voluto fare amicizia con tutte le cose quelle della terra e con quelle del cielo; per mezzo della sua morte sulla croce
Dio ha fatto pace con tutto ». (Col 1,19-20). Risulta qui che l’opera di Cristo era di riconciliare tutti gli esseri con Dio, mediante il suo sangue versato sulla croce. La morte e la risurrezione di Cristo hanno dunque una portata non soltanto umana, ma anche cosmica. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti
è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza 21di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio « Rm 8, 19-21.  Per la sua doppia natura, Cristo l’abbiamo detto, ha iniziato la riconciliazione. La completa pagando con il sangue della sua croce, il debito che pesava sull’umanità in particolare e l’universo in generale e gli impediva di fare la pace con Dio. 
 2.3.1-Senso della morte e della risurrezione del Cristo secondo San Paolo  « Noi crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù , Nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione. »Rm 4, 24-25. Per Paolo, Cristo è morto per i nostri peccati. Nella sua passione e la sua morte, erano
le nostre sofferenze che sopportava. “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede. »Gal 3, 13-14. » La morte di Cristo non servirebbe a nulla se fosse restato nella tomba.  » “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli. « 1 Cor. 15, 4-5. » La morte del Cristo è diventata salutare per noi. La croce si è trasformata dunque in oggetto di salvezza e ha cessato di essere oggetto di maledizione, poiché ha condotto alla risurrezione. Poiché il primo Adam ha introdotto la morte nel mondo con il suo peccato è stato necessario che Cristo,    » Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù. »Rm 6, 5-11. » 
2.3.2- Gratuità dell’opera riconciliatrice di Cristo.
Ci si potrebbe chiedere per quale vantaggio Dio ha fatto soffrire il suo figlio per noi peccatori. Per Paolo, è per pura bontà che Dio ha mandato il suo figlio e che ha sofferto per riconciliarci con lui e tra noi peccatori. Siamo stati giustificati o meglio riconciliati con Dio, non in virtù di qualunque opera buona che abbiamo potuto compiere, neppure la pratica della legge, ma gratuitamente. Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna…. » (Tt 3.4-5) L’opera della riconciliazione di Cristo è come dice Mgr Ndongmo, un atto di
clemenza, di perdono immeritato che Dio accorda gratuitamente all’uomo peccatore3 Eravamo ancora peccatori ed attendevamo con pazienza la nostra condanna, quando Cristo ha fatto improvvisamente questa grazia di riscattarci:
Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. (Rm 5, 6-8).
 Dinanzi a tale opera grandiosa, quale deve essere il nostro atteggiamento? Cosa ci consiglia Paolo?
 2.3.3- Il nostro atteggiamento all’opera riconciliatrice di Cristo secondo Paolo.  » Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. « (Rm 6,4). La coscienza che siamo morti e resuscitati in Cristo con il battesimo, deve stimolarci a condurre una nuova vita. Questa vita consiste a non vivere più sotto l’influenza del peccato per attizzare la rabbia di Dio.
Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l’ira di Dio su coloro che disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. (Col 3, 5-10). La vita nuova non consiste soltanto nel respingere il peccato ma anche nell’avere le stesse disposizioni di Cristo. Si tratta di:  – Restare allegri e di indirizzare preghiere a Dio incessantemente (1 Th 5, 16-17). Attraverso, la preghiera, lo Spirito di Gesù prega in noi e per noi e produce in noi le
sensazioni di Gesù (Ph 2, 5-6)  – Offrire sempre un culto spirituale a Dio ed evitare il conformismo al mondo
presente: Vi esorto dunque, fratelli miei, con la misericordia di Dio, ad offrire le vostre persone in ostia viva, santa, piacevole a Dio: È il culto spiritoso che dovete rendere. E non modellatevi sul mondo presente, ma che il rinnovo del vostro giudizio vi trasformi e vi faccia distinguere quale è la volontà di Dio, cosa che è buono, cosa che gli soddisfa, cosa che è perfetta. (Rm 12, 1-2).  – Vivere un amore di Dio che si diffonde nei nostri cuori con lo Spirito che ci fu dato
al battesimo (Rm 5, 5), ma anche nell’amore dei fratelli mettendo ciascuno al servizio della carità i vari doni che abbiamo ricevuti dallo Spirito (1 cor l3). »  – Rivestire le disposizioni del Cristo consiste nel diventare anche noi i servi della riconciliazione al suo seguito. « Infatti Dio senza tenere conto dei nostri peccati ha fatto di noi gli agenti del messaggio della riconciliazione. » (2 Cor.5.19). Dobbiamo seguendo il Cristo, proclamare la buona notizia della salvezza; che ormai tutti gli uomini possono ottenere il riscattato dei loro peccati, se hanno fede nella morte e la risurrezione di Cristo ed accettano di seguirlo.

CONCLUSIONE
In definitiva, l’opera riconciliatrice del Cristo secondo San Paolo, è l’applicazione del disegno d’amore di Dio attraverso Cristo, che consiste nel riportare a Dio, l’umanità e l’universo decaduti a causa del peccato originale e del peccato attuale. Infatti, il peccato originale come il peccato attuale, priva il peccatore della grazia di Dio e si trova diviso tra il
bene che vuole fare e non lo fa ed il male che odia ed lo fa al contrario (Rm 7, 14-26). Cristo, secondo Paolo è quello che restaura la grazia persa a causa del peccato: Innanzitutto con la sua incarnazione, avvicina Dio e l’uomo con la sua doppia natura, che serve così di mediazione. In seguito, con la sua passione, la sua morte e la sua risurrezione, riscatta
l’umanità e la natura intera dalla dannazione che pesava su di loro dopo il peccato e dà loro la garanzia che sono riconciliate con Dio. Questa riconciliazione non è un fatto pontuale della storia. Si è realizzata con gli esseri che hanno vissuto prima di Cristo nel rispetto di Dio (Eph 4, 7-10) ed è sempre attuale. Cristo continua a riconciliare con Dio, coloro che nella fede accettano di essere immersi nella sua morte e la sua risurrezione attraverso il battesimo e con
il fatto stesso accetta di condurre una nuova vita. Quelli, Dio li ricrea all’immagine del Cristo infondendo loro lo Spirito Santo, principio ispiratore di vita divina (1 Th 1,.18; Tt 3, 4 7), perché diventino a loro volta gli ambasciatori della riconciliazione.

Joseph Kuate, scj

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