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PAOLO, GESÙ E IL MATRIMONIO

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PAOLO, GESÙ E IL MATRIMONIO

This entry was posted on 19 marzo, 2009,

Prima di affrontare il tema delle riflessioni paoline sul matrimonio, e più in generale sulla sua considerazione dei rapporti fra uomo e donna, è opportuno interrogarsi sull’esperienza concreta e personale dell’apostolo.
Innanzitutto, Paolo era sposato?
A questa domanda, che a prima vista potrebbe apparire oziosa, molti studiosi rispondono affermativamente, sulla base del fatto che il percorso ordinario dell’educazione farisaica, com’è riportato dalle successive fonti rabbiniche, contemplava il matrimonio tra i diciotto e i vent’anni: un’età che si presume che Paolo abbia attraversato prima di diventare seguace di Gesù.
A favore di quest’ipotesi, inoltre, si cita spesso un passaggio – in realtà poco chiaro – della prima lettera ai Corinzi, laddove Paolo rivolge ai propri interlocutori una domanda che ha tutta l’aria di una provocazione: «Non abbiamo forse (io e Barnaba) il diritto di condurre con noi una sorella, come fanno gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?» (1Cor 9,5). Come si evince da un esame del contesto generale della lettera (1Cor 9,1-14), l’interrogativo ha una funzione puramente retorica, e non rivela alcunché sullo “stato civile” dell’apostolo.
Da questo brano, semmai, è possibile ricavare una conferma del fatto che altri apostoli, come Simon Pietro (qui menzionato col soprannome aramaico Cefa) e alcuni membri del gruppo parentale di Gesù, affrontassero viaggi missionari assieme alle mogli, nominate appunto col titolo di “sorelle” in quanto facenti parte del movimento. Paolo, in tal senso, lascia intendere che potrebbe benissimo avvalersi di un tale “diritto” (exousía), ad esempio facendosi accompagnare da una “sorella” ed esigendo ospitalità anche per lei: ma è una cosa che, verosimilmente, non fece mai, e che fu anzi, probabilmente, un suo personale titolo di vanto. Poco prima, nella stessa lettera, l’apostolo aveva addirittura esortato i Corinzi a seguire il suo esempio, mantenendosi liberi dai vincoli coniugali: «Vorrei che tutti fossero come me: ma ciascuno ha il proprio dono (chárisma) da Dio, chi in un modo chi in un altro. Quanto ai non sposati e alle vedove, [dico poi che] è cosa buona per loro rimanere come me» (1Cor 7,7-8).
Dai pochi indizi sparsi nelle lettere, pertanto, si possono trarre almeno tre diverse conclusioni: a) Paolo era sposato, ma aveva lasciato la moglie per dedicarsi completamente all’attività missionaria; b) Paolo era vedovo; c) Paolo era celibe. Cerchiamo di esaminarle rapidamente.
Avendo presente la proibizione esplicita del divorzio formulata da Gesù, riportata da varie fonti proto cristiane (vd. oltre), è improbabile che Paolo si fosse sposato con una “sorella” per poi separarsene. Il matrimonio, se mai ci fu, dovette in ogni caso precedere la “conversione”, supponendo sempre un pieno rispetto del giovane Saulo nei confronti della consuetudine farisaica menzionata più sopra. Il cosiddetto “privilegio paolino”, per cui la separazione tra i coniugi veniva da lui stesso considerata lecita, nel caso di matrimoni “misti” contratti prima dell’ingresso nella comunità (1Cor 7,15), sembrerebbe persino avvalorare una simile ipotesi: ma in quel caso la separazione veniva dichiarata possibile qualora il non credente della coppia ne facesse esplicita richiesta, e rappresentava certamente un caso limite. Il rapporto coniugale era investito di un tale potere, per Paolo, che il marito non credente veniva santificato dalla moglie credente, e la moglie non credente dal marito credente (1Cor 7,14). Di un matrimonio dell’apostolo in giovane età, con successiva separazione, non troviamo tuttavia alcuna traccia nelle lettere.
Anche l’ipotesi per cui Paolo sarebbe stato vedovo, avanzata fra gli altri da Jerome Murphy O’Connor, sembra fondarsi su basi fragilissime. Il matrimonio del fariseo Saulo è ancora una volta dato per scontato: viste le consuetudini giudaiche dell’epoca, «non si può escludere che Paolo non si sia mai sposato». Le eccezioni alla regola, che pure non mancherebbero, vengono trascurate o minimizzate, anche per ciò che riguarda singoli casi ben documentabili: da quello del profeta Geremia, che non volle mai prender moglie per adempiere alla propria vocazione, a quello dello storiografo Giuseppe Flavio, che si risolse al matrimonio in età relativamente tarda (verso i trent’anni), e soltanto su impulso di Vespasiano. La giovinezza inquieta di Giuseppe, spesa alla ricerca di un’esperienza religiosa radicale, potrebbe benissimo essere affiancata a quella di Paolo, che presenta se stesso come «pieno di zelo» nella fede dei padri (vd. ad es. Gal 1,14); senza considerare, poi, il caso di un Giovanni Battista, o dello stesso Gesù, che rimasero entrambi indubbiamente celibi. Da questo punto di vista, la proposta avanzata da Murphy O’Connor non può che suonare immaginosa: il silenzio di Paolo sulla propria condizione di vedovo, secondo lo studioso, andrebbe imputato a un evento traumatico, come la perdita improvvisa della moglie (e forse anche dei figli!) a causa d’un incendio o di un terremoto. Questo avrebbe addirittura orientato una parte della sua successiva elaborazione teologica: «se il dolore e l’angoscia [per una tale perdita] non potevano dirigersi verso Dio», alla cui volontà imperscrutabile bisognava piegarsi, occorreva «trovare un altro obiettivo… una via di sfogo per il desiderio represso di vendetta» (J. Murphy O’Connor, Vita di Paolo, trad. it. Brescia 2003, p. 85). E Paolo li avrebbe trovati: dapprima nei primi discepoli di Gesù, e in seguito nei Giudei che avevano rifiutato il messaggio di Cristo – una spiegazione circolare che, per quanto psicologicamente ingegnosa, lascia francamente perplessi.
L’unica ipotesi sostenibile, in conclusione, resta quella di una scelta celibataria, secondo quanto l’apostolo stesso si preoccupa di esprimere, in termini sufficientemente chiari, nel già citato versetto di 1Cor 7,7: «Vorrei che tutti fossero come me…». Il principio che anima tutta la riflessione di Paolo sui rapporti fra uomo e donna, a questo punto, potrebbe essere letto in riferimento alla sua posizione personale al tempo della vocazione apostolica: «Ciascuno, o fratelli, rimanga davanti a Dio nella condizione in cui si trovava quando venne chiamato» (7,24). Da questa affermazione si può dedurre che Paolo, nel momento in cui ricevette la rivelazione di Cristo sulla via di Damasco, non fosse affatto sposato, e che tale rimase anche dopo.
Matrimonio e divorzio in 1Cor 7
Il capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi è interamente dedicato al tema dei rapporti coniugali [1]. Paolo, nello specifico, risponde ad alcune questioni che gli erano state poste in precedenza dai Corinzi: in primo luogo riguardo al fatto se fosse davvero «bene per l’uomo non toccare donna», come recitava presumibilmente uno “slogan” degli interlocutori. Partendo da qui, l’apostolo espone una rapida serie di istruzioni relative agli “sposati”, ovvero alla disciplina delle relazioni matrimoniali (7,1-16), poi al rapporto fra l’ingresso nel gruppo e i vari “stati di vita” (7,17-24), e infine alla regolamentazione di casi particolari, come quello dei “non sposati”, delle “vergini” e delle “vedove” (7,25-40). Tre diversi ordini di questioni, dunque. Nel cuore del primo, l’apostolo si sofferma sul problema del divorzio, appoggiandosi per l’occasione a una citazione esplicita di Gesù:
«Per gli sposati dispongo, non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito, e qualora invece si separi, rimanga non sposata o si riconcili col marito, e che il marito non ripudi la moglie» (1Cor 7,10-11).
Molti commentatori sostengono che questo passaggio trasmetta una forma pre-letteraria di un detto di Gesù che ritroviamo nel vangelo di Marco (10,11-12), nella fonte comune ai vangeli di Matteo e di Luca (cf. Mt 5,31-32; 19,9; Lc 16,18) e in altri scritti protocristiani (Erma, Mand. 4,1-11). La formulazione paolina, in effetti, presenta un chiaro legame con la tradizione testimoniata e trasmessa dai sinottici (vd. M. Pesce, Le parole dimenticate di Gesù, Milano 2004, pp. 502-504).
Paolo, come Marco, riporta il detto in forma assoluta, e si distingue da Matteo e da Luca perché prevede la possibilità anche da parte della donna di “separarsi”. L’intera frase viene presentata come un vera e propria norma legale, come una disposizione di Gesù riguardo agli sposati, e ciò costituisce un elemento di forte specificità rispetto al dettato dei sinottici, che non parlano di questo come di un precetto, ma lo presentano piuttosto come una halakah, un’applicazione giuridica della Legge, formulata da Gesù. Al centro dell’interesse di quest’ultimo, più che la questione legale del divorzio, sembra esserci il richiamo a una moralità più alta, più esigente, a partire dall’assunto dell’indissolubilità dell’unione matrimoniale: per questo Gesù si pronuncia sul divorzio includendolo nella categoria morale dell’adulterio. La concezione di Gesù, in proposito, si avvicina a quella espressa da alcuni documenti coevi, come 11QTempl 57,16-19 e CD 4,20-5,2.
L’apostolo, come si è detto, traduce la norma di Gesù per ambienti in cui anche alle donne era consentito divorziare [2]: questo, da una parte, appare in linea con l’immagine che Paolo poteva avere di Gesù, e che non mancava di trasmettere alle proprie comunità, dall’altra apre la strada per supporre un’ulteriore elemento di continuità fra i due, precisamente sul senso trascendente che poteva essere conferito all’unione matrimoniale.
Il senso trascendente dell’unione coniugale
Vari testi protocristiani presentano il matrimonio come una metafora non semplicemente dell’unione fra Dio e Israele, quanto del rapporto che s’instaura fra il Cristo stesso e l’insieme dei suoi seguaci. Questa metafora nuziale compare anche nella corrispondenza di Paolo ai Corinzi, ad esempio in 2Cor 11,2: «Ardo per voi d’uno zelo divino, avendovi fidanzati a uno sposo, per presentarvi a Cristo come una vergine immacolata».
La relazione fra uomo e donna, nei testi del giudaismo pre-cristiano, era sempre stata utilizzata in riferimento all’Alleanza stipulata tra Dio e Israele, mentre in Paolo, forse sulla scia di analoghe riletture che troviamo attribuite a Gesù e a Giovanni Battista, essa passa ad indicare l’attesa della sposa/comunità nei confronti dello sposo/Cristo.
Nella predicazione dei profeti d’Israele, massimamente in Osea (1-3), la dolorosa vicenda personale del profeta diventava il paradigma stesso dell’amore ferito di Dio per la sua sposa “infedele”, in uno schema di corrispondenze fra adulterio e idolatria, separazione e ripudio, riconquista e conversione. I protagonisti del dramma erano tre: la sposa, che indicava al contempo Israele e la terra; lo sposo, figura dell’unico Dio; e i figli, che rappresentavano i frutti della loro relazione. La sposa/Israele era chiamata ad abbandonare i propri amanti, quei ba‘alim (letteralmente “padroni”, originariamente dèi della fecondità) con i quali si era prostituita, per ricongiungersi al suo ‘ish, il marito che senza di lei non può vivere. Attraverso la voce dei profeti, la stessa vicenda dei “protoplasti”, di Adamo e di Eva, veniva riletta come una traccia del cammino percorso da Dio con l’umanità. Accanto alla minaccia costante di un ripudio, si affacciava dunque l’annuncio di un amore fedele e imperituro, dell’attesa di una “nuova creazione” (in cui «la donna abbraccerà l’uomo»: Ger 31,22), o della celebrazione dell’intimità erotica rivista in chiave “spirituale” (come nel Cantico dei cantici: la cui esegesi allegorica, di fatto, ne avrebbe consentito il futuro inserimento nel canone ebraico e cristiano).
In Paolo, come nella stessa letteratura deutero-paolina (Ef 5,25-29), nei vangeli sinottici (Mt 9,14-15 // Mc 2,18-20 // Lc 5,33-35; Mt 25,1-13), nella tradizione del quarto vangelo (Gv 1,27; 3,29; cf. 12,1-8) o nell’Apocalisse di Giovanni (Ap 3,20; 19,7-9; 21,2.9; 22,17), gli esegeti rilevano però un mutamento significativo: lo sposo non è più il Dio d’Israele, ma Gesù, e la sposa non è più figura d’Israele, ma della comunità degli ultimi tempi; inoltre, come illustrato in riferimento al procedimento nuziale ebraico, ch’era sostanzialmente diviso in due fasi (il fidanzamento e la coabitazione degli sposi), «il passato, il tempo della stipulazione del contratto nuziale coincide con la venuta dello sposo Cristo… La coabitazione dello sposo con la sposa è rinviata, però, al tempo escatologico, quando nessun muro d’ombra potrà frapporsi tra i due amanti» (così R. Infante, Lo sposo e la sposa, Cinisello Balsamo 2004, p. 242).
Nella prospettiva dei detti riferiti dai sinottici, la centralità è assegnata alla presenza attuale di Gesù (basti pensare alla sospensione momentanea del digiuno in Mc 2,18-20, Mt 9,15 e Lc 5,34), al quale viene implicitamente attribuito il titolo di sposo messianico; e la sposa può trovarsi in una situazione di vigile attesa delle nozze, come accade nella parabola delle vergini (Mt 25,1-13) e nel passaggio paolino di 2Cor 11,2. L’apostolo potrebbe pertanto riferirsi, in questo caso, a un insegnamento di Gesù rielaborato e diffuso dai suoi primi discepoli. Il ruolo metaforico dell’apostolo sarebbe quello del padre che presenta allo sposo venturo la propria “vergine immacolata”, custodendone l’integrità (questo, peraltro, getta luce anche sul problema delle “vergini”, cui Paolo allude in 1Cor 7,25 e sgg.).
È assolutamente degno di nota, d’altronde, che in una discussione sul divorzio come quella che troviamo formulata in 1Cor 7, Paolo contro ogni sua consuetudine faccia appello a Gesù, e non alle Scritture: è forse l’indizio di un mancato accordo con esse, a renderlo necessario? È ciò che potrebbe emergere da un’attenta rilettura dei brani evangelici citati, e in particolare da una riconsiderazione del richiamo di Gesù a Genesi 1,27 e 2,24: «Mosè per la durezza del vostro cuore vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; ma in principio non era così» (Mt 19,8; cf. Mc 10,5-6).
Questo richiamo, con tutte le sue profonde implicazioni, può essere infatti spiegato come un netto rifiuto, da parte di Gesù, della norma relativa all’atto di ripudio fissata in Deuteronomio 24, che viene in questo modo apertamente contrapposta all’ordine più alto rappresentato dalla creazione («in principio non era così»). Spiega opportunamente Klaus Berger:
«All’epoca di Gesù il rifarsi all’ordine della creazione è senz’altro motivato anche dal fatto che la filosofia stoica del tempo aveva contrapposto criticamente l’ordine razionale della natura al diritto statale positivo. La radicalizzazione della legge secondo la volontà creatrice di Dio, in Gesù, si incrocia quindi con l’idea stoica dell’ordine razionale nella natura. Entrambe si rafforzano a vicenda. Il divorzio, seguito da un nuovo matrimonio, è contro la natura, perché il mondo è ordinato a coppie di maschio/femmina, e in Dio un solo uomo e una sola donna vengono congiunti a formare qualcosa di nuovo» (K. Berger, Gesù, trad. it. Brescia 2006, pp. 158).
Questo principio, secondo Berger, si integra allora con qualcosa di strettamente collegato alla persona di Gesù:
«Gesù torna sempre ad autodefinirsi lo sposo di Israele rinnovato… Forse si può spiegare così perché la parola di Gesù sul divieto del divorzio (seguito da un nuovo matrimonio) sia il suo detto più frequentemente citato nel Nuovo Testamento. Gesù vede nella fedeltà e nell’amore coniugali un’immagine reale del rapporto tra Messia e popolo. Se il matrimonio tra esseri umani è distrutto, il matrimonio non può più essere un simbolo reale del futuro regno di Dio. È qualcosa di analogo alla riconciliazione: solo quando gli esseri umani si sono perdonati a vicenda anche Dio può perdonare. Come il perdono tra esseri umani è il nucleo e il presupposto del perdono che si spera da Dio, allo stesso modo il risanamento dei matrimoni umani è il presupposto affinché venga rinnovato il matrimonio di Dio con il suo popolo. In entrambi i casi il rapporto sanato tra esseri umani è più di un semplice simbolo, è cioè allo stesso tempo nucleo e presupposto» (ibid., p. 163).

NOTE SUL SITO

BENEDETTO XVI: LA CONCEZIONE PAOLINA DELL’APOSTOLATO (COLLABORATORI DELLA GIOIA)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080910_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 10 settembre 2008

San Paolo (4)

LA CONCEZIONE PAOLINA DELL’APOSTOLATO (COLLABORATORI DELLA GIOIA)

Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso ho parlato della grande svolta che si ebbe nella vita di san Paolo a seguito dell’incontro con il Cristo risorto. Gesù entrò nella sua vita e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima, adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo. E’ proprio di questa sua nuova condizione di vita, cioè dell’essere egli apostolo di Cristo, che vorrei parlare oggi. Noi normalmente, seguendo i Vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, intendendo così indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro “che erano stati apostoli prima” di lui (Gal 1,17): ad essi riconosce un posto del tutto speciale nella vita della Chiesa. Eppure, come tutti sanno, anche san Paolo interpreta se stesso come Apostolo in senso stretto. Certo è che, al tempo delle origini cristiane, nessuno percorse tanti chilometri quanti lui, per terra e per mare, con il solo scopo di annunciare il Vangelo.
Quindi, egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e “tutti gli apostoli”, menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr 14,5.7). In quello stesso testo egli passa poi a nominare umilmente se stesso come “l’infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,9-10). La metafora dell’aborto esprime un’estrema umiltà; la si troverà anche nella Lettera ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia: “Sono l’ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio” (9,2). Ciò che il Vescovo di Antiochia dirà in rapporto al suo imminente martirio, prevedendo che esso capovolgerà la sua condizione di indegnità, san Paolo lo dice in relazione al proprio impegno apostolico: è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo. Da persecutore a fondatore di Chiese: questo ha fatto Dio in uno che, dal punto di vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato uno scarto!
Cos’è, dunque, secondo la concezione di san Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli apostoli? Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono l’apostolo. La prima è di avere “visto il Signore” (cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce nell’apostolato, non la propria presunzione. L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Non per nulla Paolo dice di essere “apostolo per vocazione” (Rm 1,1), cioè “non da parte di uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1). Questa è la prima caratteristica: aver visto il Signore, essere stato chiamato da Lui.
La seconda caratteristica è di “essere stati inviati”. Lo stesso termine greco apóstolos significa appunto “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e portatore di un messaggio; egli deve quindi agire come incaricato e rappresentante di un mandante. È per questo che Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo” (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1). Ancora una volta emerge in primo piano l’idea di una iniziativa altrui, quella di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente obbligati; ma soprattutto si sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni interesse personale.
Il terzo requisito è l’esercizio dell’“annuncio del Vangelo”, con la conseguente fondazione di Chiese. Quello di “apostolo”, infatti, non è e non può essere un titolo onorifico. Esso impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l’esistenza del soggetto interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: “Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore?” (9,1). Analogamente nella seconda Lettera ai Corinzi afferma: “La nostra lettera siete voi…, una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” (3,2-3).
Non ci si stupisce, dunque, se il Crisostomo parla di Paolo come di “un’anima di diamante” (Panegirici, 1,8), e continua dicendo: “Allo stesso modo che il fuoco appiccandosi a materiali diversi si rafforza ancor di più…, così la parola di Paolo guadagnava alla propria causa tutti coloro con cui entrava in relazione, e coloro che gli facevano guerra, catturati dai suoi discorsi, diventavano un alimento per questo fuoco spirituale” (ibid., 7,11). Questo spiega perché Paolo definisca gli apostoli come “collaboratori di Dio” (1 Cor 3,9; 2 Cor 6,1), la cui grazia agisce con loro. Un elemento tipico del vero apostolo, messo bene in luce da san Paolo, è una sorta di identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. Nessuno come Paolo, infatti, ha evidenziato come l’annuncio della croce di Cristo appaia “scandalo e stoltezza” (1 Cor 1,23), a cui molti reagiscono con l’incomprensione ed il rifiuto. Ciò avveniva a quel tempo, e non deve stupire che altrettanto avvenga anche oggi. A questa sorte, di apparire “scandalo e stoltezza”, partecipa quindi l’apostolo e Paolo lo sa: è questa l’esperienza della sua vita. Ai Corinzi scrive, non senza una venatura di ironia: “Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi” (1 Cor 4,9-13). E’ un autoritratto della vita apostolica di san Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del Vangelo.
Paolo, peraltro, condivide con la filosofia stoica del suo tempo l’idea di una tenace costanza in tutte le difficoltà che gli si presentano; ma egli supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell’amore di Dio e di Cristo: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39). Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana.
Come si vede, san Paolo si era donato al Vangelo con tutta la sua esistenza; potremmo dire ventiquattr’ore su ventiquattro! E compiva il suo ministero con fedeltà e con gioia, “per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). E nei confronti delle Chiese, pur sapendo di avere con esse un rapporto di paternità (cfr 1 Cor 4,15), se non addirittura di maternità (cfr Gal 4,19), si poneva in atteggiamento di completo servizio, dichiarando ammirevolmente: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24). Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori della vera gioia.

 

PAOLO FILOSOFO NASCOSTO – Gianfranco Ravasi

http://www.giuseppebarbaglio.it/articoli/Ravasi_Paolo.pdf

Un saggio sul pensiero dell’Apostolo: per capirlo non resta che affidarsi alle sue «Lettere»: più che sistematicità si scoprirà una coerenza nella interpretazione del Vangelo

PAOLO FILOSOFO NASCOSTO

Gramsci l’aveva sbrigativamente definito «il Lenin del cristianesimo» e Nietzsche un «disevangelista». Nel suo discorso emerge la prospettiva di un cambio di mentalità

Di Gianfranco Ravasi

Chi prende in mano il volume di Giuseppe Barbaglio può forse credere di essere davanti all’ennesimo profilo della teologia di Paolo sul modello, per esempio, del sostanzioso e importante saggio dell’inglese James D. G. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, tradotto da Paideia nel 1999. Il titolo e il programma dell’opera subito ci fanno capire che c’è qualcosa di diverso, anche perché lo stesso esegeta aveva già pubblicato una Teologia di Paolo, riedita dalle Dehoniane nel 2001. Il suo progetto non è quello di identificare a livello sincronico il piano teologico dell’Apostolo,
isolandone il fulcro portante (Cristologia? Giustificazione per la fede? Mistica? Mistero pasquale? Tensione apocalittica verso il trionfo finale divino?…), ma di inseguire il suo « pensare » elaborato attraverso un processo molto fluido, diacronico, non costretto nello stampo freddo di un sistema né confezionato in un atélier teologico asettico ma sollecitato dalle urgenze e dalle istanze del ministero missionario e pastorale. La « vulgata » inconsciamente prevalente anche in molti cristiani è, infatti, quella di un Paolo freddo ideologo, «padre del sottile Agostino, dell’arido Tommaso d’Aquino, del tetro calvinista, del bisbetico giansenista», del tutto alieno da quel Gesù che è «padre di tutti coloro che cercano nei sogni dell’ideale il riposo delle anime loro», come scriveva enfaticamente Ernest Renan nel suo Saint Paul (1869). Nietzsche l’aveva poi bollato come un « disangelista », ossia l’antitesi di un « evangelista », Albert Schweitzer (sì, il famoso dottor Schweitzer era un teologo prima di essere un filantropo) lo esaltava come «il santo patrono di coloro che pensano» e Gramsci l’aveva sbrigativamente denominato «il Lenin del cristianesimo»! In realtà, Paolo era stato innanzitutto un pastore, un annunziatore e un testimone, anche se spesso i suoi testi erano rimasti quasi esclusivo
appannaggio di teologi. Ebbene, Barbaglio vorrebbe cercare di individuare la vera qualità di questo particolare pensatore. È indubbio che quello paolino sia un pensiero teologico che ha un apriori che lo precede e una fonte
che lo alimenta: la sua è una razionalità tutta interna alla stanza della fede cristiana, spesso ribadita da quel « sappiamo » che connota la tradizione della fede ancorata alla rivelazione divina. Ma quel pensiero, che pure è nutrito dell’eredità biblica e della stessa cultura grecoromana, secondo Barbaglio non è formulato attraverso un disegno previo e una trattazione conseguente bensì fiorisce attraverso un genere di sua natura « occasionale » come quello epistolare. Si ha, così, un pensare provocato dagli interlocutori (emblematici sono i capitoli 6 e 8 della Prima Lettera ai Corinzi) che diventa provocatorio nei loro confronti, interagendo con le loro istanze ma rappresentando anche quelle dell’Apostolo stesso. Egli, infatti, «intende suscitare in loro un cambiamento di mente e di vita e lo fa con la pienezza della sua autorità di apostolo e di padre della comunità, ma anche affidandosi alle risorse dell’argomentazione e alla funzione illuminante della ragione». Alle spalle di Paolo non c’è, dunque, un progetto antecedente e coerente. Su questa convinzione Barbaglio è radicale e indubbiamente solleciterà reazioni da parte di molti colleghi che coi loro
saggi hanno spesso asserito il contrario (ritrovando, per esempio, sotteso alla Lettera ai Romani il nucleo preliminare dell’ideologia paolina). «La teologia di Paolo – scrive, invece, Barbaglio – è la teologia delle sue lettere. Un pensiero teologico dell’apostolo altro da quello presente nelle sue lettere è pura congettura soggettiva, in ogni modo per noi zona oscura e inattingibile». È così che il procedimento adottato dalla riflessione paolina e dalla relativa analisi di Barbaglio non si àncora a un disegno predeterminato ma a una prospettiva ermeneutica: «Il fattore di unità della riflessione di Paolo è piuttosto formale: consiste nel suo metodo di far teologia, nel processo di pensare Dio e
Cristo; egli rilegge e ridefinisce i punti nodali della credenza primitiva cristiana, il vangelo nelle sue diverse valenze… Il suo è sempre unitariamente un pensare ermeneutico, teso a comprendere la ricchezze nascoste nel credo protocristiano… La coerenza del pensatore Paolo è di carattere ermeneutico: egli fa emergere le implicazioni dell’eschaton che si è fatto storia in Gesù morto e risorto».
Con questa scelta metodologica Barbaglio procede all’identificazione del diagramma teologico in divenire dell’Apostolo, affidandosi obbligatoriamente a due traiettorie estrinseche ormai codificate, anche se non prive di qualche esitazione in sede storico-critica, quelle della selezione delle lettere direttamente paoline (escludendo quelle di « scuola ») e della loro sequenza cronologica. È ovviamente questa la sezione più sostanziosa dell’opera, articolata in dieci tappe che partono dal «vangelo della gratuita elezione divina» (1 Tessalonicesi 1-3) e avanzano attraverso le varie fasi in cui quel vangelo si ramifica e si anima: la croce di Cristo (1 Corinzi 1-4), la libertà dei gentili (Galati), la rivelazione della giustizia divina, la giustificazione e la vita nuova, la fedeltà di Dio a Israele (Romani), la morte e risurrezione di Cristo come primizia (1 Corinzi 15), la vita nello Spirito per approdare alla figura stessa dell’apostolo delineata in relazione al vangelo (2 Corinzi). La lettura di questa pagine, sempre costruite su un’esegesi fine e spesso originale del testo paolino, rivelano in modo inequivocabile la lunga e amorosa assuefazione dell’autore all’epistolario paolino, confermata per altro dalla sua bibliografia. Si ha, così, la possibilità di inseguire un pensiero affascinante nonostante i sentieri di altura che propone e le non poche asprezze e asperità. Naturalmente su alcune opzioni interpretative o sulla ricostruzione evolutiva del pensiero paolino potrà accendersi la discussione tra gli esegeti. Alla fine l’impressione che si ricava è piuttosto paradossale: pur scegliendo di essere un teologo occasionale, epistolare, pastorale, Paolo si rivela un pensatore coerente e capace di delineare un quadro teologico armonico. Certo, decisiva è stata la roccia su cui si è fondato, quella del vangelo di Cristo che lo precede, come consequenziale e cruciale è stata la prospettiva ermeneutica da lui adottata. Tuttavia si ha anche la sensazione di essere in presenza di un pensatore che sapeva tenere ben stretto il filo del suo pensiero, senza perdere di vista da dove era salpato e la meta verso la quale sarebbe approdato. L’opera di Barbaglio segna, comunque, con la sua tesi originale (e tutt’altro che peregrina) e col suo meticoloso vaglio testuale una tappa importante e per certi versi imprescindibile negli studi paolini contemporanei.

Giuseppe Barbaglio
Il pensare dell’apostolo Paolo

LA TEOLOGIA DELL’APOSTOLO PAOLO

http://digilander.libero.it/moses/cristianesimo03.html

(è soprattutto filosofia per me, critico, valido per molti versi, interessante)

CRISTO ED IL CRISTIANESIMO

LA TEOLOGIA DELL’APOSTOLO PAOLO

DI RENZO GRASSANO

Paolo è ricordato giustamente come il principale diffusore del cristianesimo in epoca apostolica. Fu figura storica a tutti gli effetti e lasciò alcuni scritti la cui autenticità è indubbia, anche se non si possono escludere rimaneggiamenti e « correzioni » operate a posteriori. La Lettera agli Ebrei, di cui parlerò abbastanza diffusamente per la sua importanza particolare, non fu forse opera sua, ma ne rispecchia alcuni modi di dire e le idee generali. Sicuramente uscì, dunque, dall’indirizzo profondo che egli aveva impresso alla prima chiesa.
Nato a Tarso, in Asia Minore, qualche anno dopo la nascita di Gesù, da famiglia ebraica ma di cittadinanza romana, fu educato a Gerusalemme e frequentò la scuola farisaica di Gamaliele, che a sua volta dovrebbe aver studiato con Hillel. Venne cioè educato alla dottrina farisaica dai migliori maestri di moderazione, lo stesso ceppo di quelli che influenzarono Gesù negli anni giovanili.
Sotto questo profilo, dunque, è per molti aspetti inspiegabile il trovarlo tra i più fanatici persecutori del cristianesimo.
Probabilmente non conobbe Gesù di persona, anche se non si può escludere lo abbia ascoltato quando insegnava nel Tempio di Gerusalemme.
Comunque non ebbe alcuna parte nella cattura, nel processo e nell’esecuzione del nazareno.
Cominciò la sua attività pubblica qualche anno dopo, e lo incontriamo per la prima volta al processo contro Stefano ed alla successiva lapidazione.
Gran parte della sua più realistica biografia è documentata negli Atti degli Apostoli composti dall’evangelista Luca in appendice al suo Evangelo.
Il resto si può facilmente ricavare dalle stesse Lettere di San Paolo, che nel II° secolo d.C. vennero canonizzate, cioè inserite nella Bibbia cristiana come scritture sacre a tutti gli effetti.
La sua vera avventura cominciò con il famoso episodio della caduta da cavallo sulla via di Damasco. Recava con sé lettere del Sommo Sacerdote di Gerusalemme che lo autorizzavano a catturare i seguaci di Cristo per condurli in catene a Gerusalemme.
Da allora, ricevute istruzioni direttamente da Gesù, che gli parlava, ovviamente, « dall’altro mondo » secondo la testimonianza dello stesso Paolo, egli divenne instancabile ed inarrestabile predicatore del cristianesimo.
Nessuno come lui andò così lontano nei viaggi missionari. Nessuno come lui cercò un approfondimento radicale e totale del mistero cristiano. Nessuno come lui visse con altrettanto coraggio e scarsissima considerazione di sé l’avventura della predicazione.
Parlò sia agli umili che ai potenti, anzi fu il primo a provare la grande impresa di convertire re e governatori.
I suoi scritti sono ancor oggi alla base della codificazione e della dottrina.
Il catechismo che abbiamo imparato da bambini prima della cresima, e che non sarebbe male ripassare nella sua ultima versione, si fonda sulle sue più importanti acquisizioni teoriche.
Non si è autenticamente cristiani se non si è « paolini ». Ma Paolo fu anche l’autore più contestato di tutta la storia della Chiesa. Tutti i pensatori che in qualche modo rifiutarono il cristianesimo fecero puntello sugli aspetti più paradossali e contraddittori delle affermazioni paoline. Il solo Nietzsche se la prese direttamente con il Cristo.
Persino io, che mi dichiaro cattolico (all’acqua di rose) senza vergogna, ma anche senza entusiasmo, visto l’andazzo attuale, trovo spesso imbarazzo e difficoltà nell’interpretare il pensiero ed il comportamento di San Paolo.
Del resto egli non fu mai accettato del tutto nelle comunità cristiane. Fu criticato ed osteggiato. Probabilmente fu frainteso, e persino calunniato. Dovette più volte difendersi e giustificarsi, contrattaccare.
Sotto un certo profilo, se si trova rispetto ad ogni sua affermazione un punto di forza relativo e contestualizzabile, egli ebbe ed ha sempre ragione. Ovviamente per i credenti. Ma questi punti vanno trovati e spesso non è facile. Come scrisse Pietro, od un suo successore immediato (forse un vescovo di Roma), « le sue lettere sono un po’ difficili da capirsi. »(1) Ammissione della rilevanza dei tratti speculativi e della radicale complessità dei ragionamenti.
Ancor oggi Paolo è un mistero, una sfida per la ragione e persino per la fede, se si crede che ogni buona fede non possa che riposare su un primo passo ragionevole del tipo: « quello che mi racconti ha dell’incredibile, ma sarebbe sciocco rifiutarlo a priori. » E’ la ragione che mi consiglia di credere.

Troviamo la teologia dell’Apostolo Paolo esposta in forma epistolare alle diverse comunità cristiane, non in modo organico e sistematico ma, a volte seguendo linee apparentemente estemporanee di approfondimento dottrinale, ed altre muovendo da semplici spunti polemici nei confronti di affermazioni di altri predicatori cristiani. Per essere correttamente intesa andrebbe ricostruita passo a passo, impresa che richiederebbe un lavoro ed un’attenzione enormi, e che al momento non sono in grado di produrre.
Mi limito quindi ad alcune linee molto generali, centrando l’attenzione su sei punti fondamentali:
1) la cosiddetta « follia della predicazione »
2) la dottrina del Cristo come nuovo Adamo ( e Sommo Sacerdote che immola sé stesso)
3) il primato assoluto della fede (non c’è altra giustificazione davanti a Dio che la fede in Cristo Gesù)
4) la dottrina della salvezza per « grazia »
5) il dualismo carne-spirito (e la realtà contraddittoria delle cose)
6)La dottrina politico-sociale di Paolo

La follia della predicazione
Nella parte introduttiva alla sua Storia della filosofia medioevale, Etienne Gilson riconosce in Paolo un’influenza stoica. «… Paolo ha certamente ascoltato le « diatribe » stoiche di cui ha conservato il tono violento di alcune espressioni: ma anche qui troviamo qualcosa di ben diverso dai residui di metafisiche precedenti; due o tre idee semplici, quasi brutali, ad ogni modo forti, e che sono altrettanti punti di partenza. Innanzi tutto un certo concetto della Sapienza cristiana. Paolo conosce l’esistenza della sapienza dei filosofi greci, ma la condanna in nome di una nuova sapienza che è follia per la ragione: la fede in Cristo….» Segue la citazione di I Corinzi I 22-25, che riportiamo pari pari:
« Gli Ebrei cercano i miracoli e i Greci cercano la sapienza; noi predichiamo un Cristo crocefisso, scandalo per gli Ebrei e follia per i Gentili, ma per i chiamati, Ebrei o Greci, potenza di Dio e sapienza di Dio. Perchè la follia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini. »

Gilson commenta in modo da affermare il carattere di doppia sfida di quest’ affermazione, « che avrà lunga eco nel Medioevo »perchè si rivolge a filosofi, cioè a uomini che ragionano. Gilson parla di follia della predicazione, qualcosa che gli individui ragionevoli, cioè i filosofi stoici (e scettici ed epicurei) del tempo di Paolo consideravano probabilmente come una forma di stravaganza, se non di stoltezza.
I seguaci dei filosofi, dunque, più dei filosofi stessi (del resto non sembra che al tempo di Paolo esistessero personalità filosofiche di rilievo, se si escludono il giudaico Filone di Alessandria, che morì nel 40 d.C., e Seneca), vennero in vario modo sfidati a cogliere la predicazione cristiana come sapienza diversa, vera sapienza. Che tuttavia era anche follia di Dio, o come tale appariva. Purtroppo Gilson si ferma qui e, come molti altri commentatori, non da conto di come si possa osare di parlare di una follia di Dio.
Problema che mi sono posto ancor prima da credente che da filosofo. La mia impressione è che, parlando di follia di Dio, Paolo intendesse riferirsi ad una follia per Dio che è tipica di ogni predicatore di qualsiasi religione. Essa non è sapienza razionale, ma la sfida e la oltrepassa, non già in quanto credenza superstiziosa, ma in quanto sapienza fondata in una oscura regione dell’anima e dello spirito che solo in Cristo trova finalmente una luce, la sua luce.
E per l’Ebreo Paolo la luce non può che essere la comprensione, finalmente, del senso delle scritture profetiche. Esse sono realizzate nella figura di Cristo Gesù.
La follia di Dio è la predicazione della realizzazione completa, il compimento della Legge e dei profeti.
Analogamente, quando si accenna alla debolezza di Dio, si deve pensare ad una debolezza per Dio che ci dovrebbe rendere più forti degli uomini forti. Siamo deboli per timore di Dio. Siamo ancora più deboli perchè lo amiamo.
Ma poichè il passo è ambiguo, una volta giunti a questa possibile e plausibile chiarificazione, il dubbio ritorna. Per Paolo c’era propriamente una follia di Dio da intendersi letteralmente? Mi chiedo: ma è possibile che un credente in Dio possa anche solo lontanamente dubitare della razionalità e della giustizia di Dio? Del suo Logos?

La dottrina del Cristo come nuovo Adamo (e Sommo Sacerdote che immola sé stesso)
Dobbiamo andare a quello che mi sembra lo zoccolo duro della dottrina paolina per vedere un altro aspetto della vicenda.
Il vero centro dell’annuncio (il kerigma) paolino, sta nella proclamazione forte del sacrificio di Gesù quale riscatto dell’intera umanità. Egli è il nuovo Adamo, e nell’Epistola agli Ebrei, diventerà il Sommo Sacerdote che immola sé stesso quale prezzo da versare per la nuova Alleanza tra Dio e gli uomini. Con l’offerta del suo sangue Cristo Gesù diventa il vero ed unico mediatore tra uomo e Dio, colui che riscatta l’uomo dal peccato.
Nel subconscio di Paolo, comunque infarinato di greca filosofia, questa necessità del sacrificio assume indubbiamente il carattere di una follia divina. Ed essa gli esplode nella bocca e gli scoppia tra le mani che vergano le pergamene. Com’è possibile che un Dio di bene e d’amore per gli uomini, si abbassi fino a questo punto? Come è possibile che, come una qualsiasi deità pagana, Dio si plachi solo con un olocausto?
Più avanti negli anni e persino nei secoli troveranno soluzione a questo interrogativo alcuni padri della Chiesa. La doppia natura del Figlio, insieme divina ed umana, ci consente di affermare che Cristo soffrì come uomo, nella carne, e come uomo versò il suo sangue di uomo. Ma come Dio egli venne al mondo, ed è solo come Dio che il sacrificio ebbe un valore presso Dio. Non ci sono sacrifici di uomini che possano tanto. L’Agnello ha da essere puro e santo, Unico nel suo genere.
Di qui l’esigenza di affermare il trinitarismo, che all’inizio fu indubbiamente una cristologia, cioè un dualismo Padre-Figlio, un unico Dio, ma composto da due persone distinte, con il Figlio nella singolare posizione di « generato, non creato ». Assurdità che la ragione, anche quella più forte ed addestrata alle sottigliezze, faticherà sempre a comprendere. E tanto vale, allora, parlare di mistero della Trinità. Perchè effettivamente c’è solo da perdere la testa a confrontarsi con un simile problema. Non capisco ma mi adeguo, aggiungendo che non mi ritengo affatto toccato dallo Spirito Santo e che le mie sono solo opinioni maturate dopo studi e riflessioni. Pensieri di un uomo in carne ed ossa.

Epperò, in Paolo la questione fu solo accennata e mai sviluppata, almeno nelle Lettere. Egli si limitò a disegnare, ad abbozzare un orizzonte, ma non riuscì ad approfondirlo, a curarne i dettagli, a giustificarlo con una dottrina non dogmatica.
Infatti, Paolo interpretò Cristo Gesù come il prezzo del riscatto offerto per l’affrancamento della colpa di Adamo. Non si trova, là dove si dovrebbe trovare, ovvero tra le righe di Romani, alcun accenno alla divinità di Cristo. Egli fu solo « il primogenito » di una moltitudine di redenti. (Rm 8,29)

Bisogna abbandonare Romani ed andare a Colossesi per trovare un punto più alto ed elaborato, un punto in cui si afferma: «In Lui abbiamo il riscatto, la remissione delle colpe: Egli è l’immagine di Dio, l’invisibile, primogenito della universa creazione, poichè in Lui tutte le cose furono costituite, così nel cielo come sulla terra, le invisibili e le visibili, i troni e le signorie, i principi ed i poteri, tutto attraverso Lui e per Lui fu creato: ed Egli è prima di ogni cosa e tutto si regge in Lui. Egli testa del corpo che è la Chiesa». (Col 1,15)

Ulteriore chiarificazione in Filippesi.
«Ed Egli che pure era nella forma di Dio, non fu geloso della sua somiglianza con Dio, ma si annullò fino ad assumere la forma di schiavo fattosi simile agli uomini. Ed apparso in fattezze umane, si umiliò, obbedendo fino alla morte, alla morte ignominiosa della croce. Per questo Dio lo esaltò e gli conferì un nome superiore ad ogni nome, affinchè a tal nome ogni ginocchio si pieghi.»(Fil 2,6)

Lettera dopo lettera, passo dopo passo, predicazione dopo predicazione, dunque, Paolo venne precisando il suo pensiero. E tuttavia non riuscì mai a riassumersi in una formula semplice, sintetica e lineare. Come Mosè riuscì a guidare il popolo alla Terra Promessa, ma morì prima di entrarvi, perchè Dio volle che a completare l’opera fossero i suoi discendenti (come a dire che il merito era di Dio e che mai nessun uomo riuscirà a completare del tutto disegni divini da lui iniziati), così Paolo seminò germi di dottrina, ma non li vide germogliare nemmeno nella sua consapevolezza finale. Stando a quello che troviamo scritto.
Del resto, una volta affermato che Cristo fu il nuovo Adamo, il nuovo capo di una nuova umanità redenta dalla colpa, si devono fare i conti con evidenti e naturali obiezioni. Basta dire che Gesù fu obbediente, ed in questo si distinse da Adamo, il disobbediente? Chiaro che no. La storia sacra pullula di uomini obbedienti. Ognuno di essi, da Mosè ai profeti, obbedì ed anche Abramo obbedì, pur non essendo un profeta. Il criterio dell’obbedienza non ha dunque una sufficienza di per sé. Sarebbe bastato Noè a salvare l’umanità dal peccato perchè egli obbedì a Dio nel momento cruciale. Tutti gli altri erano morti. Noè non salvò che pochi esemplari della specie umana. Ma anch’essi, secondo Paolo, non furono redenti. Sarà lo stesso Paolo ad affermare che l’obbedienza alla Legge non giustifica.
Eppure, proprio a Noè, Dio diede un cospicuo anticipo di quella che sarà la futura legge:
«Certamente del sangue vostro, ossia della vita vostra, io domanderò conto: ne domanderò conto ad ogni animale; della vita dell’uomo io domanderò conto alla mano dell’uomo, alla mano d’ogni suo fratello!
Chi sparge il sangue dell’uomo,
per mezzo di un uomo il suo sangue sarà sparso;
perchè quale immagine di Dio
ha fatto egli l’uomo» (Gn 9,5 – 9,6)
Dunque da quel preciso istante, secondo un’ovvia logica cronologica, la Parola di Dio è operante in modo che gli uomini sopravvissuti al diluvio abbiano ad intenderla.
E’ già operante ben prima della Legge.
Eppure, stranamente, in Ebrei non si trova alcun riferimento al valore immenso di questo precetto che fu consegnato al nuovo Adamo, l’Adamo intermedio tra il primo ed il terzo, ovvero Noè.

No, l’abisso scavato tra Dio e l’uomo richiedeva ora molto di più. Occorreva che Dio morisse per Dio e per la salvezza degli uomini.
Forse era questo il pensiero inseguito da Paolo e spesso afferrato per i capelli, ma subito sfuggito, subito di nuovo inafferrabile. Dev’essere stato duro vivere in questa perenne tensione, in questa ansiosa ricerca. Ma era inevitabile, proprio alla luce della sua stessa dottrina, che l’angoscia di afferrare la verità di Dio naufragasse a pochi metri dalla spiaggia, sempre a pochi metri, persino a pochi pollici.
In altre parole: ho il sospetto che Cristo Gesù per Paolo rimase « altro » da Dio fino alla fine della sua grama esistenza. Vicinissimo alla soluzione, ma mai alla soluzione.
E questo, sempre che si prenda per buona la dottrina del Sommo Sacerdote che immola sé stesso.
Ma è una buona dottrina? Era veramente necessaria una simile formulazione?
Per gli Ebrei, forse sì. Per noi che siamo del tutto estranei a quella forma mentis ed a tematiche di Alleanze che si fondano sul sangue, credo proprio di no. Probabilmente, noi preferiamo consolarci con un’immagine del Cristo sofferente, torturato, umiliato, messo in croce da una masnada di delinquenti. E ci ripugna l’idea del kamikaze imbottito d’amore anzichè di tritolo.

Il primato assoluto della fede (non c’è altra giustificazione davanti a Dio che la fede in Cristo Gesù)
Anche nell’esposizione delle virtù cristiane per eccellenza, fede, speranza e carità, Paolo cadde in una sorta di imprecisione. Conoscendo un po’ meglio la storia del cristianesimo si troverebbe facilmente, almeno oggi, la correzione dell’errore nella lettera di Barnaba, o pseudo Barnaba che sia. Essa non era di molto posteriore a quelle di Paolo, pochi decenni e forse meno. Le tre virtù per Barnaba erano fede, giustiziae carità. Guardando all’etimo delle parole non si sfugge all’impressione che il ritmo triadico cercato da Paolo quale simbolo di una perfezione pitagorica di origine squisitamente greca, che la parola giustizia non sia stata trovata non per negligenza ma, per ancora reconditi pensieri che non riuscivano a venire alla coscienza, se non a spezzoni. La speranza è qualcosa che è già compresa nella parola fede. Non proprio una tautologia, non proprio una vuota ed inutile ripetizione, ma certamente un accessorio. Chi ha fede non può non avere speranza, ed a volte si incontrano anche speranze senza fede. No, la seconda virtù cristiana, posto che la più grande sia la carità, insegnata da Gesù con la parabola del samaritano, è la giustizia. Lo disse Barnaba, propagandista cristiano che fu a lungo con Paolo prima di litigare furiosamente con lui. Il tutto si trova rendicontato negli Atti.
Il problema è che per Paolo il termine era troppo impegnativo. C’è una sola giustizia, quella di Dio. Agli uomini non è concesso di essere giusti, nemmeno dopo Cristo.
Adamo fu cacciato dal Paradiso terrestre perchè volle avere scienza del bene e del male, cioè un senso autonomo della giustizia. Ma con Paolo, nemmeno dopo Cristo si poteva pretendere di avere in sé la giustizia. Essa è eteronoma, come ovviamente anche in Gesù, ma di per sé nemmeno l’osservanza dei precetti divini porta giustificazione.
Dura da capire. Eppure è così. Guai a chi si ritiene giusto in virtù delle opere! La Legge non ha giustificato Israele, tuonò Paolo ancora in Romani. E non perchè, in verità, Israele non seguì mai la Legge e la Parola di Dio, ma perchè essa, la Legge, di per sé era ed è insufficiente. Nemmeno la giustizia, dunque è sufficiente.
E perchè?
Beh, questo è il punto. Da un lato è troppo stretta e dall’altro troppo larga. L’uomo è peccatore di natura. Sbaglia facilmente. « Persino io mi sbaglio, voglio il bene e faccio il male che non voglio ». Quindi chi si ritiene giustificato dalla giustizia del suo fare è solo un presuntuoso. Il che, rispetto a quel punto relativo che dovremmo sempre cercare, è certamente vero. Ma il passo di Romani in cui si annunciano queste cose non è di chiarezza cristallina, anzi devo dire che ho capito qualcosa solo attraverso una lunga meditazione.
Dopo un’introduzione nutrita di corrette citazioni (i profeti Osea ed Isaia), Paolo arriva al nocciolo del suo pensiero affermando in modo davvero brutale:
«Che diremo dunque? Che i pagani che non perseguivano la giustificazione si sono impadroniti della giustificazione, della giustificazione che deriva dalla fede. Israele, invece, che ha perseguito una legge di giustificazione, non è arrivato alla legge. Perchè mai? Perchè non l’hanno cercata dalla fede, ma dalle opere. Inciamparono nella pietra di scandalo come sta scritto:
Ecco, pongo in Sion
una pietra d’inciampo
ed un sasso di scandalo,
e chi crederà in esso
non rimarrà svergognato.
Fratelli, il desiderio del mio cuore e la preghiera a Dio per essi tendono alla loro salvezza. Do infatti loro atto che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza. Non volendo infatti riconoscere la giustizia di Dio e cercando di far sussistere la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Infatti il compimento della legge è Cristo per portare la giustificazione ad ognuno che crede. Mosè infatti scrive riguardo alla giustizia quale proviene dalla legge: l’uomo che la metterà in pratica vivrà in essa. La giustizia che viene dalla fede dice così:
Non dire in cuor tuo: Chi salirà al cielo?
nel senso di farne scendere Cristo, oppure:
Chi scenderà nell’abisso?
nel senso di far risalire Cristo dai morti. Ma che dice?
La parola è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore.
E questa è la parola della fede che noi proclamiamo: se tu professerai con la tua bocca Gesù come Signore, e crederai nel tuo cuore che Dio lo ha resuscitato da morte, sarai salvato. Col cuore infatti si crede per ottenere la giustificazione, con la bocca si fa la professione per ottenere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: Chiunque crederà in lui non rimarrà confuso. Infatti non c’è distinzione tra Giudei e Greci; poichè lo stesso è il Signore di tutti e spande le sue ricchezze su tutti coloro che lo invocano, e chiunque avrà invocato il nome di Dio sarà salvato.» (Rm 9,30 – 10,13)
Da qui in poi, Paolo non fa che rimproverare ai Giudei la loro incredulità, quindi la mancanza di fede in Gesù. E siccome era fermamente convinto che solo Gesù fosse la salvezza, i passi successivi non mancano di chiarezza e coerenza.
Ma il complesso ragionamento sopra citato è ambiguo ed enigmatico, innanzi tutto perchè manca di prospettiva storica. Israele non ha trovato giustificazione non già perchè la Legge era insufficiente (e questo sembra invece dire Paolo), ma perchè pochi l’hanno messa in pratica. E’ da quest’inosservanza, mancanza di fedeltà alla Parola di Dio, e non di fede che nasce la confusione, il dramma, la caduta di Israele. Altrimenti non si capiscono i profeti e la loro necessità. Tutti i libri profetici non sono altro che l’ininterrotto lamento del giusto obbrobriato e disgustato dal comportamento di re e di popolo. E gli ultimi dicono che proprio non se ne più, tanto è grande l’ignominia.
Solo così si comprende anche il ruolo di Giovanni il Battista, l’ultimo dei profeti.
In secondo luogo non priva di ambiguità è anche la citazione di Mosè. Come se la Legge fosse opera dello stesso Mosé e non Parola di Dio.

Superata questa impasse che comunque non cessa di dare da pensare, Paolo si può finalmente riassumere. Chiunque osservi solo i comandamenti morali, e non importa se per timore della punizione o per convinta adesione interiore, non trova giustificazione presso Dio. Da adesso in poi, solo chi professa Cristo come Signore sarà giustificato. E non ha alcuna importanza donde venga, se sia Ebreo, Romano o Persiano. Il lato religioso-cultuale prevale su quello pratico-morale. Come a dire: prima dimmi se credi, il resto è di secondaria importanza. E’ questo il punto sul quale un qualsiasi filosofo razionale avrebbe molto, moltissimo, da ridire. Stoici, epicurei, filoniani, in fondo non fa differenza. E potrebbero obiettare a Paolo persino muovendo dal Vangelo. Se l’albero è buono, lo si riconosce dai frutti che dà. E se a qualcuno è stato affidato un talento, il Signore glie ne chiederà conto. Non conosco persone che abbiano ricevuto solo il talento della fede.

Paolo affrontò la stessa questione, più o meno negli stessi termini, in diverse occasioni. In Galati, ad esempio, una lettera composta tra il 56 ed il 57 d.C., egli scrisse:
«E allora, perchè la legge? Essa fu aggiunta a motivo delle trasgressioni, finchè non giungesse il seme oggetto della promessa, promulgata per mezzo degli angeli, tramite un mediatore. Ma un mediatore non esiste quando si tratta di una persona sola; e Dio è uno solo. La legge allora va contro le promesse di Dio? Non sia mai detto! Se infatti fosse stata data una legge capace di dare la vita, la giustificazione si avrebbe realmente dalla legge. Ma la Scrittura ha chiuso tutte le cose sotto il peccato, affinchè la promessa fosse data ai credenti per la fede in Gesù Cristo.
Prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi come prigionieri sotto il dominio della legge, in attesa della fede che sarebbe stata rivelata. Cosicchè la legge è divenuta per noi come un pedagogo che ci ha condotti a Cristo, perchè fossimo giustificati dalla fede. Sopraggiunta poi la fede, non siamo più sotto il dominio del pedagogo.» (Ga 3,19 – 3,25)

Per Paolo la fede è sempre il momento cardinale. Fino al punto che non esitò nemmeno a cambiare le parole dei passi citati dalla Bibbia per dare forza ai propri discorsi.
Citando il profeta Abacuc, che scrisse: il giusto vivrà per la propria fedeltà al Signore ed alla sua Legge, Paolo sostituì la parola fedeltà con la parola fede. Il giusto vivrà in forza della fede.
E’ un gesto che si commenta da sé.

E la stessa disinvoltura ritorna in Ebrei, in modo molto più diffuso. Mettendo in un unico mazzo Abele, Enoch, Abramo, David, i profeti, Noè, Barak, Sansone… Sara, egli vide ed esaltò solo la loro fede, tipico di Paolo.
Persino troppo facile controbattere, lo farà Giacomo, capo della corrente cristiano-giudaica, asserendo che ciò che giustificò i vari personaggi biblici fu la loro obbedienza, cioè la loro fedeltà al Signore. E che obbedienza significa azione, cioè opere e comportamento.
Ma Paolo ha un partito preso, la priorità della confessione di fede, e quindi procede senza scrupoli. Sicchè incontriamo un’autentico gioiello di esegesi: « Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco… Egli pensava infatti che Dio è capace di far resuscitare i morti.» (Ebrei 11,17 – 11,19)
Qui, ancora una volta, la prospettiva storica è completamente stravolta. Gli Ebrei cominciarono a credere alla sopravvivenza dell’anima in epoca molto tarda, in ragione di influenze provenienti da culture e religioni esterne. In tutto l’antico testamento non ci sono passi espliciti che rinviino ad una simile credenza. La frase ricorrente alla morte di qualcuno è che si coricò con i padri. Per la verità, c’è un passo, in Genesi 5, 24, che dice qualcosa di diverso: «Enoch camminò con Dio e non ci fu più, poichè Dio lo rapì.» E’ l’unico indizio. Ma più che di morte cui seguì una sopravvivenza dell’anima od una resurrezione, farebbe pensare ad un’ascesa in cielo del tutto singolare, un premio assegnato ad un uomo del tutto particolare. Però anche l’Adamo intermedio, ovvero Noè, conobbe la corruzione e la morte.

Mi ha molto colpito l’intepretazione che ha dato Gabriel Josipovici di questo infelice passaggio. E’ utile citarla per intero. «Una sfilata grandiosa ed affascinante, ma che inevitabilmente lascia alquanto perplessi i lettori dell’A.T. Come leggiamo il capitolo non possiamo evitare di domandarci se corrisponde alla nostra memoria del testo. E proprio tutto quanto si può dire di quelle persone? Ci rammentiamo di Sara che ride dentro di sé quando origliando il colloquio fra Dio ed Abramo apprende che concepirà un figlio, una scena tanto rilevante da essere perpetuata nel nome del figlio, Isacco; pensiamo agli anni giovanile di Mosè; ci tornano alla mente i tremendamente complicati e ambigui rapporti di Davide con Dio…. e riflettiamo: tutto questo può essere rubricato sotto la solo voce fede? E non è sufficiente rispondere che la fede fu l’elemento dominante della loro vita e che evidentemente l’autore della lettera agli Ebrei non intendeva riprendere per intero le scritture ebraiche. Non è sufficiente proprio perchè il riso di Sara e la passione di Davide per Betsabea ci impediscono di compendiare la loro vita e i loro rapporti con Dio in un unico concetto. Le storie della Bibbia ebraica sembrano per lo più destinate a lasciarci in una sconcertante ma feconda ambiguità: hanno evidentemente un significato, non sono pura e semplice cronaca di fatti: eppure stranamente, il significato è insito in esse più che essere un qualcosa che noi possiamo estrarre da esse. Giacobbe non è necessariamente migliore o più credente di Esaù, riesce difficile non biasimare Giuda, i peccati di Davide sono altrettanti o più numerosi di quelli di Saul. Eppure questi e non altri sono scelti. Perchè ci domandiamo, e ci pare che questa sia la precisa domanda che quelle storie ripetutamente attendono da noi. Ebrei, dando un’interpretazione, annulla la domanda.» (2)

Come non essere d’accordo? Tanto più che con questa pretesa della fede che tutto spiega, sia la storia che il suo intricato spessore umano perdono la drammaticità, e rendono persino il dolore e le lacrime inutili al limite della farsa. Perchè mai Abramo dovrebbe dolersi del sacrificio di Isacco se tanto credeva che Dio lo avrebbe resuscitato? E perchè non avrebbe dovuto dubitare di un Dio che prima gli promise una discendenza, e dopo che l’ebbe, subito glie la tolse? Che diavolo d’un dio era questo che manco manteneva le promesse? E, soprattutto, perchè, perchè, perchè, dopo il passo citato in Gn 9,5, contenente il comandamento di non uccidere, Dio pretese da Abramo il sacrificio di Isacco? Che diavolo d’un dio era questo che smentiva e tradiva persino i suoi comandamenti.
Ci vorrebbe un volo pindarico della ragione per spiegare tutto ciò.

La dottrina della salvezza per grazia
Uno dei punti cardine della predicazione paolina la troviamo espressa in Efesini. Essa si può definire come una conseguenza del principio Dio può tutto, tutto quello che accade è volontà di Dio, ergo anche la conversione al cristianesimo, che è l’unica via di salvezza, è frutto della volontà di Dio. L’uomo che gode del privilegio di conoscere l’insegnamento di Cristo e di accettarlo, non si è salvato da solo, non ha fatto uso della sua ragione e della sua libertà, ma è stato salvato (altri diranno predestinato alla salvezza). All’uomo, dunque, nessun merito. Non lo può salvare il buon comportamento, non lo può salvare il suo istintivo senso della rettitudine, e nemmeno la sua formazione etico-filosofica. Nemmeno l’accettazione del mistero cristiano è merito suo.
Nel corso del tempo questa dottrina sarà ulteriormente estremizzata, a partire da Agostino, e poi dai pensatori protestanti, sia da Lutero che, ancora più estremisticamente, da Calvino. Verrà combattuta da Pelagio, verrà di molto annacquata dalla Chiesa Cattolica, e sarà osteggiata da Erasmo da Rotterdam, il quale disputerà con Lutero a proposito del « libero arbitrio ».
Pochi si sono accorti che riducendo l’uomo a poco più di un bambino in balia degli eventi e della presunta volontà divina, gli si leva ogni merito, ma si finisce col sollevarlo anche da ogni responsabilità. Se non ci sono giusti per meriti acquisiti, allora non vi sono nemmeno criminali ed assassini per demeriti e libera scelta. Una simile sciocchezza non poteva essere accettata dalla Chiesa cattolica, soprattutto quando divenne religione ufficiale prima, e Chiesa di governo poi. E se questa è una delle ragioni storiche per cui la Chiesa cattolica dovette ammettere la dottrina del libero arbitrio, un’altra andrebbe certamente ravvisata nella lenta e progressiva valorizzazione della ragione, culminata nella filosofia di San Tommaso.

Il dualismo carne-spirito
Chi professa Gesù Cristo come nostro salvatore è già un uomo spirituale di per sé?
A Paolo sembra di sì. Però la cosa è fatalmente contraddittoria.
A leggere le lettere si ha l’impressione di un uso alternato di carota e bastone. A fragorosi proclami di grandezza spirituale ed un po’ ipocriti riconoscimenti di meriti alle varie comunità cristiane, seguono ammonimenti pedanti a non ubriacarsi, a non fornicare, a non dire bugie, non rubare e così via, che fanno a pugni sia con l’asserto del primato della fede che con quello dell’ormai avvenuta conquista della spiritualità. Insomma, si finisce col chiedere opere e comportamenti coerenti con la professione di fede proprio agli spirituali. Un po’ ridicolo, no?
Se davvero tra i fratelli si mentiva, si rubava, si fornicava e ci si ubriacava, era evidente che la trasformazione da chiesa di quadri puri e duri a chiesa di massa aveva comportato qualche prezzo da pagare. Cani e porci erano entrati nel sacro recinto e faticavano non poco a trasformarsi in persone rette. Così si comprendono le riserve sollevate dalla corrente di Giacomo e l’azione sobillatrice di alcuni Giudei convertiti che passavano di comunità in comunità a confutare quanto Paolo aveva proclamato, ovvero a richiedere l’osservanza della Legge, essendo insufficiente per loro la recitazione rituale di un credo.
Crebbero le incomprensioni e nacquero feroci polemiche proprio tra i quadri, per usare un’espressione moderna.
Molte lettere paoline contengono denunce accorate contro questi superapostoli dell’ortodossia giudaico-cristiana. La ragione, come spesso accade, stava da entrambe le parti, almeno un po’, ma per una serie di sviluppi storici ancora tutti da decifrare, Paolo ebbe partita vinta e la corrente giudaico-cristiana si sciolse come neve al sole già prima della rivolta giudaica e la distruzione del tempio di Gerusalemme attuata da Tito, figlio di Vespasiano. Giacomo fu ucciso durante una persecuzione, Pietro e Giovanni erano in giro per il mondo, al pari di Paolo. Di tutti gli altri Apostoli, ad eccezione di Giacomo Zebedeo ucciso a sua volta, si persero le tracce, anch’essi svaniti nel nulla.

Vincitore indiscusso, con forza sovraumana e volontà incrollabile, Paolo continuò a proclamare le sue più profonde convinzioni. Nella II lettera ai Corinzi abbiamo un passo veramente esemplare: «L’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno morì per tutti e quindi tutti morirono; e morì per tutti affinchè quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per Colui che è morto e resuscitato per loro. Quindi ormai non conosciamo più nessuno secondo la carne; ed anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo è creatura nuova; le vecchie cose sono passate, ecco, ne sono nate di nuove!»
Qui, quando Paolo parla di una conoscenza secondo la carne, probabilmente voleva dire secondo criteri esteriori e, per così dire, « romanzeschi » e « narrativi ». Ora, però, noi che professiamo Gesù come salvatore, è come se fossimo morti con lui, e dunque resuscitati con lui.
Nella lettera ai Galati la vita spirituale conquistata in Cristo diventa sinonimo di libertà ed è contrapposta alla schiavitù della legge, la quale è la semplicistica espressione di una norma esteriore per mettere un freno alla carne.
«Ora vi dico: camminate nello Spirito e allora, non seguirete le bramosie della carne. La carne infatti ha desideri contro lo Spirito, lo Spirito a sua volta contro la carne, poichè questi due elementi sono contrapposti vicendevolmente, cosicchè voi non fate ciò che vorreste. Ma se siete animati dallo Spirito, non siete più sotto la legge. Ora le opere proprie della carne sono manifeste: sono fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, magia, inimicizie, lite, gelosia, ire, ambizioni, discordie, divisioni, invidie, ubriachezze, orgie e opere simili a queste; riguardo ad esse vi metto in guardia in anticipo, come già vi misi in guardia: coloro che compiono tali opere non avranno in eredità il regno di Dio.
Invece, il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, longanimità, bontà, benevolenza, fiducia, mitezza, padronanza di sé; la legge non ha che fare con cose del genere. Coloro che appartengono al Cristo Gesù crocifissero la carne con le sue passioni ed i suoi desideri.» (Ga 5,16 – 5,24)

La dottrina politico-sociale di Paolo
E’ in Romani che il pensiero di Paolo sul ruolo dei cristiani nella società comincia a prendere corpo e consistenza dottrinale. Posto che a Paolo interessasse ben poco fare del cristianesimo un movimento politico tout court, visto che la sua preoccupazione fondamentale era quella di salvare delle anime attraverso la conversione, in attesa della parusia immenente, cioè del ritorno di Cristo sulla terra, rimane che ad un certo punto della sua riflessione si trovò ad esplodere in due affermazioni molto impegnative. La prima riguardava il rapporto tra cristiani e le autorità politiche.
La seconda interessava addirittura il problema della legittimità del potere: secondo Paolo, è Dio che costituisce le autorità. L’ordine della società civile, amministrativa e politica, qualunque esso sia, è l’espressione della volontà di Dio.
Non è un pensiero che soddisfi più di tanto, per la verità, perchè nel bene e nel male, la conseguenza di questa affermazione è che anche i rivoluzionari che abbattono i regimi e riescono nell’impresa, fanno la volontà di Dio. Come poi nell’ordalia medioevale: chi vince, ha ragione per decreto divino?
Eppure questo fu uno dei più duraturi insegnamenti paolini.

Se i cristiani si comportano bene, e fanno del bene – scriveva l’Apostolo – non potranno che incontrare l’elogio delle autorità. I magistrati fanno paura solo a chi opera il male. Una simile affermazione cozzava non solo con l’esperienza concreta di Gesù (quanto bene aveva fatto e com’era stato ripagato?) ma con tutta la vicenda degli altri. Stefano, Pietro, Giacomo. Una serie ininterrotta di martiri, processi, prigionie e persecuzioni. Lo stesso Paolo era stato prima al servizio dell’autorità del tempio, come persecutore, poi perseguitato.
Come si spiega?
L’unica spiegazione probabile ed assennata deve far leva su quella che dovremmo considerare come una svolta, a meno che non si consideri il nostro Paolo come un demente forsennato. Quando Paolo scrisse queste righe, doveva essere in possesso, non dico di un concordato tra stato e chiesa, ma certo di un qualche solenne impegno da parte di qualche figura importante dell’impero. Ipotesi? Se ne può fare una sola: il rapporto maturato a Pafo in Cipro con il proconsole Sergio Paolo, che l’autore degli Atti definì uomo intelligente. Vedasi Atti 13,4 e seguenti. L’incontro col proconsole avvenne nel 46-47 d.C.
Sarà un caso che l’Apostolo decise di farsi chiamare Paolo proprio in conseguenza di quell’evento? E perchè Giovanni (quale Giovanni? I commentatori dicono Giovanni-Marco, cioè l’evangelista Marco) si separò da Paolo per tornare subito a Gerusalemme? E perchè, proprio a seguito del comportamento dell’evangelista, Barnaba e Paolo litigheranno?
Comunque sia, se si ritiene che questo sia un enigma ancora irrisolto, è qui che bisognerebbe cercare, nelle carte della diplomazia paolina.
Io sono propenso a credere che al di là di un possibile pre-concordato, Paolo facesse molto conto sulla conversione di pezzi grossi quali appunto il proconsole.
L’Apostolo, probabilmente, scriveva una delle più sbagliate e tragiche profezie della storia persuaso di poter godere per sé e soprattutto per la chiesa di una certa protezione. In quel momento si trovava a Corinto e si era nell’anno 57 d.C.
La prima persecuzione contro i cristiani di Roma venne avviata dopo l’incendio ordinato da Nerone nell’anno 62. Sotto l’imperatore Claudio, esattamente nel 49 d.C., è però vero che vennero espulsi Giudei considerati ospiti indesiderati. Ne parlò Svetonio nella Vita Claudii. Ma c’è una bella differenza tra espellere (o rimpatriare) e perseguitare.
Sembra che Claudio fosse preoccupato dalla crescita geometrica della comunità giudaica, che nelle grandi città dell’impero, in particolare ad Alessandria, andava a formare una minoranza etnico nazionale impenetrabile e compatta, del tutto restia a cancellare usi e costumi ed integrarsi nella comunità.
Non c’è dunque continuità tra la misura repressiva di Claudio e la successiva persecuzione neroniana. Semmai, come provato, sotto Nerone si ebbe dapprima una riapertura di credito nei confronti degli Ebrei, protetti da Poppea.
Poi cominciò la tragedia che toccò direttamente lo stesso Paolo. Ma questa è un’altra storia.

Note
1) La seconda lettera di Pietro. NT.
2) Gabriel Josipovici – Come leggere la Bibbia – Rusconi
DLG – 7 dicembre 2003 , rivisto il 24 febbraio 2004

LA GRAZIA E LA GIUSTIFICAZIONE NEL PENSIERO DI SAN PAOLO

http://www.collationes.org/de-documenta-theologica/theologia-dogmatica/item/141-la-grazia-e-la-giustificazione-nel-pensiero-di-san-paolo-paul-ocallaghan

LA GRAZIA E LA GIUSTIFICAZIONE NEL PENSIERO DI SAN PAOLO

Por Paul O’Callaghan

Paul O’Callaghan, La grazia e la giustificazione nel pensiero di San Paolo, en M. Sodi, P. O’Callaghan (eds.), Paolo di Tarso. Tra Kerygma, cultus e vita, LEV, Città del Vaticano 2009, pp. 103-116

I. Contestualizzando la dottrina paolina: la grazia giustificante e le ‘buone opere’
La dottrina paolina sulla grazia si situa soprattutto all’interno del tentativo dell’Apostolo di evitare e superare l’umana tendenza — frutto del peccato — verso l’auto-giustificazione. Secondo gli scritti paolini, l’uomo è peccatore e creatura, e per questa ragione le sue opere sono in qualche modo disordinate in partenza. Perciò soltanto la divina misericordia, gratuitamente comunicata, può salvare l’uomo e dare valore alle sue opere. La grazia, in altre parole, si oppone alle buone opere quando queste vengono considerate e vissute come mezzo necessario per la salvezza, con cui l’uomo può presentarsi davanti a Dio ed esigere riconoscenza.
Paolo adopera il termine ‘grazia’ (cháris) un centinaio di volte. Lo fa sempre al singolare, per designare in genere il favore divino, e in modo specifico l’evento escatologico che ha avuto luogo in Gesù Cristo e che produce il rinnovamento interiore dell’uomo credente. La vita cristiana parte e si incentra sulla donazione di Dio agli uomini e solo secondariamente — come conseguenza, pur necessaria — sull’etica. Gli uomini sono peccatori e hanno bisogno di essere redenti da Gesù Cristo: “perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (Rm 3,23s.).

II. Il cammino della grazia: Gesù Cristo
La giustizia ha origine esclusivamente in Dio, secondo Paolo. Però l’unico cammino per raggiungerla è per la fede in Gesù Cristo.
Sono molti i testi che indicano questa dottrina. “Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio” (Rm 5,1-2). “Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono” (Rm 3,21s.). In Romani 4,24 ss., Paolo spiega che nell’Antico Testamento Abramo veniva giustificato non per mezzo delle sue opere, ma per la fede in Dio (cf. Gn 15,6) in base ad una promessa ancora non vista né verificata; il cristiano, similmente, è giustificato per mezzo della fede in Gesù Cristo.
Nel contempo, ciò che rende possibile la redenzione (o salvezza) per mezzo della grazia, è il fatto che tutti siamo stati creati in Cristo e a causa di Cristo, un tema ricorrente in Paolo (1 Cor 8,6; Col 1,15-20; Eb 1,2-3.10). In altre parole, Cristo viene a salvare un mondo già creato da Lui e indirizzato sin dall’inizio verso di Lui; la grazia, perciò, non è qualcosa di violento, di invadente, di artificialmente aggiuntivo; esiste ed agisce in continuità con il dono divino della creazione.
Bisogna aggiungere, però, che il Cristo non può essere considerato come un mero mezzo che rende disponibile la grazia, perché secondo gli scritti paolini il dono di Dio agli uomini è Gesù Cristo stesso. Vivere nella grazia vuole dire ‘essere (o vivere) in Gesù Cristo’. In un brano famoso della lettera ai Gàlati, Paolo dichiara che “sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Questa incorporazione o rivestimento di Cristo, secondo Paolo, ha luogo per mezzo del Battesimo con l’invio dello Spirito Santo. Siamo stati “battezzati in Cristo Gesù” (Rm 6,3). “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27; cf. 2 Cor 5,2; Ef 4,24).

III. Lo stato nuovo del cristiano
Il credente in Cristo, secondo san Paolo, vive in un nuovo stato. Il ‘vivere in Cristo’ non equivale ad una mera assimilazione dello stile di vita e l’esempio del Maestro (Fil 2,5), con un’imitazione, tramite le proprie forze, delle sue virtù e dei suoi atteggiamenti. La realtà è più forte: “Cristo vive in me” (Gal 2,20). Per questa ragione Paolo può dire: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Cor 12,9). Cristo si rende presente ed attivo nel cristiano, che perciò vive in Lui, con Lui, per Lui.[1] Paolo impiega una ricca varietà di espressioni, fortemente collegate tra di loro, per spiegare questa nuova vita che scaturisce dal Cristo e si fa sempre più presente nella vita del credente. Ne possiamo elencare sei.
1. In primo luogo, la ‘nuova creazione’.[2] La vita che risulta dal dono di Dio viene chiamata da Paolo una ‘nuova creazione’ (Gal 6,15).
Il ‘nuovo uomo’ è “creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,24). “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove” (2 Cor 5,17). L’opera di Dio nell’uomo è quella di essere “creati in Cristo Gesù per le opere buone” (Ef 2,10). L’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26) viene ‘ri-creato’ in Cristo secondo la sua immagine (Rm 8,29). Da una parte, questa spiegazione fa riferimento alla ‘creazione in Cristo’, già menzionata. La ‘nuova creazione’ quindi è qualcosa di più di una mera metafora. È una vera e propria opera di Dio, l’Unico Creatore. Dall’altra parte, il radicalismo di questa ‘nuova’ creazione ha come punto di arrivo la santità e quindi come punto di partenza il peccato, ovvero le ‘cose vecchie’.
2. La filiazione divina. Il risultato della vita di Cristo nel cristiano, della nuova creazione, è la filiazione divina, perché Cristo è il Figlio di Dio e la sua vita in noi ci rende figli del Padre. Paolo lascia intendere però che non si tratta di una filiazione naturale, originaria, ma del frutto della nuova creazione, come una seconda e successiva fase dell’esistenza umana. Per questo, adopera apertamente il termine ‘figli di adozione’ (Gal 4,6; Rm 5,15-16; Ef 1,3s.).[3] Nel contempo, è chiaro che la filiazione ricevuta per grazia produce una realtà non dissimile a quella di Cristo. Per questa ragione il cristiano, figlio di Dio, diventa co-erede con Lui (Rm 8,17). Cristo è la causa di questa vita filiale (Rm 8,29), che ci ha meritato sulla croce (Gal 4,5).
La realtà della filiazione divina viene resa presente nel credente, secondo Paolo, dallo Spirito Santo, in qualche modo sperimentato dai cristiani (Rm 8,14.16). Per mezzo dello Spirito possiamo chiamare Dio ‘Padre’ (Rm 8,15; Gal 4,6). Si può dire che l’agire dello Spirito, la nuova vita in Cristo e la filiazione divina interagiscono tra di loro nel modo seguente: Cristo Risorto, entrato nella pienezza della sua Filiazione, è Colui che invia lo Spirito, per trasformarci (Tit 3,6); a sua volta, lo Spirito ha il compito specifico di assimilare il cristiano a Cristo, affinché “Cristo sia formato in voi” (Gal 4,19); perciò si dice che nello Spirito possiamo gridare ‘Abbà, Padre’ (Rm 8,14-16). In poche parole: “Per mezzo di lui [Cristo] possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,18).
3. La presenza dello Spirito. Diverse volte Paolo parla della presenza dello Spirito nell’uomo come un aspetto specifico e qualificante della nuova vita. “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).
In effetti, lo Spirito viene inviato (Gal 4,6) e ‘concesso’ (Gal 3,5) al credente, ‘riversato’ (Tit 3,5) su di lui. Viene ad abitare in lui: “Lo Spirito di Dio abita in voi” (Rm 8,9). Dio abita in mezzo al Popolo dell’Antico Testamento come in un tempio.[4] In modo simile il tempio dello Spirito Santo è ora il credente cristiano. “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui” (1 Cor 3,16 s.). “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1 Cor 6,19). La presenza dello Spirito, in altre parole, consacra l’uomo a Dio, e costituisce un invito pressante a vivere una vita santa. Allo stesso tempo, dice Paolo, la presenza dello Spirito è soltanto un inizio, ‘le primizie’ (2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14; Rm 8,23). Cristo è la ‘pietra angolare’ perché l’edificio possa crescere bene, “per essere tempio santo nel Signore. In lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,21-2).
4. La liberazione dal male. Spesso Paolo parla della salvezza in Cristo come un’opera di liberazione e di redenzione.[5] “L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19-21).
L’agire dello Spirito raggiunge lo stesso effetto: “Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2 Cor 3,17). Anche nella lettera ai Gàlati, Paolo parla della “libertà che abbiamo in Cristo Gesù” (2,4). Di fronte a coloro che vogliono sottomettere i credenti alla schiavitù delle ‘opere della legge’, Paolo ricorda ai cristiani che “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Allo stesso tempo, insiste che questa nuova libertà non può mai offrire al credente il pretesto di peccare. “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne” (Gal 5,13).
Paolo, malgrado lo sfondo linguistico di tipo stoico che caratterizza i suoi scritti, non si interessa apertamente alla questione filosofica del libero arbitrio, cioè la capacità umana di scegliere tra diverse opzioni. Parla piuttosto della liberazione dell’uomo — che vive sotto la schiavitù del male/peccato, della legge, della morte, della concupiscenza, del fatalismo — che è il frutto della grazia divina. Consideriamo ora questi particolari della liberazione cristiana.
Prima di tutto, si tratta di una liberazione dal peccato, perché l’uomo, secondo Rm 7, ne è dominato, anche se è stato rigenerato dalla grazia di Cristo, secondo l’insegnamento delle grandi lettere paoline (Gal 5, Rm 8). Dovuto a questa liberazione possiamo trionfare sulla ‘carne’, sull’uomo vecchio, anche se sarà necessaria una battaglia che durerà fino alla morte (Col 3,5-9; Rm 6,12-23; 8,5-13; Ef 4,17s.). Si capisce comunque che non si tratta semplicemente di una lotta contro la mera debolezza della carne, ma una vera e propria lotta spirituale, contro le forze del male. “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).
Più complesso poi è la liberazione dalla legge di cui parla Paolo specialmente nella Lettera ai Gàlati (3,1-5,12). Certamente l’Apostolo non incoraggia i cristiani a trascurare il compimento della volontà di Dio. Anche la legge giudaica scritta (il Talmud) è una guida per la retta condotta. Tuttavia essa non è in grado di produrre la giustificazione dell’uomo. La legge non è fonte di peccato, non ne è l’equivalente, anche se può diventare uno strumento del peccato, perché rivela l’agire peccaminoso dell’uomo e perché l’uomo tende a vantarsi orgogliosamente delle opere compiute in conformità con la legge. Secondo l’Apostolo, la legge è il Pedagogo (Gal 3,24), in quanto preparazione per la venuta del Cristo. Con eccezionale insistenza Paolo insegna che il neo-converso dal paganesimo non ha più bisogno di aggrapparsi alla legge giudaica, ai riti, alle regole alimentari, alla circoncisione, ecc. Tuttavia, il cristiano è obbligato a vivere una vita santa, seguendo in tutto la volontà di Dio (Gal 5,1-6; Col 2,16-23). È lo Spirito Santo ad interiorizzare in ciascuno la volontà divina: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge” (Gal 5,22 s.); “ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la legge” (5,18).
L’uomo viene liberato anche dalla morte. Come nell’Antico Testamento (Gn 3,17-19; Sap 1,13 s.; 2,23), Paolo collega strettamente la morte con il peccato. “Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato” (Rm 5,12). E dopo: “Il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 6,23). In effetti, così come la morte è entrata nel mondo a causa del peccato, essa sarà superata nella risurrezione finale (1 Cor 15,3-58).
Inoltre, Paolo parla della liberazione dalla concupiscenza e dalla debolezza. Dio assiste l’uomo nella sua debolezza. Quando Paolo si lamenta della ‘spina nella sua carne’, il Signore gli risponde: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9). Per questo, conclude, “mi vanterò… ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (ibid). Lo spirito dell’uomo lo tira in su, la carne in giù. Però la grazia è più forte del peccato: “Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti” (Rm 5,15).
Infine, l’uomo viene liberato dal fatalismo, dalle oscure forze del male, e dai sofismi filosofici: “così anche noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo… Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, voi eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono. Ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire?” (Gal 4,3.8-9). “Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.” (Col 2,8).

5. Il perdono dei peccati (la giustificazione). Secondo san Paolo, il primo effetto o frutto della nuova vita in Cristo, dell’incorporazione a Lui, è il perdono dei peccati, ovvero la ‘giustificazione’. Si tratta di una questione molto sviluppata lungo le sue lettere, specialmente in Romani e Gàlati. Come abbiamo visto, la schiavitù da cui viene liberato l’uomo non era imposta dalla materia; neppure ha a che vedere con i semplici limiti della condizione creata. Quando parla dell’uomo e del cosmo Paolo non è dualista. Il punto di partenza per la giustificazione invece è il peccato, e perciò l’opera di rigenerazione, o ‘nuova creazione’, ha come primo effetto la salvezza, oppure il perdono dei peccati. Per questa ragione, in Rm 5,12 si insiste che “tutti hanno peccato”.
Paolo parla della ‘riconciliazione’ tra Dio e l’uomo (Col 1,20). Però si deve notare — anche se sembra qualcosa di ovvio — che non si tratta di una colpa simmetrica, perché soltanto l’uomo ha peccato. Perciò in realtà la riconciliazione è un’opera di misericordia divina, di pura grazia, di perdono gratuito. C’è una riconciliazione, certamente, però essa parte esclusivamente da Dio, l’unico offeso, che non può essere placato dall’abbondanza delle ‘opere’ umane. L’uomo non può prendere l’iniziativa né contribuire direttamente alla sua riconciliazione con Dio. Per questo Paolo insiste che “era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione” (2 Cor 5,19). Il testo dice letteralmente: ‘Dio era in Cristo riconciliando a sé il mondo’.
Quando Paolo afferma che Cristo in diversi modi ‘si fece peccato’, non si tratta ovviamente di peccati personali da Lui commessi. Piuttosto si deve dire che Cristo ha addossato su di sé il peccato dell’uomo, riconciliandolo con Dio nel modo più profondo possibile. “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (1 Cor 5,21). E altrove: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: ‘Maledetto chi è appeso al legno’” (Gal 3,13, citando Dt 27,26). Cristo non era il peccatore, però è stato lui a farsi volontariamente sacrificio e vittima per il peccato, e il sacrificio fu efficace dovuto alla sua completa innocenza. “Camminate nella carità”, si legge nella lettera agli Efesini, “nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato sé stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2). E nella lettera agli Ebrei, “una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli [Cristo] è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di sé stesso” (Eb 9,28).
Scrivendo ai cristiani di Corinto (2 Cor 5,19) Paolo dice che la riconciliazione con Dio implica che le colpe non vengano più ‘imputate’ all’uomo (cf. anche Rm 5,13). Testi di questo genere sono stati interpretati nella tradizione luterana come affermazioni di una giustificazione meramente estrinseca o forense del peccatore.[6] Ovvero, Dio semplicemente dichiarerebbe il peccatore perdonato in base al gesto sacrificale di Cristo. Cristo prende il nostro posto dinanzi al Padre, e viene castigato per noi. Infatti la parola biblica dikaioún, ‘giustificare’, vuole dire in aramaico ‘dichiarare giusto’. Nel Nuovo Testamento, però, la dichiarazione di innocenza esprime solo una parte del significato dell’espressione ‘giustificazione del peccatore’. Per questa precisa ragione si è inventato un neologismo cristiano in lingua latina, iustificatio, che vuole dire letteralmente ‘rendere giusto’.[7] Il peccatore infatti viene dichiarato giusto e perdonato, ma viene anche reso giusto. Con l’opera di Cristo si verifica qualcosa che va più in là dell’efficacia dei riti ebraici della purificazione, che esprimono una purezza perlopiù esteriore. Parlando del Battesimo, Paolo insiste: “siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!” (1 Cor 6,11).
6. L’impegno cristiano per la santità di vita. Il campo di prova per i cristiani giustificati e santificati è quello della santità di vita. Certo, gli uomini non si giustificano in base alle buone opere. Però le buone opere devono essere presenti nella vita del giustificato, come frutto e manifestazione della grazia. I cristiani vengono chiamati da Paolo più di trenta volte ‘i santi’,[8] quelli cioè che vivono una vita santa e virtuosa. La vita di Cristo presente in loro li spinge ad una vita virtuosa e a diffondere il bonus odor Christi, ‘il profumo di Cristo’ (2 Cor 2,15) verso le persone che hanno intorno a sé. Il peccato, invece, che non è in grado di produrre le opere buone, indica che la nuova vita non è presente ed attuante (Rm 1,29; Gal 5,18).
7. La grazia, perché? Dopo aver descritto, pur in modo succinto, la ricchissima dinamica della vita della grazia e della giustificazione negli scritti si san Paolo, bisogna chiedersi con quale finalità Dio ha voluto dare questo dono agli uomini che credono al suo Figlio fatto uomo? Perché si è ‘in grazia’, ‘in Cristo’? Perché si è destinati a vivere come figli di Dio, a ricevere il regno di Dio in eredità? Queste domande ci portano alle ultime due questioni attinenti alla teologia paolina della grazia: la finalità apostolica della vita dei credenti in Cristo, e il disegno divino di ‘ricapitolare tutte le cose in Cristo’.

IV. Vivendo in Cristo per comunicare la vita di Cristo agli uomini
Paolo parla della ‘grazia’ (cháris) come una realtà semplice, unica, che esprime e contiene il dono di Dio in Gesù Cristo agli uomini. Inoltre, parla della presenza nella vita della Chiesa dei carismi (charísmata), ovvero dei doni divini speciali che facilitano la comunicazione della Buona Novella all’umanità, rendendo possibile la missione universale della Chiesa. Detto diversamente, la grazia cristiana, pur destinata alla giustificazione del singolo, spinge ugualmente verso l’apostolato dei cristiani. Charitas Christi urget nos, ‘la carità di Cristo ci spinge’, dice Paolo (2 Cor 5,14).
1. L’Apostolo Paolo. Certamente Paolo applica questo principio in primo luogo a sé stesso, affermando che “mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). Egli si sente obbligato ad evangelizzare: “guai a me se non annuncio il Vangelo” (1 Cor 9,16; cf. Rm 1,5; 12,13; 15,15s). Bisogna notare che la grazia della conversione che Paolo ricevette sul cammino di Damasco non era semplicemente quella della conversione personale, ma proprio la conversione per una nuova ed universale missione.[9] Di Paolo Gesù disse ad Ananìa: “egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (At 9,15 s.). E nella lettera ai Gàlati, dice l’Apostolo: “ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1,15 s.). Questa grazia di Dio in Paolo divenne poi oltremodo feconda (2 Cor 12,5-10).
La contrapposizione paolina tra la fede e le opere, già accennata, fa riferimento a due questioni. Da una parte, alla vita personale in ogni credente: l’uomo non deve considerare le proprie opere in uno spirito di auto-compiacenza, ma sperare la salvezza solo da Dio in cui crede e da cui riceve la giustizia. Dall’altra parte, però, la contrapposizione tra fede e opere indica anche che i credenti non devono agire in modo tale da stabilire delle frontiere nei confronti della parola di Dio,[10] della forza salvifica che Dio ha spiegato in Gesù Cristo. La forza del Vangelo non richiede il compimento preciso e scrupoloso di una serie di regole o azioni di tipo istituzionale, ‘le opere della legge’. Detto diversamente, l’appartenenza meramente passiva alla Chiesa, come comunità salvata, non è sufficiente per assicurarsi la giustificazione individuale. È necessaria la fede, che apre l’uomo ai doni divini per sé ed anche per gli altri.
Quindi si possono fare due letture, complementari tra di loro, della contrapposizione paolina tra fede e opere: una lettura più individuale, che guarda alle opere dell’individuo di fronte a Dio e alla necessità della fede personale, la fiducia, l’umiltà; e una lettura più ecclesiale, o sociale, che guarda piuttosto all’appartenenza comune alla Chiesa, all’adesione alla sua dottrina e specificamente alla qualità intrinsecamente espansiva e contagiosa (missionaria) della fede.
2. L’apostolo cristiano. Ci si può chiedere, comunque, se questo forte legame, nella persona di Paolo, tra l’essere in Cristo e l’essere apostolo, come due aspetti inscindibili dalla sua personale vocazione, si verifichi anche nella vita degli altri cristiani. A questa domanda si può rispondere in un modo sostanzialmente positivo.[11] Tre osservazioni vanno comunque fatte.
In primo luogo, la forza e l’impegno della propria e intrasferibile vocazione come ‘apostolo delle genti’ sembra lasciare all’ombra l’apostolato degli altri cristiani, anche quello degli altri Apostoli (2 Cor 11,22-9). “Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue più di tutti voi” (1 Cor 14,18). “Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,10).
Poi, è chiaro che il singolare impegno apostolico di Paolo non costituisce una negazione dell’apostolato degli altri cristiani e neppure quello degli altri Apostoli. Come dimostrano le sue lettere, Paolo contava su molti collaboratori. Si parla dell’impegno missionario ad esempio di credenti come Priscilla e Aquila che per propria iniziativa istruivano il predicatore Apollo (At 18,26).
Infine, dal punto di vista più teologico, Paolo afferma lo stretto legame tra la grazia (la vita di Cristo nei cristiani) e i ‘carismi’, perché tutti e due hanno l’origine nello stesso Spirito e sono guidati dall’amore, ed indirizzati all’amore. “Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1 Cor 12,4-6). Non si può parlare, quindi, di carismi privati, ricevuti in beneficio proprio; sono tutti per il bene della Chiesa e tramite essa in favore dell’umanità. Lo spiega Paolo a lungo nella prima lettera ai Corinzi (12,7-11).

V. Predestinazione e ricapitolazione di tutte le cose in Cristo
Abbiamo appena visto che la grazia di Dio data agli uomini, la nuova vita in Cristo, ha una finalità intrinsecamente missionaria. A ciò si deve aggiungere però che la finalità ultima della grazia sta nella rivelazione definitiva del disegno di Dio in Cristo, ovvero la ricapitolazione di tutta la creazione in Cristo. Questo disegno, nascosto in Dio (il mystérion di cui si parla in Colossesi ed Efesini),[12] sarà rivelato senz’altro alla fine dei tempi, ma è stato rivelato già in Gesù Cristo, centro della storia della salvezza. Perciò, “quando tutto… sarà stato sottomesso [a Cristo], anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28). Consideriamo la questione in tre momenti.
Il primo momento. Il punto di partenza del disegno divino, secondo Paolo, è la predestinazione divina. La salvezza operata da Dio nel mondo trova sempre la sua radice nella predestinazione, fondata sul disegno originario di Dio. Egli parla dei cristiani predestinati “a conoscere la sua volontà” (At 22,14), “ad essere conforme all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29), “ad essere per lui [Dio] figli adottivi mediante Gesù Cristo” (Ef 1,5), “secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà” (Ef 1,11). È chiaro comunque che l’oggetto primordiale della predestinazione è Gesù Cristo in persona, il quale, secondo la prima lettera di Pietro, “fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi” (1 Pt 1,20). L’espressione più compiuta di questa dottrina si trova nel primo capitolo delle lettera agli Efesini.
“Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato… il disegno di ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra” (Ef 1,3-10).[13]
Sono quattro gli elementi principali di questo brano. (1) I cristiani sono stati ‘predestinati’, o ‘scelti’ in Cristo. (2) La finalità di questa predestinazione è quella di diventare ‘santi e immacolati’, ‘nella carità’, vivendo come ‘figli adottivi’. Tutto ciò (3) avviene ‘per opera di Gesù Cristo’, ovvero per la grazia ricevuta ‘nel suo Figlio’, e (4) perché ‘sia benedetto Dio’, ‘a lode e gloria della sua grazia’. Con molta frequenza infatti Paolo insiste che la contemplazione cristiana del graduale dispiegarsi di questo progetto si esprime in primo luogo nella necessità imperativa di lodare Dio, di ringraziarlo per i suoi doni,[14] appunto perché tutto sia ‘a gloria del nome di Gesù’.[15]
Il secondo aspetto. Se si parla di predestinazione e del progetto divino di portare tutto sotto il dominio effettivo di Dio in Cristo, ci si potrebbe chiedere se non si trovi un certo determinismo in partenza, basato sul disegno divino in cui tutto sia stato previamente deciso e preordinato? Già abbiamo visto che la libertà di cui parla Paolo non si identifica in primo luogo con il libero arbitrio, ovvero con l’autonoma autodeterminazione di ogni uomo, ma piuttosto con la liberazione dalla schiavitù del peccato. Inoltre, la riflessione di Paolo si deve comprendere alla luce del destino del Popolo Ebreo, oggetto della promessa divina (Rm 9-11), e non tanto degli individui umani. Paolo parla nella lettera ai Romani di Dio che sopporta “con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione” (Rm 9,22). E Dio agisce in questo modo “per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria” (Rm 9,23). Però ancora rimane aperta la domanda: non c’è nella forte dottrina paolina della predestinazione, dell’elezione, della vocazione, una certa insinuazione di predeterminismo? Si possono fare tre osservazioni.
Prima, quando Paolo parla di coloro che si perdono, sta pensando alla perdita della promessa da parte del popolo eletto affinché siano salvati i pagani. Non si tratta invece della perdita ‘sicura’ o necessaria di alcuni individui, prevista da tutta l’eternità, come se fosse il prezzo da pagare per ottenere la salvezza degli altri. Parlando del destino del popolo ebraico, Paolo dice che “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Poi, la predestinazione non implica un processo automatico di salvezza di alcuni individui; in ogni tappa del cammino del credente, la libera risposta dell’uomo viene suscitata: “quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati” (Rm 8,29s.). Terza, infine, la grazia data non è arbitraria nei suoi effetti, ma è destinata a superare il peccato e a portare l’uomo alla salvezza; l’uomo viene pienamente, spesso faticosamente, coinvolto in questo processo. Inoltre, nella lettera agli Efesini la predestinazione è sempre riferita a Cristo oppure, in Lui, alla collettività cristiana. Afferma spesso che Dio gli ha amato personalmente, gli ha salvato, chiamato, inviato. Però no dice mai che gli ha predestinato. L’oggetto della predestinazione è sempre Cristo, e in Lui il ‘noi’ (Ef 1,4-7).
Terzo ed ultimo aspetto. La ‘ricapitolazione’ di tutto in Cristo compromette l’intera creazione e non solo l’uomo, oppure la Chiesa. Con forza Paolo parla de “l’ardente aspettativa della creazione”, che “è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio… Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,19-23). Il capitolo centrale di questa ricapitolazione sarà la risurrezione corporale dei morti, promessa alla fine dei tempi (1 Cor 15). In quel momento, quando “il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28).

SAN PAOLO ALLE ORIGINI DELL’EUROPA

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SAN PAOLO ALLE ORIGINI DELL’EUROPA

Intervista a Michael Heseman

Michael Heseman è uno studioso e scrittore tedesco che ha già pubblicato alcuni libri ben noti anche in Italia, come Titulus Crucis, in cui dimostra come le più moderne ricerche confermano la veridicità storica di alcune delle reliquie che la tradizione ha tramandato. In questo caso, appunto, il frammento del “titolo”(o tavoletta) affissato per ordine di Pilato sulla Croce di Cristo e conservato nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Più recentemente ha scritto un libro, dal titolo Paolo di Tarso – archeologi sulle orme dell’apostolo delle Genti, sulle recenti scoperte che riguardano la figura di san Paolo. Proprio sulla figura dell’Apostolo delle Genti Radici Cristiane lo ha voluto sentire.

di Matthias von Gersdorff
Cosa l’ha particolarmente affascinata nell’apostolo san Paolo sia come cattolico che come storico?
Per uno storico è stupefacente come un solo individuo abbia potuto raggiungere ciò che Paolo ha raggiunto. Per chi poi è un cristiano credente è un indizio chiaro dell’operare della Provvidenza divina. Gesù stesso lo scelse come Apostolo dei Gentili giustamente perché riuniva tutti i requisiti.
Ma più di tutto mi sono sentito attirato sentendo la sua presenza nei luoghi dove ha operato. Ciò l’ho scoperto visitando assieme a un amico ecclesiastico i luoghi paolini di Filippi, Atene e Corinto, prima del viaggio in Grecia del Papa Giovanni Paolo II.
Per noi era una continua e grata sorpresa constatare come san Luca è un buon cronista. Paolo, più che qualsiasi altra figura biblica, lasciò una sua impronta. Così iniziò la mia ricerca durata otto anni e i cui risultati sono in questo libro.
Paolo è a volte una figura controversa per cristiani e teologi. Qualcuno si sente in imbarazzo per quanto dice sul ruolo della donna in chiesa, altri giungono persino ad accusarlo di avere falsato la purezza della dottrina di Cristo.
La “gente di Cloe” – probabilmente si parla di impiegati di una imprenditrice di buona posizione – stabilirono il contatto con Corinto durante il suo soggiorno a Efeso. E quando si parla di Prisca e Aquila sono menzionate prima le donne perché quasi sicuramente guidavano le comunità domestiche.
Durante 8 anni lei ha viaggiato nel Mediterraneo sulle impronte dell’Apostolo delle Genti. Quali furono le sue esperienze più toccanti?
Guardando questi posti ho nutrito la convinzione che si trattava di un racconto fatto da qualcuno che aveva presenziato ai fatti.
Emozionante è anche la forma in cui è stato scoperto il sarcofago di san Paolo, che verrà aperto in un prossimo futuro a San Paolo fuori le Mura.
Ma dove ho sentito più la presenza di san Paolo fu a Malta. Il Papa Paolo VI con tutta ragione la definì “l’isola di san Paolo”. In nessuna parte, eccettuando Roma, si trovano così fresche e ben conservate le orme di Paolo come a Malta.
Sotto l’ampia dimora di Publio, il “primo dell’isola”, è stata scoperta una chiesa cristiana. Pochi anni fa alcuni palombari trovarono quattro ancore di una nave alessandrina che trasportava cereali, la quale potrebbe ben essere quella sulla quale Paolo naufragò a Malta. Ora si cerca, con l’aiuto di palombari locali, di trovare i resti della nave stessa.
Nessuna figura biblica ha lasciato le orme in tanti luoghi storici come san Paolo. Da questo fatto si possono trarre deduzioni sull’importanza che ebbe l’Apostolo sulla Chiesa in quei giorni?
Giustamente un problema con cui s’imbattono le ricerche paoline è che la Chiesa primitiva era molto cristocentrica e non aveva una grande considerazione per i luoghi dove agirono gli Apostoli.
Ciò nonostante sono sopravvissute molte tradizioni locali. Ma è stata una grande sorpresa la riscoperta di luoghi caduti nell’oblio, perché molti di essi si presentano così come san Paolo li ha visti. Soltanto nel secolo IV si costruirono chiese sul Bema di Corinto (la tribuna delle arringhe), la sinagoga di Antiochia di Pisidia e il carcere di Filippi.
Qualche esegeta ha messo in dubbio l’autenticità di alcune epistole di san Paolo. Anche la verità storica di alcuni fatti degli Atti degli Apostoli sono stati messi in discussione. Tuttavia dagli archeologi arrivano continue conferme dei racconti biblici. Come si spiega?
Si spiega anche la fine un tanto repentina degli Atti dopo i due anni di cattività di san Paolo a Roma, dicendo che l’autore già conosceva il suo martirio ma non ha voluto inserirlo. Se leggo una biografia su Giovanni Paolo II che finisce col suo viaggio in Polonia del 2002, ciò significa per me che quella biografia è stata scritta non oltre il 2003; non certo che l’autore l’ha scritta nel 2008, ma ha voluto risparmiare ai lettori la drammaticità della morte di quel grande Papa.
Molti luoghi menzionati nelle epistole di san Paolo non sono stati ancora scavati o lo sono stati in modo parziale. Potrebbe l’Anno Paolino servire da spinta in questo senso?
Io lo vorrei ma ne dubito. Il motivo è semplice: i luoghi paolini non scavati ancora – e fra questi alcuni molto importanti come Listra e Iconio – si trovano in un Paese, la Turchia, che non si interessa particolarmente per il suo passato cristiano. Gli scavi sull’altopiano di Anatolia non offrono neppure una grande prospettiva di sviluppo turistico.
L’unica possibilità è che qualche grande università straniera se ne occupi, ma di norma i loro budget per scavi archeologici sono molto limitati.
L’arcivescovo di Colonia, cardinale Meisner, vuole incentivare la costruzione di un centro per pellegrinaggi a Tarso, luogo della nascita di san Paolo. Come vede questa iniziativa?
Per noi cristiani avere una chiesa a Tarso sarebbe un segno di buona volontà. Da noi le moschee proliferano dappertutto e per la Turchia concedere una chiesa non sarebbe troppo…
Un’ottima opportunità anche per il governo di Erdogan, che si sta dando da fare tanto per l’ingresso nell’Unione Europea, di far vedere che la libertà religiosa non esiste solo sulla carta.
Poi il fatto che questa iniziativa parta dal cardinale Meisner, il mio vescovo, perché io sono di Düsseldorf, mi rallegra in modo particolare.
Che si attende lei concretamente dell’anno paolino 2008/2009?
Theodor Heuss, il primo Presidente della Repubblica federale tedesca, in una certa occasione disse che l’Europa era stata costruita su tre colline: l’Aeropago, simbolo del pensiero e della democrazia, il Campidoglio, simbolo del diritto e il Golgotha, simbolo della visione cristiana dell’uomo.
Bene, nella persona di Paolo troviamo insieme questi tre elementi per la prima volta: il Vangelo che trova la filosofia e conquista Roma. La cultura dell’Occidente è una luce da mettere sul lucernario, non sotto il moggio. Profittiamo di questo Anno Paolino per riscoprire questa grandiosa eredità.
Il suo libro Paolo di Tarso è appena apparso. Quando avremo un altro libro suo e quale sarà la tematica?
Presto, sto facendo ricerche che mi riportano nel secolo XX. Il mio prossimo libro tratterà di un grande Papa vissuto in un momento difficile, a volte mal compreso e persino diffamato vilmente: Pio XII.
Dall’apertura degli archivi vaticani e dal processo di beatificazione, giunto alla fase finale, arrivano elementi notevoli che ricollocano la sua opera sotto una luce completamente nuova.
Ci vedo almeno due grandi opportunità. La prima è invitare ogni cristiano a meditare sulle origini della propria fede, anzi, a trovarle in modo vivo. D’altra parte vediamo che Europa si trova in un processo di ricerca e definizione e quest’anno paolino può aiutarla a riscoprire le radici della sua identità culturale. È una iniziativa meravigliosa, anche perché a Tarso dovrebbe esistere un centro di pellegrinaggi già da molto tempo. Nel luogo della nascita di san Paolo non esiste neppure una chiesa. La cappella che si trova sulla casa dove nacque, è divenuta museo.
Tarso si trova in riva al Mediterraneo, si può raggiungere da Antalya (Attalia) e quindi interessa ai fini del turismo, cosa che il governo turco già ha capito, e almeno negli ultimi anni lì sono stati realizzati scavi. Siamo giunti al paradosso per cui gli storici e gli archeologi credono più alla verità delle epistole paoline che qualche teologo ed esegeta. A volte mi viene da pensare che questi teologi neppure si interessano ai ritrovamenti archeologici, perché potrebbero smentire le ipotesi da loro costruite sul Nuovo Testamento.
Certe speculazioni sono talmente lontane dalla realtà da sembrare uno scherzo. Così qualcuno trova, ad esempio, che gli autori degli Atti sono diverse persone e non solo Luca. Perché? Per che a volte il racconto cambia alla prima persona del plurale, usa il “noi”. Come se a Luca, cronista geniale, non fosse possibile adattare il linguaggio alle circostanze.Mi sono sorpreso di ritrovarmi in diverse esperienze piccole e grandi dicendo a me stesso: “Eureka!”, ovvero in quei momenti in cui, con gli Atti degli Apostoli in mano, mi recavo ad un luogo paolino e trovavo tutto tale e quale l’ha descritto san Luca, il nostro tanto affidabile cronista.
Ciò è molto chiaro, ad esempio, quando si vedono gli scavi – realizzati negli ultimi anni a Cesarea, in Israele – del Pretorio che include il carcere di san Paolo, il tribunale dove fu interrogato, la sala delle udienze dove fu presentato dal governatore Festo al Re Agrippa II. Le femministe moderne l’hanno dichiarato “nemico della donna” perché dice che devono restare zitte in Chiesa e devono sottomettersi al marito. Ma per un ebreo del I secolo queste erano cose normali. La prima esigenza in questo senso proveniva dalla Torah. Se egli avesse detto qualcosa di diverso, sarebbe stato molto più incompreso.
Ma egli agì in modo ben diverso! Il suo primo battesimo fu quello di una commerciante di porpora, Lidia. In genere si direbbe che simpatizzava con “donne forti”. A Cencre mise «la nostra sorella Febe» (Rm. 16,1-2) a capo della comunità e la inviò con l’Epistola ai Romani come “ambasciatrice” nella capitale. Paolo di Tarso è niente meno che il padre dell’Europa cristiana, cioè della nostra civiltà. A lui dobbiamo che da un movimento quasi esclusivamente giudaico attorno alla figura di Gesù sia sorta una religione di ampiezza mondiale.
Egli osò gettare un ponte verso la cultura greco-latina ed ebbe successo, anche perché proveniva da Tarso, città di studi dove si trovavano i due mondi: quello ebreo e quello greco-latino. (RC n. 36 – Luglio 2008)

L’APOSTOLO SENZA FRONTIERE

http://letterepaoline.net/2010/03/31/l%E2%80%99apostolo-senza-frontiere/

L’APOSTOLO SENZA FRONTIERE

Questa voce è stata pubblicata il 31 marzo, 2010, in Approfondimenti, Per conoscere Paolo. di Franco Cardini

Testo tratto dal numero speciale di “Luoghi dell’infinito” (supplemento mensile del quotidiano “Avvenire”) dedicato all’Anno Paolino (n. 7, luglio 2008, pp. 16-23).

«Io non Enea, io non Paolo sono»: così Dante, al principio della Commedia (Inferno, II, 32), dichiara la sua indegnità e impossibilità di ascendere al cielo, come invece avevano fatto, per speciale grazia divina, sia il progenitore del fondatore di Roma, sia il vas electionis, Paolo di Tarso, com’egli testimonia nella Seconda lettera ai Corinti (12,2-5). Delle narrazioni che hanno per tema le ascese al cielo, l’Alighieri tace quella – nella quale non credeva, ma di cui aveva pur notizia – del profeta Muhammad, attestata in quel Kitab al-Miraj, il Libro della Scala arabo-ispanico, che potrebbe essere tra le fonti del grandioso poema. In materia di viaggi di Paolo, sarebbe bello poter cominciare da quello arcano e ineffabile che lo lasciò turbato e impaurito, e del quale non osava parlare se non in terza persona: «So di un uomo del Cristo, quattordici anni fa – fu nel corpo, non lo so, oppure fuori del corpo, non lo so, Dio lo sa – il quale venne rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – fosse nel corpo o senza corpo, non lo so, Dio lo sa – venne rapito nel Paradiso e udì parole indicibili, che è proibito a un uomo dire. Di quest’uomo mi vanterò, ma non mi vanterò di me stesso…». Non è però all’ineffabile che ci volgeremo. L’uomo che Agostino definì “il gran leone di Dio” e che Antonio Gramsci vedeva – in una prosperava, ai suoi occhi, sommamente laudatoria – come “il Lenin del cristianesimo”, era un indomabile genio dell’azione. Nacque in una data che gli specialisti non sono stati in grado di fissare e che continua a oscillare fra il 5 e il 15 d.C. Il fariseo Saul di Tarso in Cilicia, della tribù di Beniamino, allievo di rabbi Gamaliele, era ebreo di formazione rigorosissima eppure fiero della versione latina del suo nome, Paulus, che ne sottolineava la cittadinanza romana conferita agli abitanti di Tarso già da Marco Antonio. Era stato educato a Gerusalemme, dove aveva appreso il mestiere di tessitore di tende, tipico della gente della sua regione. In Gerusalemme guidò la lotta con i primi nuclei cristiani e fu, a quanto sembra, ispiratore o istigatore della lapidazione del protomartire Stefano. Poteva avere dai 23 ai 33 anni allorché, nel 38, quel misterioso incidente sulla via di Damasco lo mutò per sempre. Se già prima di allora si era dimostrato instancabile, dopo il battesimo ricevuto nella metropoli siriaca da Anania lo fu ancora di più. Dev’esser chiaro che di lui non abbiamo notizie storiche extrascritturali: ne sappiamo solo quel po’ che ci dicono gli Atti degli Apostoli, attribuiti all’evangelista Luca, medico amico e collaboratore di Paolo, e le Lettere paoline. La critica lavora sulle corrispondenze tra i dati storici che possiamo trarre dai testi .neotestamentari e quello che sappiamo con documentata certezza: gli esiti di tale confronto sono obiettivamente esigui e non consentono di replicare con certezza a chi propende per l’ipotesi che Atti e Lettere siano stati abilmente redatti da autori posteriori ai fatti narrati, i quali avrebbero costruito un castello di architettate corrispondenze storiche. Sul piano della ragione e della critica, la questione resta aperta. Il cristiano non deve dimenticare che la veridicità di alcuni dati storici relativi alla fede è garantita non già dalla documentabile realtà storica bensì dal dogma: il Simbolo elaborato dal concilio di Nicea del 325, cioè il Credo, fonda come materia di fede quanto riguarda la vita, la morte e la resurrezione di Cristo, quindi il nucleo del racconto evangelico e del magistero paolino. La critica storica, che appartiene alla ragione, non può sostituirsi alla fede: ed è in forza di questa che noi sappiamo essere Verità anche ciò che alla luce di quella non può essere affermato con certezza razionale. Come sottolinea egli stesso nella Prima lettera ai Galati (1,1), Paolo era profondamente convinto di aver ricevuto la sua missione apostolica «non da parte di uomini… bensi per mezzo di Gesù Cristo e da parte di Dio Padre». Ciò non significa tuttavia ch’egli non tenesse nel massimo conto il suo rapporto con la Mater Ecclesiarum, la comunità gerosolimitana, e i suoi capi Pietro, Giacomo e Giovanni dal 45 al 65. Ma furono essi stessi a riconoscere che il suo territorio missionario era non già il popolo eletto, bensì quello delle gentes, ovvero tutte le “nazioni” escluso Israele. Non che questo avvenisse facilmente. Al contrario. I pareri secondo i quali la Buona Novella era riservata agli ebrei, e non era possibile se non una Ecclesia e circumcisione (cioè destinata a chi fosse ebreo e in quanto tale esclusivo destinatario della Rivelazione), erano forti e in un primo momento prevalenti. Solo dopo quello che è stato definito il “primo viaggio missionario”, iniziato secondo gli Atti degli Apostoli (13-14) verso il 45, e il fondamentale contatto con la comunità antiochena che pare avesse già accolto degli incirconcisi, la legittimazione di una Ecclesia e gentibus cominciò a prendere piede. Ciò si verificò approssimativamente nel triennio 45-48, allorché Paolo, con Barnaba e Marco, visitò l’Asia Minore, quell’Anatolia ch’era la terra della sua stessa natia Tarso, fondando comunità aperte a fedeli di estrazione pagana. Non si può al riguardo minimizzare la tensione, se non l’esplicito contrasto, soprattutto con Pietro, al quale Paolo rimprovera la perdurante discriminazione tra fedeli d’origine ebraica e fedeli d’estrazione “gentile” (Galati 2,11-14). Gli Atti sorvolano su questa specie di braccio di ferro, ma le Lettere paoline non danno adito a dubbi.

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