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LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – (II PARTE) – DI GIUSEPPE BARBAGLIO

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LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – (II PARTE)

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

VERBANIA PALLANZA, 13-14 GENNAIO 1990

LA CREAZIONE IN PROSPETTIVA CRISTOLOGICA

Paolo caratterizza la creazione in senso cristologico, inserendo fin dalle origini Gesù Cristo nel rapporto tra « ktisis » e « ktisas », tra creatura e creante, con diverse formule: in Cristo, mediante Cristo, verso Cristo; sono modi per indicare la mediazione di Gesù Cristo nella creazione. Il rapporto « ktisis »- »ktisas » non è più un rapporto diretto, ma mediato da un terzo, Gesù di Nazareth. Dire che tutta la creazione è avvenuta in Cristo, mediante Cristo ed è finalizzata a Cristo, vuol dire che Gesù costituisce il senso di tutto. Uscendo dalle formule che riecheggiano il discorso della
causalità – la causalità strumentale o efficiente, la causalità formale, finale – potremmo dire che Gesù Cristo è il senso del mondo, di « ta panta », ed è impressionante che sia una persona individuo che dà senso alla totalità. Potremmo dire che Gesù è la chiave di lettura di « ta panta », è il centro aggregante per cui « ta panta » non è un insieme di cose, ma è un’unità unificata da lui. Gesù è la luce rivelante il senso della totalità, è il traguardo verso cui corre la totalità, è la forza traente: sono tutti modi per dire che Gesù di Nazereth, morto e risorto, é il senso del mondo.
Gesù, che è un uomo qualunque, un uomo debole, un uomo impotente, uno degli ultimi, uno dei vinti della storia, è il centro: lui, il crocifisso e il risorto. « Ta panta », il tutto, riflesso nell’uno Gesù di Nazareth. Però l’uno Gesù di Nazareth non è un individuo chiuso in sé, è il prototipo dell’umanità. Paolo questo l’ha visto chiaramente quando nel cap. 5,12 di Romani parla di Cristo come del secondo Adam, il secondo prototipo dell’umanità, oppure in 1 Corinti 15,20-29.45-49. L’uno Gesù non è separato dalla totalità dell’umanità, ma è il primo tipo e immagine nel quale c’è tutta l’umanità. La totalità trae senso dall’uomo qualunque, debole, fragile.
gli ultimi al centro della creazione e della storia
Il « ta panta » é fatto da Dio per gli ultimi, per i crocifissi, per i vinti: questo è il progetto di Dio creatore, un progetto che viene contestato dalla storia che mette in croce Gesù di Nazareth, che mette in croce gli ultimi, i deboli, gli impotenti. Il progetto di Dio viene contestato dagli uomini forti che creano la società dei violenti, dei privilegiati. Gesù di Nazareth crocifisso e risorto è segno di contraddizione nella storia: Dio ha risuscitato, rendendogli giustizia, colui che, rappresentativo degli ultimi, è stato messo in croce. In questo modo Gesù, benché l’umile, il debole, l’ultimo, il vinto, è il centro del creato.
Ecco allora la dialettica drammatica della storia: il progetto di Dio, che Dio può solo proporre e non imporre, di mettere Gesù al centro è rigettato dall’umanità, che rifiuta che gli ultimi siano al centro e li rimette al margine e crea la società dei forti, dei violenti, dei privilegiati; ma Dio risuscitando Gesù ricolloca al centro quelli che sono stati estromessi.
L’interpretazione che dà Paolo di Gesù come centro sconvolge il senso comune che attribuisce il centro ai violenti e ai potenti.
La crocifissione nasce dall’esperienza della violenza coalizzata. I violenti fanno solidarietà fra loro a danno dei deboli. Nei testi della passione si legge che tutti sono coalizzati: le autorità giudaiche di vertice, gli anziani, i sommi sacerdoti, Pilato, la folla stessa: si crea la società dei violenti che violenta l’indifeso che è Gesù. Ma Dio risuscita il debole, il violentato, il crocifisso. Dio ricolloca al centro quelli che sono stati discriminati, contestando la società dei violenti che occupa il centro della storia. Oggi nel dialogo fra le religioni si tende a sottacere che Gesù è il centro, però questo vuol dire non riconoscere che è il figlio di Dio e farlo diventare uno dei tanti profeti. Ma se lo confessiamo figlio di Dio, se per noi è l’unico Signore, come dice Paolo, non dobbiamo avere delle remore, ben sapendo che è al centro come il crocifisso, come il prototipo dei crocifissi. Si ribalta la logica dei forti e dei violenti che si coalizzano per espungere i deboli. Paolo dice che Gesù è l’Adam, ha senso per l’umanità, un senso che noi cogliamo nella fede. Siamo liberi di coglierlo o no, ma se è l’Adam vuol dire che è il prototipo di ogni uomo, sia esso indiano, cinese, africano, occidentale, orientale. Come questo debba essere interpretato secondo le varie culture è un altro discorso, ma non è che avendo delle difficoltà dobbiamo negare i punti di partenza che sono l’oggetto elementare della nostra fede.
Per noi c’è un solo Dio, il Padre, ed un solo Signore, Gesù Cristo. Si può rinunciare a credere in questo, ma è in gioco il centro della fede non un elemento periferico. Gesù è il centro non in quanto Gesù di Nazareth, ma in quanto morto e risorto. Dire il risorto vuol dire esattamente l’universalizzazione del senso che ha Gesù di Nazareth per tutta l’umanità. E’ certo incarnato nella cultura, paga un debito alla cultura, c’è un problema di superamento della cultura, ma proprio per questo diciamo che è al centro in quanto crocifisso e risorto. Se dicessimo infatti che è solo Gesù di Nazareth, il problema sarebbe complicato perché bisognerebbe mettere al centro anche la sua
cultura. Se invece è Gesù morto e risorto, risorto vuol dire la capacità di Gesù di essere il simbolo di tutta l’umanità al centro della storia come essere debole, fragile, secondo il progetto di Dio.
animati dallo Spirito del risorto
Paolo dice inoltre che noi siamo « ktisis kainé » – nuova creatura – se siamo in Cristo, cioè se siamo animati dallo Spirito del risorto, se siamo investiti dalle forze nuove di questo Spirito vivificante. Spirito vivificante non vuol dire qualcosa che è immateriale nei confronti di ciò che è materiale, ma qualcosa che è vita nei confronti di ciò che è morte. L’antitesi è tra vita e morte, non tra immaterialità e materialità. Lo Spirito del risorto, con il suo dinamismo, viene donato a tutti e da questo punto di vista Gesù è simbolo per tutta l’umanità. Lo Spirito non è monopolio di alcuni gruppi o di alcune culture. Su questo ha visto molto bene Giovanni quando dice: « lo Spirito soffia dove vuole », come il vento, giocando sul doppio significato di « pneuma » e « ruah » in ebraico. Lo Spirito non ha confini. Cristo è universalizzabile, è simbolo di tutta l’umanità in quanto dona il suo Spirito a tutti gli uomini. Tutti gli uomini ricevono lo Spirito se sono in Cristo.
Il dinamismo delle scelte allora diventa dinamismo dell’agape, dell’amore oblativo, comunicativo, costruttivo.
Da questo punto di vista (Galati 5,16-25, Romani 8,1-17) la nuova creatura nasce là dove c’è l’uomo « pneumatikos », animato dallo « pneuma », spirituale, non nel senso di uomo dedito alla vita del pensiero, immateriale, ma dedito ad una vita umana condotta secondo il dinamismo dello Spirito che è alternativo al dinamismo della « sarx », all’egocentrismo che induce a costruirsi un mondo chiuso in se stesso, un microcosmo senza porte e senza finestre, autosufficiente. La creazione nuova, dice Paolo, è già presente dove l’uomo si lascia animare dal dinamismo dello Spirito che è donato a tutti. L’uomo può rifiutare lo Spirito, contrastandolo, facendosi guidare dall’altro dinamismo che è dentro di noi, il dinamismo della « sarx ». La nuova creazione a livello personale vuol dire l’uomo che vive eticamente non guidato da leggi esterne, da norme, da comandamenti – questa è la grande rivoluzione di Paolo – ma guidato dallo Spirito che è dentro di noi, dal dinamismo dell’agape. Docilità al dinamismo dello Spirito: questa è la spiritualità. In Matteo la spiritualità non ha questo senso, è semplicemente una vita condotta nell’obbedienza alla legge di Dio che è manifestata attraverso Cristo. Paolo ha sostituito ad una guida esterna dell’uomo – le leggi, le norme, le autorità, le parole – il dinamismo interno donato dallo Spirito di Cristo.
« Vi dico però, – scrive Paolo Galati 5,l6 – camminate (agite) nello Spirito e in questo modo voi non porterete a compimento le cupidigia della carne ». La « sarx » per Paolo è l’uomo che vive nella cupidigia (epitsumìa) delle cose, del possedere per sé, nello strappare agli altri, nelle gelosie, nelle invidie. Già nella tradizione biblica e giudaica del tempo c’era l’equiparazione tra peccato e cupidigia. « La « sarx » nelle sue cupidigie si oppone allo Spirito e lo Spirito ha impulsi contrari alla carne. Queste cose sono antitetiche le une alle altre, affinché voi non facciate quello che desiderate fare nella cupidigia. Se voi vi lasciate condurre dallo Spirito non siete sotto la legge ».
La nuova creatura, resa possibile dal dono del risorto e che si realizza alla condizione di lasciarsi guidare dallo Spirito, manifesta la presenza dell’escatologia. Non c’è da una lato la vecchia creazione vigente e dall’altro la nuova creazione che verrà, ma già esiste la « kainé ktisis ». E’ la nuova e originale concezione che Cristo e poi Paolo hanno portato: la fine è dentro la storia, il traguardo è già dentro il cammino, l’oggi è pieno delle forze vivificanti del mondo ultimo, futuro. Sullo sfondo c’è la concezione del mondo creato che si è alienato negando la propria creaturalità, seguendo i percorsi della « sarx ». Il mondo creato alienato è ora in via di riscatto. La nuova « ktisis », creazione, è condizionata: si rende presente se e nella misura in cui siete in Cristo, in cui vi lasciate guidare dallo Spirito, in cui contrastate il dinamismo della carne. Il riscatto è soltanto incominciato, la sua realizzazione piena è oggetto di speranza; ma ciò che noi attendiamo per il futuro già lo possiamo anticipare e vivere nell’oggi se siamo in Cristo. La svolta è già avvenuta nel dono dello Spirito che dà il principio del nuovo mondo. Importante è che questo principio attivo e creativo abbia spazio, non sia contrastato, negato, soffocato. Il futuro, la nuova creazione, è una possibilità
aperta che possiamo realizzare attraverso la solidarietà con Cristo risorto, sia pure incoativamente e precariamente perché permane il peso di quell’altro dinamismo.
L’AT era approdato, attraverso il filone profetico che inventa l’escatologia – il salto di qualità nella storia – alla soluzione apocalittica: Dio ha fatto due mondi perché questo mondo si è corrotto a tal punto da essere irrecuperabile e quindi destinato alla distruzione. Alla fine sarà sostituito, verrà gettato come una zavorra e scenderà dal cielo un nuovo mondo bello e fatto. In queste nuova scialuppa che verrà data all’umanità entreranno quelli che sono fedeli alla legge mentre gli altri saranno estromessi una volta per sempre. Gesù e Paolo non hanno accolto questa visione apocalittica, perché non ammettono il principio dei due mondi creati. Questo mondo è l’oggetto di tutte le loro speranze però non rimandate al futuro: la svolta ha inizio nella risurrezione di Cristo in cui è dato il principio del nuovo mondo. Questa situazione dialettica di storia ed escatologia, di presente e futuro ultimo, di fine e cammino, è la soluzione cristiana. Il rapporto tra creazione ed escatologia si colloca dentro questa concezione: non sono due realtà separate, ma l’escatologia è dentro la creazione.
E’ l’escatologia di questo mondo, di questa storia, e non di un altro mondo, di un’altra storia. Questa è la risposta fornita da Paolo alle domande iniziali su chi siamo? donde veniamo? dove andiamo?
1 Tessalonicesi 4,13-18: una vita nella speranza
In 1Tessalonicesi 4,13-18 Paolo dice che la vita cristiana è una vita nella speranza e in essa non deve aver spazio la tristezza di fronte alla morte, l’ombra sinistra della morte che aleggia sulla vita come ultima parola sull’esistenza. Il fondamento della speranza è la risurrezione di Cristo, una speranza che poggia sulla fede.
Paolo fa una distinzione tra quei credenti che sono vivi alla venuta di Cristo (riteneva prossima la fine del mondo) che non passeranno attraverso la morte, ma entreranno nel mondo nuovo per rapimento sull’immagine di Elia o del patriarca Enoch che sono stati rapiti da Dio, e i credenti che sono già morti, che saranno risuscitati. Però sia i rapiti che i risuscitati andranno incontro a Cristo, per essere sempre con lui. Il traguardo della speranza, il traguardo finale dell’esistenza cristiana, già iniziato, consiste nella comunione indefettibile con il Signore Gesù oltre la morte o la fine dell’uomo.
1 Corinzi 7,29-31: il tempo si è contratto
C’è un altro testo caratteristico in 1 Corinzi 7,29-31 in cui Paolo fa una raccomandazione: « Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto conciso, dunque quelli che hanno mogli siano come se non le avessero, e quelli che piangono come se non piangessero, e quelli che godono come se non godessero, e quelli che acquistano come se non possedessero, e quelli che usufruiscono del mondo come se non ne usassero appieno; perché sta passando la figura di questo mondo ».
E’ da rimarcare questa concezione del tempo: « il tempo si è fatto conciso ». Nel mondo greco il tempo era considerato come un fiume che fluisce lentamente e indefinitamente, che va e ritorna. Per Paolo invece il tempo si è rattrappito, si è fatto una breve linea segnata dal passare di questo mondo sulla scena. Paolo pensa ancora alla fine imminente del mondo, la cui caducità viene vissuta in modo altamente drammatico e anche illusorio. In questa precarietà il nostro esistere, le nostre esperienze fondamentali non devono essere assolutizzate: bisogna viverle « os me », « come se ». Non sono cose indifferenti, ma sono esperienze da relativizzare. Gli stoici proclamavano l’epateia, l’essere emotivamente indifferenti di fronte alla realtà. Paolo dice che le esperienze umane non sono il tutto, non sono un assoluto. Questo mondo non è qualcosa di permanente ed eterno e pertanto le esperienze umane di questo mondo risentono della transitorietà. Sullo sfondo di questa visione c’è una certa escatologia e una conseguente etica.
1 Corinzi 15: Cristo primizia e risuscitatore
E’ la trattazione più completa e più profonda della escatologia in Paolo. Paolo parte dalla risurrezione di Cristo per fondare la speranza nella risurrezione nostra. Dice: se Cristo è risuscitato vuol dire che anche noi risusciteremo. In 1 Tessalonicesi si limitava a dire che se Cristo è risuscitato anche noi risusciteremo, senza approfondire le motivazioni. Nella prima lettera ai Corinzi invece Paolo riesce a trovare la spiegazione profonda. Cristo non è risuscitato come caso unico, ma come « aparché », come primizia. E’ un termine che ha una tradizione alle spalle: « aparché » erano i primi covoni raccolti che dovevano essere offerti al tempio come riconoscimento del dono di Dio.
Inoltre Paolo aggiunge un’altra formula: Cristo è risuscitato come nuovo Adam, come prototipo di una nuova umanità di risorti. Come il primo Adamo era il prototipo della prima umanità, Cristo è il prototipo, principio attivo della nuova umanità. E’ risuscitato come risuscitatore di altri. Paolo dice alla fine del cap. 8 « è il figlio in mezzo a tanti fratelli ». Questo è il disegno di Dio: Cristo centro della storia con tanti fratelli intorno, che siamo noi.
La seconda cosa da notare in questo testo è la risurrezione dei corpi su cui Paolo insiste molto. A Corinto dicevano che noi siamo già risuscitati nella nostra anima, erano degli spiritualisti; Paolo invece dice che la risurrezione riguarda i corpi. Per corpo Paolo intende non la parte materiale, ma la struttura basica dell’uomo, per cui se c’è il corpo c’è l’uomo e se non c’è il corpo non c’è l’uomo. Questa struttura basica è una struttura relazionale, è la relazionalità verso Dio, verso gli altri e verso il mondo; se togliamo una di queste relazionalità non c’è l’uomo. La risurrezione coglie l’uomo in questa sua triplice relazionalità. Questa relazionalità ontologica, dice Paolo, noi la possiamo vivere esistenzialmente in termini negativi o in termini positivi. Posso viverla in termini negativi negando la mia creaturalità, considerando gli altri i miei schiavetti o assumendo un atteggiamento idolatrico o rapace nei confronti del mondo. In questo modo, vivendo in modo egocentrico la triplice relazionalità, per Paolo divento carnale (negando che Dio sia il nostro Dio, che gli altri siano i nostri fratelli, negando che il mondo sia l’habitat dell’uomo).
Per Paolo la risurrezione dei corpi è la trasformazione piena di questa triplice relazionalità vissuta in modo positivo, secondo il dinamismo dello Spirito per cui l’uomo accoglie Dio come il Padre suo, gli altri come suoi fratelli ed il mondo come l’habitat suo e di tutta la famiglia umana. Questa triplice relazionalità vissuta positivamente fa sì che il corpo sia pneumatico, spirituale, animato totalmente dallo Spirito, secondo il dinamismo dell’agape. Questa spiritualizzazione già è cominciata, dice Paolo: se voi vi fate condurre dallo Spirito non vivete più secondo la carne, siete i figli di Dio, vivete in Cristo. La speranza non riguarda qualcosa di totalmente nuovo, non si riferisce ad una realtà assolutamente assente dalla storia, ma tende alla pienezza di una realtà già iniziata nella storia. La pneumatizzazione della triplice realtà, che é al presente ancora precaria perché il dinamismo della carne continua ad agire e c’è un ritorno del passato dentro di noi, sarà piena con la risurrezione.
La spiritualizzazione del soma umano è data dallo Spirito vivificante di Cristo, a immagine di Cristo, l’uomo pienamente trasformato dallo Spirito. Cristo è il primo risuscitato, che ci risuscita a sua immagine.
Filippesi 3, 20-21: a immagine del suo corpo glorioso
Dice: « La nostra cittadinanza (politeuma) è nei cieli da cui aspettiamo che venga il Salvatore nostro Gesù Cristo », ‘cieli’ è il simbolo del mondo trasfigurato pienamente dallo Spirito « il quale trasfigurerà il nostro misero corpo a immagine del suo corpo glorioso ». La nostra triplice relazionalità che già é stata investita dalle forze dello Spirito sarà totalmente investita dallo Spirito
di Cristo il quale ci trasfigurerà, opererà la metamorfosi piena in modo che il nostro corpo sia glorioso, investito dello splendore divino dei risorti ad immagine sua.
Romani 8,12-25: anche la natura partecipa della risurrezione
Il testo più nuovo da questo punto di vista è Romani 8,18-25. Già parlando della risurrezione dei corpi Paolo introduce anche la natura, il mondo, dentro il processo di trasformazione perché una delle tre relazioni è verso il mondo. Però in questo testo  »ktisis » (creazione) è solo il mondo creato naturale, a differenza del mondo umano. Dice: quello che è avvenuto avviene e avverrà di noi, passato presente e futuro, è avvenuto avviene e avverrà per la natura. Paolo mette in parallelismo la nostra vicenda di soggetti storici con la natura. E’ interessante la solidarietà tra il mondo umano ed il mondo inanimato ed animale.
Al presente, dice Paolo, noi gemiamo e viviamo una esperienza dolorosa e drammatica, viviamo la durezza del cammino umano nella storia; anche il mondo inanimato geme nella sofferenza. Noi gemiamo ed il mondo geme. Nel futuro noi aspettiamo il riscatto dei figli di Dio, la risurrezione, la pneumatizzazione piena o anche la glorificazione (nei testi biblici, gloria – « doxa » in greco e « kabòd » in ebraico – non è mai l’onore, come per noi, ma esprime lo splendore della presenza di Dio). Similmente la natura dovrà essere glorificata e liberata per partecipare della libertà dei figli di Dio. Nel passato condividiamo il peccato, la corruzione nostra e del mondo. La creazione segue il destino dell’uomo. La storia della salvezza coglie direttamente l’uomo e coglie la natura per partecipazione all’uomo.
dalla fede sgorga la speranza nella trasformazione dell’umanità e del mondo
Primo punto importante di questi testi è la connessione tra speranza e fede, la speranza nasce dalla fede nella risurrezione di Cristo e noi risorgeremo per influsso suo e ad immagine sua.
Secondo: la speranza riguarda la sorte di questa umanità e di questo mondo, non ci sarà sostituzione ma trasfigurazione, assumerà una nuova forma restando se stessa. I cieli nuovi e la terra nuova di cui parla Isaia sono questi cieli, questa terra, ma in una nuova forma; il futuro riguarda i nostri corpi attuali, non corpi nuovi creati ad hoc. Questo è importante perché la speranza non ci fa uscire da questo mondo, ma si tratta di essere attivi nella trasformazione di questo mondo.
Terzo: il futuro finale già è iniziato; la comunione indefettibile è già nella comunione non ancora salda con Cristo. Il riscatto futuro già è iniziato.
Il mondo sta partorendo nei dolori, nei contrasti, nelle contraddizioni della storia, nella crocifissione dell’esistenza. I dolori ci sono, ma sono i dolori di una nuova vita. La nuova nascita è già iniziata perché sono iniziate le doglie. La storia e l’escatologia sono mescolate, le forze del nuovo mondo sono già presenti, ma sono ancora in lotta con le forze del vecchio mondo, con la « sarx ». La nuova nascita avviene nella minaccia di impedire l’uscita del nuovo: non si tratta di un pacifico possesso. Questo nostro presente ha già in parte la configurazione del futuro; nel deserto sono già germinate le nuove pianticelle, in attesa della piena fioritura.
un mondo da non adorare
Questo è importante anche per i rapporti tra storia ed escatologia, e non solo tra creazione ed escatologia. Paolo, anche se non aveva i nostri problemi, è interessato alla natura. Nel mondo di allora era molto presente una tendenza alla divinizzazione della natura e delle sue forze. Le religioni immanentistiche divinizzano la natura, le sue forze vitalistiche, oppure le forze astrali. L’imperatore Amenofi IV in Egitto aveva sostituito la religione ufficiale del dio Amon con quella del dio Aton, il
disco solare. Invece la concezione creazionistica della Bibbia e di Paolo è contro la divinizzazione della natura che non è la grande madre da adorare. Chi ha una concezione divinizzata della natura, ritiene che la natura non possa essere violata. Sarebbe empio trasformare la natura, intervenire nei suoi sacri meccanismi.
Chi divinizza la natura ha un atteggiamento idolatrico nei suoi confronti ed adora le cose, divenendone schiavo. Invece, chi ha una concezione creazionistica si serve delle cose. Paolo dice: « tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio ».
un mondo di cui godere con gratitudine
La concezione creazionistica è anche contro il disprezzo spiritualistico-dualistico della natura e delle cose. Lo spiritualismo era presente oltre che nella filosofia greca, in tutto lo gnosticismo. Nello gnosticismo l’uomo era visto come una scintilla divina, che per un caso drammatico è caduta dagli altissimi cieli in questo mondo. L’uomo è quindi una scintilla divina rivestita della corazza materiale, che nell’assumere la mondanità non ricorda più la sua origine divina e si ritiene una cosa del mondo. Non ha più coscienza di sé, è totalmente alienata, si ritiene parte di questo mondo opaco. Ma ecco che viene, dagli spazi celesti, il logos, anch’esso scintilla divina, che assume il corpo come un vestito puramente esterno, per non dar troppo nell’occhio. Viene a ricordare alle scintille smemorate ed alienate la loro origine divina. Esse riacquistano la coscienza di sé e si liberano dalle corazze materiali con la « gnosi ». Questa coscienza di sé provoca un grande desiderio della morte come liberazione non solo interiore ma anche esteriore, al fine di potersi ricongiungere al grande fuoco divino. In questa concezione il mondo è visto come un carcere, che rende abietto e alienato l’uomo.
La concezione creazionistica invece è contro ogni visione dualistica e quindi la natura è « ktisis », è creatura, è dono, è grazia da accogliere, da godere, da usare con gratitudine dice Paolo nella 1 Corinzi 10,25-26 o in Romani 14,6. Questo uso deve essere fatto senza assolutizzazioni, con un distacco interiore, come se non ne usassimo. Da questo punto di vista si può inserire il discorso dell’uso corretto della natura, delle forze, delle energie, senza abusarne.
un mondo da condividere
Una terza considerazione: questo uso della natura, secondo la visione biblica e paolina, non solo deve avvenire all’insegna della parsimonia, ma soprattutto secondo la logica della condivisione. La preoccupazione dominante della visione biblica è la giustizia. A questo proposito Paolo si esprime in 1 Corinzi 11. Nella comunità si riunivano per la cena del Signore, al termine della quale si celebrava l’eucarestia. L’eucarestia era il punto terminale di un pranzo comune che era segno della commensalità, della solidarietà fra i credenti. Ci si riuniva intorno ad una tavola imbandita da chi aveva cibi e bevande. A Corinto la maggioranza erano schiavi, nullatenenti, oltre a scaricatori di porto, e a artigiani. Succedeva che i più ricchi, giunti con le loro provviste, mangiavano tra loro, bevevano e si ubriacavano, mentre i poveracci, impegnati nel lavoro, giungevano alla fine. Tutti insieme quindi celebravano l’eucarestia. Paolo dice che alcuni erano rimpinzati ed ubriachi e gli altri non avevano niente, ma questo afferma « non è celebrare il pranzo del Signore perché non fate il pranzo comune, anzi la vostra celebrazione è una condanna per voi ». Paolo dice che l’eucarestia è espressione della commensalità, dell’essere insieme alla stessa tavola sia con quelli che la imbandiscono perché hanno da portare cibi e bevande, sia con quelli che non hanno niente da portare se non lo stomaco da riempire. Questo è l’aspetto maggiormente sottolineato in tutta la Bibbia, tutta pervasa dalla sete di giustizia e quindi dalla logica della condivisione.
Il movimento ecologista dovrebbe essere molto attento oltre che ad un uso corretto, non rapace dei beni, ad un uso condiviso, perché ancor prima dell’uso rapace c’è il problema dell’uso ingiusto e discriminante. Oltre l’uso opulento dei saccheggiatori c’è la rapacità solo per sé sulla pelle degli
altri. Paolo sottolinea il tema della commensalità, della partecipazione, come aveva fatto Gesù con i suoi discepoli alla vigilia della morte nel segno della commensalità umana.
una natura coinvolta nella storia della salvezza
Un quarto filone di riflessione riguarda la natura in quanto coinvolta nella storia dell’uomo nel bene e nel male, perché la natura è una dimensione essenziale dell’uomo. L’essere dell’uomo al mondo caratterizza la storia della salvezza. Il mondo senza l’uomo non è immaginabile come non è immaginabile nella concezione creazionistica l’uomo senza il mondo. La natura non è soggetto della storia della salvezza, dato che l’unico soggetto è l’uomo, ma se l’uomo ha una dimensione mondana, la natura viene coinvolta in questa storia, sia nel bene che nel male. E’ coinvolta nel male quando la relazione uomo natura si concretizza in un atteggiamento di idolatria o di disprezzo o di rapina o di possesso esclusivo del mondo. E’ coinvolta nel bene quando la relazione uomo natura avviene nella logia del rispetto e della condivisione.

La « Kenosi di Cristo » secondo Paolo di Tarso (una prospettiva esegetica)

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TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO TESTAMENTO

La « Kenosi di Cristo » secondo Paolo di Tarso

(una prospettiva esegetica)

di Francesco Cuccaro

Il ‘mysterion’ , delineato da Paolo di Tarso nel suo epistolario, concerne un ‘piano divino di salvezza’ , un ‘disegno di comunione e di unità’ , concepito “ab aeternum” nel pensiero di Dio. Che si realizza nella ‘storia’ che, in tal modo, palesa tutto il suo ‘valore salvifico’ .
L’Apostolo delle Genti svela l’essenza di questo piano : ‘ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra’ ( Ef. 1,10 ).
Quindi Cristo é il “nucleo” o, per meglio, dire la “sostanza” del ‘mysterion’. Quest’ultimo si concretizza nel tempo e nello spazio attraverso la ‘creazione’ e la ‘storia della salvezza’ .
L’apice di questo ‘eventuarsi’ del ‘mysterion’ é costituito dalla ‘Incarnazione’ , dal farsi presente di Dio come uomo tra i suoi simili e dal prolungamento storico effettivo di questa presenza che é la ‘Chiesa’ .
La ‘ricapitolazione’ e la ‘riconciliazione’ risultano essere possibili non attraverso una semplice teorìa, bensì attorno all’Idea Universale della Storia, così denominata da von Balthasar, un’Idea che é anche Persona*.
*Ci viene da sorridere a volte, ma anche di rammaricarci, solo al pensare come l’uomo sia stato così vittima delle proprie illusioni. Ha fatto valere con la passione, il fanatismo, la violenza, principi astratti di per sé magari buoni, come libertà, giustizia ( giustizia sociale ), uguaglianza, fraternità, o concezioni sbagliate come il comunismo. Ma, invece, di creare un paradiso attorno a questi valori, ha prodotto sulla terra un vero e proprio inferno. Sono state commesse, nei secoli, le ignominie più atroci ed inaudite.
Certo che il Cristianesimo non é stato scevro da incoerenze per colpa dei numerosi peccati commessi da uomini di chiesa e attraverso la strumentalizzazione politica e mondana della religione, ma non si può negare che ha sempre cercato di promuovere l’unità delle coscienze, sensibilizzando l’amore per il prossimo, alleviando sofferenze e miserie materiali, inculcando il rispetto per la persona umana nella sua dignità e libertà. E mai si é “imposto” come una “rivoluzione”, del tipo di quelle che si caratterizzano nel duplice e demoniaco proposito di violentare la natura e di cancellare la storia in nome di modelli apriorici e precostituiti.
L’Incarnazione di Dio in Cristo sta a questo universale ‘disegno divino di comunione’ come il mezzo sta al fine.
Un urto teologico intollerabile per l’antico Giudaismo che ha sempre insistito sul tema della soprannaturalità divina, esasperando una incolmabile distanza tra questo e il livello creaturale. Ma la ‘possibilità da parte di una divinità di farsi uomo’ appare scontata nel paganesimo che la esprime nelle narrazioni mitologiche venate di antropomorfismo, con i suoi cicli di Osiride, Diòniso, Mithra, trattandosi, però, di personaggi veicolati dall’ottica del “simbolo”.
Il Cristianesimo, invece, nasce e si sviluppa già su un terreno abbastanza fecondo di idee su questi argomenti. Ma diffonde la sua prospettiva dell’Incarnazione in una veste unica ed originale. Unica perché Dio si é incarnato, una sola volta, in un individuo umano.
Il ‘mistero dell’incarnazione’ non comprende solo un inizio nel tempo, vale a dire quello relativo al concepimento verginale di Gesù Cristo. Ma trascende la storia stessa. Si tratta di un evento continuo ed aperto : sia nel senso che Gesù non deporrà mai più, per tutta l’eternità, la natura umana; sia per il fatto che il Risorto si rende partecipe della storia, in un modo per così dire “nascosto”, attraverso l’annuncio, la testimonianza, la fede e l’azione sacramentale della Chiesa.
La distanza del kerygma apostolico primitivo dalla mitologìa pagana é assoluta ed irriducibile. Prova il fatto che i Gentili più refrattari alla conversione non riescono proprio ad armonizzare il loro schema di incarnazione divina con quello dei ‘nuovi credenti’, come dimostra lo sconcertante equivoco degli abitanti di Listra, narrato dagli Atti degli Apostoli :
“C’era a Listra un uomo paralizzato alle gambe, storpio sin dalla nascita, che non aveva mai camminato. Egli ascoltava il discorso di Paolo e questi, fissandolo con lo sguardo e notando che aveva fede di esser risanato, disse a gran voce, disse a gran voce : ‘Alzati diritto in piedi !’. Egli fece un balzo e si mise a camminare. La gente, allora al vedere ciò che Paolo aveva fatto, esclamò in dialetto licaonio e disse : ‘Gli déi sono scesi tra di noi in figura umana !’’ . E chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché era lui il più eloquente.
Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era all’ingresso della città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando : ‘Cittadini, perché fate questo ? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano. Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi di cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori’. E così dicendo, riuscirono a fatica a far desistere la folla dall’offrire loro un sacrificio” ( At, 14, 8-18 ).
Anche per Paolo Dio é disceso tra noi, ma non ha assunto un corpo apparente, né si é unito ad una persona umana in modo accidentale. Tantomeno l’Apostolo fa un discorso attorno ad un semidio a guisa di Ercole o di Achille o su un uomo perfettissimo e, pertanto, immortale. Nulla di tutto questo.
L’evento dell’Incarnazione, oggetto del kerygma primitivo, é originale a causa della sua paradossalità e drammaticità e della sua estrema serietà. Pur tuttavìa, si tratta di un processo reale e ontologico in seno a Dio ( ed esistenziale nell’ambito della storia di Gesù di Nazareth ) che non modifica la sua essenza.
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Paolo offre, nella Lettera ai Filippesi, un condensato di teologìa dell’Incarnazione, stimolando la sensibilità religiosa, ma urtando la suscettibilità degli increduli. Si può notare in una tale teologìa l’assenza di termini tecnici desunti dalla metafisica greca ( Platone e Aristotele in primo luogo ), in uso presso i successivi Padri della Chiesa durante le controversie trinitarie e cristologiche.
Il brano biblico di Fil. 2, 5-11, tuttavìa, rivela una ricchezza di contenuto del ‘mistero dell’Incarnazione’, quasi da far da contraltare rispetto alla povertà e staticità di certe formule astratte ( come ‘ousìa’, ‘physis’, ‘ypostasis’, ‘energheia’, ecc. ) che sembrano irrigidirne la stessa trattazione.
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che ( furono ) anche in Cristo Gesù il quale, pur essendo nella forma di Dio, non stimò come un bene da tenersi gelosamente l’essere alla pari con Dio, anzi ‘svotò’ se stesso col prendere forma di servo, diventando simile agli uomini. E dopo essere stato trovato come un qualsiasi uomo, si umiliò ( ancora ) facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Iddio lo ha anche sovraesaltato e gli ha dato il nome che é al di sopra di ogni altro nome, affinché, nel nome di Gesù ‘si pieghi ogni ginocchio’ ( Is. 45, 23 ) degli esseri celestiali, di quelli terrestri e sotterranei, e ‘ogni lingua proclami’ ( ivi ) che Gesù Cristo é Signore, a gloria di Dio Padre” ( Ef. 2, 5-11 ).
Si tratta di un inno cristologico pre-paolino, come sostiene la maggior parte degi esegeti. Ci interessa considerarlo, piuttosto, come una sua rielaborazione fatta dall’Apostolo delle Genti.
Esaminiamo i temi più salienti racchiusi in Fil. 2, 5-11.
E’ da notare la frequenza di preposizioni come “in” e “con” lungo tutto l’epistolario del Nostro, con i loro “significati più dinamici che statici” (1).
Secondo Gianfranco Ravasi, il versetto ( letteralmente preso ) “abbiate in voi gli stessi sentimenti che ( furono ) anche in Cristo Gesù” suggerisce la facile idea, secondo la quale i fedeli devono avere gli stessi sentimenti già manifestati dal loro Signore nella sua breve parentesi terrena. Concludendo: Cristo sarebbe un modello da seguire e da imitare (2). Ma, a ben riflettere, quell’ ‘in-Cristo sembra indicare un valore aggiuntivo : il Logos é la causa-sorgente dei sentimenti di umiltà, di obbedienza e di pace (3).
Allora, questo “abbiate” dell’Apostolo vuol essere un augurio, un auspicio, più che una raccomandazione. Tenendo conto di questa chiave esegetica suggerita dal Ravasi, l’inno sembra acquisire, in realtà aiuta alla riscoperta di un carattere liturgico con un proprio ritmo di preghiera.
Cristo é all’origine di questa nuova sensibilità religiosa e morale del redento. Nel caso del primo versetto, l’agire presuppone l’essere e un’esigenza, un invito, un “appello richiamano una realtà…..una persona, Gesù, che quanto più vive in noi, tanto più ci abilita ad essere come lui” (4).
Condividiamo questo punto di vista di Ravasi, secondo il quale la fonte dell’agire moralmente retto non va tanto ravvisata nella ragione, la quale opera sempre un necessario discernimento tra ciò che si deve e ciò che non si deve fare ( così come ben delineato in Rom. 1, 18-32, dove si allude ad una legge scritta nel cuore di ognuno, tanto giudeo quanto pagano ), ma alla unione alla persona di Cristo Gesù nell’indicativo del dono della fede’ (5).
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Alla luce del mistero dell’incarnazione di Dio é possibile inquadrare la storia di Gesù di Nazareth.
L’inno cristologico di Ef. 2, 5-11 é ambivalente : tanto nel descrivere un uomo, Gesù Cristo, legato al proprio tempo e vissuto in un determinato luogo; quanto nel delineare il Figlio di Dio che si incarna in lui. Paolo si attiene alla storia forse in un modo non molto esplicito, comunque attraverso l’uso del passato remoto ( “furono”, “stimò”, “ svuotò”, “umiliò” ) e la rimemorazione del dato empirico ed irrefutabile della ‘morte di croce’ del Cristo ( Ef. 2,8 ).
Secondo l’Apostolo, Gesù, nella sua vita terrena. ha la consapevolezza di essere Dio, ma non “stima”, vale a dire non giudica l’uguaglianza ( l’identità sostanziale ) con il Padre come un bene, una perfezione assoluta da conservare nella fierezza, nell’egoismo e nella possessività.
“Pur essendo nella ‘forma di Dio’ , non stimò come un bene da tenersi gelosamente l’essere alla pari con Dio” : quest’asserzione contiene un evidente paradosso costruito sulla parola greca “harpagmòn” che designa in senso attivo “qualcosa da rapire”, o passivo “qualcosa di rapito”. Quindi un “tesoro geloso” o una “preda ambìta” (6). Questo versetto, implicitamente, si riferisce alla chiara contrapposizione tra Cristo e il primo uomo**.
**Per Adamo l’uguaglianza con Dio era oggetto della sua brama e del suo desiderio ( Gn. 3,5 ), “qualcosa da rapire”, da prendere d’assalto, come sottolinea Ravasi (7), espressione di una “hybris”, di un atto di tracotanza e di superbia, non solo del nostro primo progenitore ( che dopo si pente ), ma di ogni uomo che sembra avere di Dio quasi un sentimento di terrore e di repulsione. Atti di tracotanza si moltiplicano nella Bibbia a dismisura ( quello di Nemrod e dei costruttori della Torre di Babele, tanto per citare qualcuno ), oppure narrati dalle più disparate mitologìe ( si cfr., per esempio, la rivolta dei Giganti contro Zeus, oppure le figure di Prometeo e di Capaneo ).
L’uomo Gesù non esibisce in modo velleitario e spropositato la sua altra natura di essere soprannaturale e la sua stessa uguaglianza con Jahveh. E quando si riferisce a Dio, lo chiama ‘Abbà’ –Padre- estremizzando la sua condizione di essere relativo e la sua diversità creaturale da Lui, fatte valere addirittura davanti alle dure e angosciose prove sottoposte dal Maligno ( Mt. 4, 1-11; Mc. 1, 12-13; Lc. 4, 1-13 ) e di fronte alla morte di croce.
La sua ritrosìa a compiere, in modo gratuito, i miracoli, inoltre, é evidente ( si cfr. Mt. 15, 21-28; Mc. 7, 24-30; Gv. 2,1-5. 4, 46-54. 5, 19-21 ), non per non voler beneficare i suoi simili, ma per manifestare la sua origine divina secondo tempi opportuni.
In tutto uguale agli altri uomini, distinto da loro nell’assenza del peccato e della concupiscenza carnale, distinto da loro anche dal suo esercizio di una scienza infusa e di altri doni soprannaturali, Gesù, tuttavìa, era un uomo come gli altri, nel senso che espletava gli elementari bisogni fisiologici ed era soggetto a sofferenze nell’anima e nel corpo, al lavoro, alla morte fisica ( e, per giunta, violenta ). Inoltre, apparteneva al grado più modesto della scala sociale e ai limiti dell’indigenza. Non si escludono in lui né la presenza di un certo fascino anche estetico e di una superiorità psicologica e morale nei comportamenti. Altrimenti non si spiegherebbero gli inizi della sequela da parte degli Apostoli e degli altri Discepoli, nonché la mancanza di indifferenza delle folle nei suoi confronti, tantomeno una ipotetica passione della Maddalena verso di lui ( un “gossip” tanto sbandierato ai giorni nostri ).
“Pur essendo nella forma di Dio…..” ( Fil. 2,5 ) equivale a dire che, prima dell’Incarnazione, Cristo pre-esiste in Dio e come Dio si trova in una condizione di esistenza gloriosa. Paolo, per designare quest’ultima, utilizza due vocaboli greci : “upérchein” e “morphé” . Con il primo intende “l’esserci” con “una nota di stabilità” (8); con “morphé” non soltanto l’aspetto esteriore e la manifestazione visibile di una cosa, ma anche la determinazione dell’esistenza. In che modo si dà un esserci ? Come esiste questo qualcosa o questo qualcuno ? Secondo Fil. 2,5-11 : come Dio ! Quindi la ‘forma’ può richiamare la ‘essenza’ ( anche se non ne é l’equivalente esatto ). Quanto meno é una “figura che scaturisce dalla natura reale di una persona” (9).
Bruno Maggioni sottolinea come la ‘storia di Gesù’ non sia altro che la “rivelazione di un ragionamento di Dio” (10). Il Signore non é stato geloso delle sue prerogative divine, ma ha voluto spogliarsele per condividere fino in fondo la condizione di una realtà finita. Ha illustrato all’uomo due maniere di esistere e di comportarsi per “potersi ritrovare”, “per essere-se-stesso” nel modo più autentico e vero : il ‘dono’ e la ‘umiltà’ . Due atteggiamenti che non sono possibili all’infuori del senso e della dinamica dell’ ‘amore’ . Se io amo una persona senza secondi fini, cosa non faccio se non elargisco qualcosa o, addirittura, me stesso ? “E-largire” significa ‘aprirsi’, e questo “aprirsi all’altro”, “offrirsi”, “darsi”, comporta l’impoverimento del proprio sé per perfezionare l’altro. Tutto l’opposto dell’egoismo che si fonda sulla chiusura del sé, del proprio essere, su una illusoria autosufficienza.
Un uomo per ‘essere-se-stesso’ autenticamente – parlando in termini paradossali- deve donare sé, rendere l’altro partecipe delle proprie prerogative. Addirittura in modo incondizionato, simile all’amore genitoriale ( quello materno in primo luogo ). Poi, se ricambiato con generosità, l’amore ti appaga, ti arricchisce, neutralizza l’angoscia e la solitudine. Pertanto, la perdita di una persona estremamente cara rappresenta un impoverimento del proprio sé, delle proprie energie, della propria e più profonda realtà. La semplice amicizia e l’amore coniugale possono essere un veicolo dell’amore universale di Dio per gli uomini e di questi ultimi tra di loro, in maniera disinteressata, solo se vengono garantiti nella loro purezza e salvaguardati dal pericolo dell’esclusivismo.
Questo crediamo che sia il prezioso succo del processo di ‘svuotamento’ e di ‘spoliazione’ che caratterizza la discesa del Logos in mezzo alle creature. L’autore dell’articolo non condivide tanto la riflessione di Settimio Cipriani (11) dove si insiste sul carattere “metaforico” della ‘kenosi’. Quello che ci espone la Fil. 2,5-11 non sembra mostrare una “immagine letteraria” per indurre a seguire un Cristo maestro morale di umiltà. Ma si tratta di un vero e proprio processo ontologico ed esistenziale, dove Dio, finitizzandosi in un uomo, si rende partecipe delle miserie e delle sofferenze che travagliano il creato, raggiungendo i livelli più bassi ai quali può condurre il peccato. E dove, sulla croce, la sua coscienza di uomo sperimenta la vertigine del nulla e il momento di più totale abbandono ed estraneità da parte di Dio ( si cfr. il grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” in Mt. 27,47 e in Mc. 15.34 ). Strana e sconvolgente teofania !
Lo ‘svuotamento’ non é da interpretare come una modificazione o cancellazione della natura divina, quanto una rinuncia alle prerogative, alla gloria e allo splendore che competono al Logos divino nella sua pre-esistenza; anche se non mancano circostanze eccezionali nelle quali Gesù fa ricorso ai suoi straordinari poteri divini ( come nel caso dei miracoli e, tra questi, delle resurrezioni; o come nella Trasfigurazione sul monte Tabor ).
Questa ‘kenosi di sé da parte di Dio’ viene portata all’estremo. Il Logos “ha voluto limitare anche di più la sua umanità, ponendosi in uno stato di completa obbedienza e sottomissione sia a Dio che agli uomini” (12)
Ultimo in tutto, quindi, nel rapporto con la madre carnale, il padre putativo e i parenti, con le autorità civili e religiose costituite, perfino con i suoi Apostoli, con tutti, salvaguardando, tuttavìa, i diritti della verità e del Vangelo e il giusto rispetto della Legge di Dio ai quali non può derogare ( e che lo porta al duro scontro con i Farisei, i Sinedriti, i mercanti del Tempio, ecc. ). Dimostra anche di avere un senso critico che lo induce a smascherare il carattere puramente convenzionale di certe tradizioni rabbiniche che appesantiscono e snaturano l’osservanza della Toràh. L’obbedienza agli uomini gli impedisce tanto di sprofondare in un gretto, banale ed esagerato conformismo, quanto di incorrere nella ribellione aperta. Il carattere originale della predicazione di Gesù non avvalora affatto la posizione grossolana di certi storici laicisti dei nostri “gloriosi” atenei statali che intendono farlo passare per un “rivoluzionario” di quei tempi lontani.
Obbedienza agli uomini sì, ma non a prezzo di alcun compromesso che possa pregiudicare la volontà di Jahveh, la cui sottomissione é assoluta. Gesù si trova a vivere i momenti drammatici, l’ultimo dei quali lo condurrà alla crocifissione, avvertendo l’acutezza dello scontro tra le due obbedienze che non vengono, però, equiparate come avviene per un conflitto di valori. Anche se sa, in modo premeditato e doloroso, di dover fare la scelta giusta al momento opportuno.
Gesù comprende che la ‘morte violenta’ é parte integrante e culmine del disegno divino, espressione della volontà del Padre e delle conseguenze di una perseverante e fiduciosa sottomissione a Dio. Anche durante il suo ministero pubblico -possiamo asserire heideggerianamente- anticipa questa “possibilità dell’impossibilità”, tanto nell’angoscia e nella tristezza, quanto nella paura, di fronte ad un evento certo ed ineluttabile, per quanto raccapricciante***.
***La condizione di Gesù può essere simile ma non uguale a quella di un uomo che va in guerra a combattere. Quest’ultimo si trova a dover fronteggiare un pericolo che può porre termine alla sua vita. Si badi quel “può”, perché vi sono altre possibilità equivalenti : quella di rimanere incolume e vincitore, oppure ferito, o disperso, o prigioniero o addirittura disertore.
Noi abbiamo solo la certezza della morte, ma non sappiamo di quale tipo, né le modalità, né il tempo. Gesù, invece, conosce in anticipo tutto e sa che deve subire l’evento della crocifissione. Sa di dover morire solo in quel modo. Quando giunge “l’ora”, avviene nel Gethsémani una spossante ed incredibile lotta interiore nel suo animo, dove si scontrano l’io carnale, caratterizzato dall’istinto di conservazione, e il vincente io razionale, conforme al piano divino di salvezza. L’unica possibilità, per un peccatore, di sfuggire la croce é disobbedire alla volontà di Dio. Sarebbe bastato un “no” solo intenzionale in Gesù, perché Dio potesse contraddire se stesso.
“Svuotò ( ekènosen ) se stesso col prendere forma di ‘servo’ “. “Dentro il percorso di Gesù é possibile scorgere due antitesi che ne descrivono, sia pure indirettamente, anche la persona” (13). L’antitesi al ‘Signore’ non é quella di una semplice creatura, ma quella di ‘servo’ (in greco ‘doùlos’), sconvolgendo il pregiudizio dominante in base al quale la schiavitù é considerata il livello più infimo di esistenza che possa interessare un uomo. Questa del ‘servo’, in tal modo, diviene la chiave ermeneutica per una diversa ed originale concezione della divinità****.
****Gesù, nella sua breve parentesi terrena, si trova a vivere in un contesto dove la ‘schiavitù’ é un istituto sociale connesso ad una economìa prevalentemente agricola. Infatti, nel mondo ellenistico-romano, allo ‘schiavo’ non viene riconosciuta una vera e propria dignità personale, come gli sono negati i diritti civili.
Limitato anche nell’esercizio di quelli naturali, si trova ad essere soggetto in tutto e per tutto alla discrezionalità o, addirittura, all’arbitrio del padrone che può anche farlo uccidere. Inoltre, non ha per niente il diritto di disporre, autonomamente, di se stesso in qualche modo.
La possibilità per uno schiavo di mutare, in positivo, la propria misera condizione sociale é molto minima. La stessa sensazione di vivere sotto la signorìa assoluta dell’altro lo accompagna per tutta la vita.
Con l’influsso della filosofia stoica e con l’affermazione del Cristianesimo, anche la legislazione romana stabilisce una serie di misure filantropiche miranti a tutelare la figura del ‘servo’.
Ovviamente, Gesù non é nato in una famiglia di schiavi ma, per l’estrema obbedienza riservata a Dio, egli si é qualificato come ‘servus’, riabilitando anche una figura sociale fin troppo disprezzata, improntando di ‘amore’, di ‘dedizione’ e di ‘fraternità’ il suo rapporto di dipendenza dal signore.
In alcune citazioni evangeliche, Gesù allude non tanto alla condizione di esistenza del servo, quanto al rapporto di obbedienza e di dedizione che il credente deve stabilire con Dio e verso il prossimo. Pensiamo al suo gesto della lavanda dei piedi degli Apostoli e al suo conseguente ‘discorso sul primato del servizio’ ( Gv. 13, 1-20 ).
E poi non dimentichiamo che, nell’ambiente israelitico, la situazione dello schiavo é meno peggiore rispetto a quella vigente presso i Gentili, non solo per alcuni spazi di autonomìa a lui concessi, ma anche per il fatto che ad esso può spettare, di competenza, anche l’amministrazione dei beni del suo padrone ( a Roma ciò può essere di pertinenza solo dei liberti ), come Gesù ci ricorda in una sua similitudine in Mt. 24. 45-51 . Il Maestro galileo, inoltre, loda il centurione romano di Cafarnao non solo per l’illimitata fiducia in lui e per l’interesse mostrato alla religione mosaica, ma anche per lo spirito di carità verso un suo schiavo che lo induce a sottomettersi di buon grado al Cristo ( Mt. 8, 5-13; Lc. 7, 1-10 ).
Ma é pur vero che Paolo, quando scrive “col prendere forma di servo”, si confronta con le profezie messianiche di Isaia che alludono ad una misteriosa figura nota come quella del ‘Servo di Jahveh’ :
“Ecco il mio servo che io ho scelto; il mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Porrò il mio spirito sopra di lui e annunzierà la giustizia alle genti. Non contenderà, né griderò, né si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non si spezzerò, non spegnerà il lucignolo fumigante, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le genti” ( Is. 42, 1-4 ).
Effettivamente, l’inno pre-paolino di Fil. 2, 5-11 richiama la tradizione profetica veterotestamentaria con l’espressione ‘forma di servo’ . Esaminiamo, al riguardo, il quarto carme isaiano sul Messìa :
“Ecco, il mio servo avrà successo, sarà innalzato, onorato, esaltato grandemente. Come molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo, così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano fatto” ( Is. 52, 13-15 ).
Questo brano é un pò la chiave ermeneutica retrospettiva dell’espressione di Fil. 2,7 : “col prendere forma di servo, diventando simile agli uomini. E dopo essere stato trovato come un qualsiasi uomo nell’aspetto esterno”. Puntualizziamo la nostra attenzione su questo versetto paolino “diventando simile agli uomini” e su questo di Isaia “tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo”. Si noti bene : “simile”, cioè non uguale agli uomini sotto un certo rispetto.
L’inno non ci dice che Gesù ha assunto un corpo apparente, oppure che é un essere intermedio tra Dio e noi ( come, per esempio, può essere inteso un angelo ). Non viene messa in discussione la sua identità essenziale ( fuorché nel peccato ) con gli altri uomini.
Il processo di umiliazione e di spoliazione non concerne solo il fatto che Gesù diventi un uomo come gli altri, nascendo, crescendo, subendo gli stessi processi biologici, e morendo. Oppure ad una continua autolimitazione, anche in quanto uomo, perché soggetto all’obbedienza verso i suoi simili.
Esso é una “discesa” che non esclude la ‘derelizione’ , la quale sarà fatto compiuto durante la Passione, dove Cristo sarà sottoposto al potere mortifero dei suoi persecutori, in modo che -come predìce Isaia- il suo aspetto esteriore sarà così sfigurato tanto da apparire diverso ( e quindi “simile” ) dagli altri.
“E alla morte di Croce” : questa citazione sembra essere, secondo le osservazioni di alcuni biblisti, un’aggiunta originale di Paolo all’inno cristologico preesistente. Eppure in Fil. 2,5-11 si evince una ‘teologìa della croce’ o ‘staurologìa’ che si apre in tre direzioni : verso Gesù, verso il Padre e verso gli uomini (14). In rapporto al Padre la ‘croce’ esprime l’obbedienza assoluta ed incondizionata, dove il sacrificio diventa atto di omaggio e di adorazione ( nonché di accoglienza ), da parte di un uomo, a Dio e il culmine della redenzione. Significativo questo suggerimento di Maggioni : “Gesù ha condiviso la sorte dell’ultimo degli uomini” (15), quale può essere inteso uno schiavo, al quale può essere comminata la crocifissione.
La staurologìa di Fil. 2, 5-11, e più precisamente di Fil. 2,8, si regge sui verbi “fattosi obbediente” e “si umiliò” che ci indicano come la crocifissione non sia stata una circostanza fortuita, un semplice incidente di percorso capitato al Maestro galileo, ma la logica conseguenza di questa continua umiliazione e di questa estrema obbedienza al Padre celeste (16).
Quindi, anche la ‘croce’ trova la sua logicità che si ravvisa nel ragionamento con il quale Gesù non intende la sua ‘uguaglianza con Dio’ come un bottino da conservare (17). La ‘Croce’ diviene anche una chiave di comprensione di come Dio sia stato capace di rinunciare alla propria condizione di esistenza gloriosa per poter essere un uomo, per giunta il più reietto, uno “schiavo”, in modo da dimostrare ai sofferenti la propria solidarietà e condivisione nel destino.
E’ chiaro che chi ha composto questo inno cristologico di Fil. 2,5-11 é partito proprio dalla Croce per scoprire il volto dell’Essere supremo, anche se all’incontrario legge la storia di Gesù a partire da Dio(18).
Maggioni asserisce che l’ultimo atto della storia di Gesù Cristo consiste nella sua ‘glorificazione’ come il diretto contrario dello ‘svuotamento’ che funge, rispetto alla prima, da “conditio sine qua non”. Ma non é l’ultimo e conclusivo “capitolo” della ‘storia della salvezza’ (19). La condizione del ‘Servo di Jahveh’ non é definitiva ed assoluta. Se fosse tale, rasenterebbe la più totale insensatezza, la follia più accertata, una forma assurda, inaccettabile e repellente di masochismo o di vittimismo. Non é definitiva perché ha uno scopo ben delineato : il ristabilimento di una ‘signorìa’ universale originaria, compromessa e guastata dal peccato e dalla disobbedienza.
Richiamando una formula felice di Hegel, la ‘positività del negativo’, la condizione del ‘servo’ diventa, paradossalmente, privilegiata. Non perché quest’ultimo possa garantire al suo padrone, ma anche a se stesso, la sopravvivenza materiale con il lavoro. Ma perché acquisisce una coscienza superiore a quella di chi esercita il potere su di lui e dei suoi limiti, la consapevolezza delle potenzialità costruttive della sua esistenza sacrificata. Analogamente alla posizione dello schiavo, Gesù si rende consapevole che di fronte a Dio il peccato e la morte fisica vanno incontro al loro limite e non hanno l’ultima parola su tutto.
“Perciò Iddio lo ha anche sovraesaltato” ( Fil. 2,9 ) : quel “perciò” pone un “legame di causalità tra l’obbedienza della Croce e la gloria della esaltazione” (20). La ‘gloria’ é il frutto della ‘obbedienza’ (21), ma che non esclude l’iniziativa del Padre di donarla in modo gratuito tanto all’uomo Gesù che si é fatto obbediente fino al sacrificio della propria vita terrena per l’attuazione del ‘mysterion’, quanto al Logos preesistente che, incarnandosi in lui, si é svuotato delle sue prerogative divine, donandosi, a sua volta, al Padre e agli uomini nella più totale ‘derelizione’ . Il legame di causalità tra l’obbedienza e la gloria viene rivendicato da Gesù nella sua vita terrena, come attestato dalla tradizione sinottica : “chi si abbassa sarà innalzato” ( Mt. 23, 12; Lc. 18,14 ).
La ‘glorificazione’ deve avvenire attraverso la ‘sofferenza della croce’ . Gesù, in due occasioni, mostra di avere questa angosciosa ma tenace consapevolezza :
“ ‘L’anima mia é turbata e che devo dire ? Padre, salvami da quest’ora ? Ma per questo sono giunto a quest’ora ! Padre glorifica il tuo nome’. Venne allora una voce dal cielo : ‘L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò !’. La folla che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano : ‘un angelo gli ha parlato’. Rispose Gesù : ‘Questa voce non é venuta per me, ma per voi. Ora é il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” ( Gv. 12, 27-32 ).
“Così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse : ‘Padre, é giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa é la vita eterna : che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse……..Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola come noi” ( Gv. 17, 1-11 ).
II termine greco di ‘gloria’ é indicato, sia in Fil. 2,5-11 che negli scritti giovannei, con ‘doxa’ . Maggioni ci informa che con essa si intende tanto la ‘lode’ dal punto di vista della creatura, quanto la ‘manifestazione visibile di Dio’ perché, per l’appunto, l’uomo possa stupirsi, accettarlo, amarlo e riconoscerlo quale supremo Signore (22).
Parafrasando Gv. 12, 17 sembra che Gesù voglia dire : “Padre, manifestati in me !”. Secondo gli schemi religiosi israelitici, riferirsi al ‘Nome’ di Dio significa rapportarsi alla sua Persona, per la sussistenza di una stretta correlazione tra il nome e la realtà da esso designata. Per il pio ebreo Dio é innominabile nella sua assoluta inaccessibilità.
L’angoscia di Gesù si fa più pressante per l’avvicinarsi della fatidica ora della morte e rivela già una tensione tra l’istinto di conservazione e il principio di realtà. Parafrasando lo stesso versetto, é come se dicesse : “Non pensare a me, alla mia vita, ma solo a manifestare la tua potenza e la tua gloria”. Una voce dal cielo intende richiamare l’attenzione degli astanti, confermando le parole del Messìa. Per chi ammette il soprannaturalismo, é indubbio che parecchie persone assistano ad una rivelazione sorprendente di Dio. Non tutte percepiscono il fenomeno allo stesso modo ( forse un tuono, forse una voce magari penetrata direttamente nell’animo ), né la sua origine. E Gesù non precisa più di tanto, lasciando intendere che si tratti di una voce rivolta ai suoi ascoltatori.
Quanto alla ‘elevazione’ , la si può intendere a due livelli : sia attraverso la ‘crocifissione’, sia mediante la ‘resurrezione’ e la ’ascesa al cielo’.
E’ interessante esporre questo ragionamento. Non solo attraverso i miracoli e la sua predicazione, ma anche mediante l’obbedienza e la sofferenza –fino alla morte- del Logos incarnato, é avvenuta la glorificazione del Padre celeste. Attraverso il ‘martyrion’, la ‘testimonianza’ dalle azioni più elementari fino al sacrificio della propria esistenza terrena di Gesù, il Padre ha avuto la sua manifestazione visibile più solenne, sul piano storico, anche se non ultima e definitiva. Ora il Figlio di Dio incarnato invita il Padre a glorificarlo, a donargli, nella pienezza della sua unione ipostatica teandrica, quella gloria che il Logos possedeva ( e possiederà ) sul piano metastorico.
Questa gloria non é vista, per l’appunto, come un “tesoro geloso”, ma dovrà essere partecipata dagli uomini, da coloro che credono e crederanno nel Logos.
Sul piano storico Gesù sarà continuamente glorificato, prima dagli Apostoli e poi ( secondo la figura dell’enallage ) dai fedeli di tutte le generazioni, affinché “siano una cosa sola come noi” ( Gv. 17,11 ). Da non considerare l’ultimo versetto come una semplice metafora, se per ‘cosa’ si intende una realtà fatta di piena comunione tra il creato e il suo Autore.
L’inno cristologico utilizza un termine greco che rafforza, superlativamente, l’esaltazione di Gesù, dono del Padre : “hyperypsosen”. Che concerne un ‘sovraelevamento’, una “possente ascensione del Cristo” (23). “E’ la resurrezione con lui di tutto l’essere” (24). Non solo il ritorno ad un’esistenza originariamente gloriosa ma, per la natura umana, é anche il conseguimento della completezza.
Questo supremo atto divino, denominato “hyperypsosis”, concerne proprio il ristabilimento di quella signorìa che Dio aveva prima dell’Incarnazione, prima ancora che Satana e l’uomo la violassero con il peccato di disobbedienza.
Tuttavìa, é sbagliato pensare che l’atto sia stato compiuto una volta per tutte con l’uscita di Gesù, nel suo corpo risorto, dalla scena del mondo, come sembra suggerire il verbo “hyperypsosen” volto al passato. Si tratta piuttosto di un atto perenne e continuo perché metastorico, ma che si svolge anche nel tempo e nello spazio.
L’Apostolo delle Genti –come, del resto, tutti gli autori neotestamentari, non considera gli eventi della storia della salvezza come conclusi in sé, non solo per la constatazione che tali avvenimenti si richiamano l’un l’altro, oppure perché uno di essi é sempre foriero di conseguenze e “gravido dell’avvenire”. Ma anche perché ciascuno assume una dimensione metastorica che gli permette di trascendersi e di universalizzarsi. In caso contrario, la liturgia cristiana (prendiamo, per esempio, la celebrazione eucaristica) sarebbe una semplice commemorazione di atti del Signore, ormai conclusi una volta per tutte. Il rapporto tra Dio e le creature, nell’ottica neotestamentaria, richiama la distinzione tra l’eternità e il tempo. E una loro implicazione e compenetrazione. Mai la loro separazione. E gli autori biblici sanno molto bene questo dettaglio : quando indicano alcuni eventi importanti -che coinvolgono Gesù- utilizzano un tempo verbale indefinito.
Si esprime, per indicare un atto divino compiuto nel tempo, una forma verbale di passato, ma senza la funzione di indicarlo. Con un verbo volto al passato si descrive la qualità dell’azione colta nel suo svolgersi, senza prendere in considerazione la sua durata.
Così vale per la “hyperypsosis” di Gesù che é continuata nei cieli e sulla terra, nel senso che il Figlio di Dio si glorifica anche attraverso la Chiesa e in ognuno dei credenti che si conforma alla fede ricevuta.
L’atto di ‘innalzamento di Cristo’ –che non si riduce solo alla sua ascensione corporea- ha il suo momento culminante nel conferimento del ‘Nome’ che é al di sopra di ogni altro nome ( Fil. 2,9 ).
Conferire un “nome”, nell’ottica biblica, significa designare una profonda realtà e riconoscerla, effettivamente, per quella che essa é. Lo si é visto già nel racconto della creazione dell’uomo, secondo la tradizione jahvista, dove Adamo viene invitato da Dio a dare un nome a tutti gli esseri viventi ( Gn. 2, 19-20 ), esercitando un potere sul creato in virtù di una scienza a lui infusa. Si badi che a Gesù crocifisso e risorto non viene attribuito un nome, ma il ‘Nome’ per eccellenza che lo pone a livello di Dio ( nel senso che lo si riconosce solo con quello ), al di sopra di ogni altro essere.
Per i pii israeliti Dio ha il suo ‘Nome’ e molteplici attributi con tanto di superlativi assoluti. Esso non può neanche essere pronunciato se non con un rispetto elevato. E’ un nome che designa la sua essenza metafisica ma, durante la rivelazione sul Monte Horeb, andava inteso come “Io sono colui che sono” ( IHWH ) l’aiuto di Israele che farà uscire dall’Egitto, umiliando il Faraone.
Gesù risorto ha lo stesso nome di Dio. Rifacendosi alla tradizione veterotestamentaria, riprendendo una espressione di Isaia ( Is. 45, 23 ) che richiama il gesto di adorazione e di sottomissione – consistente nel “piegare il ginocchio” – di tutti gli esseri creati nei confronti di Jahveh, l’inno cristologico di Fil. 2,5-11 ribadisce che lo stesso atto deve essere rivolto a Gesù nella dignità assunta dalla sua natura umana, “dopo l’umiliazione dell’Incarnazione e della morte di croce” (25).
Ma qual é questo ‘Nome’ ( in greco “to onoma” ) da conferire a Gesù Cristo ?
L’inno di Fil. 2,5-11 lo cita al singolare, ma si guarda bene dal dirci qual é. Non é difficile immaginare che esso, in maniera implicita, si riferisca al sacro tetragramma I H W H che i pii ebrei non osano pronunciare, sostituendolo con il termine ‘Adonai’ che significa ‘Signore’.
Il Padre conferisce il Nome a Gesù. Ma cosa sta a significare ? Che il Nome non era mai appartenuto al Logos ? Si tratta, invece, proprio di riconoscere a quest’uomo, Gesù Cristo ( nel quale il Verbo si é incarnato ), che ha sofferto e morto in modo così violento per totale obbedienza a Dio, la stessa dignità divina e la sovranità universale su tutti gli esseri, permettendo così “di esercitare con pienezza i diritti di sovranità, di giustizia e di giudizio” (26).
Probabilmente Paolo ( come pure gli Evangelisti ) ha letto l’Antico Testamento nella versione greca detta dei ‘Settanta’, dove il termine ‘Adonai’ é tradotto con ‘Kyrios’. Duplice é lo scopo della ‘esaltazione’ : una ‘proclamazione universale’ che equivale ad una ‘confessione di fede’ ( nell’inno viene utilizzato il verbo “exomologhein” ), secondo la quale Gesù Cristo é il Signore ( Fil. 2,11 ), esprimentesi anche come assoluta ‘lode a Dio Padre Onnipotente’ ( Fil. 2,11 ).
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Una confessione che neanche le potenze avversarie al piano di Dio ( Fil. 2,10 ), quelle che agiscono nel mondo umano e le realtà infernali, possono ignorare e negare. E che viene richiesta alla fede dei credenti, soprattutto quelli contemporanei a Paolo di Tarso, e che “sostanzia” la propria vita su questa terra e nell’oltretomba. Non si può evitare nessuna circostanza che possa indurre a sottrarsi alla confessione della propria fede . Altro che a voce ! Addirittura fatta con il sacrificio della propria esistenza terrena.
I cristiani del I secolo, del tempo di Nerone e di Domiziano, hanno la gaudiosa ma anche tragica consapevolezza della loro vita inserita nell’ottica del ‘martyrion’, da meditare e vivere giorno per giorno, in un ambiente difficile, a loro diffidente e ostile, dove sono discriminati e vessati da parte del popolino e dei Giudei, ancor prima della persecuzione legale. Incorrendo poi in circostanze tremende dove non é possibile eludere una tale confessione di fede attraverso un conflitto di valori e di doveri, perché l’Imperatore di Roma ( come pure l’errore ) non ha gli stessi diritti di Dio ( e della verità ).
Domiziano, considerandosi “signore e dio”, esprimeva un atto di tracotanza, una “hybris”, una prevaricazione nei confronti della misura e del giusto equilibrio, urtando la suscettibilità anche dei pagani più rispettosi delle loro tradizioni religiose, nonché degli intellettuali onesti.
Non si é tenuti ad una cieca obbedienza, traducentesi in un atto di omaggio e di adorazione, per non compiere un attentato all’unità di Dio, del Dio biblico; ma anche per non essere ritenuti complici di un inaudito atto di superbia.
Il programma imperiale di una riforma religiosa che sarà perseguito, con tenace determinazione, da Domiziano e da altri “princeps”, mirava non solo a rafforzare l’assolutismo, ma anche a far valere una pretesa totalitaria a tutto il mondo romano. Che si doveva per forza interpretare in termini religiosi.
Il consenso alla persona dell’Imperatore non doveva essere solamente civile e politico, ma anche interiore. Il culto a questo monarca, in quanto “dominus et deus”, non era solo un atto liturgico a favore di un dio accanto ad altri. Possiamo affermare in questo modo : i diversi culti e le varie religioni del Mediterraneo del I secolo avevano il diritto di esistere solo se ritenuti subordinati e in funzione di quelli imperiali.
I pagani si assoggettavano a queste aberrazioni, dimostrando tutta la loro viltà di fronte alle disposizioni imperiali ed incoerenza nel tributare onori alle loro specifiche divinità.
Ma il riconoscimento della ‘signorìa’ di Gesù non può avvenire se non attraverso l’umiliazione più assoluta che non é tanto quella di farsi uomo di Dio, quanto quella del prendere la forma di ‘servo’, gratificando una categoria sociale reietta, dimostrando la sollecitudine dell’unico Creatore di tutte le cose non dalla parte del pre-potere, ma sempre nei confronti dei deboli, dei sofferenti, dei vessati.
Il Cristianesimo, tuttavìa, non si é mai diffuso come un tentativo di rivoluzione sociale. Esso ha sempre rispettato il principio di gerarchia e il diritto naturale della proprietà privata, accettando e coesistendo perfino con strutture socio-economico-giuridiche, sorte con il peccato, immettendovi in esse una nuova e vitale linfa, fatta di fraternità, di amore, di riconoscimento della dignità di qualsiasi uomo, il rispetto dei deboli e dei sofferenti, che deve improntare sempre i rapporti interpersonali, compresi quelli di interdipendenza.
Il ‘Vangelo’ si é proposto come un ‘rinnovamento delle coscienze’ : ha chiamato alla fede “il giudeo e il greco, lo schiavo e il libero, l’uomo e la donna, senza la pretesa di abolire distinzioni naturali o anche le disuguaglianze artificiali. Queste ultime sarebbero venute meno col tempo, grazie anche al trionfo dei principi cristiani nella società greco-romana e in virtù delle contingenze di fatto ( come, per esempio, la fine delle guerre di conquista da parte di Roma, le invasioni barbariche con connessi contrazione dei commerci e impoverimento delle campagne ).
Quella di Paolo é una religione che riesce ad assecondare la domanda di spiritualità e a rispondere alle esigenze di rigenerazione esistenziale anche di una grande massa di uomini senza speranza ( e tali non sono solo gli schiavi ) che prima hanno trovato un debole conforto nei culti misterici, opponendoli alle religioni delle classi medio-alte, ritenute, non a torto, come ipocrita espressione culturale e ideologica del predominio di altri uomini.
L’Apostolo indica, tuttavìa, un’oppressione e una sofferenza ancora peggiori che interessano tutti, potenti e deboli, ricchi e poveri : quelle legate al peccato, all’egoismo e al mancato disciplinamento delle passioni.
Cristo ha mostrato che il vero ‘servizio’ da vivere con umiltà e dono di sé controbatte la peggiore delle servitù, cioé quella al peccato e al demonio. Esso consiste nel “fare la volontà di Dio” e nell’amore disinteressato verso il prossimo e, addirittura, verso i nemici (Mt. 5,43-48; Lc. 6,27-36).

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La valenza teologica della ‘Croce’ di Cristo permette al neofita di fissare la concentrazione di tutta la storia della salvezza e del ‘mysterion’ divino in quello strumento di morte ( e, paradossalmente, di vita ), in quell’evento, in modo che tutto ciò che attiene alla Rivelazione biblica non potrà mai risultare concepibile al di fuori di esso. All’infuori della ‘croce’ più nulla é comprensibile.
Divenendo il segno inequivocabile di una fede che dura da due millenni.
Una tale valenza rispecchiata così bene in questo densissimo e mirabile inno cristologico della Lettera ai Filippesi.

L’OMOSESSUALITÀ IN SAN PAOLO E L’AMORE DIMENTICATO

http://www.ildialogo.org/omoses/omsp28082008.htm

CRISTIANESIMO ED OMOSESSUALITÀ

L’OMOSESSUALITÀ IN SAN PAOLO E L’AMORE DIMENTICATO

RIFLESSIONI BIBLICHE DI M.S.

Ci sono tre passi negli scritti di S. Paolo che si è pensato possano riguardare le relazioni omosessuali: Romani 1,26-27, 1 Corinzi 6,9-10, 1 Timoteo 1,9-10. Derivano da essi le maggiori argomentazioni del Nuovo testamento contro l’omosessualità in quanto « intrinsecamente immorale ». Ma siamo sicuri che è questo il loro senso? Scriveva giustamente don Tonino Bello “ci sono tante parole del Vangelo che noi abbiamo addomesticato, le abbiamo ridotte, le abbiamo decurtate, così per ridurle agli spazi della nostra prudenza umana ». Un biblista ci offre alcune riflessioni su questi passi controversi.
“Ci sono tante parole del Vangelo che noi abbiamo addomesticato, le abbiamo ridotte, le abbiamo decurtate, così per ridurle agli spazi della nostra prudenza umana, per cui tanti cristiani sono buoni, onesti, incredibilmente legati alle leggi della Chiesa e dello Stato, irreprensibili, però non hanno scatto, non hanno quella passione in più, non hanno quelle movenze che sanno veramente di audacia, di audacia profetica, che sanno dire con coraggio, davvero, la Parola del Signore e la sanno vivere”.
don Tonino Bello

Carissimi, apro questo mio breve pensiero con le parole di don Tonino Bello, con quest’invito chiaro e forte ad essere testimoni di quell’evento salvifico, trasmessoci dagli apostoli, frutto di una scelta d’amore per la salvezza di tutti gli uomini. Mi chiedete di commentare San Paolo, bene, e lo farò con lo stesso Paolo. D’altronde, come si suol dire, la Scrittura si commenta con la Scrittura…ed io userò questo criterio.
Faccio solo una premessa: in questo mio breve commento non terrò conto dell’autenticità o attribuzione delle epistole. Sarebbe un discorso troppo lungo. D’altronde, fin quando si continuerà a dire: “Dalla lettera di San Paolo apostolo a…” è bello credere, nonostante l’esegesi moderna ci illumina che non è così, che sia tutto opera di Paolo.

Inno all’amore
« Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi l’amore, niente mi giova.
L’amore è paziente, è benigno l’amore; non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non avrà mai fine.
Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Quand`ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l`ho abbandonato.
Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch`io sono conosciuto. Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e l’amore; ma di tutte più grande è l’amore », I Corinzi 13,1-13.
Ci sono tre passi negli scritti di S. Paolo che si è pensato possano riguardare le relazioni omosessuali:
Romani 1,26-27: «Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami: le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni verso gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento».
1 Corinti 6,9-10: «[...] Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati (malakoi — Vulg. molles), né sodomiti (arsenokoitai — Vulg. masculorum concubinatores), né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio».
1 Timoteo 1,9-10: «[...] sono convinto che la legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli [...] per i pervertiti (arsenokoitai — Vulg. masculorum concubinatores) [...] e per ogni altra cosa che è contraria alla sana dottrina».
Da Rm 1,26-27 deriva la maggiore argomentazione del Nuovo Testamento contro l’omosessualità in quanto intrinsecamente immorale. Come si può notare tutto ciò che San Paolo condanna è tutto quello che viene fatto senza amore.
Il metro di misura della moralità cattolica cristiana è l’AMORE. Amore nel senso più alto del termine, AGAPE, amore gratuito, che spinge a donare la vita per gli altri.
L’amore di Cristo per l’umanità peccatrice; l’amore del Padre, che fa festa per ogni figlio che torna a lui; l’amore dello Spirito, che ci apre alla misericordia sicura nel giudizio finale.
Ci sarebbero intere pagine, ma sarebbero solo parole. Purtroppo, come ci ricorda don Tonino, “sono tante le parole del Vangelo che noi abbiamo addomesticato, decurtato…..dimenticato”. Basterebbe ricordare come, quando e perché nasce la Chiesa.
Come: Durante una cena a cui erano presenti un traditore, un rinnegatore, un incredulo…..e altri otto fuggitivi….nell’ora della prova.
Quando: poche ore prima dell’evento salvifico più grande di tutta la storia….evento che riguarda tutti gli uomini.
Perché: per fa si che tutti, (e non lo dico io!) basterebbe ricordare “Prendete e mangiatene tutti”, senza nessuna esclusione.
Perché, ciò che conta e come si fanno le cose. Per san Paolo è naturale condannare pratiche già condannate nell’Antico Testamento. D’altronde basta non dimenticare le sue origini.
Ma è anche logico, alla luce dell’esperienza Messianica, esaltare l’Amore, quell’amore che dà una luce diversa alle cose, un colore nuovo, un significato pieno… quello dell’evento salvifico operato da Cristo… che fa si che l’AMORE tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

Giovedì, 28 agosto 2008

SAN PAOLO – SPERANZA

http://digilander.libero.it/speran/spera/paolo.htm

SAN PAOLO – SPERANZA

Paolo si difende e ricorda ai fratelli e padri della sua gente che lui, vero giudeo era «pieno di zelo per Dio, come lo siete voi» (At, 22, 3) Zelo sbagliato, però, che lo portava a perseguitare a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne. Dice anche in sua difesa davanti al re Agrippa: «Quanto a me, io ritenni di dover fare molte cose contro il nome di Gesù di Nazaret» (At. 26, 9). Queste due difese hanno offerto a Paolo buone occasioni per rispondere e dare le ragioni della speranza che era in lui, secondo quel consiglio che Pietro scrive nella sua prima lettera: «pronti sempre a dare una risposta a chi vi chiede il motivo della vostra speranza» (1 Pt 3, 15). Al re Agrippa, Paolo dice testualmente: « Ora mi trovo sotto processo per la mia speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri, quella promessa di cui le nostre dodici tribù, servendo incessantemente Dio notte e giorno, attendono il compimento. È per questa speranza che io sono accusato dai Giudei! Perché è considerato inconcepibile fra di voi che Dio risusciti i morti? ». (At 26, 6-8).
La domanda trappola dei sadducei fatta a Gesù dimostra che non capivano bene in cosa consisteva la risurrezione. Dopo aver raccontato la storia dei sette fratelli che sposano una sola donna, alla fine i sadducei domandano: «Nella risurrezione, quando essi risorgeranno, di chi ella sarà moglie, giacché tutti e sette l’ebbero per moglie?» (Mc 12, 23). Quando Gesù ordinò ai discepoli di raccontare la trasfigurazione solo «dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risorgere dai morti.» (Mc 9, 9) Ma la risurrezione annunciata da Gesù è ben altra cosa! «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (1 Cor 2,9) e questo è l’oggetto della nostra speranza.
Che cosa ha provocato in Paolo una speranza così grande da fargli cambiare rotta? Paolo racconta: «Caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 22, 7) I tre racconti degli Atti affermano che Paolo ha visto una luce e ha sentito una voce, una voce che lo chiama per nome! Solo dopo il suo ritorno a Gerusalemme, mentre pregava nel tempio, Paolo fu rapito in estasi «e vidi Lui» (At 22, 17-18).
Come Saulo stesso racconta era: «Pieno di zelo per Dio» (At 22, 3). Che cosa aveva potuto generare in Lui un cambiamento radicale in così poco tempo? Saulo aveva capito che la speranza che coltivava in cuor suo doveva rompere tutti i limiti per abbracciare Colui che è eterno. Ha visto che il suo era un amore possibile, non solo, ma anche reale e attingibile, anche se arduo.
Paolo ha visto che Dio compie le sue promesse, e le ha compiute in Cristo Gesù. Per questo, davanti al re Agrippa, poteva dire «Null’altro affermo se non quello che i profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, che cioè il Cristo avrebbe dovuto soffrire e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunziato la luce al popolo e ai pagani» (At 26, 22-23).
La domanda di Saulo: Che devo fare? ci fa riflettere che la speranza non è passiva, non è un semplice aspettare. Dice, infatti, Paolo ai Filippesi «ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di averla raggiunta. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Gesù Cristo.» (Fil 3, 12-14)
I tre racconti della conversione la vedono in vista di una missione. Nel primo il Signore disse a Anania: «Và, perché egli è lo strumento che ho scelto per me affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli di Israele» (At 9, 15). Nel secondo, Anania dice a Saulo: «Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito» (At 22, 14-15). Nel terzo, è Gesù che dice a Saulo: «Ma ora alzati e mettiti in piedi; io ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto di me e di quelle per cui ti apparirò.» (At 26, 16).
La grande speranza ci è donata, ma non ci è data come regalo. Fondata sulla fede e alimentata dall’amore, la speranza diventa la forza motrice per parlare della persona amata, e «insisti a tempo e fuori tempo» (2Tm 4,2), ed essere sempre: «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» ( 1 Pt 3, 15).
Se in «In speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8,24), non possiamo ricadere nella paura perché abbiamo: «ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abba! Padre!». Ci saranno tentazioni tuttavia Dio ci insegna come affrontarle, e perciò non bisogna avere paura, perché: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?». (Rm 8,31). Per «Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.» (2 Tim 4, 8).
Per ora: « Sappiamo infatti che tutte le creature gemono, e soffrono fino ad oggi le doglie del parto. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo ». (Rm 8, 22-24). La nostra speranza si basa su quello che abbiamo visto e udito per mezzo della fede, la fede è alla base della nostra speranza.
«Abbiate gioia nella speranza, siate costanti nelle avversità, assidui nella preghiera» (Rm 12,12), ci «Il Dio poi della speranza vi ricolmi di ogni gioia e pace nel credere, in modo che voi abbondiate nella speranza» (Rm 15,13) E illumini «gli occhi della mente perché possiate comprendere quale è la speranza della sua chiamata, quale la ricchezza della sua gloriosa eredità tra i santi, e quale la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi che crediamo» (Ef 1,18) e ci dia sapienza per «vivere nel secolo presente con saggezza, con giustizia e pietà, rinunciando all’empietà e ai desideri mondani, in attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del grande Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo» (Tt 2,12-13).
La speranza come la passione si distingue dal desiderio, poiché quest’ultimo ha come oggetto semplicemente il bene e l’appetito dei sensi, mentre la speranza ha come oggetto un bene futuro, arduo e possibile e poiché si riferisce al bene, essa appartiene alla facoltà di chi desidera vivamente anziché a quella dell’apprendere.
Oggetto della speranza è un bene futuro, arduo e possibile. La speranza dall’amore e dal bene che si spera. La speranza gioiva all’opera, poiché favorisce la naturale inclinazione.

CHE COS’È LA SPERANZA
La speranza è una virtù. Virtù, perché ha come oggetto Dio e da Lui, desidera l’aiuto necessario per camminare sicuri per gli impervi sentieri del mondo e anche per raggiungere un futuro di gloria. Virtù, perché conforma agli atti umani la regola superiore e perfetta di Dio.
L’oggetto della speranza poiché è Dio sul quale si appoggia e spera un bene infinito, è la beatitudine eterna. La beatitudine eterna, ciascuno la spera per se stesso, ma per atto di carità è bene sperarla anche per gli altri.
La speranza, avendo direttamente per oggetto Dio, sommo bene, è virtù teologale. Alcuni sperano solo negli uomini, ma da essi potranno solo ottenere aiuti secondari.
La speranza, poiché ha come oggetto Dio quale principio di conoscenza e verità, si distingue dalla fede e carità che hanno per oggetto Dio quale termine di unione per l’anima, mediante l’amore.
La speranza conferma la fede, ma non esiste prima, della fede, perché questa ci fa conoscere quel Dio in cui si spera.
La carità viene dopo la speranza, ma da parte sua la perfeziona.

LA SPERANZA E IL SUO SOGGETTO
La speranza risiede nella volontà che è un appetito razionale, essa ha come oggetto il bene e quindi riguarda, come abbiamo visto, la facoltà di chi desidera vivamente una cosa, ossia il bene divino.
La speranza non c’è più nei beati poiché per loro Dio non è più un bene futuro ma presente. Non la possono avere i dannati poiché ora che conoscono il Sommo Bene, non possono raggiungerlo. La speranza, viceversa, è nelle anime purganti che non hanno ancora raggiunto Dio, ma sanno che sarà il loro futuro.
Nella Chiesa militante la speranza assurge a certezza, poiché procede dalla fede e da una perfetta carità.

LA TEOLOGIA DELL’APOSTOLO PAOLO (interessante)

http://digilander.libero.it/moses/cristianesimo03.html

LA TEOLOGIA DELL’APOSTOLO PAOLO

di Renzo Grassano

Paolo è ricordato giustamente come il principale diffusore del cristianesimo in epoca apostolica. Fu figura storica a tutti gli effetti e lasciò alcuni scritti la cui autenticità è indubbia, anche se non si possono escludere rimaneggiamenti e « correzioni » operate a posteriori. La Lettera agli Ebrei, di cui parlerò abbastanza diffusamente per la sua importanza particolare, non fu forse opera sua, ma ne rispecchia alcuni modi di dire e le idee generali. Sicuramente uscì, dunque, dall’indirizzo profondo che egli aveva impresso alla prima chiesa.
Nato a Tarso, in Asia Minore, qualche anno dopo la nascita di Gesù, da famiglia ebraica ma di cittadinanza romana, fu educato a Gerusalemme e frequentò la scuola farisaica di Gamaliele, che a sua volta dovrebbe aver studiato con Hillel. Venne cioè educato alla dottrina farisaica dai migliori maestri di moderazione, lo stesso ceppo di quelli che influenzarono Gesù negli anni giovanili.
Sotto questo profilo, dunque, è per molti aspetti inspiegabile il trovarlo tra i più fanatici persecutori del cristianesimo.
Probabilmente non conobbe Gesù di persona, anche se non si può escludere lo abbia ascoltato quando insegnava nel Tempio di Gerusalemme.
Comunque non ebbe alcuna parte nella cattura, nel processo e nell’esecuzione del nazareno.
Cominciò la sua attività pubblica qualche anno dopo, e lo incontriamo per la prima volta al processo contro Stefano ed alla successiva lapidazione.
Gran parte della sua più realistica biografia è documentata negli Atti degli Apostoli composti dall’evangelista Luca in appendice al suo Evangelo.
Il resto si può facilmente ricavare dalle stesse Lettere di San Paolo, che nel II° secolo d.C. vennero canonizzate, cioè inserite nella Bibbia cristiana come scritture sacre a tutti gli effetti.
La sua vera avventura cominciò con il famoso episodio della caduta da cavallo sulla via di Damasco. Recava con sé lettere del Sommo Sacerdote di Gerusalemme che lo autorizzavano a catturare i seguaci di Cristo per condurli in catene a Gerusalemme.
Da allora, ricevute istruzioni direttamente da Gesù, che gli parlava, ovviamente, « dall’altro mondo » secondo la testimonianza dello stesso Paolo, egli divenne instancabile ed inarrestabile predicatore del cristianesimo.
Nessuno come lui andò così lontano nei viaggi missionari. Nessuno come lui cercò un approfondimento radicale e totale del mistero cristiano. Nessuno come lui visse con altrettanto coraggio e scarsissima considerazione di sé l’avventura della predicazione.
Parlò sia agli umili che ai potenti, anzi fu il primo a provare la grande impresa di convertire re e governatori.
I suoi scritti sono ancor oggi alla base della codificazione e della dottrina.
Il catechismo che abbiamo imparato da bambini prima della cresima, e che non sarebbe male ripassare nella sua ultima versione, si fonda sulle sue più importanti acquisizioni teoriche.
Non si è autenticamente cristiani se non si è « paolini ». Ma Paolo fu anche l’autore più contestato di tutta la storia della Chiesa. Tutti i pensatori che in qualche modo rifiutarono il cristianesimo fecero puntello sugli aspetti più paradossali e contraddittori delle affermazioni paoline. Il solo Nietzsche se la prese direttamente con il Cristo.
Persino io, che mi dichiaro cattolico (all’acqua di rose) senza vergogna, ma anche senza entusiasmo, visto l’andazzo attuale, trovo spesso imbarazzo e difficoltà nell’interpretare il pensiero ed il comportamento di San Paolo.
Del resto egli non fu mai accettato del tutto nelle comunità cristiane. Fu criticato ed osteggiato. Probabilmente fu frainteso, e persino calunniato. Dovette più volte difendersi e giustificarsi, contrattaccare.
Sotto un certo profilo, se si trova rispetto ad ogni sua affermazione un punto di forza relativo e contestualizzabile, egli ebbe ed ha sempre ragione. Ovviamente per i credenti. Ma questi punti vanno trovati e spesso non è facile. Come scrisse Pietro, od un suo successore immediato (forse un vescovo di Roma), « le sue lettere sono un po’ difficili da capirsi. »(1) Ammissione della rilevanza dei tratti speculativi e della radicale complessità dei ragionamenti.
Ancor oggi Paolo è un mistero, una sfida per la ragione e persino per la fede, se si crede che ogni buona fede non possa che riposare su un primo passo ragionevole del tipo: « quello che mi racconti ha dell’incredibile, ma sarebbe sciocco rifiutarlo a priori. » E’ la ragione che mi consiglia di credere.

Troviamo la teologia dell’Apostolo Paolo esposta in forma epistolare alle diverse comunità cristiane, non in modo organico e sistematico ma, a volte seguendo linee apparentemente estemporanee di approfondimento dottrinale, ed altre muovendo da semplici spunti polemici nei confronti di affermazioni di altri predicatori cristiani. Per essere correttamente intesa andrebbe ricostruita passo a passo, impresa che richiederebbe un lavoro ed un’attenzione enormi, e che al momento non sono in grado di produrre.
Mi limito quindi ad alcune linee molto generali, centrando l’attenzione su sei punti fondamentali:
1) la cosiddetta « follia della predicazione »
2) la dottrina del Cristo come nuovo Adamo ( e Sommo Sacerdote che immola sé stesso)
3) il primato assoluto della fede (non c’è altra giustificazione davanti a Dio che la fede in Cristo Gesù)
4) la dottrina della salvezza per « grazia »
5) il dualismo carne-spirito (e la realtà contraddittoria delle cose)
6)La dottrina politico-sociale di Paolo

La follia della predicazione
Nella parte introduttiva alla sua Storia della filosofia medioevale, Etienne Gilson riconosce in Paolo un’influenza stoica. «… Paolo ha certamente ascoltato le « diatribe » stoiche di cui ha conservato il tono violento di alcune espressioni: ma anche qui troviamo qualcosa di ben diverso dai residui di metafisiche precedenti; due o tre idee semplici, quasi brutali, ad ogni modo forti, e che sono altrettanti punti di partenza. Innanzi tutto un certo concetto della Sapienza cristiana. Paolo conosce l’esistenza della sapienza dei filosofi greci, ma la condanna in nome di una nuova sapienza che è follia per la ragione: la fede in Cristo….» Segue la citazione di I Corinzi I 22-25, che riportiamo pari pari:
« Gli Ebrei cercano i miracoli e i Greci cercano la sapienza; noi predichiamo un Cristo crocefisso, scandalo per gli Ebrei e follia per i Gentili, ma per i chiamati, Ebrei o Greci, potenza di Dio e sapienza di Dio. Perchè la follia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini. »
Gilson commenta in modo da affermare il carattere di doppia sfida di quest’ affermazione, « che avrà lunga eco nel Medioevo »perchè si rivolge a filosofi, cioè a uomini che ragionano. Gilson parla di follia della predicazione, qualcosa che gli individui ragionevoli, cioè i filosofi stoici (e scettici ed epicurei) del tempo di Paolo consideravano probabilmente come una forma di stravaganza, se non di stoltezza.
I seguaci dei filosofi, dunque, più dei filosofi stessi (del resto non sembra che al tempo di Paolo esistessero personalità filosofiche di rilievo, se si escludono il giudaico Filone di Alessandria, che morì nel 40 d.C., e Seneca), vennero in vario modo sfidati a cogliere la predicazione cristiana come sapienza diversa, vera sapienza. Che tuttavia era anche follia di Dio, o come tale appariva. Purtroppo Gilson si ferma qui e, come molti altri commentatori, non da conto di come si possa osare di parlare di una follia di Dio.
Problema che mi sono posto ancor prima da credente che da filosofo. La mia impressione è che, parlando di follia di Dio, Paolo intendesse riferirsi ad una follia per Dio che è tipica di ogni predicatore di qualsiasi religione. Essa non è sapienza razionale, ma la sfida e la oltrepassa, non già in quanto credenza superstiziosa, ma in quanto sapienza fondata in una oscura regione dell’anima e dello spirito che solo in Cristo trova finalmente una luce, la sua luce.
E per l’Ebreo Paolo la luce non può che essere la comprensione, finalmente, del senso delle scritture profetiche. Esse sono realizzate nella figura di Cristo Gesù.
La follia di Dio è la predicazione della realizzazione completa, il compimento della Legge e dei profeti.
Analogamente, quando si accenna alla debolezza di Dio, si deve pensare ad una debolezza per Dio che ci dovrebbe rendere più forti degli uomini forti. Siamo deboli per timore di Dio. Siamo ancora più deboli perchè lo amiamo.
Ma poichè il passo è ambiguo, una volta giunti a questa possibile e plausibile chiarificazione, il dubbio ritorna. Per Paolo c’era propriamente una follia di Dio da intendersi letteralmente? Mi chiedo: ma è possibile che un credente in Dio possa anche solo lontanamente dubitare della razionalità e della giustizia di Dio? Del suo Logos?
La dottrina del Cristo come nuovo Adamo (e Sommo Sacerdote che immola sé stesso)
Dobbiamo andare a quello che mi sembra lo zoccolo duro della dottrina paolina per vedere un altro aspetto della vicenda.
Il vero centro dell’annuncio (il kerigma) paolino, sta nella proclamazione forte del sacrificio di Gesù quale riscatto dell’intera umanità. Egli è il nuovo Adamo, e nell’Epistola agli Ebrei, diventerà il Sommo Sacerdote che immola sé stesso quale prezzo da versare per la nuova Alleanza tra Dio e gli uomini. Con l’offerta del suo sangue Cristo Gesù diventa il vero ed unico mediatore tra uomo e Dio, colui che riscatta l’uomo dal peccato.
Nel subconscio di Paolo, comunque infarinato di greca filosofia, questa necessità del sacrificio assume indubbiamente il carattere di una follia divina. Ed essa gli esplode nella bocca e gli scoppia tra le mani che vergano le pergamene. Com’è possibile che un Dio di bene e d’amore per gli uomini, si abbassi fino a questo punto? Come è possibile che, come una qualsiasi deità pagana, Dio si plachi solo con un olocausto?
Più avanti negli anni e persino nei secoli troveranno soluzione a questo interrogativo alcuni padri della Chiesa. La doppia natura del Figlio, insieme divina ed umana, ci consente di affermare che Cristo soffrì come uomo, nella carne, e come uomo versò il suo sangue di uomo. Ma come Dio egli venne al mondo, ed è solo come Dio che il sacrificio ebbe un valore presso Dio. Non ci sono sacrifici di uomini che possano tanto. L’Agnello ha da essere puro e santo, Unico nel suo genere.
Di qui l’esigenza di affermare il trinitarismo, che all’inizio fu indubbiamente una cristologia, cioè un dualismo Padre-Figlio, un unico Dio, ma composto da due persone distinte, con il Figlio nella singolare posizione di « generato, non creato ». Assurdità che la ragione, anche quella più forte ed addestrata alle sottigliezze, faticherà sempre a comprendere. E tanto vale, allora, parlare di mistero della Trinità. Perchè effettivamente c’è solo da perdere la testa a confrontarsi con un simile problema. Non capisco ma mi adeguo, aggiungendo che non mi ritengo affatto toccato dallo Spirito Santo e che le mie sono solo opinioni maturate dopo studi e riflessioni. Pensieri di un uomo in carne ed ossa.
Epperò, in Paolo la questione fu solo accennata e mai sviluppata, almeno nelle Lettere. Egli si limitò a disegnare, ad abbozzare un orizzonte, ma non riuscì ad approfondirlo, a curarne i dettagli, a giustificarlo con una dottrina non dogmatica.
Infatti, Paolo interpretò Cristo Gesù come il prezzo del riscatto offerto per l’affrancamento della colpa di Adamo. Non si trova, là dove si dovrebbe trovare, ovvero tra le righe di Romani, alcun accenno alla divinità di Cristo. Egli fu solo « il primogenito » di una moltitudine di redenti. (Rm 8,29)
Bisogna abbandonare Romani ed andare a Colossesi per trovare un punto più alto ed elaborato, un punto in cui si afferma: «In Lui abbiamo il riscatto, la remissione delle colpe: Egli è l’immagine di Dio, l’invisibile, primogenito della universa creazione, poichè in Lui tutte le cose furono costituite, così nel cielo come sulla terra, le invisibili e le visibili, i troni e le signorie, i principi ed i poteri, tutto attraverso Lui e per Lui fu creato: ed Egli è prima di ogni cosa e tutto si regge in Lui. Egli testa del corpo che è la Chiesa». (Col 1,15)
Ulteriore chiarificazione in Filippesi.
«Ed Egli che pure era nella forma di Dio, non fu geloso della sua somiglianza con Dio, ma si annullò fino ad assumere la forma di schiavo fattosi simile agli uomini. Ed apparso in fattezze umane, si umiliò, obbedendo fino alla morte, alla morte ignominiosa della croce. Per questo Dio lo esaltò e gli conferì un nome superiore ad ogni nome, affinchè a tal nome ogni ginocchio si pieghi.»(Fil 2,6)
Lettera dopo lettera, passo dopo passo, predicazione dopo predicazione, dunque, Paolo venne precisando il suo pensiero. E tuttavia non riuscì mai a riassumersi in una formula semplice, sintetica e lineare. Come Mosè riuscì a guidare il popolo alla Terra Promessa, ma morì prima di entrarvi, perchè Dio volle che a completare l’opera fossero i suoi discendenti (come a dire che il merito era di Dio e che mai nessun uomo riuscirà a completare del tutto disegni divini da lui iniziati), così Paolo seminò germi di dottrina, ma non li vide germogliare nemmeno nella sua consapevolezza finale. Stando a quello che troviamo scritto.
Del resto, una volta affermato che Cristo fu il nuovo Adamo, il nuovo capo di una nuova umanità redenta dalla colpa, si devono fare i conti con evidenti e naturali obiezioni. Basta dire che Gesù fu obbediente, ed in questo si distinse da Adamo, il disobbediente? Chiaro che no. La storia sacra pullula di uomini obbedienti. Ognuno di essi, da Mosè ai profeti, obbedì ed anche Abramo obbedì, pur non essendo un profeta. Il criterio dell’obbedienza non ha dunque una sufficienza di per sé. Sarebbe bastato Noè a salvare l’umanità dal peccato perchè egli obbedì a Dio nel momento cruciale. Tutti gli altri erano morti. Noè non salvò che pochi esemplari della specie umana. Ma anch’essi, secondo Paolo, non furono redenti. Sarà lo stesso Paolo ad affermare che l’obbedienza alla Legge non giustifica.
Eppure, proprio a Noè, Dio diede un cospicuo anticipo di quella che sarà la futura legge:
«Certamente del sangue vostro, ossia della vita vostra, io domanderò conto: ne domanderò conto ad ogni animale; della vita dell’uomo io domanderò conto alla mano dell’uomo, alla mano d’ogni suo fratello!
Chi sparge il sangue dell’uomo,
per mezzo di un uomo il suo sangue sarà sparso;
perchè quale immagine di Dio
ha fatto egli l’uomo» (Gn 9,5 – 9,6)
Dunque da quel preciso istante, secondo un’ovvia logica cronologica, la Parola di Dio è operante in modo che gli uomini sopravvissuti al diluvio abbiano ad intenderla.
E’ già operante ben prima della Legge.
Eppure, stranamente, in Ebrei non si trova alcun riferimento al valore immenso di questo precetto che fu consegnato al nuovo Adamo, l’Adamo intermedio tra il primo ed il terzo, ovvero Noè.
No, l’abisso scavato tra Dio e l’uomo richiedeva ora molto di più. Occorreva che Dio morisse per Dio e per la salvezza degli uomini.
Forse era questo il pensiero inseguito da Paolo e spesso afferrato per i capelli, ma subito sfuggito, subito di nuovo inafferrabile. Dev’essere stato duro vivere in questa perenne tensione, in questa ansiosa ricerca. Ma era inevitabile, proprio alla luce della sua stessa dottrina, che l’angoscia di afferrare la verità di Dio naufragasse a pochi metri dalla spiaggia, sempre a pochi metri, persino a pochi pollici.
In altre parole: ho il sospetto che Cristo Gesù per Paolo rimase « altro » da Dio fino alla fine della sua grama esistenza. Vicinissimo alla soluzione, ma mai alla soluzione.
E questo, sempre che si prenda per buona la dottrina del Sommo Sacerdote che immola sé stesso.
Ma è una buona dottrina? Era veramente necessaria una simile formulazione?
Per gli Ebrei, forse sì. Per noi che siamo del tutto estranei a quella forma mentis ed a tematiche di Alleanze che si fondano sul sangue, credo proprio di no. Probabilmente, noi preferiamo consolarci con un’immagine del Cristo sofferente, torturato, umiliato, messo in croce da una masnada di delinquenti. E ci ripugna l’idea del kamikaze imbottito d’amore anzichè di tritolo.
Il primato assoluto della fede (non c’è altra giustificazione davanti a Dio che la fede in Cristo Gesù)
Anche nell’esposizione delle virtù cristiane per eccellenza, fede, speranza e carità, Paolo cadde in una sorta di imprecisione. Conoscendo un po’ meglio la storia del cristianesimo si troverebbe facilmente, almeno oggi, la correzione dell’errore nella lettera di Barnaba, o pseudo Barnaba che sia. Essa non era di molto posteriore a quelle di Paolo, pochi decenni e forse meno. Le tre virtù per Barnaba erano fede, giustiziae carità. Guardando all’etimo delle parole non si sfugge all’impressione che il ritmo triadico cercato da Paolo quale simbolo di una perfezione pitagorica di origine squisitamente greca, che la parola giustizia non sia stata trovata non per negligenza ma, per ancora reconditi pensieri che non riuscivano a venire alla coscienza, se non a spezzoni. La speranza è qualcosa che è già compresa nella parola fede. Non proprio una tautologia, non proprio una vuota ed inutile ripetizione, ma certamente un accessorio. Chi ha fede non può non avere speranza, ed a volte si incontrano anche speranze senza fede. No, la seconda virtù cristiana, posto che la più grande sia la carità, insegnata da Gesù con la parabola del samaritano, è la giustizia. Lo disse Barnaba, propagandista cristiano che fu a lungo con Paolo prima di litigare furiosamente con lui. Il tutto si trova rendicontato negli Atti.
Il problema è che per Paolo il termine era troppo impegnativo. C’è una sola giustizia, quella di Dio. Agli uomini non è concesso di essere giusti, nemmeno dopo Cristo.
Adamo fu cacciato dal Paradiso terrestre perchè volle avere scienza del bene e del male, cioè un senso autonomo della giustizia. Ma con Paolo, nemmeno dopo Cristo si poteva pretendere di avere in sé la giustizia. Essa è eteronoma, come ovviamente anche in Gesù, ma di per sé nemmeno l’osservanza dei precetti divini porta giustificazione.
Dura da capire. Eppure è così. Guai a chi si ritiene giusto in virtù delle opere! La Legge non ha giustificato Israele, tuonò Paolo ancora in Romani. E non perchè, in verità, Israele non seguì mai la Legge e la Parola di Dio, ma perchè essa, la Legge, di per sé era ed è insufficiente. Nemmeno la giustizia, dunque è sufficiente.
E perchè?
Beh, questo è il punto. Da un lato è troppo stretta e dall’altro troppo larga. L’uomo è peccatore di natura. Sbaglia facilmente. « Persino io mi sbaglio, voglio il bene e faccio il male che non voglio ». Quindi chi si ritiene giustificato dalla giustizia del suo fare è solo un presuntuoso. Il che, rispetto a quel punto relativo che dovremmo sempre cercare, è certamente vero. Ma il passo di Romani in cui si annunciano queste cose non è di chiarezza cristallina, anzi devo dire che ho capito qualcosa solo attraverso una lunga meditazione.
Dopo un’introduzione nutrita di corrette citazioni (i profeti Osea ed Isaia), Paolo arriva al nocciolo del suo pensiero affermando in modo davvero brutale:
«Che diremo dunque? Che i pagani che non perseguivano la giustificazione si sono impadroniti della giustificazione, della giustificazione che deriva dalla fede. Israele, invece, che ha perseguito una legge di giustificazione, non è arrivato alla legge. Perchè mai? Perchè non l’hanno cercata dalla fede, ma dalle opere. Inciamparono nella pietra di scandalo come sta scritto:
Ecco, pongo in Sion
una pietra d’inciampo
ed un sasso di scandalo,
e chi crederà in esso
non rimarrà svergognato.
Fratelli, il desiderio del mio cuore e la preghiera a Dio per essi tendono alla loro salvezza. Do infatti loro atto che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza. Non volendo infatti riconoscere la giustizia di Dio e cercando di far sussistere la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Infatti il compimento della legge è Cristo per portare la giustificazione ad ognuno che crede. Mosè infatti scrive riguardo alla giustizia quale proviene dalla legge: l’uomo che la metterà in pratica vivrà in essa. La giustizia che viene dalla fede dice così:
Non dire in cuor tuo: Chi salirà al cielo?
nel senso di farne scendere Cristo, oppure:
Chi scenderà nell’abisso?
nel senso di far risalire Cristo dai morti. Ma che dice?
La parola è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore.
E questa è la parola della fede che noi proclamiamo: se tu professerai con la tua bocca Gesù come Signore, e crederai nel tuo cuore che Dio lo ha resuscitato da morte, sarai salvato. Col cuore infatti si crede per ottenere la giustificazione, con la bocca si fa la professione per ottenere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: Chiunque crederà in lui non rimarrà confuso. Infatti non c’è distinzione tra Giudei e Greci; poichè lo stesso è il Signore di tutti e spande le sue ricchezze su tutti coloro che lo invocano, e chiunque avrà invocato il nome di Dio sarà salvato.» (Rm 9,30 – 10,13)
Da qui in poi, Paolo non fa che rimproverare ai Giudei la loro incredulità, quindi la mancanza di fede in Gesù. E siccome era fermamente convinto che solo Gesù fosse la salvezza, i passi successivi non mancano di chiarezza e coerenza.
Ma il complesso ragionamento sopra citato è ambiguo ed enigmatico, innanzi tutto perchè manca di prospettiva storica. Israele non ha trovato giustificazione non già perchè la Legge era insufficiente (e questo sembra invece dire Paolo), ma perchè pochi l’hanno messa in pratica. E’ da quest’inosservanza, mancanza di fedeltà alla Parola di Dio, e non di fede che nasce la confusione, il dramma, la caduta di Israele. Altrimenti non si capiscono i profeti e la loro necessità. Tutti i libri profetici non sono altro che l’ininterrotto lamento del giusto obbrobriato e disgustato dal comportamento di re e di popolo. E gli ultimi dicono che proprio non se ne più, tanto è grande l’ignominia.
Solo così si comprende anche il ruolo di Giovanni il Battista, l’ultimo dei profeti.
In secondo luogo non priva di ambiguità è anche la citazione di Mosè. Come se la Legge fosse opera dello stesso Mosé e non Parola di Dio.
Superata questa impasse che comunque non cessa di dare da pensare, Paolo si può finalmente riassumere. Chiunque osservi solo i comandamenti morali, e non importa se per timore della punizione o per convinta adesione interiore, non trova giustificazione presso Dio. Da adesso in poi, solo chi professa Cristo come Signore sarà giustificato. E non ha alcuna importanza donde venga, se sia Ebreo, Romano o Persiano. Il lato religioso-cultuale prevale su quello pratico-morale. Come a dire: prima dimmi se credi, il resto è di secondaria importanza. E’ questo il punto sul quale un qualsiasi filosofo razionale avrebbe molto, moltissimo, da ridire. Stoici, epicurei, filoniani, in fondo non fa differenza. E potrebbero obiettare a Paolo persino muovendo dal Vangelo. Se l’albero è buono, lo si riconosce dai frutti che dà. E se a qualcuno è stato affidato un talento, il Signore glie ne chiederà conto. Non conosco persone che abbiano ricevuto solo il talento della fede.
Paolo affrontò la stessa questione, più o meno negli stessi termini, in diverse occasioni. In Galati, ad esempio, una lettera composta tra il 56 ed il 57 d.C., egli scrisse:
«E allora, perchè la legge? Essa fu aggiunta a motivo delle trasgressioni, finchè non giungesse il seme oggetto della promessa, promulgata per mezzo degli angeli, tramite un mediatore. Ma un mediatore non esiste quando si tratta di una persona sola; e Dio è uno solo. La legge allora va contro le promesse di Dio? Non sia mai detto! Se infatti fosse stata data una legge capace di dare la vita, la giustificazione si avrebbe realmente dalla legge. Ma la Scrittura ha chiuso tutte le cose sotto il peccato, affinchè la promessa fosse data ai credenti per la fede in Gesù Cristo.
Prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi come prigionieri sotto il dominio della legge, in attesa della fede che sarebbe stata rivelata. Cosicchè la legge è divenuta per noi come un pedagogo che ci ha condotti a Cristo, perchè fossimo giustificati dalla fede. Sopraggiunta poi la fede, non siamo più sotto il dominio del pedagogo.» (Ga 3,19 – 3,25)
Per Paolo la fede è sempre il momento cardinale. Fino al punto che non esitò nemmeno a cambiare le parole dei passi citati dalla Bibbia per dare forza ai propri discorsi.
Citando il profeta Abacuc, che scrisse: il giusto vivrà per la propria fedeltà al Signore ed alla sua Legge, Paolo sostituì la parola fedeltà con la parola fede. Il giusto vivrà in forza della fede.
E’ un gesto che si commenta da sé.
E la stessa disinvoltura ritorna in Ebrei, in modo molto più diffuso. Mettendo in un unico mazzo Abele, Enoch, Abramo, David, i profeti, Noè, Barak, Sansone… Sara, egli vide ed esaltò solo la loro fede, tipico di Paolo.
Persino troppo facile controbattere, lo farà Giacomo, capo della corrente cristiano-giudaica, asserendo che ciò che giustificò i vari personaggi biblici fu la loro obbedienza, cioè la loro fedeltà al Signore. E che obbedienza significa azione, cioè opere e comportamento.
Ma Paolo ha un partito preso, la priorità della confessione di fede, e quindi procede senza scrupoli. Sicchè incontriamo un’autentico gioiello di esegesi: « Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco… Egli pensava infatti che Dio è capace di far resuscitare i morti.» (Ebrei 11,17 – 11,19)
Qui, ancora una volta, la prospettiva storica è completamente stravolta. Gli Ebrei cominciarono a credere alla sopravvivenza dell’anima in epoca molto tarda, in ragione di influenze provenienti da culture e religioni esterne. In tutto l’antico testamento non ci sono passi espliciti che rinviino ad una simile credenza. La frase ricorrente alla morte di qualcuno è che si coricò con i padri. Per la verità, c’è un passo, in Genesi 5, 24, che dice qualcosa di diverso: «Enoch camminò con Dio e non ci fu più, poichè Dio lo rapì.» E’ l’unico indizio. Ma più che di morte cui seguì una sopravvivenza dell’anima od una resurrezione, farebbe pensare ad un’ascesa in cielo del tutto singolare, un premio assegnato ad un uomo del tutto particolare. Però anche l’Adamo intermedio, ovvero Noè, conobbe la corruzione e la morte.
Mi ha molto colpito l’intepretazione che ha dato Gabriel Josipovici di questo infelice passaggio. E’ utile citarla per intero. «Una sfilata grandiosa ed affascinante, ma che inevitabilmente lascia alquanto perplessi i lettori dell’A.T. Come leggiamo il capitolo non possiamo evitare di domandarci se corrisponde alla nostra memoria del testo. E proprio tutto quanto si può dire di quelle persone? Ci rammentiamo di Sara che ride dentro di sé quando origliando il colloquio fra Dio ed Abramo apprende che concepirà un figlio, una scena tanto rilevante da essere perpetuata nel nome del figlio, Isacco; pensiamo agli anni giovanile di Mosè; ci tornano alla mente i tremendamente complicati e ambigui rapporti di Davide con Dio…. e riflettiamo: tutto questo può essere rubricato sotto la solo voce fede? E non è sufficiente rispondere che la fede fu l’elemento dominante della loro vita e che evidentemente l’autore della lettera agli Ebrei non intendeva riprendere per intero le scritture ebraiche. Non è sufficiente proprio perchè il riso di Sara e la passione di Davide per Betsabea ci impediscono di compendiare la loro vita e i loro rapporti con Dio in un unico concetto. Le storie della Bibbia ebraica sembrano per lo più destinate a lasciarci in una sconcertante ma feconda ambiguità: hanno evidentemente un significato, non sono pura e semplice cronaca di fatti: eppure stranamente, il significato è insito in esse più che essere un qualcosa che noi possiamo estrarre da esse. Giacobbe non è necessariamente migliore o più credente di Esaù, riesce difficile non biasimare Giuda, i peccati di Davide sono altrettanti o più numerosi di quelli di Saul. Eppure questi e non altri sono scelti. Perchè ci domandiamo, e ci pare che questa sia la precisa domanda che quelle storie ripetutamente attendono da noi. Ebrei, dando un’interpretazione, annulla la domanda.» (2)
Come non essere d’accordo? Tanto più che con questa pretesa della fede che tutto spiega, sia la storia che il suo intricato spessore umano perdono la drammaticità, e rendono persino il dolore e le lacrime inutili al limite della farsa. Perchè mai Abramo dovrebbe dolersi del sacrificio di Isacco se tanto credeva che Dio lo avrebbe resuscitato? E perchè non avrebbe dovuto dubitare di un Dio che prima gli promise una discendenza, e dopo che l’ebbe, subito glie la tolse? Che diavolo d’un dio era questo che manco manteneva le promesse? E, soprattutto, perchè, perchè, perchè, dopo il passo citato in Gn 9,5, contenente il comandamento di non uccidere, Dio pretese da Abramo il sacrificio di Isacco? Che diavolo d’un dio era questo che smentiva e tradiva persino i suoi comandamenti.
Ci vorrebbe un volo pindarico della ragione per spiegare tutto ciò.
La dottrina della salvezza per grazia
Uno dei punti cardine della predicazione paolina la troviamo espressa in Efesini. Essa si può definire come una conseguenza del principio Dio può tutto, tutto quello che accade è volontà di Dio, ergo anche la conversione al cristianesimo, che è l’unica via di salvezza, è frutto della volontà di Dio. L’uomo che gode del privilegio di conoscere l’insegnamento di Cristo e di accettarlo, non si è salvato da solo, non ha fatto uso della sua ragione e della sua libertà, ma è stato salvato (altri diranno predestinato alla salvezza). All’uomo, dunque, nessun merito. Non lo può salvare il buon comportamento, non lo può salvare il suo istintivo senso della rettitudine, e nemmeno la sua formazione etico-filosofica. Nemmeno l’accettazione del mistero cristiano è merito suo.
Nel corso del tempo questa dottrina sarà ulteriormente estremizzata, a partire da Agostino, e poi dai pensatori protestanti, sia da Lutero che, ancora più estremisticamente, da Calvino. Verrà combattuta da Pelagio, verrà di molto annacquata dalla Chiesa Cattolica, e sarà osteggiata da Erasmo da Rotterdam, il quale disputerà con Lutero a proposito del « libero arbitrio ».
Pochi si sono accorti che riducendo l’uomo a poco più di un bambino in balia degli eventi e della presunta volontà divina, gli si leva ogni merito, ma si finisce col sollevarlo anche da ogni responsabilità. Se non ci sono giusti per meriti acquisiti, allora non vi sono nemmeno criminali ed assassini per demeriti e libera scelta. Una simile sciocchezza non poteva essere accettata dalla Chiesa cattolica, soprattutto quando divenne religione ufficiale prima, e Chiesa di governo poi. E se questa è una delle ragioni storiche per cui la Chiesa cattolica dovette ammettere la dottrina del libero arbitrio, un’altra andrebbe certamente ravvisata nella lenta e progressiva valorizzazione della ragione, culminata nella filosofia di San Tommaso.
Il dualismo carne-spirito
Chi professa Gesù Cristo come nostro salvatore è già un uomo spirituale di per sé?
A Paolo sembra di sì. Però la cosa è fatalmente contraddittoria.
A leggere le lettere si ha l’impressione di un uso alternato di carota e bastone. A fragorosi proclami di grandezza spirituale ed un po’ ipocriti riconoscimenti di meriti alle varie comunità cristiane, seguono ammonimenti pedanti a non ubriacarsi, a non fornicare, a non dire bugie, non rubare e così via, che fanno a pugni sia con l’asserto del primato della fede che con quello dell’ormai avvenuta conquista della spiritualità. Insomma, si finisce col chiedere opere e comportamenti coerenti con la professione di fede proprio agli spirituali. Un po’ ridicolo, no?
Se davvero tra i fratelli si mentiva, si rubava, si fornicava e ci si ubriacava, era evidente che la trasformazione da chiesa di quadri puri e duri a chiesa di massa aveva comportato qualche prezzo da pagare. Cani e porci erano entrati nel sacro recinto e faticavano non poco a trasformarsi in persone rette. Così si comprendono le riserve sollevate dalla corrente di Giacomo e l’azione sobillatrice di alcuni Giudei convertiti che passavano di comunità in comunità a confutare quanto Paolo aveva proclamato, ovvero a richiedere l’osservanza della Legge, essendo insufficiente per loro la recitazione rituale di un credo.
Crebbero le incomprensioni e nacquero feroci polemiche proprio tra i quadri, per usare un’espressione moderna.
Molte lettere paoline contengono denunce accorate contro questi superapostoli dell’ortodossia giudaico-cristiana. La ragione, come spesso accade, stava da entrambe le parti, almeno un po’, ma per una serie di sviluppi storici ancora tutti da decifrare, Paolo ebbe partita vinta e la corrente giudaico-cristiana si sciolse come neve al sole già prima della rivolta giudaica e la distruzione del tempio di Gerusalemme attuata da Tito, figlio di Vespasiano. Giacomo fu ucciso durante una persecuzione, Pietro e Giovanni erano in giro per il mondo, al pari di Paolo. Di tutti gli altri Apostoli, ad eccezione di Giacomo Zebedeo ucciso a sua volta, si persero le tracce, anch’essi svaniti nel nulla.
Vincitore indiscusso, con forza sovraumana e volontà incrollabile, Paolo continuò a proclamare le sue più profonde convinzioni. Nella II lettera ai Corinzi abbiamo un passo veramente esemplare: «L’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno morì per tutti e quindi tutti morirono; e morì per tutti affinchè quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per Colui che è morto e resuscitato per loro. Quindi ormai non conosciamo più nessuno secondo la carne; ed anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo è creatura nuova; le vecchie cose sono passate, ecco, ne sono nate di nuove!»
Qui, quando Paolo parla di una conoscenza secondo la carne, probabilmente voleva dire secondo criteri esteriori e, per così dire, « romanzeschi » e « narrativi ». Ora, però, noi che professiamo Gesù come salvatore, è come se fossimo morti con lui, e dunque resuscitati con lui.
Nella lettera ai Galati la vita spirituale conquistata in Cristo diventa sinonimo di libertà ed è contrapposta alla schiavitù della legge, la quale è la semplicistica espressione di una norma esteriore per mettere un freno alla carne.
«Ora vi dico: camminate nello Spirito e allora, non seguirete le bramosie della carne. La carne infatti ha desideri contro lo Spirito, lo Spirito a sua volta contro la carne, poichè questi due elementi sono contrapposti vicendevolmente, cosicchè voi non fate ciò che vorreste. Ma se siete animati dallo Spirito, non siete più sotto la legge. Ora le opere proprie della carne sono manifeste: sono fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, magia, inimicizie, lite, gelosia, ire, ambizioni, discordie, divisioni, invidie, ubriachezze, orgie e opere simili a queste; riguardo ad esse vi metto in guardia in anticipo, come già vi misi in guardia: coloro che compiono tali opere non avranno in eredità il regno di Dio.
Invece, il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, longanimità, bontà, benevolenza, fiducia, mitezza, padronanza di sé; la legge non ha che fare con cose del genere. Coloro che appartengono al Cristo Gesù crocifissero la carne con le sue passioni ed i suoi desideri.» (Ga 5,16 – 5,24)
La dottrina politico-sociale di Paolo
E’ in Romani che il pensiero di Paolo sul ruolo dei cristiani nella società comincia a prendere corpo e consistenza dottrinale. Posto che a Paolo interessasse ben poco fare del cristianesimo un movimento politico tout court, visto che la sua preoccupazione fondamentale era quella di salvare delle anime attraverso la conversione, in attesa della parusia immenente, cioè del ritorno di Cristo sulla terra, rimane che ad un certo punto della sua riflessione si trovò ad esplodere in due affermazioni molto impegnative. La prima riguardava il rapporto tra cristiani e le autorità politiche.
La seconda interessava addirittura il problema della legittimità del potere: secondo Paolo, è Dio che costituisce le autorità. L’ordine della società civile, amministrativa e politica, qualunque esso sia, è l’espressione della volontà di Dio.
Non è un pensiero che soddisfi più di tanto, per la verità, perchè nel bene e nel male, la conseguenza di questa affermazione è che anche i rivoluzionari che abbattono i regimi e riescono nell’impresa, fanno la volontà di Dio. Come poi nell’ordalia medioevale: chi vince, ha ragione per decreto divino?
Eppure questo fu uno dei più duraturi insegnamenti paolini.
Se i cristiani si comportano bene, e fanno del bene – scriveva l’Apostolo – non potranno che incontrare l’elogio delle autorità. I magistrati fanno paura solo a chi opera il male. Una simile affermazione cozzava non solo con l’esperienza concreta di Gesù (quanto bene aveva fatto e com’era stato ripagato?) ma con tutta la vicenda degli altri. Stefano, Pietro, Giacomo. Una serie ininterrotta di martiri, processi, prigionie e persecuzioni. Lo stesso Paolo era stato prima al servizio dell’autorità del tempio, come persecutore, poi perseguitato.
Come si spiega?
L’unica spiegazione probabile ed assennata deve far leva su quella che dovremmo considerare come una svolta, a meno che non si consideri il nostro Paolo come un demente forsennato. Quando Paolo scrisse queste righe, doveva essere in possesso, non dico di un concordato tra stato e chiesa, ma certo di un qualche solenne impegno da parte di qualche figura importante dell’impero. Ipotesi? Se ne può fare una sola: il rapporto maturato a Pafo in Cipro con il proconsole Sergio Paolo, che l’autore degli Atti definì uomo intelligente. Vedasi Atti 13,4 e seguenti. L’incontro col proconsole avvenne nel 46-47 d.C.
Sarà un caso che l’Apostolo decise di farsi chiamare Paolo proprio in conseguenza di quell’evento? E perchè Giovanni (quale Giovanni? I commentatori dicono Giovanni-Marco, cioè l’evangelista Marco) si separò da Paolo per tornare subito a Gerusalemme? E perchè, proprio a seguito del comportamento dell’evangelista, Barnaba e Paolo litigheranno?
Comunque sia, se si ritiene che questo sia un enigma ancora irrisolto, è qui che bisognerebbe cercare, nelle carte della diplomazia paolina.
Io sono propenso a credere che al di là di un possibile pre-concordato, Paolo facesse molto conto sulla conversione di pezzi grossi quali appunto il proconsole.
L’Apostolo, probabilmente, scriveva una delle più sbagliate e tragiche profezie della storia persuaso di poter godere per sé e soprattutto per la chiesa di una certa protezione. In quel momento si trovava a Corinto e si era nell’anno 57 d.C.
La prima persecuzione contro i cristiani di Roma venne avviata dopo l’incendio ordinato da Nerone nell’anno 62. Sotto l’imperatore Claudio, esattamente nel 49 d.C., è però vero che vennero espulsi Giudei considerati ospiti indesiderati. Ne parlò Svetonio nella Vita Claudii. Ma c’è una bella differenza tra espellere (o rimpatriare) e perseguitare.
Sembra che Claudio fosse preoccupato dalla crescita geometrica della comunità giudaica, che nelle grandi città dell’impero, in particolare ad Alessandria, andava a formare una minoranza etnico nazionale impenetrabile e compatta, del tutto restia a cancellare usi e costumi ed integrarsi nella comunità.
Non c’è dunque continuità tra la misura repressiva di Claudio e la successiva persecuzione neroniana. Semmai, come provato, sotto Nerone si ebbe dapprima una riapertura di credito nei confronti degli Ebrei, protetti da Poppea.
Poi cominciò la tragedia che toccò direttamente lo stesso Paolo. Ma questa è un’altra storia.
Note
1) La seconda lettera di Pietro. NT.
2) Gabriel Josipovici – Come leggere la Bibbia – Rusconi

PAPA BENEDETTO: IL PAPA, SAN PAOLO E LA TEOLOGIA DELLA CROCE (2008)

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124172

IL PAPA, SAN PAOLO E LA TEOLOGIA DELLA CROCE

Udienza Generale di Benedetto XVI (2008)

Dedicata alla teologia della Croce in San Paolo la catechesi di oggi di Benedetto XVI. « Non vivere per noi ma vivere nella fede in Dio che ci ha amato e ha dato se stesso per noi » è l’esortazione di Benedetto XVI. « Anche noi – ha concluso – dobbiamo trovare la forza proprio nell’umiltà dell’amore e la saggezza nella debolezza » entrando così « nella saggezza di Dio ».

Cari fratelli e sorelle,
nella personale esperienza di san Paolo c’è un dato incontrovertibile: mentre all’inizio era stato un persecutore ed aveva usato violenza contro i cristiani, dal momento della sua conversione sulla via di Damasco, era passato dalla parte del Cristo crocifisso, facendo di Lui la sua ragione di vita e il motivo della sua predicazione. La sua fu un’esistenza interamente consumata per le anime (cfr 2 Cor 12,15), per niente tranquilla e al riparo da insidie e difficoltà. Nell’incontro con Gesù gli si era reso chiaro il significato centrale della Croce: aveva capito che Gesù era morto ed era risorto per tutti e per lui stesso. Ambedue le cose erano importanti; l’universalità: Gesù è morto realmente per tutti, e la soggettività: Egli è morto anche per me. Nella Croce, quindi, si era manifestato l’amore gratuito e misericordioso di Dio. Questo amore Paolo sperimentò anzitutto in se stesso (cfr Gal 2,20) e da peccatore diventò credente, da persecutore apostolo. Giorno dopo giorno, nella sua nuova vita, sperimentava che la salvezza era ‘grazia’, che tutto discendeva dalla morte di Cristo e non dai suoi meriti, che del resto non c’erano. Il “vangelo della grazia” diventò così per lui l’unico modo di intendere la Croce, il criterio non solo della sua nuova esistenza, ma anche la risposta ai suoi interlocutori. Tra questi vi erano, innanzitutto, i giudei che riponevano la loro speranza nelle opere e speravano da queste la salvezza; vi erano poi i greci che opponevano la loro sapienza umana alla croce; infine, vi erano quei gruppi di eretici, che si erano formati una propria idea del cristianesimo secondo il proprio modello di vita.
Per san Paolo la Croce ha un primato fondamentale nella storia dell’umanità; essa rappresenta il punto focale della sua teologia, perché dire Croce vuol dire salvezza come grazia donata ad ogni creatura. Il tema della croce di Cristo diventa un elemento essenziale e primario della predicazione dell’Apostolo: l’esempio più chiaro riguarda la comunità di Corinto. Di fronte ad una Chiesa dove erano presenti in modo preoccupante disordini e scandali, dove la comunione era minacciata da partiti e divisioni interne che incrinavano l’unità del Corpo di Cristo, Paolo si presenta non con sublimità di parola o di sapienza, ma con l’annuncio di Cristo, di Cristo crocifisso. La sua forza non è il linguaggio persuasivo ma, paradossalmente, la debolezza e la trepidazione di chi si affida soltanto alla “potenza di Dio” (cfr1 Cor 2,1-4). La Croce, per tutto quello che rappresenta e quindi anche per il messaggio teologico che contiene, è scandalo e stoltezza. L’Apostolo lo afferma con una forza impressionante, che è bene ascoltare dalle sue stesse parole: “La parola della Croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio… è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” (1 Cor 1,18-23).
Le prime comunità cristiane, alle quali Paolo si rivolge, sanno benissimo che Gesù ormai è risorto e vivo; l’Apostolo vuole ricordare non solo ai Corinzi o ai Galati, ma a tutti noi, che il Risorto è sempre Colui che è stato crocifisso. Lo ‘scandalo’ e la ‘stoltezza’ della Croce stanno proprio nel fatto che laddove sembra esserci solo fallimento, dolore, sconfitta, proprio lì c’è tutta la potenza dell’Amore sconfinato di Dio, perché la Croce è espressione di amore e l’amore è la vera potenza che si rivela proprio in questa apparente debolezza. Per i Giudei la Croce è skandalon, cioè trappola o pietra di inciampo: essa sembra ostacolare la fede del pio israelita, che stenta a trovare qualcosa di simile nelle Sacre Scritture. Paolo, con non poco coraggio, sembra qui dire che la posta in gioco è altissima: per i Giudei la Croce contraddice l’essenza stessa di Dio, il quale si è manifestato con segni prodigiosi. Dunque accettare la croce di Cristo significa operare una profonda conversione nel modo di rapportarsi a Dio. Se per i Giudei il motivo del rifiuto della Croce si trova nella Rivelazione, cioè la fedeltà al Dio dei Padri, per i Greci, cioè i pagani, il criterio di giudizio per opporsi alla Croce è la ragione. Per questi ultimi, infatti, la Croce è moría, stoltezza, letteralmente insipienza, cioè un cibo senza sale; quindi più che un errore, è un insulto al buon senso.
Paolo stesso in più di un’occasione fece l’amara esperienza del rifiuto dell’annuncio cristiano giudicato ‘insipiente’, privo di rilevanza, neppure degno di essere preso in considerazione sul piano della logica razionale. Per chi, come i greci, vedeva la perfezione nello spirito, nel pensiero puro, già era inaccettabile che Dio potesse divenire uomo, immergendosi in tutti i limiti dello spazio e del tempo. Decisamente inconcepibile era poi credere che un Dio potesse finire su una Croce! E vediamo come questa logica greca è anche la logica comune del nostro tempo. Il concetto di apátheia, indifferenza, quale assenza di passioni in Dio, come avrebbe potuto comprendere un Dio diventato uomo e sconfitto, che addirittura si sarebbe poi ripreso il corpo per vivere come risorto? “Ti sentiremo su questo un’altra volta” (At 17,32) dissero sprezzantemente gli Ateniesi a Paolo, quando sentirono parlare di risurrezione dei morti. Ritenevano perfezione il liberarsi del corpo concepito come prigione; come non considerare un’aberrazione il riprendersi il corpo? Nella cultura antica non sembrava esservi spazio per il messaggio del Dio incarnato. Tutto l’evento “Gesù di Nazaret” sembrava essere contrassegnato dalla più totale insipienza e certamente la Croce ne era il punto più emblematico.
Ma perché san Paolo proprio di questo, della parola della Croce, ha fatto il punto fondamentale della sua predicazione? La risposta non è difficile: la Croce rivela “la potenza di Dio” (cfr1 Cor 1,24), che è diversa dal potere umano; rivela infatti il suo amore: “Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini” (ivi v. 25). Distanti secoli da Paolo, noi vediamo che nella storia ha vinto la Croce e non la saggezza che si oppone alla Croce. Il Crocifisso è sapienza, perché manifesta davvero chi è Dio, cioè potenza di amore che arriva fino alla Croce per salvare l’uomo. Dio si serve di modi e strumenti che a noi sembrano a prima vista solo debolezza. Il Crocifisso svela, da una parte, la debolezza dell’uomo e, dall’altra, la vera potenza di Dio, cioè la gratuità dell’amore: proprio questa totale gratuità dell’amore è la vera sapienza. Di ciò san Paolo ha fatto esperienza fin nella sua carne e ce lo testimonia in svariati passaggi del suo percorso spirituale, divenuti precisi punti di riferimento per ogni discepolo di Gesù: “Egli mi ha detto: ti basta la mia grazia: la mia potenza, infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9); e ancora: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1 Cor 1,28). L’Apostolo si identifica a tal punto con Cristo che anch’egli, benché in mezzo a tante prove, vive nella fede del Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per i peccati di lui e per quelli di tutti (cfr Gal 1,4; 2,20). Questo dato autobiografico dell’Apostolo diventa paradigmatico per tutti noi.
San Paolo ha offerto una mirabile sintesi della teologia della Croce nella seconda Lettera ai Corinzi (5,14-21), dove tutto è racchiuso tra due affermazioni fondamentali: da una parte Cristo, che Dio ha trattato da peccato in nostro favore (v. 21), è morto per tutti (v. 14); dall’altra, Dio ci ha riconciliati con sé, non imputando a noi le nostre colpe (vv. 18-20). E’ da questo “ministero della riconciliazione” che ogni schiavitù è ormai riscattata (cfr 1 Cor 6,20; 7,23). Qui appare come tutto questo sia rilevante per la nostra vita. Anche noi dobbiamo entrare in questo “ministero della riconciliazione”, che suppone sempre la rinuncia alla propria superiorità e la scelta della stoltezza dell’amore. San Paolo ha rinunciato alla propria vita donando totalmente se stesso per il ministero della riconciliazione, della Croce che è salvezza per tutti noi. E questo dobbiamo saper fare anche noi: possiamo trovare la nostra forza proprio nell’umiltà dell’amore e la nostra saggezza nella debolezza di rinunciare per entrare così nella forza di Dio. Noi tutti dobbiamo formare la nostra vita su questa vera saggezza: non vivere per noi stessi, ma vivere nella fede in quel Dio del quale tutti possiamo dire: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me”.

(Benedetto XVI) 2008 – autore: papa Benedetto XVI

DIO PADRE IN SAN PAOLO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre3.rtf.html

DIO PADRE IN SAN PAOLO

Alberto Piola

Introduzione

Affrontando il messaggio su Dio presente nella teologia di san Paolo, non solo andiamo a conoscere che cosa Gesù ci ha rivelato su Dio, suo e nostro Padre, ma vediamo anche una riflessione cristiana su Dio. Nelle sue lettere Paolo seppur non in modo sistematico visto il loro carattere occasionale spiega ai primi cristiani il nuovo concetto cristiano di Dio, inscindibilmente legato a quanto è successo nell’evento della vita, morte e risurrezione di Gesù.

Alla ricerca di Dio
Essere cristiani secondo Paolo non significa essere delle persone che adorano Cristo come l’unico Dio: infatti, il rimando ultimo non è Gesù, ma il Padre; compito di Gesù è proprio quello di metterci in contatto con il Padre: 1 Timoteo 2,5-6 Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Il centro della predicazione di Paolo ha un carattere soteriologico: Dio ha salvato gli uomini per mezzo di Gesù Cristo morto e risorto. Quindi egli guarda innanzi tutto a ciò che Dio ha fatto e non tanto alla sua natura e al suo mistero. Ma da quello che Dio « fa » si può capire ciò che Dio « è ».
Ma chi è questo Dio? È precisamente « il Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Romani 15,5). Per Paolo questo è il volto specifico della prima persona della Trinità ed è questa paternità che gli permette di annunciare la nuova immagine cristiana di Dio.
Paolo non parte dall’ateismo: per lui è scontata l’esistenza e la presenza di Dio: Romani 11,36 da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Sente Dio come presente e vicino a sé: egli sta « davanti » a Lui, lo loda e lo ringrazia; Romani 1,8 rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. È addirittura « il mio Dio »! e allora può arrivare a dire: 1 Corinzi 8,6 per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Tutto questo è possibile per Paolo perché ha capito di essere inserito in un progetto di Dio: Romani 8,28-30 noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Per Paolo allora « Dio non è soltanto prima dell’uomo, ma è prima nell’amore; ha amato gli uomini prima che essi potessero amarlo: li ha amati dall’eternità. Il Dio vicino è dunque il Dio che chiama e ama l’uomo dalla profondità infinita della sua eternità. Così è un Dio vicino e, nello stesso tempo, un Dio lontano ».
Però, ci dice Paolo, questo Dio non è immediatamente raggiungibile: è necessaria nella vita dell’uomo la ricerca di Dio. Dio è più grande di noi: è uno ed unico; 1 Corinzi 8,4-6 noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c’è che un Dio solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dei sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Il netto rifiuto di altri idoli (cfr. l’ambiente pagano in cui Paolo annuncia il Vangelo) significa che per essere cristiani occorre fare il passaggio dagli idoli sempre possibili della nostra vita alla scelta dell’unico Dio; come hanno fatto i Tessalonicesi: vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero (1Tess 1,9).
Ciononostante, non è facile per Paolo capire chi è questo Dio, i cui giudizi sono imperscrutabili (Romani 11,33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!). L’uomo non può capire da solo chi sia Dio: 1 Corinzi 2,10-11 lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ci sono delle strade umane per arrivare a Dio:
la via della creazione: l’osservazione del mondo creato pone degli interrogativi per la sua grandezza e bellezza: Romani 1,20 dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. Quindi le creature rimandano al Creatore; ma per Paolo questa via è pericolosa: il mistero di Dio rimane comunque inaccessibile e c’è sempre il pericolo di divinizzare il creato. Infatti gli uomini sono caduti nell’idolatria: Romani 1,21-23 sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. L’uomo da solo non è quindi in grado di arrivare dalle creature al Creatore: 1 Corinzi 1,20-21 Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
le opere buone: sono senza dubbio l’espressione dei nostri sforzi di fedeltà alla legge del Signore e manifestano il nostro desiderio di essere fedeli a Lui. Però Paolo conosce l’orgogliosa consapevolezza che il popolo di Israele aveva del possesso della Legge e invita a non farsi illusioni: la sola osservanza della Legge non salva: Romani 9,30-32 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Non è quindi possibile giungere a Dio solo con una prestazione morale, perché Dio non si lascia ipotecare dai presunti meriti dell’uomo.
In Paolo risulta così « chiaro che il Dio del Nuovo Testamento, essendo colui che si rivela mediante l’imprevedibile e scandalosa stoltezza della Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17-25), è per eccellenza il Dio della grazia (Ef 2,8), che preferisce i deboli, i peccatori, gli emarginati dalle religioni, i lontani. Egli è presente attivo là dove non lo si immaginerebbe: nel condannato e suppliziato Gesù di Nazareth. Egli perciò diventa, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata: un Dio così non si poteva trovare in base a semplici presupposti umani; un Dio così poteva soltanto rivelarsi di sua propria iniziativa ».

L’azione salvifica di Dio Padre
Quindi il vero punto di partenza è che Dio si è rivelato in Gesù Cristo: il suo nome è proprio quello di essere il Padre di Gesù e in questo suo Figlio ci ha voluto salvare. Che Dio ci salvi è un’affermazione tanto scontata quanto problematica: l’uomo moderno sembra fare benissimo a meno di una salvezza, al limite può riconoscere la sua impotenza di fronte a certe situazioni.
È nella vita, morte e risurrezione di Gesù che Dio si è rivelato come il Dio per noi: Romani 8,31-32 Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?. È proprio in Gesù che abbiamo potuto conoscere un amore insospettato: Romani 8,35-39 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

Ma che cosa vuol dire per Paolo che Dio è un Padre che ci salva?
tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3,23): la condizione propria dell’uomo è quella del peccato: infatti tutti quanti commettiamo peccati e siamo all’interno di un mondo che porta con sé il peccato e la sua forza (cfr. i vari condizionamenti che subiamo verso il male). È la condizione dell’umanità in cui nasciamo: Romani 5,12 come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. È una condizione tragica, perché siamo lontani da Dio e siamo dominati dal potere del peccato; se infatti al di là di ingenue illusioni andiamo a vedere che cosa succede in noi quando siamo « abitati » dal peccato, ci rendiamo conto che se il circolo non viene spezzato facilmente siamo schiavi della logica del peccato che ci allontana da Dio rendendoci attraente il bene. Proprio per questa situazione Dio è venuto a salvarci in Gesù: Romani 5,17-19 se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Dio nel suo amore misericordioso giustifica i peccatori: questo Padre che ci è venuto a cercare non ha voluto che noi restassimo in questa condizione di peccato ma ha scelto di trasformarci e di renderci giusti. Tutti gli uomini sono sotto il giudizio e l’ira di Dio (cfr. Romani 1,18): ma ad essere annientato non è l’uomo peccatore, bensì il suo peccato; perché Dio, oltre ad essere giusto, è anche il Dio della tolleranza e della pazienza: Romani 2,1-11 Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c’è parzialità. Quell’uomo che era peccatore è ora reso giusto dall’amore di Dio in Cristo: Romani 5,8 Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. È questa la lieta notizia sul destino dell’uomo: 1 Tessalonicesi 5,9-10 Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Si tratta quindi di un Dio « giusto » e nello stesso tempo « giustificante », che ci rende giusti: Romani 3,24-26 tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù.
Non possiamo giustificarci da soli: la Legge degli Ebrei non serve più, l’unica condizione per essere resi giusti da Dio nostro Padre è la fede nel suo Figlio Gesù. Noi oggi non abbiamo certo più i problemi dei primi cristiani che si sentivano ancora vincolati all’osservanza della Legge giudaica, ma possiamo avere la medesima tentazione di fondo: cavarcela da soli, essere giusti per le nostre forze. È troppo forte per Paolo il rischio di sentirci orgogliosamente salvati da soli; il vero modello del credente è Abramo con la sua fede: Romani 3,28; 4,1-3.18-22 Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia . Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.
Dio ci giustifica per mezzo della fede in Gesù Cristo: con il Cristo è cominciato il tempo ultimo della salvezza in cui Dio Padre ci ha detto e dato tutto nel suo Figlio Gesù. Egli è morto sulla croce « per noi », cioè a causa nostra e per i nostri peccati; ed è proprio lì che ci ha salvati, ci ha resi giusti liberandoci dalle colpe. Lui è il Risorto, colui che il Padre ha confermato dopo lo scacco supremo della morte: credere in Lui è ora per il cristiano il mezzo per salvarsi. Credere in Dio Padre si vedrà ora nel nostro rapporto personale di fede con il Figlio, perché tutta la nostra vita sia inserita nel Signore: Romani 14,7-8 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.
« In conclusione, il Dio che rivela san Paolo è il Dio Salvatore, cioè il Dio che, nel suo infinito amore per gli uomini peccatori, ha mandato nel mondo il suo Figlio Gesù, nato da donna, perché con la sua morte redimesse gli uomini e con la sua risurrezione desse la vita eterna a coloro che credono in lui e con la fede e la carità vivono in lui e per lui. Per san Paolo, Dio è il Dio di Abramo, di Mosè e dei Profeti; è il Dio della promessa fatta ad Abramo. Tuttavia la rivelazione che Gesù gli ha fatto di sé sulla via di Damasco ha trasformato la sua vita e la sua visione di Dio. Per lui ormai Dio è colui che salva gli uomini in Gesù Cristo. È il Dio per noi (Rm 8,31), il Dio che ci dà speranza, perché il suo amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5) ».

Alcuni spunti
Il messaggio di Paolo su Dio Padre ci dà senza dubbio molti altri spunti oltre a quanto abbiamo già trovato nei Vangeli.
Dio Padre è un Dio che va sempre cercato: c’è da preoccuparsi seriamente quando non siamo più capaci a cercare Dio o quando crediamo di saper già tutto di lui Può non esserci molto difficile lasciare aperta la domanda su Dio di fronte alle bellezze del creato o di fronte ai grandi perché della vita; ma l’atteggiamento della ricerca è ancora qualcosa di più: è un dinamismo attivo, è un desiderio. Come è accaduto a Paolo, così ognuno può avere la sua caduta lungo la strada di Damasco: e si scopre di non conoscere ancora il vero volto di Dio.
L’esperienza personale di Paolo ci ha presentato un Dio presente e vicino, che lui chiama il « mio Dio »: è un punto di arrivo del cammino di fede, che deve partire dal riconoscimento della trascendenza di Dio (altrimenti diventa « l’amicone » che non mi mette più in discussione). Il Dio trascendente ed immanente è il Dio che vediamo nel Natale: l’Eterno sotto la figura di un piccolo bambino ma è proprio così che lo comprendiamo come il « Dio per noi », il Dio che sta dalla nostra parte, combatte la nostra stessa battaglia. Altrimenti che ce ne facciamo di un Dio che sta solo accanto a noi o sopra di noi?!
Nel nostro cammino verso Dio Padre ci ha avvertiti Paolo corriamo il rischio di divinizzare il creato: logicamente non fa problema che il passaggio da fare è quello dalle creature al Creatore, ma praticamente è molto più difficile riuscire a dare sempre a tutto il giusto posto. Verificare ogni tanto il nostro rapporto con i beni creati non fa male: dov’è il nostro cuore?
Nemmeno le « opere della Legge » servono per essere in comunione con il Padre: con Dio cioè non vale contrattare in base ai propri meriti. La logica commerciale può essere presente anche nel nostro rapporto con Dio, quando perdiamo la dimensione filiale; ovviamente i problemi nascono quando non siamo ripagati delle nostre prestazioni a Dio. Lasciarci salvare è terribilmente difficile: la passività arriva dopo una serie infinita di sforzi, e forse non ce la faremo mai ad essere totalmente ricettivi nei confronti di Dio. Intendere le nostre attività « solo » come risposta ad un dono richiede moltissima umiltà. Forse impariamo troppo poco dai nostri fallimenti
E per lasciarci salvare occorre riconoscere il peccato che è noi: è un’altra dimensione della medesima realtà. Ma se continueremo a dire che tutto sommato siamo a posto così, che c’è in fondo chi è peggio di noi, molto difficilmente avremo bisogno di invocare Dio salvatore. Al limite potremo pretendere che ci ricompensi dei nostri successi e che nella sua bontà un po’ ingenua chiuda gli occhi sui nostri insuccessi.
Credere in Dio è credere che Lui ci trasforma: può essere il messaggio finale che ci dona san Paolo; lui ha saputo cambiare la sua concezione di Dio e ha saputo lasciarci trasformare da Lui. Tutta la nostra vita cristiana è un cammino per lasciarci trasformare da Dio e per poter giungere a vivere con Lui per sempre.
Allora Giobbe rispose al Signore e disse: Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (Gb 42,1-3.5-6).

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