Archive pour la catégorie 'Paolo – approfondimenti di biblica'

LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE – (anche Paolo)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/quesnel_saggezza_cristiana1.htm

(è una serie di 12 studi – metto il primo dove ci sono riferimenti a Paolo, in particolare Colossesi e Filippesi, gli altri li devo leggere, ma il link per vedere di che si tratta è lo stesso che ho messo sopra!)

Michel Quesnel

LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE – (anche Paolo)

INTRODUZIONE

Considerato che dobbiamo morire…

Non dobbiamo avere paura delle parole. Considerato che dobbiamo morire sarebbe stupido – sì, semplicemente, totalmente stupido – vivere come se la vita presente dovesse prolungarsi all’infinito.
Governare – si dice – è prevedere. Governare la propria vita significa prevedere che essa un giorno finirà, almeno nelle forme che conosciamo. Morire è l’unico avvenimento del nostro futuro del quale siamo certi. È così, semplicemente, così. La morte fa parte del programma. Che non è né allegro né triste.
Chi se ne rallegrasse sarebbe sadico o masochista, anche sospettabile di trarre piacere dalla tragedia o dalle sconfitte dell’ esistenza, avido di ricondurre, ad ogni buon conto, i suoi contemporanei nei ranghi della consolazione a buon mercato nell’aldilà. Chi se ne rattrista si proietta troppo in fretta nel futuro, perché la morte non è necessariamente in arrivo in un batter d’occhio. Se tutto va bene, ci vengono donati lunghi anni per gustare la vita, per amare ed essere amati, per fare festa. E sarebbe stupido non approfittarne. A pensarci bene, allora, rattristarsi del dover morire è davvero ragionevole? La morte non porta forse in se stessa anche una dimensione di liberazione? Chi sarebbe felice di una vecchiaia che si prolungasse all’infinito?
Dobbiamo vivere, dunque, consapevoli di dover morire, noi e i nostri cari. Questo significa che ci saranno delle soglie da varcare, delle rotture da accettare. E che, nell’immediato, dobbiamo organizzare il nostro quotidiano tenendo conto del nulla da cui veniamo e dell’ignoto verso cui andiamo. Questo si definisce saggezza o anche arte di vivere: un invito che comprendiamo quando prendiamo coscienza della nostra fragilità; un bene che molti cercano e che non è privilegio di nessuno, ma che alcuni, poiché avvertono più di altri il piacere di scrivere, cercano di esprimere in parole.
Compatibile con tutte le convinzioni, la saggezza riceve da loro colore e vivacità. Esistono saggezze cristiane, saggezze buddiste, saggezze atee. In parte coincidono, non c’è dubbio, ma non si sovrappongono del tutto. La cosa peggiore sarebbe pensare che una fede religiosa non abbia nulla a che fare con la saggezza, come se il riferimento alla trascendenza la dispensasse.
Certo, san Paolo opponeva la sapienza degli uomini alla follia della Croce. Non esitava a mostrarsi severo di fronte alla saggezza totalmente umana alla quale aspiravano i Corinti. Esiste una ragione per diffidare dall’ essere saggi? Egli stesso non esitò ad offrire ai suoi corrispondenti dei consigli che non sono nient’ altro se non esortazioni alla saggezza. E potremmo dire lo stesso del profeta di Nazareth, che fu anche un saggio. Questa, almeno, è l’immagine che i vangeli danno di lui.
La saggezza che propongo qui è una saggezza cristiana, la mia, nutrita di Bibbia e di riflessioni sul mondo nel modo in cui mi s’impone e cerco di comprenderlo. Essa è contrassegnata dalla mia cultura, dalla mia età – già avanzata -, dalle mie attività ecclesiali ed universitarie, dal mio carattere, dai miei interessi.
È descritta in trentatre corti « elogi » raggruppati per tre, va da Gesù Cristo all’umorismo, passando per il silenzio, per la ricchezza, per l’orgia, per la compassione… li si può leggere come si vuole, indipendentemente gli uni dagli altri. Perché trentatre? È il numero degli anni vissuti da Gesù Cristo, secondo la tradizione. Non pratico la numerologia, ma non mi ripugna mettere in rilievo la simbologia dei numeri. Perché a tre per tre? Perché così si ottengono undici insiemi di tre capitoli. Undici è dodici meno uno, cifra simbolo di incompletezza; tre è la perfezione divina. Ora, la saggezza cristiana tiene conto di questa doppia dimensione della persona umana, imperfetta e limitata, ma destinata a raggiungere, mediante la santità, il Dio perfetto che la chiama.
Consapevolmente ho intitolato ogni capitolo: « Elogio di… » La parola elogio deriva dal latino elogium, derivante a sua volta dal greco eulogia, che significa « benedizione ». Perché il fondamento del mio pensiero è che, nel suo complesso, vivere è una benedizione, cosa che non nega in alcun modo il tragico – amo molto, d’altra parte, il libro di Qohélet -, e che la saggezza mal si concilia con l’asprezza.

SOTTO IL SEGNO DEL FIGLIO

Elogio di Gesù Cristo

Una sola persona, nella storia umana, è apparsa di nuovo viva dopo essere morta pochissimo tempo prima, appartenendo già al mondo dell’ aldilà: un profeta ebreo del I secolo della nostra era, chiamato Gesù. È resuscitato, non ritornando alla vita che aveva lasciato, così da dover morire di nuovo, ma vivendo un’altra forma di vita le cui caratteristiche oltrepassano le possibilità dell’immaginazione umana. Si può pensare che questa pretesa resurrezione non sia che una favola, una storia inventata da discepoli incapaci di rassegnarsi alla morte del loro maestro, tanto più per il fatto che questi era morto in un modo particolarmente tragico: crocifisso dall’ autorità romana occupante – un supplizio riservato ai popolani e agli schiavi – in seguito alle pressioni di alcuni grandi sacerdoti di Gerusalemme. Ritenere che la resurrezione di Gesù sia una pura invenzione è un’ipotesi sostenibile; in ogni caso, non possiamo averne le prove. Ugualmente, non possiamo provare il contrario: la convinzione che Gesù sia risorto non è dell’ordine della ragione. Nessuna persona neutrale ha potuto verificare il fatto: quelle che lo hanno testimoniato poco tempo dopo la sua morte erano tutte, in un modo o nell’altro, legate a lui. La loro testimonianza può essere rifiutata come priva di obiettività.
Tuttavia la qualità di una convinzione non si misura soltanto in base alle prove che se ne possono dare; essa mostra il suo buon fondamento anche attraverso la sua fecondità. I cristiani non hanno la prova che Gesù sia risorto. Lo credono fermamente e costruiscono la propria esistenza su questa certezza. Si sforzano di vivere la propria fede e di prendere Gesù come maestro. Questo non significa che ce la facciano, perché l’obiettivo è particolarmente alto.
L’immagine di Gesù così come la tramandano i vangeli è quella di un profeta e di un saggio dalle qualità umane eccezionali. Profeta, annuncia l’imminenza del Regno di Dio nel cuore degli uomini e nella storia: un regno di giustizia e di pace la cui sola regola di vita è l’amore. Egli stesso dimostrò, attraverso l’esempio, che ciò era possibile. Taumaturgo attento a tutte le forme di miseria, messaggero di speranza per i poveri, accusatore dei ricchi e dei profittatori, appaga le aspirazioni profonde sia dei giusti che dei peccatori. Saggio tra i saggi d’Israele, dà fiducia alla libertà di ciascuno a tal punto da non imporre nulla. Chiama, suggerisce, esorta, illustra con esempi, utilizzando con abilità esemplare una specifica forma di breve racconto nel quale l’uditore è invitato a sentirsi coinvolto e grazie al quale può essere portato a trasformarsi: la parabola. Ispirarsi all’insegnamento e alla condotta di Gesù costituisce una completa arte di vivere.
L’espressione consacrata dall’uso spirituale è L’imitazione di Cristo. È anche il titolo di un’opera renana del XIV secolo i cui emuli furono notevoli. È opportuno tuttavia non confondere « imitazione » con « mimetismo ». Oggi noi viviamo in condizioni assai diverse da quelle del vicino Oriente del I secolo; noi non siamo
Gesù Cristo; sarebbe illusorio e stupido pretendere di agire come egli ha agito cercando di scimmiottarlo. Imitare permette di prendere la distanza rispetto al modello. Gesù fu attento al poveri e ai piccoli; noi siamo invitati a fare altrettanto, ispirandoci al suo modo di essere. Gesù manifestò ai suoi contemporanei un amore senza limiti, fino ad accettare di morire per mano di coloro che rifiutavano questo amore; si tratta, per ogni cristiano, di un ideale da non perdere mai di vista; ma non vuol dire che si debba ricercare il martirio. Dobbiamo, al contrario, inventare i nostri comportamenti tenendo conto delle condizioni in cui viviamo, con una libertà tanto grande quanto la sua.
Attraverso la Resurrezione, che apparve loro come la risposta divina alla morte ingiusta che gli era stata inflitta, i primi cristiani hanno finito col riconoscere in Gesù qualcosa di più che un profeta e un saggio. Nel tempo, si sono convinti che egli fosse il vero Messia di Israele, cioè il re unto incaricato da Dio di presiedere all’instaurazione di quel Regno di Dio che aveva annunciato, Figlio di Dio egli stesso, Dio incarnato, parola e immagine di Dio Padre. La sua persona trascende la storia: fin dalle origini del mondo egli presiedeva alla creazione del cosmo; e, alla fine, ritornerà a conc1uderne i destini.
Gli avvenimenti del I secolo in Galilea e in Giudea assunsero una dimensione nuova: la vita, la morte e la resurrezione di Gesù non sono solo un momento chiave della storia ebraica; sono il fulcro della storia universale perché, attraverso questi avvenimenti, Dio si è compromesso nei confronti della propria creazione al punto di farsi uomo tra gli uomini. Un inno liturgico, di qualche decennio posteriore alla morte di Gesù, accosta i due aspetti della sua filiazione divina, la filiazione originale e la filiazione mediante la Resurrezione:

Egli è immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura;
poiché per mezzo di lui
sono state create tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni,
Principati e Potestà.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose
e tutte sussistono in lui.
Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa;
il principio, il primogenito di coloro
che risuscitano dai morti,
per ottenere il primato su tutte le cose.
Perché piacque a Dio
di fare abitare in lui ogni pienezza
e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,
rappacificando con il sangue della sua croce,
cioè per mezzo di lui,
le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.
(Col 1, 15-20)

Più noto è tuttavia l’inizio del prologo di Giovanni, che completa, per Gesù, la realtà del fatto che egli è immagine di Dio, affermando che ne è la Parola o il Verbo (il logos).

In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
(Gv 1,1-3)

Queste due affermazioni maggiori della teologia cristiana – Gesù Immagine e Gesù Parola di Dio – meritano tuttavia di essere completate da un’ altra. Attraverso la morte di Gesù in croce l’Onnipotente è diventato il debole per eccellenza e l’anni-Amante. Si è sottomesso alla volontà umana e si è fatto sorprendentemente vulnerabile, accettando una « discesa » sconosciuta alle altre religioni. Si può scrivere del Padre chiamandolo Il Dio crocifisso, come fece il teologo protestante Jürgen Moltmann. In Gesù Cristo, in effetti, Dio piange, Dio soffre, Dio si cancella per non opprimere con la sua presenza, Dio si fa ombra per non accecare con la sua luce. Dio si fa silenzio per non imporre la sua parola. Durante la scena della lavanda dei piedi riportata dal vangelo di Giovanni, si è addirittura inginocchiato davanti ai discepoli, immagine di un Dio che si mette in ginocchio davanti a me ed accetta di guardarmi dal basso in alto, quando, essendo il mio creatore, potrebbe essere il mio padrone. Per togliermi, nel medesimo tempo, qualsiasi voglia di diventare orgoglioso per questo, egli si inginocchia anche davanti a Giuda, proprio colui che sta per tradirlo. Un inno primitivo consacrato al Cristo, conosciuto da san Paolo e riportato in una delle sue lettere, sottolinea l’originalissima prospettiva cristiana, quella del Dio che compie in Gesù Cristo un vero cammino di de-divinizzazione.

* * *

« Egli, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre »
(Fil 2,6-11).

Paolo e i Gentili

http://www.saverianibrescia.com/missione_oggi.php?centro_missionario=archivio_rivista&rivista=2009-09&id_r=67&sezione=parola_e_missione&articolo=paolo_e_i_gentili&id_a=2281

Novembre 2009 

Paolo e i Gentili

di: p. Fabrizio Tosolini

Fabrizio Tosolini, missionario saveriano, di Tricesimo (UD), licenziato in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico di Roma, dottore in Teologia Biblica presso la Facoltà di Teologia della Fu Jen Catholic University di Taipei (Taiwan) con una tesi sulla Lettera ai Romani, insegnante di Sacra Scrittura a Taipei

È facile fare delle letture romantiche sulla visione universalistica che Paolo ha nutrito in se stesso e diffuso nella Chiesa degli inizi.

CRISTO: SALVEZZA PER TUTTI GLI UOMINI                        
 In questo contesto di latente violenza Paolo scopre che in Cristo, rigettato dai suoi, crocifisso fuori della sua città, sospeso tra cielo e terra, una salvezza nuova e divina viene offerta. E questa salvezza è per tutti gli uomini perché proposta al cuore di ognuno, nella scoperta di essere amato da Cristo, e nella scelta di affidarsi totalmente alla sua fedeltà.
Da qui Paolo trae una serie di conseguenze, di cui la prima è il superamento di una certa visione umana di Israele come mediatore imprescindibile della salvezza divina (il superamento di una visione assoluta della propria appartenenza culturale); la seconda è l’impegno missionario verso tutti i popoli; la terza è la visione della comunità cristiana come luogo della comunione tra tutti i credenti, nel superamento di ogni appartenenza previa e nella creazione di una nuova tradizione, frutto dell’apporto di tutti, sotto la guida dello Spirito; tradizione unitaria non solo nello spazio, ma anche nel tempo.
L’impegno missionario verso tutti i popoli è il tratto più evidente della missione di Paolo, testimoniata dal libro degli Atti e dalle Lettere.
Occorre dire che tale azione deve essere ritenuta più estesa di quanto il Nuovo Testamento riporta. I tre anni in Arabia tra i Nabatei e la predicazione nell’Illirico, di cui parlano rispettivamente Galati e Romani, sono probabilmente solo la punta di un iceberg, del quale non ci è nota la parte sommersa. Paolo deve aver avuto un’irresistibile passione di comunicare il Vangelo ovunque passasse, a chiunque incontrasse, indifferente alle differenze culturali, favorito in questo dalla patina di uniformità stesa in tutto il bacino del Mediterraneo dalla cultura imperiale ellenistico-romana e dall’uso della koine. [Occorre anche ricordare che la spinta missionaria della Chiesa nascente non conosceva limiti geografici, e si irradiava già fino all'Etiopia e all'India. Paolo è solo il caso da noi meglio conosciuto].
Questo suo impegno missionario deve essere stato anche la causa della persecuzione giudaica che lo ha accompagnato praticamente sempre nel suo ministero (cf. 1 Tess 2,15-16), costituendo per lui la minaccia più pericolosa e reale, date le attinenze giudaiche con il potere romano.

UNA CHIESA MULTIETNICA E MULTICULTURALE
Per quanto riguarda il progetto ecclesiale universalistico perseguito da Paolo, sulla base delle sue lettere possiamo immaginarne i tratti salienti.
Possiamo ritenere che egli sperava di veder nascere, come frutto della predicazione evangelica, delle comunità multietniche e multiculturali, nelle quali i differenti punti di partenza sarebbero confluiti nell’unica voce di lode a Dio (cf. Rm 15,6). Tale rendimento di grazie, all’interno di ogni singola comunità sarebbe frutto dell’esercizio di quella carità scambievole che cerca non l’utile proprio ma quello dell’altro, facendosi una cosa sola con i più deboli nella fede, perché tutti giungano alla salvezza (1 Cor 10,33).
Invece tra le comunità, sparse in Giudea, in Asia e in Grecia, tale ringraziamento (cf. 2 Cor 9,12-15) sarebbe frutto di una comunione di beni, sia materiali che spirituali, segno dell’unità creata da Cristo tra tutti i suoi fedeli e della sua signoria universale.
Si tratta di un progetto nuovo, sorprendente, di cui ancora oggi stentiamo a cogliere la portata. Dare forma a tale progetto implica trovare e proporre alcuni parametri essenziali, che tutti debbano seguire, e che siano possibili e accettabili a tutti.
Attorno a questi parametri si può immaginare che si siano creati dei contrasti all’interno della prima Chiesa: da una parte causa di conflitti e contro-missioni volte a propagandare diverse posizioni dottrinali; dall’altra occasione preziosa per approfondire la verità del Vangelo.
La risposta dei giudeo-cristiani al problema della convivenza con i credenti provenienti da altri popoli e culture era duplice: o ci si atteneva alle prescrizioni ritualistiche della tradizione giudaica, o si separavano le comunità, cosa che deve essere successa ad Antiochia (cf. Gal 2,11-14), determinando la partenza definitiva di Paolo da quella città. I greci avrebbero potuto osservare i punti contenuti nel decreto del Concilio di Gerusalemme (cf. At 15,5-29), i giudei avrebbero continuato a vivere secondo le loro tradizioni.

FEDE, SPERANZA E CARITÀ: I CARDINI DELLA CONVIVENZA ECCLESIALE
Paolo ha un’altra visione e proposta, che parte da molto più lontano. Per lui cardini della convivenza ecclesiale sarebbero le tre virtù: fede, speranza e carità, virtù che appaiono insieme fin dal primo capitolo della prima opera del Nuovo Testamento (1 Tess 1,3).
L’elaborazione della triade delle virtù teologali sembra debba essere attribuita al genio ispirato di Paolo (prima di lui non è attestata); con esse egli descrive da una parte il percorso che porta il credente e la comunità alla salvezza (si veda per questo tutta la Lettera ai Romani, che in 1,16-4,25 sviluppa il tema della fede; in 5,1-8,39 quello della speranza, e in 12,1-15,13 quello della carità); dall’altra offre il parametro relazionale fondamentale che regge la vita della comunità nelle sue dimensioni storiche e culturali.
In questo senso Rm 14 è di grande importanza: Paolo esorta i cristiani a non giudicare chi ha usanze diverse, a non disprezzare chi è debole, a non porre ostacoli o inciampi al fratello, a impegnarsi nelle opere della pace e della edificazione vicendevole: la gara non è a chi sa usare meglio per un proprio supposto vantaggio (altri progetti privati) i doni di Cristo, ma a chi sa offrire di più di se stesso in vista della costruzione della Chiesa (il progetto di Cristo). Tutto questo perché il regno di Dio « non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini » (Rm 14,17-18).
È possibile che questa proposta paolina sia sembrata troppo aleatoria, incapace di dare vita a una comunità chiaramente riconoscibile e distinguibile da altre. Paolo stesso, messo a confronto con il problema delle carni offerte agli idoli (1 Cor 8,1-11,1), offre solo dei parametri per un discernimento da effettuarsi caso per caso; d’altra parte la legge della nuova alleanza è la grazia dello Spirito Santo, che viene data attimo per attimo. Ma pur con la sua apparente debolezza la visione di Paolo è quella che apre alla storia.
Nello stesso tempo occorre anche ricordare, e tutta 1 Cor lo mostra continuamente, quanto sia grande l’importanza che Paolo attribuisce alle tradizioni già esistenti nella Chiesa, e con quanta forza chieda ai corinzi di accoglierle. Il frutto comunitario che continuamente matura sotto il sole dello Spirito Santo, la tradizione che si forma nelle comunità e nella Chiesa, crescendo su se stessa con l’apporto della donazione di credenti di tutti gli spazi e di tutti i tempi è per lui la visibilità del Risorto.

FABRIZIO TOSOLINI

La Legge e il suo spirito (Paolo Apostolo)

http://www.messiev.altervista.org/spiritolegge.html

(sono tre parti – Lo studio è della Chiesa Evangelica, per la maggior parte è condivisibile, ma bisogna fare attenzione alla differenza di mentalità e teologica, vedere su Agostino per esempio)

La Legge e il suo spirito

Al tempo di Paolo il Tanak, cioè la Torah, i Profeti e gli Scritti dell’Antico Testamento, costituivano tutta la Scrittura disponibile.

Ci si pone la domanda: che cosa della Legge Paolo ha attaccato nelle sue epistole? Tutte le lettere di Paolo sono state indirizzate ad assemblee prevalentemente Gentili, che per quanto riguarda la salvezza non avevano nulla a che fare con i 613 comandamenti di Mosè, che invece erano lo stile di vita del popolo ebraico. È comprensibile che Paolo, l’apostolo delle genti, si arrabbiasse con quei pochi giudaizzanti che cercavano costantemente di ostacolare il suo lavoro, imponendo alle assemblee dei Gentili a tenere usanze ebraiche a garanzia della salvezza. Ma sia Gesù che Paolo non hanno mai smesso di pensare che gli ebrei dovevano continuare a mantenere lo stile di vita prescritto dalla Legge in quanto popolo dell’alleanza. Va notato che versi come Mar.7:15, in cui sembra che Gesù non sia d’accordo con le leggi alimentari ebraiche (quando sottolinea la differenza tra contaminazione fisica e spirituale) non dimostrano affatto che aveva abbandonato le leggi sul cibo date a tutti gli ebrei. Si dovrebbe anche notare che degli studiosi ebrei del Nuovo Testamento, come David Flusser nel suo libro Jesus conclude che « Gesù come Ebreo è stato fedele alla Legge ». Il problema a capire le lettere di Paolo si può paragonare a un gioco dove si conoscono solo le risposte ma non si hanno le domande. Siccome le sue lettere sono state scritte per raddrizzare i problemi dei suoi convertiti Gentili, che non avevano familiarità con le vie e leggi di Dio, il lettore superficiale riceve l’impressione che egli era contro la Legge. In realtà, Paolo indirizza i suoi commenti apparentemente negativi in merito alla Legge, verso due gruppi: (1) I non-ebrei che credevano necessario osservare la Legge (in particolare la circoncisione) per la salvezza, e (2) alcuni ebrei fondamentalisti che cercavano di mettere come prerequisito che i non-ebrei dovevano osservare la Legge (in particolare la circoncisione) se volevano essere salvati.
Quando certi cristiani si mettono subito sulla difensiva al sentir parlare della Legge di Dio, viene la tentazione di chiedere: « Quale legge vi fa sentire a disagio? » Questa è una reazione piuttosto allarmante poiché la Legge condanna solo chi viola la legge. Purtroppo, la Chiesa sin dal primo secolo ha frainteso quella Legge che sia Gesù che Paolo avevano amato e vissuto. Ci sono almeno tre fondamentali ragioni per questa carenza d’informazione riguardo la Legge nella chiesa di oggi:
In primo luogo, quando la chiesa primitiva si è gradualmente espansa da Gerusalemme verso Occidente, molti dei convertiti greci e romani che divennero leader della chiesa hanno conservato alcune delle loro pratiche culturali pagane. Di conseguenza, hanno letto le Scritture Ebraiche con la loro mentalità greca. Hanno imposto al testo biblico uno schema interpretativo straniero che ha immesso un’informazione inesatta nella teologia della chiesa riguardo la Legge di Dio, la quale è in contrasto con la Parola di Dio conosciuta da Gesù e Paolo.
Secondo, per Paolo la Legge era Parola di Dio, ed egli non aveva di certo intenzione di dare inizio a una nuova religione opposta alla Scrittura. Le polemiche di Paolo, che sembrano essere dirette contro la Legge, erano in realtà rivolte contro il cattivo uso della Legge da parte di quelli che cercavano di mettere le chiese gentili sotto la schiavitù dell’insegnamento che la Legge serviva loro per la salvezza.
Terzo, l’insegnamento che la Legge è stata sostituita o è in opposizione alla grazia non ha avuto origine con Paolo, ma si è sviluppata a seguito dell’interpretazione eretica che Marcione ha fatto degli scritti di Paolo. Marcione, che morì verso il 160 d.C. respinse completamente l’Antico Testamento. Egli credeva, attraverso l’influenza dello gnosticismo, a una nozione demiurgica che il Dio dell’Antico Testamento era un Dio crudele e diverso. Era così preso dalla convinzione che il messaggio di grazia predicato da Paolo era contro la Legge di Dio che considerava testo ispirato del Nuovo Testamento solo gli scritti di Paolo, cioè quelli che erano in accordo con la sua teologia. Le idee di Marcione erano così estranee alla Parola di Dio che il pastore Policarpo, discepolo diretto di Giovanni, lo chiamò il « primogenito di Satana ». Marcione si recò a Roma verso il 139 d.C. facendo un generoso dono alla chiesa, la quale, dopo aver esaminato le sue idee restituì il denaro e lo scomunicò. Marcione fondò una sua propria chiesa la quale mischiò gnosticismo e cristianesimo, creando una teologia fortemente dualistica e antagonistica al giudaismo, rigorosamente ascetica, celibe, che ha avuto un’influenza distruttiva sulla cristianità. Purtroppo, molti cristiani moderni hanno inconsapevolmente accolto le sue idee.
In seguito Agostino ha sostenuto le idee di Marcione sulla grazia in opposizione alla Legge, e ne ha fatto una parte importante della teologia della chiesa. Al tempo della Riforma, uomini come John Wycliffe con il suo primo manoscritto inglese della Bibbia, e Miles Coverdale il traduttore della prima Bibbia stampata in inglese, sono stati fortemente influenzati da Agostino. Nel 1514 Coverdale fu ordinato sacerdote ed entrò nel Monastero Agostiniano di Cambridge. Il concetto della grazia contro la Legge ha subito un’accelerazione quando il riformatore francese Giovanni Calvino ha approvato questa posizione nella sua « Istituzione della religione cristiana », che divenne la guida delle Chiese Riformate del protestantesimo.

La Legge è durata fino a Giovanni
È comune sentire qualcuno che riporta, fraintendendola, la frase di Luca 16:16, chiedendo poi: « Il Nuovo Testamento non dice che la Legge e i profeti hanno durato solo fino a Giovanni? » Insieme con l’altra domanda: « Oggi non siamo forse sotto l’era della grazia? » Questo versetto è spesso male interpretato. Luca 16 sta semplicemente affermando che era iniziata una nuova epoca nel piano redentivo di Dio (da quel tempo è annunziata la buona novella del regno di Dio…), ma non sta dicendo che con la venuta di Giovanni la Torah è stata abolita o ha perso la sua autorità. Anzi, fino a Giovanni Battista la Torah e i Profeti hanno dato la loro testimonianza predittiva della venuta del regno di Dio; ora, in aggiunta alla loro testimonianza, il regno di Dio viene proclamato direttamente, prima da Giovanni e poi da Gesù.
Inoltre il Vangelo di Luca non poteva significare che la Legge di Dio è stata superata, perché si è continuato ad osservarla anche dopo questa dichiarazione di Gesù. È chiaro che Gesù Cristo, come anche Paolo, non hanno mai contemplato la sostituzione della Legge eterna di Dio (Mat.5:17-20; Rom.3:31).

Gesù andò oltre la lettera della Legge
Spesso Gesù è andato oltre la lettera della Legge e ha istruito i suoi discepoli nello spirito della Legge. Alcuni esempi possono essere visti quando egli ha ammonito che guardare in maniera lussuriosa una donna equivale ad aver commesso adulterio, e chi dice al proprio fratello di essere pazzo merita di andare nella geenna del fuoco (Mat.5:19-30). Ciascuno degli esempi di cui sopra vanno ben al di là della lettera della Legge.
Qual era l’intenzione di Paolo quando ha insegnato che la lettera della Legge uccide? È ovvio che non voleva dire che la Legge di Dio è cattiva e che rende le persone schiave, come qualcuno oggi suggerisce. Paolo ha rispettato la Legge e ha incoraggiato gli ebrei a fare lo stesso (1Cor.7:18). Dovremmo anche ricordare che queste parole sono state scritte per i gentili di Corinto, non per i credenti ebrei (2Cor.3:6). Il fatto è che uno degli obiettivi della Legge è quello di mostrare e definire il peccato. Per i convertiti Gentili cercare di osservare uno stile di vita ebraico senza un disciplinato retroterra di devozione, sarebbe diventata una schiavitù né necessaria né corretta. In questo contesto Paolo dice che la lettera della Legge uccide, ma poi ha continuato dicendo che lo spirito della Legge vivifica. Paolo stava parlando della salvezza dei Gentili e su questo argomento la lettera della Legge è morte ed è solo attraverso il suo spirito che può venire la vita. La sintesi del pensiero di Paolo lo troviamo nella sua dichiarazione ai Romani: «La legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha affrancato dalla legge del peccato e della morte…affinché il comandamento della legge fosse adempiuto in noi, che camminiamo non secondo la carne, ma secondo lo spirito» (Rom.8:2-4).
Il tributo più significativo alla Legge di Dio è venuto dal Salvatore stesso quando disse: «chi li avrà messi in pratica ed insegnati [i comandamenti di Dio], esso sarà chiamato grande nel regno dei cieli» (Mat.5:19). La triste verità è che ben presto, diverse nuove idee hanno preso il posto della Legge di Dio.

Alcuni scopi della Legge
1 – Istruire i credenti su come servire, rendere il culto e piacere a Dio (Sal.19:7,9).
2 – Istruire i credenti su come trattare i loro simili ed avere tra di loro sane relazioni (Lev.19:18; Gal.5:14; 6,2).
3 – Istruire i credenti sul modo di essere felici e prosperare qui sulla terra e manifestare la potenza e l’autorità del regno di Dio nella loro vita (Gios.1:8; Sal.1:1-3; Luca 12:32).
4 – La Legge è stata data, non per salvare, ma per misurare le opere dell’uomo verso Dio e verso il suo prossimo, raddrizzare tutte le questioni contrarie alla sana dottrina (1Tim.1:8-10; 2Tim.2:5; 1Cor.6:1-12; 3:13; Rom.2:12; Apoc.20:12,13).
5 – La Legge è un maestro che ci mostra la nostra colpevolezza e quindi ci conduce a Cristo, la nostra giustificazione messianica (Gal.3:21-24; Rom.3:19).
6 – La Legge ci dà la conoscenza e la profondità del nostro peccato (Rom.3:20; 4:15; 7:7,8).
7 – La Legge rivela la buona, santa, giusta, e perfetta natura di Dio, nonché la sua volontà (Sal.19:7,9; Rom.7:12).
8 – La Legge deve essere confermata o compiuta dalla nostra fede, perciò è chiamata la «legge della fede» (Rom.3:27,31).
9 – La stessa Legge oggi è scritta nei nostri cuori, e per mezzo dello Spirito di Dio possiamo prendere diletto in essa (Rom.7:22).

Paolo un Apostolo a tre facce (Romano Penna)

dal sito:

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=125222

Paolo un Apostolo a tre facce

(Romano Penna)

Paolo ha cominciato a scrivere per necessità dopo la conversione e così è passato alla storia grazie a epistole giustamente famose: la letteratura cristiana comincia con lui!
Paolo non era nato con la vocazione dello scrittore. Non vi era predisposto già nel senso materiale del saper impugnare un calamo (visto che i suoi scarsi interventi di questo genere. stando a quanto leggiamo in Gal 6, 11, dovevano essere poco eleganti), ma neanche quanto all’orgoglio e al piacere di saper stendere un qualsivoglia testo magari per dettatura a uno scrivano, come di solito avveniva (visto che in 2Cor 11, 6, per quanto si debba qui tener conto di un atto di modestia, si professa inesperto nella parola). Un terzo modo di scrivere una lettera consisteva nell’affidare a un segretario o amanuense di fiducia il pensiero da svolgere, lasciando a lui la stesura effettiva del testo; ma prima della sua «conversione» Paolo non aveva comunque nessun motivo per redigere un qualsiasi testo scritto.
 Infatti, l’educazione farisaica che aveva ricevuto a Gerusalemme ai piedi di Gamaliele, come dimostrerà per lungo tempo la tradizione delle scuole rabbiniche (almeno fino al 200 d. C.), consisteva essenzialmente nel saper leggere i testi classici delle Scritture di Israele e nell’arte di spiegarli a viva voce, non nello scrivere. E invece egli passò alla storia, oltre che come infaticabile apostolo, cioè come evangelizzatore itinerante, anche o almeno altrettanto come autore di un certo numero di lettere, diventate giustamente famose. Anzi, dal I secolo in cui egli è vissuto, se prescindiamo da alcuni brevi e interessantissimi testi epistolari su papiro originale di provenienza popolare, di fatto sono giunte fino a noi soltanto le lettere di Seneca in latino e le sue in greco. In più, come riconosce oggi qualche studioso ebreo, i suoi sono anche gli unici scritti di un fariseo vissuto nel secolo I dell’era volgare! Bisogna però precisare che i suoi scritti sono produzioni della fase cristiana della sua vita, ed è come dire che senza l’evento della strada di Damasco Paolo probabilmente non avrebbe mai impugnato la penna o dettato un testo. Non che l’essere cristiano sia per natura collegato a un’attività scrittoria. E stata piuttosto l’occasione a fare di lui uno scrittore. Con ogni probabilità egli non si sarebbe mai impegnato su questo fronte, se non gli si fosse ripetutamente presentata la necessità di intervenire nelle situazioni delle varie Chiese, a seconda delle questioni di vita che in esse prendevano corpo. È stato scrittore per necessità, mosso da un forte senso di responsabilità pastorale. E per fortuna, poiché altrimenti non avremmo conosciuto il suo pensiero, la sua autentica e personalissima ermeneutica dell’evangelo, visto che quanto ne sappiamo dai soli Atti lucani è assolutamente poca cosa e soprattutto non corrisponde in pieno a come egli si esprime in prima persona nelle sue lettere. In aggiunta occorre anche riconoscere (Paolo è l’uomo di vari primati) che i suoi sono i primi scritti in assoluto nella storia del cristianesimo: la letteratura cristiana comincia appunto con lui! Le lettere odierne, comprese le e-mail (del tutto diverso è il sistema dei telegrammi e degli Sms), seguono uno schema che non corrisponde alle lettere antiche. Quelle, invece di recare la firma del mittente in fondo al testo epistolare, lo esponevano fin da principio addirittura come prima parola. Solo al secondo posto veniva il nome del destinatario.
Seguiva poi subito una formula di saluto, che veniva ripresa con variazioni alla fine dello scritto. Tra le lettere antiche giunte fino a noi ci sono anche quelle di Paolo di Tarso. A parte quelle che probabilmente sono andate perdute (forse un paio: cf. 1Cor 5, 9; 2Cor 2, 4?), 13 portano il suo nome, ma con ogni probabilità solo 7 vanno fatte risalire direttamente a lui (in probabile ordine cronologico: 1Ts, 1-2Cor, Fil, Fm, Gal, Rm), mentre le altre 6, per ragioni letterarie, teologiche e storiche, vanno attribuite a discepoli posteriori secondo il diffuso fenomeno della pseudepigrafia. La media della loro lunghezza supera ampiamente quella di tutte le altre lettere antiche. Secondo un computo attendibile, si può confrontare il caso di Paolo con altri due gruppi di lettere: il gruppo maggiore è quello delle lettere private, circa 14 mila, che vanno da un minimo di 18 parole a un massimo di 209, e in media ne contengono 87; le lettere degli scrittori professionali variano: quelle di Cicerone hanno un minimo di 22 parole e un massimo di 2530, con una media di 295; quelle di Seneca vanno da 149 a 4134, con una media di 995. Le lettere di Paolo, invece, contengono un minimo di 335 parole (a Filemone) e un massimo di 7094 (ai Romani), con una media di 2495. Già su questa base dobbiamo essere cauti nell’accogliere una celebre distinzione dello studioso tedesco dell’inizio del secolo XX, Deissmann, che distingueva tra «lettera» ed «epistola». La prima, di stile non letterario, sarebbe di natura intima e personale, un pezzo di vita, espressione del solo rapporto esistente tra mittente e destinatario, estranea all’interesse del grande pubblico. La seconda, invece, sarebbe una forma d’arte, un prodotto convenzionale appositamente costruito, e il suo contenuto terrebbe conto del grande pubblico a cui si rivolge: «Se la lettera è un segreto, l’epistola è una merce da mercato, chiunque può e deve leggerla». Ebbene, Deissmann riteneva che quelle del nostro Apostolo non fossero epistole ma lettere. Ma Paolo non può essere confinato nell’ambito del privato! È vero che nelle sue lettere si riflette esattamente il suo genuino carattere impulsivo, generoso, forte e tenero insieme.
Niente di burocratico. Tutt’altro. Egli però sa di scrivere con un’autorità che è solo sua e che gli deriva sia da Cristo stesso sia dalla sua responsabilità di fondatore e guida delle varie Chiese. L’immediatezza della scrittura di Paolo rispecchia esattamente la sua vitalità scevra da affettazioni e ricercatezze. Una questione a parte riguarda la discussa dipendenza di Paolo dalle regole della retorica antica, intesa come «arte del parlare bene». A Tarso, senza escludere Gerusalemme, egli deve aver imparato almeno i rudimenti del ben parlare. Ed è fuor di dubbio che egli utilizzi a più riprese molte delle cosiddette figure retoriche. Più discutibile è l’eventualità che egli abbia elaborato il suo discorso seguendo le norme della «dispositio» retorica. Questa era abituale nei discorsi orali pronunciati fondamentalmente in tre occasioni: nelle assemblee deliberative, in quelle giudiziarie e in quelle celebrative, che davano origine ai tre generi già codificati da Aristotele. In questi casi il discorso era strutturato di norma in 4 parti: l’«exordium», che introduceva l’argomento eventualmente mediante una «narratio» o esposizione del caso; la «propositio» o enunciazione programmatica del tema; la «argumentatio» o dimostrazione dell’assunto eventualmente con una «refutatio» delle tesi contrarie; la «peroratio», che riprendeva l’argomento portandolo alla conclusione. Tutto il problema sta nel sapere se anche una composizione epistolare doveva sottostare a questa disposizione.
Pur non potendolo escludere per principio, dato che per esempio il testo di Rm 1, 16-17 gioca abbastanza chiaramente il ruolo di una «propositio», non risulta che i teorici della retorica abbiano mai applicato le loro regole all’epistolografia. Come ben si esprime uno studio recentissimo, «i due generi possono essere stati fidanzati, ma coniugati non lo furono mai». Per studiare le lettere di Paolo, perciò, non bisogna applicare loro la griglia angusta e soffocante del cosiddetto «rhetorical criticism», come alcuni hanno fatto, ma attenersi piuttosto allo studio dell’effettiva argomentazione seguita effettivamente dall’Apostolo. È la sua retorica letteraria che va individuata, cioè il suo modo proprio di persuadere i lettori.

(Teologo Borèl) Luglio 2009 – autore: Romano Penna

Il Vangelo Paolino fra tradizione giudaica e apertura ai gentili (R. Penna) PDF

Prof. Romano Penna

Il Vangelo Paolino fra tradizione giudaica e apertura ai gentili

International Seminar on Saint Paul
http://www.paulus.net/sisp/doc/interventi/ISSP_Penna.pdf

L’Apostolo Paolo: Una stella polare per la vita cristiana (Gianfranco Ravasi, 2006)

dal sito:

http://www.scuolamissionaria.it/Scout/Documenti%20vari/San%20Paolo_Le%20lettere_G.%20Ravasi.doc

L’APOSTOLO PAOLO

Le lettere

Una stella polare per la vita cristiana

Pur nella complessità dell’impianto generale del pensiero dell’Apostolo e della sua tradizione, pur nell’occasionalità pastorale di molte sue riflessioni, pur nella diversità dei tempi e persino degli autori, l’epistolario paolino costituisce uno straordinario progetto in cui teologia e morale, pensiero e azione, cristologia ed ecclesiologia, teologia e pastorale si richiamano e si fondono, dilatandosi verso nuove prospettive e costituendo una stella polare per la storia e per la vita della cristianità.

Articolo di Gianfranco Ravasi in Vita pastorale n. 1/2006
Rappresentano una grossa parte del Nuovo Testamento. È ormai pacifica tra gli studiosi la distinzione tra quelle che risalgono all’Apostolo e quelle attribuite alla sua cerchia più diretta di
discepoli, in ogni caso ritenute da sempre « canoniche » dalla Chiesa. L’epistolario è un grande progetto, di cui vediamo per sommi capi il contenuto

Se stiamo al computo dei versetti, il corpus delle 13 lettere che recano il nome di Paolo ne comprende 2.003 su un totale di 5.621 dell’intero Nuovo Testamento. Siamo, quindi, in presenza di un materiale testuale rilevante, al cui interno però emergono chiare variazioni di vocabolario, di stile, di temi. Su queste variazioni, a partire dal Settecento, gli studiosi hanno puntato il microscopio dell’analisi storico-critica e letteraria.

La « tradizione paolina »

Progressivamente si è approdati a una conclusione – ora dominante tra gli esegeti – secondo la quale sei lettere attribuite dalla titolatura a Paolo sarebbero in realtà « pseudoepigrafe » o « deuteropaoline », poste cioè sotto il nome e l’autorità dell’Apostolo ma in verità provenienti da discepoli e da quella che è stata chiamata « la tradizione paolina » (Ef, Col, 2Ts, 1 e 2Tim, Tt). Questa conclusione merita, però, due osservazioni di indole generale.
La prima è di taglio storico-letterario. Le argomentazioni critiche sono, certo, notevoli: ad esempio, in una delle più importanti di queste lettere deuteropaoline, quella ai Colossesi, si hanno 34 vocaboli del tutto inediti per l’intero Nuovo Testamento, 28 estranei all’epistolario strettamente paolino; si ignorano i temi fondamentali cari all’Apostolo quali la giustificazione, la fede, la legge; la costruzione delle frasi è pesante, prolissa e ripetitiva; si rivela l’uso della retorica classica e sono assenti gli appelli diretti, tipici di Paolo; Cristo è presentato secondo un inatteso profilo di Signore cosmico, « capo dei Principati e delle Potestà » (2,10), « dei Troni e delle Dominazioni » celesti (1,16), come colui nel quale « tutto sussiste » (1,17) e tutto è riconciliato e redento (1,20); di scena non è più la Chiesa locale, ma quella universale di cui Cristo è « capo », variando così l’immagine paolina classica della Chiesa come « corpo di Cristo » (1Cor 12).
Potremmo andare avanti a lungo nell’appuntare le variazioni tematiche di questo scritto, a partire da una concezione del credere non più visto come atto di adesione personale radicale, ma come la « conoscenza » di un contenuto di verità (fides quae più che fides qua, per usare il linguaggio teologico successivo). E così via con molte altre sorprese di solito segnalate nei commentari alla lettera. Detto questo, bisogna però anche riconoscere che simili considerazioni, pur notevolissime e imprescindibili, riguardanti la lettera ai Colossesi e le altre deuteropaoline, non sono mai totalmente apodittiche, perché di per sé non si possono escludere evoluzioni stilistiche e tematiche all’interno di un pensatore così creativo e originale com’è Paolo.
C’è, poi, un’altra importante osservazione da fare, di taglio più teologico: le lettere deuteropaoline rimangono comunque « canoniche » e, riconoscendole come appartenenti all’orizzonte dei discepoli paolini, non se ne inficia l’ispirazione divina. Come faceva notare la Dei Verbum (7 e 8), che alcuni testi neotestamentari provengano da autori « della cerchia » degli apostoli è un fatto che non contrasta la loro « canonicità » perché anche questi scritti sono « apostolici », nel senso che testimoniano – sia pure mediatamente – la predicazione apostolica (si pensi al caso di Marco e Luca).
Come si legge in un commento a un’altra importante lettera ritenuta « pseudoepigrafa », quella agli Efesini (a cura di Stefano Romanello, Paoline 2003), « che Paolo non sia l’autore della lettera nulla toglie al valore con cui la comunità credente l’accoglie. Nella lettera siamo comunque a contatto con una predicazione apostolica, ossia con una testimonianza della fede della Chiesa delle origini, che non rimane attaccata in modo fisso alla figura dell’Apostolo fondatore, ma ne elabora la parola come un tesoro vivo, che diviene significativo per le nuove situazioni in cui la comunità si trova a vivere ».

Un piano di lettura integrale

A questo punto vorremmo proporre in modo estremamente essenziale un itinerario nelle due aree del corpus paolino, partendo da quella direttamente assegnata all’Apostolo. Si potrebbe, così, configurare anche un piano di lettura integrale di questi scritti, capitali per la fede e la storia del cristianesimo, seguendone la probabile articolazione cronologica e quindi l’eventuale evoluzione del pensiero.
 Siamo attorno all’anno 51. Da Corinto Paolo invia ai cristiani di Tessalonica una prima lettera che è segnata dal registro autobiografico dei ricordi, da quello pastorale riguardante le tensioni che attanagliano la comunità e dal filo teologico che in questo caso s’annoda attorno al tema escatologico della parousía di Cristo alla fine dei tempi, suggello della storia ma anche luce per illuminare il presente senza cadere in eccitazioni apocalittiche.
 A Corinto Paolo aveva soggiornato almeno un anno e mezzo. Da Efeso, a metà degli anni 50 indirizza la prima delle sue due lettere ai Corinzi. Essa è una clamorosa smentita di chi considera l’Apostolo come un freddo teorico, « il Lenin del cristianesimo », per dirla con Gramsci. Le pagine dello scritto, infatti, toccano tutti i temi di una Chiesa immersa in un contesto secolare col quale è invitata a confrontarsi, dal quale riceve spesso influssi negativi ma nel quale deve testimoniare con coraggio la sua fede nel Cristo risorto e l’amore fraterno che la unisce.
I rapporti tra i cristiani di Corinto e Paolo non furono idilliaci. La seconda lettera a essi indirizzata ne è una vigorosa attestazione. La sua stessa redazione rivela salti tematici e di tonalità, riflettendo le tensioni interne ma anche il difficile rapporto con l’Apostolo. Tuttavia in quelle pagine si configura pure un progetto caritativo e intraecclesiale (quello della colletta per la Chiesa di Gerusalemme) molto suggestivo.
Con la lettera ai Galati entriamo nel cuore del « Vangelo » di Paolo, anche se spesso lo scritto è stato considerato una « prova d’autore », rispetto al capolavoro successivo della lettera ai Romani. Al centro si ha, infatti, la tesi squisitamente paolina della giustificazione per la fede nella grazia divina: si legga 2,16, ove per tre volte viene ribadito che « l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo ». E pronta, così, la base per l’architettura centrale della lettera ai cristiani di Roma.
Ma prima di essa si innesta probabilmente lo scritto rivolto agli amatissimi cristiani filippesi nel quale, come scriveva un esegeta (J. Murphy O’ Connor) « si sente battere il cuore di Paolo ». Composta nel carcere (forse durante un periodo di detenzione a Efeso), la lettera conserva uno splendido inno (2,6-11) che sintetizza in modo mirabile l’incarnazione e la Pasqua di Cristo secondo uno schema di « esaltazione » che sarà poi caro anche a Giovanni.
Eccoci, così, a quell’opera che un commentatore, Paul Althaus, introduceva con questa dichiarazione: « Le grandi ore della storia della Chiesa sono state le grandi ore della Lettera ai Romani », anche nei tempi del confronto aspro, come accadde con la Riforma protestante. Ritmata su un duplice movimento teologico-dottrinale (capp. 1-11) ed etico-pastorale (capp. 12-16), frequente negli scritti paolini, la lettera ha nel suo cuore una grandiosa riflessione modulata sulla giustizia per la fede (capp. 1-5) e sulla vita secondo la Spirito (capp. 6-8), sulla base del motto di Abacuc 2,4 reinterpretato da Paolo: « Il giusto divenuto tale per la fede, vivrà » (1,17 ).
o La serie delle lettere protopaoline si conclude col commovente biglietto indirizzato a Filemone per la vicenda dello schiavo Onesimo e con un sorprendente finale di speranza che illumina la prigionia dell’Apostolo: « Preparami un alloggio perché spero – grazie alle vostre preghiere – di esservi felicemente restituito! » (v. 22).

Gli scritti deutero-paolini

Siamo così di fronte all’altra area storico-teologica dell’epistolario, quella delle lettere deuteropaoline.
1 Impressiona la seconda lettera ai Tessalonicesi, striata dei colori dell’apocalittica e non priva di passi difficili da interpretare, sempre però attenta a coniugare storia ed escatologia.
Subentra la lettera ai Colossesi di cui abbiamo parlato e che è un punto di riferimento anche per il testo destinato agli Efesini (e forse anche alle altre Chiese dell’Asia Minore), lettere entrambe contrassegnate da una solenne apertura innica. Cristo, la Chiesa e il cristiano sono i tre protagonisti di una riflessione dalle prospettive nuove e originali.
 Il corpus epistolare paolino si chiude con un fascicolo di tre scritti omogenei che dal XVIII secolo vengono chiamati lettere pastorali, a causa del loro tema dominante e dei loro destinatari, i collaboratori di Paolo e pastori di comunità cristiane Timoteo e Tito. In esse la Chiesa si presenta già con la sua struttura ministeriale di episcopi, presbiteri, diaconi, ma anche di vedove, di maestri non sempre ortodossi, e si rivela segnata da una crisi di crescita. Indimenticabile è il testamento posto sotto la penna ideale di Paolo (2Tm 4,6-8).
Esterno al corpus paolino, con una sua radicale autonomia, pur con alcuni rimandi all’orizzonte paolino, rimane la lettera agli Ebrei, un monumento letterario-teologico a sé stante.
Pur nella complessità dell’impianto generale del pensiero dell’Apostolo e della sua tradizione, pur nell’occasionalità pastorale di molte sue riflessioni, pur nella diversità dei tempi e persino degli autori, l’epistolario paolino costituisce uno straordinario progetto in cui teologia e morale, pensiero e azione, cristologia ed ecclesiologia, teologia e pastorale si richiamano e si fondono, dilatandosi verso nuove prospettive e costituendo una stella polare per la storia e per la vita della cristianità.

Gianfranco Ravasi
Bibliografia
AA. W., Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di Penna R., San Paolo 1999, Cinisello Balsamo;
AA. W., Lettere paoline e altre lettere, « Logos » 6, Elledici 1996, Leumann (To); Barbaglio G., Il pensare dell’apostolo Paolo, Dehoniane 2004, Bologna; id., Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella 1989, Assisi; Fabris R., La tradizione paolina, Dehoniane 1995, Bologna; Metzger B.M., Il Canone del Nuovo Testamento, Paideia 1997, Brescia; Sanchez Bosch J., Scritti paolini, « Introduzione allo studio della Bibbia » 7, Paideia 2001, Brescia
.

“Crocifisso con Cristo” – Paolo e la Sindone

dal sito:

http://www.oratoriosalesianobarriera.org/down/P08.doc

“Crocifisso con Cristo” – Paolo e la Sindone

Possediamo nel Lenzuolo sindonico un’impressionante immagine di ciò che Cristo ha subito nel suo corpo per la salvezza del mondo. Ma dalle Lettere paoline sappiamo che anche l’Apostolo è stato associato alle sofferenze del suo Signore. Basti una breve rassegna di citazioni. Ai cristiani di Corinto san Paolo scrive: «Io ritenni di non sapere altro se non Gesù Cristo, e questi croci-fisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione» (1Cor 2,1-3). Agli stessi fedeli: «Ritengo che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come con-dannati a morte» (1Cor 4,9). E ancora: «…la tribolazione che c’è capitata in Asia ci ha colpito oltre misura, di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura rice-vuto su di noi la sentenza di morte» (2Cor 1,8-9). Più oltre: «Siamo tribolati da ogni parte, perseguitati, colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù» (2Cor 4,8-10). «Da quando siamo giunti in Macedonia, la nostra carne non ha avuto sol-lievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati» (2Cor 7,5). Di più ancora, nella lunga elenca-zione delle sofferenze patite in 2Corinzi 11,23-28: «Sono ministri di Cristo [i miei persecutori]? io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte». Infine, l’identificazione con il Crocifisso stesso, scrivendo ai Galati: «Sono stato crocifisso con Cristo» (Gal 2,20).

Corpo fisico e corpo mistico
In modo sorprendente, nella Lettera ai Colossesi, Paolo afferma: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi, e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a fa-vore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). La vocazione stessa di san Paolo comprende, quindi, una parte di tribolazioni, come d’altra parte aveva detto il Signore stesso ad Anania: «Egli è per me uno strumento eletto [...] e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio no-me» (At 9,15-16). Paolo avverte che quel Cristo dal volto sfigurato dalla sofferenza è così per-ché porta su di sé la sofferenza del mondo. E non può, allora, che fare propria la sua passione in un orientamento di amore e di offerta generosa. La passione di Cristo, applicata alla vita di ciascun credente, d’altra parte, implica che le sofferenze – patrimonio di ogni uomo, credente o no – vengano vissute non come una maledizione da consumarsi nella propria solitudine esi-stenziale, ma accettate per amore, condivise nella comunione con il proprio Signore. Talvolta addirittura accolte con gioia. Lo conferma anche san Pietro, che invita tutti i cristiani a ralle-grarsi quando hanno parte alle sofferenze di Cristo (cfr. 1Pt 3,13). Tutto questo acquista senso e produce fecondità nella prospettiva della risurrezione: «Certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui» (2Tm 2,11). La comunione nelle sofferenze è un anticipo della comunione nella vita piena. Così Paolo, tanto nell’esempio della sua testimonianza, quanto nell’elaborazione del suo pensiero (che da questa esperienza nasce e su di essa si fonda), ci dimostra che il cristianesimo è possibile solo nella misura in cui si attinge al mistero della Pa-squa. È in questo evento, infatti, che la ragione e la fede possono conoscere Gesù Cristo nella sua interezza divino-umana. Paolo non si attarda a darci il ritratto fisico di Gesù – egli, d’altra parte, non ha conosciuto Cristo “secondo la carne” (2Cor 5,16) – né a redigere una cronaca dei fatti. Gli preme scendere nelle profondità del mistero di un Dio crocifisso, reso “spettacolo” dell’amore agli occhi del mondo e davanti agli angeli (cfr. 1Cor 4,9). Mistero dell’amore che trionfa sulla morte. Mistero di quel corpo crocifisso e risorto, ora vivo e reale nell’umanità re-denta, nel corpo mistico che è la Chiesa, corpo che soffre e continuamente risorge. Per mezzo dello Spirito Santo (Rm 1,4; 8,9), egli unisce intimamente a sé i suoi fedeli, generando una creatura nuova (cfr. Gal 6,14-15), un corpo nuovo. Un corpo mistico: con quest’espressione intendiamo l’unione strettissima tra Cristo e i fedeli sul piano “verticale”, di tutti i fedeli tra loro sul piano “orizzontale”. In questo corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti, che attraverso i sacramenti si uniscono in modo reale al Crocifisso risorto. Per questo la Chiesa, nata dal co-stato di Cristo, è mandata ad annunciare il suo Signore crocifisso. Infatti, «senza effusione del sangue, non c’è remissione di peccato» (Eb 9,22): solo nelle sue piaghe gloriose siamo guariti, redenti, salvati.

La Sindone, duplice specchio
Perché Gesù ci ha lasciato la sua immagine sulla Sindone? Il Crocifisso, lì impresso con orme di sangue, testimonia che «Cristo è lo stesso, ieri, oggi e nei secoli» (Eb 13,8). Sacrificato sulla croce, «Gesù resta per sempre e possiede un sacerdozio che non tramonta mai» (7,24) quale «mediatore di una nuova Alleanza» (8,6) che ci procura «una redenzione eterna» (9,11). Cri-sto continua quest’oggi il suo ministero di redenzione e la Sindone ne è testimonianza. Lo “spettacolo” che essa ci offre è giudicato dalla sapienza del mondo come superstizione o misti-ficazione (cfr. 1Cor 1,22-24), ma è salvezza per chi è chiamato a condividere la sua sofferenza in questo Corpo mistico. Colui che soffre è il Cristo, reso perfetto dalla sua esperienza di soffe-renza (Eb 5,8-9), dallo stato d’animo con cui l’ha affrontata e accolta: «Egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà». Non è la sofferenza in se stessa a produrre qualcosa di buono né la si può umanamente desiderare; al contrario, la sofferenza è entrata nel mondo a causa del peccato (Sap 2,24). Ma proprio per questo la redenzione dal peccato non può eludere il dramma del dolore: la soffe-renza – vissuta dal Figlio di Dio in completa obbedienza, abbandono fiducioso e continua pre-ghiera al proprio Padre – non è più un’assurdità o uno scandalo metafisico, ma un misterioso strumento di grazia e di riscatto. Perciò Giovanni Paolo II, contemplando a Torino questa reli-quia benedetta il 24 maggio 1998, poté affermare che «la Sindone è specchio del Vangelo» e allo stesso tempo che in essa «si riflette l’immagine della sofferenza umana».
Cirillo di Gerusalemme così esortava quanti si stavano accostando alla fede cristiana: «Noi dobbiamo impararlo: tutto ciò che il Cristo ha subito, Lui l’ha sopportato per noi e per la nostra salvezza, realmente e non in apparenza; e noi allora diventiamo partecipi delle sue sofferenze» (Catechesi Mistagogiche II, 7). E Paolo, prima di lui: «Se, infatti, siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione» (Rm 6,5). Il corpus paulinum è talmente pervaso e unificato dall’esperienza della morte/risurrezione, che costituisce un’unica fonte vitale con la parola di Cristo per l’oggi della Chiesa. L’immagine sin-donica e la narrazione evangelica e paolina ci rimandano all’identica e sobria verità, quasi che l’Apostolo – e con lui ogni cristiano che «perde la vita a causa del Vangelo» (Mc 8,35) – fosse rispecchiato in questo lenzuolo. Lo sguardo credente contempla nella Sindone di Torino la memoria e l’immagine viva del volto crocifisso e glorioso di Cristo. E in essa si riconosce, in essa scorge la sua identità più profonda, a cui lo chiama – da sempre – il suo battesimo.

Nicola Summo

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